IL CINEMA, DISPOSITIVO PEDAGOGICO PER VIAGGI VIRTUALI IN AFRICA. Introduzione



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IL CINEMA, DISPOSITIVO PEDAGOGICO PER VIAGGI VIRTUALI IN AFRICA Introduzione Allora, ecco come si fa il cinema. A partire da stasera, per fare un film si chiudono gli occhi: si chiudono bene gli occhi e dentro, dentro al nero ci sono delle scintilline, c è luce. Si inventano storie, delle belle storie. Il nero diventa lo schermo bianco con la nostra bella storia del film e quando si riaprono gli occhi il film è già qui e si invitano le persone a vederlo. Allora grazie, sono stato al cinema con voi stasera. Il grande regista senegalese Dijbril Diop Mambéty, durante una pausa al festival del cinema africano che si svolge a Ouagadougou nel Burkina Faso, racconta così a un gruppo di bambini raccolti intorno a lui, con leggera e intensa poesia, cos è il cinema e come si può creare un film con il solo dono dell immaginazione. Paradossale che per re-imparare a guardare meglio sia necessario chiudere gli occhi? No, se si pensa che nello scenario contemporaneo (caratterizzato da forme di comunicazione multicanalizzate e sempre più articolate su base iconica e audio-visiva), la tendenza più diffusa è quella dell assorbimento acritico di ciò che l universo mediatizzato offre, soprattutto tra le giovani generazioni. La digital generation è sempre più disponibile ad attraversare le frontiere elettroniche e le autostrade informatiche, a navigare nel web, a transitare nelle agorà telematiche, a nutrirsi di realtà virtuali, a consumare con gli occhi mondi ed esperienze narrati dentro la cornice dello schermo televisivo o cinematografico, ma spesso lo fa senza capacità selettiva, critica, analitica, estetica e la conseguenza più evidente e immediata di ciò è lo sviluppo di un immaginario sempre più convergente e omologato e una sempre più diffusa tendenza a guardare «di sfuggita», a non cogliere l essenza, a trattenere solo schegge, frammenti, piccoli particolari Ecco perché una delle sfide più interessanti che ci si dovrebbe giocare oggi in ambito educativo è quella di insegnare a chiudere gli occhi per re-imparare a guardare meglio, per ritrovare il piacere di emozionarsi di ciò che compare dentro una visione nera, per cercare nella propria immaginazione nuove visioni e nuove forme di rappresentazione del reale. Una sfida che può essere giocata impegnandosi a fornire agli studenti degli occhiali e delle chiavi un po speciali Occhiali selettivi, in grado di aiutarli a guardare meglio, più in profondità, con maggiore attenzione per cogliere le strutture celate, i particolari nascosti, i punti di vista inaspettati, trasgressivi, divergenti della rappresentazione visiva. E chiavi capaci di dar loro la possibilità di oltrepassare la prima porta, quella della superficie, della prima impressione, dello sguardo distratto, per andare oltre, per entrare dentro i meccanismi su cui si fonda il grande mondo delle immagini, per conoscerli, comprenderli e, perché no, utilizzarli in una prospettiva nuova in cui essi stessi non siano più solo fruitori passivi di immagini preconfezionate da altri, ma diventino autori attivi capaci di inventare creativamente le proprie immagini, magari proprio andando a cercarle dentro ai loro occhi chiusi, in quel buio in cui tutto può nascere e prendere forma proprio come ben ci insegna il regista Mambéty. Rifondare dunque un etica e un estetica dello sguardo: questo credo sia il paradigma dal quale partire per cercare di sviluppare pensieri divergenti, multiprospettici, poliedrici. Per imparare a guardare dentro i territori di uno schermo con gli occhi del cuore e della mente. Per ascoltare le proprie emozioni e trovare nuove forme per narrarle.

LA RAPPRESENTAZIONE DELL «ALTRO E DELL ALTROVE» NEL CINEMA OCCIDENTALE Il cinema catapultando spesso lo spettatore «dentro» luoghi esotici e sconosciuti, facendogli assaporare il gusto e il piacere di esplorare con lo sguardo altri mondi, di «viverci in mezzo», di essere protagonista e di attraversare limiti, confini e frontiere contribuisce molto spesso a creare infinite rappresentazioni dell «altrove». Dato, questo, che si amplifica enormemente laddove l «altro» e l «altrove» non sono spazialmente vicini e quindi esperibili e condivisibili in modo diretto. Così facendo succede però che certe rappresentazioni virtuali del mondo siano a volte quanto meno parziali, se non addirittura inadeguate e stereotipate. Rappresentate e descritte con le parole, le immagini e gli scopi funzionali e utili a chi le produce, in certi casi sono proprio tali «messe in scena del villaggio globale» a creare un fertile terreno nel quale proliferano gli stereotipi e si pongono le radici dei pregiudizi (che hanno come ovvia conseguenza la negazione di corrette relazioni con l altro da sé ). Se la rappresentazione poi riguarda il Sud del mondo, è molto facile che certe immagini offerte illustrino solo alcuni aspetti, alcune categorie, a discapito delle vera essenza, molto spesso assolutamente ignorata, di quelle complesse realtà geografiche e antropologiche. Ed è proprio alla luce di tali considerazioni e a partire dalla consapevolezza che un certo cinema, ma ancor più i mass media con i quali entriamo in relazione quotidianamente, tendono per la maggior parte (con qualche debita eccezione) a fornire all Occidente una rappresentazione del Sud del mondo piuttosto parziale e spesso scorretta, che risulta importante, anzi necessario, promuovere in ambito educativo percorsi di «educazione allo schermo» secondo un ottica interculturale. Percorsi cioè attraverso i quali offrire altre possibili «visioni», altri sguardi, altre immagini dell «altrove». Ovviamente per sviluppare un itinerario di lavoro che sappia assumere il dubbio e la riflessione critica come punti forti e non si muova per apriorismi e luoghi comuni, credo sia necessario partire dalle preconoscenze e dalle rappresentazioni mentali di ciascuno. L interrogativo di partenza potrebbe allora proprio essere questo: di quanta televisione e di quanto cinema siamo fatti? Quanto le immagini dell «altrove» che il cinema e la tv ci offrono influiscono sui nostri comportamenti, sulle nostre idee? Per rispondere a queste domande, la prima operazione da fare potrebbe essere quella di analizzare criticamente un certo tipo di cinema e di informazione televisiva, decostruirli, smontarli pezzo per pezzo per guidare gli sguardi, per renderli sempre più capaci di leggere con attenzione e in grado di sottrarsi a facili condizionamenti e sviluppi di immaginari «indistinti». Per fare ciò, le attività e le strategie metodologiche potrebbero essere molteplici. Come esempio di un possibile percorso di analisi-riflessione sulla messa in scena del Sud del mondo da parte del cinema d Occidente, mi soffermerò sulla rappresentazione dell Africa, in quanto parte del Sud del mondo spazialmente (e non solo!) molto vicina alla nostra realtà.

LA RAPPRESENTAZIONE DELL AFRICA NEL CINEMA OCCIDENTALE Sono numerosi i film che nel corso della storia del cinema si sono in qualche modo occupati d Africa, hanno puntato l obiettivo su questo continente sia come realtà geografica, teatro delle più svariate avventure, sia come realtà antropologica. La visione dunque di una serie di sequenze cinematografiche (non sempre è necessario vedere tutto il film, a volte è sufficiente analizzarne una parte funzionale al discorso che si intende sviluppare) tratte da film della produzione occidentale può offrire lo spunto per analizzare le modalità di messa in scena dell Africa come luogo geografico (tipo di inquadrature: in esterni, in interni, diurne, notturne, campi ravvicinati, campi lunghi, elementi spaziali che ricorrono, presenza o meno di figure umane ); degli africani (caratteristiche fisiche, abbigliamento, ruolo nel film, modalità attraverso cui la macchina da presa li inquadra) e degli occidentali (caratteristiche fisiche, abbigliamento, ruolo nel film, modalità attraverso cui la macchina da presa li inquadra) come modelli antropologici e per riflettere sulla funzione e sul significato di dialoghi, commenti, voci fuori campo, musica e sull uso di particolari strategie linguistiche (grandezza piani e campi, angolazione di ripresa, movimenti di macchina, uso di soggettive, rapporto fra campofuoricampo-controcampo). A partire infatti da certo cinema coloniale degli anni Venti-Trenta fino a giungere ai film più commerciali degli anni Ottanta-Novanta non sarà difficile individuare tanti prodotti dai quali emerge un Africa illustrata attraverso categorie che spesso non le appartengono e mostrata negli aspetti che contano di meno. E sarà facile individuare numerosi stereotipi rafforzati da questo tipo di cinema. Attraverso una serie di domande si potrà guidare l analisi delle sequenze: quanto anche il cinema (ma non solo, anche la pubblicità, la fotografia ) nella messa in scena dell «altro» ha seguito delle rappresentazioni funzionali di volta in volta all Occidente? Quanto in certi film ritroviamo l immagine del selvaggio, dell indigeno, del sottosviluppato? Per consentire un analisi comparata di alcuni testi filmici, potrebbe essere opportuno, come mostrerò di seguito, raggruppare gli stessi in macrocategorie, seguendo, magari, anche un criterio cronologico. Il cinema italiano di regime: il cinema coloniale «Il mito africano, la follia di un impero complessato sul viale del tramonto della politica coloniale mondiale sono tutti elementi che hanno dato un carattere originale all immaginario africano del cinema italiano. L Africa da prima del fascismo a oggi rimane sullo schermo come il luogo del sogno, della fuga dalla realtà. Nel vasto panorama della cinematografia italiana, a eccezione del filone esotico/erotico, le immagini dell Africa sono piuttosto rare, a parte qualche film degli anni Sessanta sull onda delle rivoluzioni per l indipendenza o dei film appunto dell epoca coloniale anni Venti-Trenta. ( ) Il cinema italiano si rivolge per esempio all Africa quando il fascismo, nella seconda metà degli anni Venti, inizia a comprendere il grande potere dei media e a utilizzare lo schermo cinematografico come transfert delle proprie ambizioni nazionalistiche. I film "africani" d Italia nascono così come dirette appendici dell ideologia imperialista. I film del filone africano degli anni Trenta sono tutti ambientati in Etiopia o Libia e condividono l obiettivo di celebrare e rendere popolare l ideologia di regime. Strumenti diretti di trasmissione dello spirito imperialista del fascismo sono inoltre, ancor più dei film di fiction, i cinegiornali e i documentari.

L immenso patrimonio dell Istituto Luce in Africa, immagini di una storia atroce, è finito nel dimenticatoio degli archivi. Rarissime purtroppo le occasioni in cui si è potuto visionare». 1 In questo filone si inseriscono comunque a pieno titolo anche film ancora reperibili, seppur con qualche difficoltà (attenzione alla programmazione televisiva notturna!!), come: Lo squadrone bianco di Augusto Genina, 1936; Scipione l africano di Carmine Gallone, 1937; Luciano Serra pilota di Goffredo Alessandrini, 1938; Abuna Messias di Goffredo Alessandrini, 1939; Bengasi di Augusto Genina, 1942. In questo genere di film l italiano, il conquistatore, è essenzialmente buono, leale, comprensivo e in grado di liberare l africano dalle barbarie delle pratiche tradizionali: le case in muratura contrapposte ai miseri tukul, le strade asfaltate alle mulattiere e così via. Gli stereotipi maggiormente rafforzati in questo genere di film sono indubbiamente quelli richiamati da Ivan Illich nel 6 grado di rappresentazione dell altro: il bianco colonizzatore buono, intraprendente, coraggioso, altruista, disponibile, civilizzato e l africano sottosviluppato, pigro, indolente, passivo, sottomesso, ma acquiescente, riconoscente nei confronti dell italiano portatore di cultura e civiltà. Il cinema d avventura: la sindrome di Tarzan A questo genere di film possiamo poi aggiungere tutti i classici del genere avventuroso, fra cui la saga di Tarzan che può essere considerata a pieno titolo capostipite dell avventura esotica. In essi l Africa come luogo geografico è caratterizzata ovviamente da natura incontaminata, selvaggia, misteriosa, pericolosa, labirintica nella quale l esploratore-conquistatore bianco deve mettere alla prova il proprio coraggio e la propria abilità. Superare ostacoli, impedimenti, trappole di ogni tipo è il modo ancora una volta per decretare la superiorità implicita nell essere bianco e occidentale. E i protagonisti dei vari film ci riescono sempre, anche quando sembrano in pericolo estremo, sanno cavarsela e alla fine vincono, decretando una volta per tutte il loro ruolo di eroi. E agli africani quali ruoli spettano in questo genere di film? Sostanzialmente quattro: quello di aiutanti-guide indispensabili all esploratore per orientarsi nella natura labirintica (anche in questo caso sono comunque figure subalterne a cui non è mai data possibilità di vera azione); quello dei selvaggi cannibali e pericolosi che assumono dunque il ruolo di antagonisti, costituiscono un grave pericolo per l incolumità del bianco e sono perciò da uccidere appena compaiono all orizzonte; o ancora quello di gruppi di malvagi e ribelli che vogliono liberarsi dei bianchi e dunque sono da sconfiggere (questo terzo caso è tipico anche nei film d avventura ambientati in India nel periodo coloniale); o infine quello del buon selvaggio molto più simile in tutto e per tutto agli animali che agli uomini. Nel caso per esempio del primo film sonoro della serie di Tarzan, intitolato Tartan, l uomo scimmia di W.S. Dyke (1932 Usa), siamo di fronte a un esempio emblematico di messa in scena degli africani che va in questa direzione. È sufficiente, per averne chiara dimostrazione, prendere in esame la sequenza del film in cui le diverse tribù si incontrano con gli occidentali per commerciare. Si tratta di una sequenza emblematica che racchiude in sé tutta la forte connotazione ideologica che si nascondeva dietro a questi film apparentemente «innocui e adatti ai ragazzi». Si noti, fra l altro, che in questo caso specifico la messa in scena degli africani è «finta»; per girare la scena sono cioè stati utilizzati dei fondali trasparenti. Si tratta di immagini del repertorio documentaristico, usati come fondali dell azione. Gli africani appaiono così piatti, senza «spessore» e in netto contrasto con la «corporeità» degli occidentali. Nella sequenza vediamo inoltre Jane che osserva tutti i componenti delle tribù e noi spettatori guardiamo «con i suoi occhi»: le riprese sono infatti girate in soggettiva proprio per rafforzare il processo di identificazione dello spettatore con il bianco. Nessuna soggettiva, mai, è consentita a un africano su un occidentale. 1 AA.VV., Catalogo del festival del Cinema Africano - V edizione 1995, cit., pp. 122-123.

Il cinema commerciale dagli anni Ottanta in poi Da Tarzan in poi il mito del «buon selvaggio» o, al contrario, il pericolo «dell indigeno bestiale» si è andato via via rafforzando e gli stereotipi nella messa in scena dell Africa e degli africani sono risultati sempre più frequenti e marcati, soprattutto in quel genere di cinema commerciale destinato al grande pubblico. È interessante a questo proposito prendere in considerazione alcuni film molto recenti perché tra l altro questi sono oggi i più visti dai ragazzi e dunque quelli che necessitano maggiormente di operazioni di analisi e smontaggio critico. Proprio quei film tanto conosciuti, amati e consumati dai ragazzi, quanto aborriti dagli educatori, sono infatti molto spesso i primi responsabili della produzione di rappresentazioni mentali. Ed è solo lavorando su tali preconoscenze che si può cercare di erodere pregiudizi e provare a far intraprendere strade di conoscenza nuove. Alcuni titoli per svolgere un lavoro di analisi comparativa: Ace Ventura Missione Africa di S. Oedekeek, 1995 Usa; Cacciatore bianco, cuore nero di C. Eastwood, 1990 Usa; Il gioiello del Nilo di L. Teague, 1985 Usa. In generale si tratta di film che, pur nelle loro ovvie diversità narrative, presentano per quanto riguarda la rappresentazione dell Africa e degli africani dei denominatori comuni molto evidenti. - L Africa oggetto del desiderio per viaggi esotici, erotici, avventurosi è caratterizzata ancora una volta da una natura incontaminata, spazi immensi, deserti sconfinati, spiagge bianche, mare cristallino. Lo spazio è caratterizzato inoltre dall assoluta assenza di qualsiasi essere umano. Non esistono città in questa rappresentazione dell Africa, né abitazioni che non siano capanne di fango e di paglia. - Gli africani messi in scena sono generalmente tutti «molto neri». Gli uomini sono grandi, grossi, forti, muscolosi, possenti, «abili con il corpo, ma non con la mente». Le donne invece sono generalmente belle, seducenti, con una forte carica erotica e, ovviamente, vestite il minimo indispensabile. Tutti emettono «suoni gutturali» incomprensibili o parlano un italiano scorretto e approssimato (uso dei verbi all infinito, inversione lettere P/B). In ogni momento si mostrano con visi e corpi dipinti in modo caricaturale e assolutamente distante dalle loro reali tradizioni ornamentali. Sono generalmente vestiti con «poche cose» dai colori sgargianti e sono spesso scalzi. Rivestono sempre un ruolo secondario, non sono mai protagonisti dell azione, ma semplici comparse private di una storia, una identità, di pensieri e voce propri. La macchina da presa non dedica loro mai troppo spazio né troppo tempo: sono spesso inquadrati in gruppo, in campo totale, a parte quando va evidenziato qualche aspetto negativo del loro comportamento o del folklore. Interpretano spesso la parte dei servi: sono camerieri in livrea bianca (di coloniale memoria), aiutanti, portatori, autisti, guide turistiche. Le donne sono anche seducenti danzatrici e, di queste, vengono messi in evidenza, con mirati primi piani e dettagli, gli «attributi fisici» capaci di suscitare desideri e fantasie erotiche. Sono spesso rappresentati nella veste di antropofagi, cannibali, selvaggi, tribali o di guitti ridicoli e capaci solo di fare molto rumore e di ballare. Lavorando per contrasto si sottolineano spesso l arretratezza, la confusione, gli aspetti «incivili» del folklore, in contrapposizione con il lindore e la modernità della civiltà occidentale. La messa in scena degli occidentali invece si muove su un piano completamente diverso: gli uomini sembrano, in generale, tutti usciti da musei etnografici con le loro sahariane sempre linde, gli stivali neri, il caschetto da esploratore o il panama accuratamente bianco. Le donne, quasi tutte rigorosamente bionde e con la pelle diafana, indossano anch esse abiti eleganti dalle tinte sabbia.

Hanno sempre i ruoli primari: sono i protagonisti dell azione, interpretano le parti di persone importanti, di successo: registi, scrittori, esploratori, avventurieri, ricchi capitalisti spinti in Africa da interessi economici o da desideri di avventure «fuori dal comune». La macchina da presa riserva loro sempre spazi e tempi privilegiati: molti primi piani, molte inquadrature frontali o oblique dal basso (a sottolinearne importanza e potere), molte soggettive. Le loro voci, i loro pensieri funzionano spesso da «io narrante» e, quando sono fuori campo, guidano lo spettatore nell evolversi delle vicende. Nella relazione con i nativi del luogo viene sottolineata spesso la loro superiorità culturale, un maggior grado di evoluzione, un maggior livello d intelligenza, di furbizia, di arguzia e vengono inoltre sottolineate la bontà e l altruismo occidentale. - Le strategie di ripresa e gli artifici del linguaggio cinematografico più utilizzati in questo genere di film tendono a mettere in scena un Africa spesso «vista dal finestrino». Lo sguardo dell occidentale sul luogo è cioè frequentemente mediato da vari generi di «cornici»: finestrini d auto appunto, finestre d abitazioni, porte o altri oggetti-simbolo di separazione. L uso poi di veloci carrellate, panoramiche o camera car su luoghi e situazioni simboleggiano lo sguardo dell occidentale: veloce, disattento, sfuggente, che accarezza sempre la superficie delle cose, senza riuscire mai ad andare in profondità. Anche l uso frequente del campo/controcampo (quest ultimo diventa spesso anche fuoricampo) per inquadrare le due culture (africana e occidentale) separatamente, è una scelta volta quasi a marcarne, sottolinearne il confine, la separazione o a decretare addirittura un impossibilità di relazione/comunicazione. La scelta infine di un certo tipo di frasi-dialoghi-battute dense di luoghi comuni definisce con immediatezza il punto di vista che si vuol far condividere allo spettatore. Il cinema d autore o dei «buoni sentimenti» Un altra tendenza che si è andata diffondendo nel corso degli ultimi anni, soprattutto in certo cinema «d autore», è quella della rappresentazione dell Africa come luogo-metafora di fuga, ricerca, deriva esistenziale. Protagonisti, in questo caso, sono assolutamente e unicamente i bianchi. Gli africani non ci sono o se ci sono hanno valore di puro contorno decorativo: l obiettivo della macchina da presa non si occupa di loro né per raccontarne la storia, né per rafforzare immagini stereotipate o, se lo fa, è solo in funzione strumentale alla narrazione delle vicende del bianco. Ciò che conta in questi film è il rapporto fra i protagonisti e lo spazio. L Africa ignota e aliena diventa luogo ideale di fuga e/o ricerca di una nuova identità. Il deserto africano, spazio vuoto per eccellenza, diventa territorio privilegiato di perdita, deriva, è metafora spesso del vuoto dell animo umano, di cadute interiori, di smarrimenti, di ricerca delle proprie radici. Titoli emblematici di questo filone sono La mia Africa di S. Pollack (Usa 1985) e Il tè nel deserto di B. Bertolucci (Italia 1990), ma anche Gorilla nella nebbia, Il paziente inglese, Marrakech Express... Anche film di questa categoria o quanto meno alcune sequenze rappresentative della filosofia che muove il racconto possono essere presi in considerazione e analizzati, soprattutto per una riflessione intorno al rapporto che intercorre fra l uomo occidentale e la ricerca di «un altrove diverso» dove poter reinventare la propria esistenza. Il cinema «impegnato» e di denuncia L ultima categoria del cinema occidentale che propone uno «sguardo altro» sull Africa e/o sugli africani è infine quella in cui si possono inserire tutti quei film sicuramente più onesti e corretti sul piano della rappresentazione dell altro e dell altrove che in diverso modo hanno raccontato storie di conflitti etnici, di interessi di potere del Nord del mondo sul Sud del mondo o che hanno messo in scena altre problematiche socio-politiche.

In questo filone cinematografico ci sono a pieno titolo quei film che hanno posto un attenzione particolare al problema dell apartheid in Sud Africa, come Grido di libertà di R. Attenborough (Gb 1987), Un mondo a parte di C. Menges (Usa/Gb 1988), Un arida stagione bianca di Euzhan Palcy (Usa 1988), Sarafina di J. Roodt; film come Tempo di uccidere di G. Montaldo (Italia 1989) che invece porta sullo schermo i paradossi dell epoca della conquista dell Etiopia o La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo (Italia 1966) che mette in scena il sanguinoso scontro tra i parà francesi e i ribelli del Fronte di liberazione nazionale. O, ancora, i film che affrontano la questione degli immigrati nordafricani in Italia e in Europa, evidenziando i problemi di integrazione-accettazione degli extracomunitari, come L articolo 2 di M. Zaccaro (Italia 1993) o Pummarò di M. Placido (Italia 1990) o il recente e particolarmente significativo La promesse di Luc e Jean-Pierre Dardenne (Belgio 1997): film che sa affrontare in modo toccante il tema dell immigrazione clandestina, dello sfruttamento della manodopera, dello scontro fra due culture, ma anche del confronto/scontro fra due generazioni: quella del padre e quella del figlio. Inoltre il film La promesse può comparato con un altro film Le cri du coeur di Idrissa Ouedraogo (Burkina Faso/Francia) che affronta il medesimo tema dell immigrazione, narrato però dal punto di vista dell africano costretto a lasciare il proprio paese. I film di questa categoria si prestano a essere visti e analizzati e consentono un graduale passaggio verso una visione più articolata e complessa dell «altrove». Dal cinema d Occidente al cinema africano L analisi della rappresentazione dell Africa nel cinema occidentale può aiutarci a capire dove stanno le radici delle nostre immagini mentali e può consentirci l individuazione degli stereotipi più ricorrenti; può essere un buono stimolo per incrinare certezze e per far nascere dubbi e nuove domande, ma certamente, se ci si fermasse a questo punto, non si potrebbe dire di aver compiuto un percorso di educazione interculturale in quanto non avremmo aggiunto altre rappresentazioni a quelle già in nostro possesso. Cinema occidentale dunque come punto di partenza dal quale muoversi per avvicinarsi poi a quei prodotti filmici in cui il Sud del mondo acquista voce propria, parla di sé con parole, suoni e immagini che gli appartengono. Il passaggio a quelle narrazioni che si muovono partendo da altri punti di vista e propongono altre visioni del mondo è cioè da considerarsi obbligato se vogliamo «nutrire» il nostro immaginario non sempre e non solo con visioni etnocentriche del mondo. Per esempio, il giovane cinema africano (purtroppo ancora misconosciuto da molti) rappresenta senza dubbio una grande opportunità per dar voce a culture «altre», ma soprattutto per indurci ad aprire occhi e orecchie ad un altra visione che dell Africa ci aiuti a cogliere la complessità e anche le contraddizioni, ma a partire da condizioni di dignità e da rappresentazioni che non siano solo quelle dei depliant turistici o degli annunci pubblicitari. Uno sguardo alla storia del cinema africano Una descrizione della cinematografia africana può essere effettuata dividendo il continente in grandi aree e scegliendo come criterio il fattore linguistico, non quello delle lingue africane estremamente numerose, ma quello delle lingue introdotte in Africa dalle potenze coloniali. Si può parlare così di Africa francofona, anglofona, lusofona, settentrionale dei paesi islamizzati e Africa australe che, pur appartenendo all Africa anglofoba, presenta caratteristiche peculiari. Ci soffermeremo ora in particolare sull Africa francofona subsahariana, area geografica in cui si colloca il Burkina Faso. Area francofona I paesi di area francofona sono stati i primi ad affacciarsi sulla scena cinematografica e anche quelli che hanno prodotto opere fra le più significative. È un cinema nato sulla scia delle indipendenze nazionali e quindi all indomani del 1960. La prima nascita del cinema africano vero e proprio viene da registi africani che si trovano a vario livello in Europa, soprattutto a Parigi. Mali e Burkina Faso,

i due paesi alla ribalta nella produzione cinematografica, sono paradossalmente fra i più poveri del continente africano. Senegal Il Senegal è indubbiamente la culla del cinema africano e il paese che forse ha offerto le migliori opere. La sua produzione illustra bene le tendenze e i dilemmi tipici dei registi africani, soprattutto quelli della prima generazione: - relazioni fra africanità e cultura europea; - reperimento nella cultura africana degli aspetti da conservare e degli aspetti da abbandonare: - individuazione degli antichi nemici (potenze coloniali) e dei nuovi nemici (borghesia autoctona, corrotta e legata mani e piedi al neocapitalismo); - ripresa dell antico patrimonio culturale orale e dei più recenti testi letterari; - tendenza a risolvere o aggirare il problema della molteplicità di lingue africane, realizzando film «visivi» nei quali si riduce al minimo il linguaggio parlato e si dà ampio uso del linguaggio non parlato: gesti, sguardi, ambienti, contesti; - ricerca di un linguaggio semplice e di una trama da cui far scaturire una lezione morale e delle prospettive di possibili strade verso il futuro; - prospettiva etnologica, ma anche una lettura marxisteggiante della realtà politica e sociale. Il regista più rappresentativo del Senegal è incontestabilmente Sembène Ousmane (1923-2007), regista e scrittore di fama internazionale, considerato a pieno titolo il padre della cinematografia africana. Egli ha prodotto in media un film ogni due anni. Nell insieme della sua produzione traspare una decisa rivolta contro le varie borghesie africane e contro i loro asservimenti neocoloniali. La noire de (1966) è considerato il primo lungometraggio africano e racconta la storia del tragico destino (suicidio) di una domestica senegalese in Francia. Un film molto importante di Sembène è sicuramente Campo Thiaroye (1987) in cui si denuncia il colonialismo e il comportamento delle truppe francesi nei confronti degli africani arruolati tra le loro truppe nel corso della seconda guerra mondiale. Altra regista molto importante è Safi Faye, unica donna dell Africa nera autrice di lungometraggi. Regista di fama internazionale, prematuramente scomparso, è Djibril Diop Mambety regista di film quali: Contras City cm, Touki Bouki (Il viaggio della iena) lm, Parlons Grand-Mère (Parliamo nonna) lm, Hyènes (Iene), Le franc (Il franco) mm, La petite vendeuse de soleil (La piccola venditrice di sole) mm. Mali Il Mali è uno dei pochi paesi africani che possiede già da diversi anni un industria cinematografica diretta e sovvenzionata dallo stato. Il regista degli anni Ottanta più rilevante, maturo e coinvolto nelle realtà politiche e sociali del paese è stato senza dubbio Souleymane Cissé (1940). Anch egli si è formato come Sembène soprattutto a Mosca. La produzione di Cissé è molto ricca e rappresenta una felice contaminazione fra le lezioni tipiche del cinema europeo e la cultura orale autoctona. Fra i suoi principali film: Den Muso (La ragazza) 1975, Baara (Il portatore) 1978, Finyé (Il vento) 1982 e Yeelen (La luce) 1987 premio della giuria a Cannes, uno splendido inno plastico sul percorso iniziatico di un ragazzo alla ricerca dei poteri magici di suo padre. Un altro regista maliano importante è Cheikh Oumar Sissoko, artista che passa dal burlesco alla denuncia violenta con film come Nyamanton, lezione dell immondizia (1986), Finzan (1989), Nijugu Guimba (Il tiranno 1991). Altro regista da segnalare è Adama Drabo con film come Ta Dona (Al fuoco)e Taafe Fanga con il quale ha ricevuto il premio speciale della giuria al Fespaco 1997. Il film affronta il tema spinoso e difficile dell uguaglianza fra uomini e donne e del necessario rispetto delle differenze fra i sessi. Drabo per parlare di ciò ricorre a una leggenda dogon

che narra come le donne presero il potere e costrinsero gli uomini ad assumere ruoli femminili e a sperimentare la durezza della vita quotidiana vissuta al femminile. NOTE * I testi di questo pdf fanno riferimento agli interventi di Patrizia Canova contenuti nel «Quaderno Ismu 7/1996: Oltre il mosaico di culture» (pp. 47-64) e nel catalogo «Arrivano i film 1998/99», Regione Lombardia Direzione Generale Cultura (pp. 7-13).