Massimo Paci. Discriminazione di genere e partecipazione al mercato del lavoro *.



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Transcript:

Massimo Paci Discriminazione di genere e partecipazione al mercato del lavoro *. 1. Emarginazione delle donne dal lavoro e legislazione sociale. Svolgerò qui alcune brevi riflessioni sulla discriminazione di genere nel mondo del lavoro e in particolare sulla esclusione delle donne dalla partecipazione al mercato del lavoro. Questa è un po la madre di tutte le discriminazioni di genere per quanto riguarda il lavoro, nel senso che essa si situa a monte delle diseguaglianze che le donne incontrano poi nel lavoro. Prima viene la possibilità di lavorare e poi quella di svolgere un lavoro alla pari con gli uomini. Questo tema della emarginazione delle donne dal mercato del lavoro chiama in causa dunque (e ovviamente) la divisione di genere dei ruoli all interno della famiglia, per cui all uomo è affidato il compito di procacciare il reddito e alla donna quello di garantire l integrazione della famiglia e la riproduzione della forza lavoro. Su questo sappiamo già tutto e non starò certo qui a ripetere le analisi e i dibattiti che da decenni si sono sviluppati in proposito. Mi sembra utile però ribadire due punti. Anzitutto la natura storica di questa divisione dei ruoli tra i coniugi. Questa divisione non corrisponde ad un archetipo ancestrale che affonda le sue radici nella notte dei tempi, ma è un fenomeno che emerge nella storia a un certo momento, dapprima nelle famiglie della aristocrazia e della borghesia, poi in epoca più recente presso le masse popolari, affermandosi definitivamente con l avvento della società industriale. Sottolineando questo punto, so bene che vado contro non solo le interpretazioni tradizionali o conservatrici in questo campo, che riconducono a fattori naturali o biologici la divisione di genere dei ruoli familiari, ma anche ad alcune correnti del pensiero femminista e della teoria della differenza di genere, che hanno fondato tale differenza su fattori d ordine psicologico e psicanalitico. Non posso esaminare qui queste interpretazioni. Ma mi limito a ricordare che, come ha mostrato in modo convincente E.P.Thompson (1963), nella fase di prima industrializzazione in Inghilterra, quando un intera generazione di giovani donne fu coinvolta dall esperienza totalizzante del lavoro di fabbrica, il risultato fu che essa perse ogni inclinazione o attitudine per il lavoro nella famiglia. Questo lavoro dunque non è un attributo innato o naturale delle donne, ma varia a seconda delle congiunture storiche e sociali. Un secondo punto che desidero ricordare è il ruolo svolto dalla legislazione sociale nel rafforzamento della divisione di genere nel mercato del lavoro. Lo sviluppo della * Una prima versione di questo testo è stata presentata al Convegno su: Soggetti e movimenti: donne giovani e operai, Università degli studi di Milano - 19 dicembre 2008. 1

legislazione sociale di impianto bismarckiano, in particolare, ha rafforzato il modello di regolazione sociale fordista, caratterizzato dal primato del lavoratore maschio capofamiglia. Questa legislazione è stata rivolta a tutelare in primis il lavoratore capofamiglia e solo in via subordinata gli altri membri dipendenti della famiglia: la pensione di reversibilità, ad esempio, costituisce uno strumento di conferma del ruolo domestico della donna, e può essere vista, come un premio alla sua fedeltà coniugale. Certo la legislazione sociale ha introdotto anche tutele specifiche per le donne lavoratrici. Queste tutele sono state importanti per generazioni di operaie sottoposte spesso ad un lavoro usurante e privo di prospettive di carriera. Anche queste tutele, tuttavia, hanno finito per sancire ulteriormente la condizione di separatezza della donna lavoratrice rispetto a quella del lavoratore standard, titolare di tutele e diritti generali. Pensiamo al congedo di maternità o anche all età anticipata di pensionamento. Queste misure in realtà finiscono per costituire spesso un handicap per la carriera lavorativa delle donne, nella competizione che devono affrontare con i maschi sui luoghi di lavoro. Se ci poniamo dal punto di vista del conseguimento di obiettivi generali di parità di genere nel lavoro, meglio sarebbe difendere il principio della eguale età di pensionamento e della obbligatorietà anche per i maschi del congedo di paternità. Anche per la nostra Costituzione, del resto, ancor prima della legislazione sociale si può parlare, come è stato fatto di recente (Ales, 2008), della presenza di due modelli, uno sessuato ed uno asessuato, per quanto riguarda le disposizioni relative alla famiglia. Da un lato infatti nella Costituzione vi sono norme esplicite che sanciscono la parità di genere nello svolgimento dei compiti familiari, i quali vengono attribuiti ad entrambi i genitori. Dall altro, vi sono altre norme volte a tutelare solo la donna, per la quale si fa riferimento alle sue essenziali funzioni familiari. 2. I cambiamenti in corso. Notevoli cambiamenti tuttavia sono avvenuti nel campo della protezione sociale in molti paesi europei. Un primo cambiamento di fondo è dato dall indebolimento del modello di welfare maschilista bismarckiano, fondato sulle assicurazioni sociali garantite al capofamiglia, e dall emergere di un nuovo modello caratterizzato dalla importanza dei cosiddetti regimi di cura, in cui i servizi sociali pubblici offerti ai cittadini occupano il centro della scena. Questo cambiamento comporta una conseguenza importante sul piano dei fondamenti stessi della sistema di protezione sociale, perché sposta l accento dal lavoratore al cittadino, o meglio dal lavoratore capofamiglia maschio, al cittadino neutro quanto al genere, come titolare di diritti e prestazioni sociali. Un secondo importante cambiamento in atto oggi in molti paesi europei è la tendenza al riconoscimento giuridico ed economico del lavoro di cura, il quale inizia così ad essere sottratto dall occultamento cui è stato soggetto per secoli. A parte i 2

congedi di maternità e paternità, che rappresentano una forma relativamente antica di tale riconoscimento, possiamo ricordare il forte sviluppo degli assegni o voucher di cura, assistenza o accompagnamento concessi al caregiver familiare, sia direttamente, sia per il tramite dell assistito; o anche l accredito contributivo ai fini pensionistici per il periodo di alcuni anni concesso per l educazione dei figli o per l assistenza ad un parente anziano; o ancora la copertura previdenziale anti-infortunistica durante il lavoro di cura o il diritto ad alcuni giorni di ferie al mese, durante i quali si è sostituiti da un operatore professionale, etc... Si assiste insomma ad un processo di riconoscimento pubblico di queste attività, che pur non essendo identificabili con il lavoro di mercato, ottengono tuttavia una legittimazione sociale, emergendo dalla massa indistinta delle attività private della popolazione non attiva. (Su tutto ciò, rimando a Paci, 2005, cap. IV, ma vedi anche Supiot, 2003)). Certo, lo sviluppo di queste misure a sostegno del caregiving familiare potrebbe avere effetti opposti a quelli qui auspicati, cioè effetti, non già di superamento della divisione di genere, bensì confermativi di tale divisione, favorendo l ulteriore ingabbiamento della donna nel lavoro di cura familiare. Perché questo non avvenga, occorre che questi interventi riguardino anche gli uomini, nel quadro di un nuovo indirizzo generale di politica sociale antidiscriminatoria, volta ad incentivare la scelta da parte dei partner maschili delle coppie a favore di un maggior impegno lavorativo nella famiglia. In alcuni paesi scandinavi, come ad esempio in Svezia, politiche di questo tipo sono state effettivamente lanciate negli anni recenti: gli uomini svedesi sono oggi incoraggiati ad una maggiore condivisione dei compiti domestici e, in particolare, a svolgere un rapporto di assistenza primaria verso i figli piccoli, secondo il principio che è stato definito di paternità attiva (Bernhardt, 2005). Anche la proposta formulata da Supiot e dai suoi collaboratori, relativa alla istituzione di un Fondo nazionale di prelievo sociale volto a garantire i passaggi (o le transizioni ) da una attività all altra,come ad esempio tra il lavoro di cura e il lavoro di mercato (e viceversa), va nel senso qui indicato, cioè di facilitare la possibilità che anche gli uomini possano dedicarsi alle attività familiari. In fondo la sfera delle attività familiari resta una delle sfere della vita nelle quali l individuo, uomo o donna che sia, può realizzare se stesso e dare un senso alla propria vita, al pari della sfera lavorativa. Questo è vero al punto che quando l attività professionale o anche quella politica di un uomo diventa così assorbente da rendere praticamente impossibile la partecipazione alla vita familiare, si verificano casi anche clamorosi di rinuncia a cariche prestigiose, pur di recuperare un migliore equilibrio di sé: si pensi qui al caso di Robert Reich, che lasciò la sua carica di Ministro del Lavoro nell amministrazione Clinton, così come egli stesso lo racconta nel suo libro dedicato a L infelicità del successo (Reich, 2001), o, per restare in Italia, al caso clamoroso di Cofferati che ha annunciato di rinunciare alla carica di sindaco di Bologna, perché gli impedisce di avere un rapporto soddisfacente con il figlio piccolo. 3

D altra parte, nel proporre una politica di incentivazione del lavoro di cura per gli uomini, come complemento di una politica di superamento della discriminazione di genere nel mondo del lavoro, ci confortano i dati che si osservano in molti paesi, ed anche in Italia (Carriero, 2008), relativi alla forte riduzione del tempo dedicato ai compiti familiari da parte delle donne e, contemporaneamente, all aumento, sia pure modesto, di quello dedicatovi dagli uomini. 3. Per una comprehensive policy contro la discriminazione di genere nel lavoro. Di fronte a questi cambiamenti, si può formulare dunque l ipotesi di una politica antidiscriminatoria di più ampio respiro, volta a favorire un flusso a due vie, cioè non solo di donne verso il lavoro di mercato, ma anche contemporaneamente di uomini verso il lavoro di cura. Ipotesi questa assai forte e assolutamente improponibile solo pochi anni fa, in particolare per il nostro paese, ma forse non più così impensabile oggi. In questa ipotesi la diffusione del lavoro part-time può svolgere un ruolo importante. Esso potrebbe perdere l aspetto discriminatorio che riveste oggi quando è appannaggio pressoché esclusivo delle donne e acquistare un valore positivo nel favorire la parità di genere nella partecipazione sia al lavoro di cura che a quello di mercato. Se tutti lavorano part-time, nessuno è discriminato. Ritorna qui il tema della redistribuzione del lavoro, tramite una riduzione del tempo di lavoro. Ritorna cioè lo slogan del lavorare meno per lavorare tutti, ma non come politica volta a ridurre la disoccupazione. Questa politica tra l altro è andata incontro in Francia (con le 35 ore ) a evidenti difficoltà proprio la mancanza di una strategia più ampia, che desse ai lavoratori degli obiettivi socialmente valorizzati per il tempo che veniva liberato dal lavoro di mercato (Gazier, 2003). Se si vuole favorire un flusso a due vie di uomini verso il lavoro di cura e di donne verso il lavoro di mercato, acquista senso favorire il part-time per tutti, come proponevano Beccalli e Salvati (1998) alcuni anni fa, in un articolo intitolato: Le 35 ore: perché non trenta?. Certamente il tema della redistribuzione del lavoro è un tema impervio, che tuttavia alcuni sociologi dotati di forte passione civile hanno varie volte affrontato negli anni (si pensi a Gorz 1982, Dahrendorf, 1988; Beck, 2000; Touraine, 2000). Riproporlo oggi, nel quadro di una politica di superamento della discriminazione di genere, può sembrare utopistico. Eppure, i cambiamenti che abbiamo prima ricordato (l emergere di un modello di welfare fondato non più sul capofamiglia maschio ma sul cittadino neutro quanto al genere; la tendenza al riconoscimento giuridico ed economico del lavoro di cura; la lenta ma sicura riduzione del tempo dedicato alla famiglia da parte delle donne e l aumento, sia pure modesto, di quello dedicatovi dagli uomini) aprono un nuovo spazio di riflessione in questo campo. 4

4. Una postilla su: movimenti e innovazione culturale in Italia. Detto questo, dobbiamo dire anche che, su questo terreno siamo di fronte in Italia, ad una forte vischiosità sociale e culturale, per cui il cambiamento è ancora assai lento e nettamente inferiore a quello osservato negli altri paesi europei. A questo proposito ci si può chiedere, come mai i movimenti delle donne e dei giovani degli anni Settanta e Ottanta sembrano aver inciso così poco sulla discriminazione di genere nel mercato del lavoro e sulla tradizionale divisione dei ruoli nella famiglia italiana. In effetti, il movimento delle donne degli anni Settanta sembra avere avuto un ruolo importante più sul piano legislativo che su quello sociale e culturale. Senza la mobilitazione, forte e significativa, delle donne, difficilmente si sarebbe giunti in Italia alla introduzione del divorzio (nel 1974) e della interruzione volontaria della gravidanza (nel 1976), nonché alla modifica in senso paritario del diritto di famiglia, con una serie di interventi (a partire dalla legge del 1977 fino quelle più recenti del 2000 e 2001) che portano alla definitiva negazione della presunzione legale di svolgimento del lavoro di cura da parte della donna. E questo anche con riferimento all evento della maternità, il quale, al di là della peculiarità ineludibile del suo momento biologico, viene valorizzato oggi dal punto di vista giuridico in termini di genitorialità ovvero di corresponsabilità della funzione di cura (Ales, 2008). Ma è proprio qui che nasce il problema della discrepanza che si osserva in Italia tra questa normativa relativamente avanzata e una situazione di fatto dei rapporti di genere nella famiglia ancora fortemente tradizionale e sulla quale i movimenti femminili e giovanili sembrano aver inciso assai poco. Su quest ultimo punto, Bianca Beccalli (1999) ha suggerito che le divisioni sopravvenute nel movimento delle donne, a seguito del dibattito sulla teoria della differenza di genere, portino una parte di responsabilità nel mancato impatto culturale del movimento e soprattutto che ci sia stata, nella situazione italiana, una appropriazione politica e partitica della tematica della differenza sessuale, come operazione ideologica e in parte effimera, che ha lasciato indenne il dato sociale e culturale della divisione di genere dei ruoli nella famiglia. Un ipotesi analoga, del resto, Bianca Beccalli (1986) aveva formulato anche con riferimento ai movimenti giovanili degli anni Ottanta. Anche qui ci sarebbe stata una precoce interazione tra la politicizzazione latente delle sub-culture giovanili e le forme tradizionali e riemergenti della politica italiana, in particolare quelle dell estremismo politico di sinistra. Questo ha finito spesso per paralizzare lo sviluppo culturale innovativo dei movimenti, indirizzandoli su binari già noti e talora logori. Il buttar tutto in politica quindi può aver impoverito e bloccato i processi di innovazione culturale a livello sociale. 5

Riferimenti bibliografici: Ales E. (2008), Il modello sessuato di ruolo sociale e i suoi antidoti: l adult worker model nell ordinamento italiano, in Lavoro e Diritto, n. 3. Beccalli B. (1986), Prefazione, in AA.VV., Bande: un modo di dire, Edizioni Unicopli, Milano. Beccalli B., La politica delle quote nel lavoro e nella rappresentanza politica, in Beccalli B. (a cura di), Donne in quota, Feltrinelli, Milano. Beccalli B. e Salvati M. (1998), Trentacinque ore? Perché non trenta?, in Il Mulino, n. 379. Beck U. (2000), Il lavoro nell epoca della fine del lavoro. Tramonto delle sicurezze e impegno civile, Einaudi, Torino. Bernhardt E. (2005), Politiche familiari e pari opportunità in Svezia, in Rivista delle Politiche Sociali, n.4. Carriero R. (2008), Il mutamento socio-economico nell analisi dei bilanci-tempo. Torino 1979-2003, in Polis, n. 2. Dahrendorf R. (1988), Per un nuovo liberalismo, Laterza, Bari-Roma. Gazier B. (2003), Vers un nouveau modèle social, Flammarion, Paris. Gorz A. (1982), Addio al proletariato. Oltre il socialismo, Edizioni Lavoro, Roma. Paci M. (2005), Nuovi lavori, nuovo welfare. Sicurezza e libertà nella società attiva, Il Mulino, Bologna. Reich R.B. (2001), L infelicità del successo, Fazi, Roma. Supiot A. (2003), Il futuro del lavoro. Trasformazioni dell occupazione e prospettive della regolazione del lavoro, Carocci, Roma. Thompson E.P. (1963), The Making of the English Working Class, Victor Gollancz, London. Touraine A. (2000), Stiamo entrando in una civiltà del lavoro?, in Sociologia del Lavoro, n. 80. 6