Dottor Caos 10 dieci pillole contro la crisi Autore: Marco Apolloni

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Transcript:

Dottor Caos 10 dieci pillole contro la crisi Autore: Marco Apolloni «Nutre la mente solo ciò che la rallegra» (Sant'Agostino, Le Confessioni)

Il mito delle origini in Francis Ford Coppola e in Mircea Eliade 1. Un'altra giovinezza (2007) Thriller, spy-story, mélo? Come Gianni Canova, intervistato sull'argomento, propendo per il sincretismo dei tre generi, uniti in un unico genere in questa straordinaria narrazione filmica del grande maestro Francis Ford Coppola. Lo stesso Canova, nell'intervista a cui mi riferisco, precisa che vi è però una lieve predominanza del genere mélo. Il tema pervasivo del tempo (nostro invalicabile limite), le atmosfere oniriche e gli eventi rocamboleschi narrati contribuiscono a darci quest'idea. Il film di Coppola mi fa venire in mente, per certi versi, l'ultimo film di Stanley Kubrick Eyes wide shut (1999), tratto dalla novella Doppio sogno di Arthur Schnitzler. Anche in Un'altra giovinezza domina il tema del conflitto fra realtà e sogno, scene orgiastiche (più presenti nella pellicola di Kubrick) e il tema del doppio (più presente nell'opera di Coppola). Di certo si tratta di un film non facile, che va visto e rivisto per poter essere compreso. Magari sarebbe meglio vederlo in orario diurno, perché specie la prima parte è molto lenta. Ciò non toglie i suoi meriti, anzi. Diceva Platone «le cose belle sono difficili». L'impressione comunque è che siamo al cospetto di un bel film. Bello per com'è congegnato e per come interroga la precaria condizione umana, appesa sul filo del tempo-tiranno. Filo, questo, conduttore di ciascuna esistenza e ancor più dell'esistenza meravigliosa del protagonista della pellicola (tratta da un romanzo di Mircea Eliade), Dominic. Studioso di linguistica e di religioni orientali (tratti questi comuni al suo autore), Dominic Matei ama due sole cose: 1) Laura, il suo primo (e per ciò indimenticabile) amore, 2) e l'opera incompiuta della sua vita, un saggio che vorrebbe risalire sino alle origini del linguaggio. Laura però decide di lasciarlo, perché sente che il suo innamorato in realtà ama più la sua opera che lei. È a questo lancinante rimpianto che pensa il settantenne Dominic svegliandosi una mattina con la luna di traverso e con un solo chiodo fisso: la busta azzurra contenente stricnina, per porre fine alle sue pene d'amore. Il deus ex machina (o intervento dall'alto) gli piomba addosso, tutto a un tratto, e lo colpisce attraverso un fulmine, proprio mentre lui è a Bucarest, deciso a compiere il suo progetto suicida. Il fulmine che avrebbe dovuto ucciderlo in realtà lo ringiovanisce. Cosicché al suo risveglio dal coma dimostra la metà degli anni. Aiutato dal professor Roman Stanciulescu, primario del reparto della clinica dov'è in cura, viene sottratto alle autorità naziste 1. I nazisti venuti a conoscenza del caso dell'uomo sopravvissuto alla 1 Siamo nel 1938. La Romania ha appena stretto un patto con la Germania hitleriana. Patto, questo, che la obbliga ad un

scarica di un fulmine, che per giunta si vocifera sia addirittura ringiovanito, non tardano ad avanzare le loro pretese sul paziente, e vorrebbero espatriarlo per fargli degli esperimenti, come una cavia da laboratorio. Dominic, braccato dalle SS, si rifugia nella neutrale Svizzera. Da qui si sposta in India sulle orme di un nuovo amore, Veronica (in una vita precedente Rupini, discepola di Chandrakirti, filosofo buddhista del VI-VII secolo d.c.), che è anche la sua unica possibilità di redimersi dal precedente amore fallito con Laura. Insieme a Veronica/Rupini si trasferisce poi nella mediterranea Malta. Qui Dominic e il suo doppio malevolo (una sorta di Mr. Hyde secondo l'acuta interpretazione dataci da Canova) si trova a un bivio, scegliere: se terminare la sua opera grazie all'aiuto delle estasi parasensoriali dell'amata, oppure se salvarle la vita, visto che tali estasi la stanno divorando. Anticipare il finale sarebbe un delitto, che non è mia intenzione commettere. Vi consiglio solo di vederlo attentamente, per non lasciarvi sfuggire dei piccoli passaggi, però necessari al fine di una comprensione totale della pellicola. Anche se la comprensibilità nel caso di Un'altra giovinezza non è fondamentale, poiché (sempre citando Canova) ci sono film che vanno compresi e altri, come questo, che ci comprendono. A ogni modo, il messaggio del film è ben riassunto dal seguente paradosso taoista (citato da Dominic durante un'allucinazione nel caffè Select): «Una volta Chuang Tzu sognò che era una farfalla svolazzante e soddisfatta della sua sorte, e ignara di essere Chuang Tzu. Bruscamente si risvegliò, e si accorse con stupore di essere Chuang Tzu. Non seppe più allora se era Tzu che sognava di essere una farfalla, o una farfalla che sognava di essere Tzu». In fin dei conti, il fascino di Un'altra giovinezza è che nulla è come appare e l'essere potrebbe anche non essere. Paradosso, questo, che la nostra visione del mondo occidentale non ci permette di comprendere a fondo. Da Parmenide in poi, la ferrea logica occidentale è basata sul principio di non contraddizione ed è appunto per essa una contraddizione in termini pensare che qualcosa sia e al contempo non sia. Viceversa la fluida logica orientale è contraddizione pura: l'essere contiene il non essere, il vuoto il pieno, la luce le tenebre e via dicendo. La pellicola di Coppola, così come il romanzo di Eliade, strizzano tutti e due gli occhi alla fluida logica orientale, che si nutre di paradossi. Del resto, non è mica detto che la logica occidentale sia più veritiera di quella orientale. Che cos'è in fondo la verità, s'interroga Ponzio Pilato nell'atto di sospendere il giudizio su Gesù Cristo? E su questa domanda continua a interrogarsi ancora oggi la filosofia occidentale, che magari potrebbe trovare un prezioso alleato nel pensiero orientale. Poiché solo dall'unione di questi due giganti, filosofia occidentale da una parte e pensiero orientale dall'altra, potrà risultare una Nuova Era per il genere umano. regime di collaborazionismo col potente alleato.

Detto questo e fermo restando la mia promessa di non anticipare il finale, non credo di farvi alcun torto ricapitolando la posta in gioco: Dominic per salvare l'amata Veronica/Rupini deve scegliere di uccidere il suo doppio, rinunciando per sempre all'opera di una vita. È una scelta dura e difficile, ribadiamo, ma vivere significa dover scegliere e persino chi sceglie di non scegliere compie una scelta suo malgrado. Come vedete, la pillola azzurra e la pillola rossa di Matrix (1999) è un ritornello sempre attuale. «Pillola azzurra, fine della storia: domani ti sveglierai in camera tua, e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa, resti nel paese delle meraviglie, e vedrai quant'è profonda la tana del bianconiglio» come dice Morpheus a Neo. Anche Matrix come Un'altra giovinezza e Eyes wide shut appartiene al filone cinematografico che intende mettere in discussione il netto confine fra realtà e sogno, privilegiandone uno più sfumato. Tale filone ci lascia intendere l'esistenza di un Demiurgo cattivo che gioca con le nostre sorti e sdoppia le nostre esistenze. Il tema dello sdoppiamento è ricorrente vuoi in Dominic e vuoi in ognuno di noi. Senza il doppio che ci abita, non potremmo nemmeno concepire le doppiezze che compiamo ogni giorno. Una lotta incessante si consuma dentro noi; e spesso a uscirne vincitrice purtroppo è la nostra parte peggiore. La storia umana è storia della lotta di ogni uomo con il suo doppio; non fa eccezione il protagonista di Un'altra giovinezza, Dominic, il quale deve lottare con esso per sconfiggere la ferrea logica occidentale, che da sola è incapace di abbracciare l'insanabile contraddizione umana, ovvero: dover vivere come se si dovesse morire adesso e pensare come se non si dovesse morire mai, parafrasando un celebre aforisma di Jim Morrison... 2. La filosofia di Un'altra giovinezza La filosofia nasce e si sviluppa prettamente in Occidente, mentre in Oriente al suo posto si annoverano il pensiero confuciano e le religioni induiste, buddhiste, taoiste. Dunque, se in Oriente si è sviluppata una logica unitaria, che ingloba l'accettazione e il superamento della contraddizione (la verità è bianca e nera insieme), in Occidente si ha invece una logica duale, che non va oltre lo scoglio del principio di non contraddizione (la verità o è bianca o è nera). Dunque, il dualismo è il minimo comun denominatore della filosofia occidentale da Parmenide fino a noi oggi. Anche se, a onor del vero, la filosofia occidentale in senso stretto nasce nel VI secolo a.c. per opera dei primi filosofi naturalisti: Talete, Anassimandro e Anassimene, originari della colonia greca di Mileto; ognuno di essi propugna un arché (o principio primo), il primo l'acqua, il secondo l'infinito (o ápeiron), il terzo l'aria. Tuttavia i più influenti pensatori della filosofia occidentale restano: Parmenide, Platone e Aristotele, i cui strascichi sono giunti fino ai nostri giorni e per il momento non sembrano destinati a scomparire.

Il personaggio di Dominic è una rivisitazione del mito nietzscheano del Superuomo 2. Persino la sua smania di arrivare alle origini del linguaggio è un impulso riconducibile alla sua volontà di potenza, di derivazione nietzscheana. Volontà, questa, che gli fa, ad esempio: leggere libri soltanto con l'imposizione della mano, sparare allo scienziato nazista Josef Rudolf senza neppure aver bisogno d'impugnare la pistola ma con la sola forza della mente, e altre meraviglie del genere. La sua volontà come tutti i grandi poteri (da cui derivano delle grandi responsabilità, direbbe nientemeno che l'uomo Ragno) ha però un contro e questo è che risucchia l'energia vitale di Veronica, il suo secondo amore, specchio del primo. Fra una riflessione sull'uomo post-istorico e un'altra sulla metempsicosi (o trasmigrazione delle anime) questa pellicola fila via contorta, eppure semplice. Se ha un difetto quello è infatti: annunciare temi profondi, senza tuttavia approfondirli. Viceversa il suo pregio è secondo me connesso appunto al suo difetto, cioè: stuzzica la nostra curiosità e ci illumina talvolta con riflessioni preziose, senza però mai risultare pesante. Paradossalmente la pesantezza del film è più nella forma, se vogliamo, che nel contenuto. Sembra e lo è in effetti il film di un accademico, Coppola, tratto dal romanzo di un altro accademico, Eliade; con la sola eccezione, che l'uno è accademico di cinema e l'altro di religioni. Se proprio si vuol trovare una pecca alla filmografia coppoliana è un certo manierismo formalista. Pensiamo, oltre a Un'altra giovinezza, alla trilogia del Padrino, o ad Apocalypse now, e non possiamo non notare un gusto quasi ossessivamente formale in chi sta dietro la macchina da presa, che tuttavia si lascia ampiamente perdonare grazie alla profondità doestoevskijana dei personaggi, nessuno dei quali è solo buono o cattivo, ma tutti doppi come il professor Dominic Matei di Un'altra giovinezza, o come il capitano Willard di Apocalypse now, o infine come il boss Michael Corleone del Padrino. Nessun uomo è solo buono o cattivo, sembra volerci dire Coppola. E Dio solo sa quanto sia vera quest'affermazione... 3. Rivoluzione e religione La mia idea è che le rivoluzioni siano state eventi necessari, la cui azione palliativa (badate bene: non curativa) è servita per ritardare il processo d inaridimento e desolazione dell uomo moderno. Con le rivoluzioni si è sempre voluto infrangere il continuum della storia. Ovvero: l'eterna ripetizione di un tempo sempre uguale e monotono, che si rinnova di continuo e che per dirlo con il grande storico delle religioni Mircea Eliade: appartiene alle società arcaiche. Esse tramite i riti di rinnovamento delle sementi nei campi testimoniavano il loro profondo attaccamento verso usanze 2 Non a caso, il pensiero di Eliade è diretto discendente di quello nietzscheano. Un suo saggio, in particolare, lo testimonia, mi riferisco a: Il mito dell'eterno ritorno, scritto nel 1945, pubblicato poi nel 1949.

già consolidate, le quali dovevano riproporsi di generazione in generazione, originando così il mito dell'eterno ritorno 3. Quest'eterna ripetizione del tempo sarebbe irredimibile e ci condurrebbe alla disperazione di una visione non finalistica della storia, a meno che non aderissimo a una visione storica che tenga ben presente la nuova categoria della fede. Nuova perché introdotta dal giudeocristianesimo e da una figura su tutte: Cristo. Egli ha saputo sobbarcarsi su di sé la croce del mito dell'eterno ritorno riuscendo a rivoluzionare a tal punto la nostra visione del tempo da diventare un autentico spartiacque fra un tempo prima e uno dopo la sua venuta. Aggiungo anche, con René Girard, che egli è stato capace di superare lo sbarramento posto dalla vecchia logica vetero-testamentaria del sacrificio rituale e di tutti i meccanismi di capro-espiatorio. Immolandosi sull'altare dell'umanità, Cristo ci ha consegnato un mondo migliore: non più legato a logiche tribali e a leggi del taglione. Un mondo nel quale il comandamento supremo è «amerai il prossimo tuo come te stesso» 4, compresi i tuoi nemici. Sintetizzato, poi, dal prezioso insegnamento da cioccolatini Perugina agostiniano «ama e fa ciò che vuoi». L'amore prima di tutto, insomma. La possente categoria della fede, dunque, può essere un'arma davvero utile. Se ben calibrata, essa permette la sopportazione del peso gravoso della storia, sia rifugiandosi nel mito dell'eterno ritorno, alla maniera dell'uomo arcaico, che nell'idea di Dio, alla maniera dell'uomo moderno. Le altre categorie, filosofiche o meno, conducono l'essere umano, tutte immancabilmente e senza eccezioni, alla disperazione più terrificante. Il falso mito della ragione non può in alcun modo tenere testa al potere riconciliante delle religioni. L'indispensabilità delle religioni in un'ottica salvifica dell'umanità è tanto più importante al giorno d'oggi, se consideriamo la capillare infiltrazione di filosofie che scartano l'idea di Dio, siano esse: nichiliste, esistenzialiste, relativiste. Anche se persino Martin Heidegger, ovvero uno dei maggiori esponenti della corrente esistenzialista novecentesca, al termine della sua riflessione filosofica ha ammesso che: «Ormai solo un dio può salvarci». Chissà, forse, perché si è reso conto dell'inutilità di formulare un'ennesima metafisica che segua la linea già tracciata da Nietzsche, ossia del famoso detto: «Dio è morto». Poiché, in fin dei conti, dire ciò equivarrebbe a dire che l'uomo è morto. Poiché è risaputo come l'idea di Dio sia nata insieme all'uomo, che ne è talmente connaturato da non poterne fare a meno. Allacciandomi al già citato Eliade: la concezione migliore avutasi con la proliferazione del giudeocristianesimo è stata la sacralizzazione del tempo, del tempo paolino dell'unica volta a dispetto del tempo nietzscheano, e delle società arcaiche, dell'eterno ritorno. Concezione, questa, che ha reso le 3 Eliade, M., Il mito dell'eterno ritorno, Roma, 2007. 4 Mt 22, 39.

nostre esistenze tanto più preziose in quanto uniche e irripetibili. Ogni esperienza che viviamo nell'arco della nostra esistenza infatti la viviamo un'unica volta, ecco il senso profondo della concezione temporale paolina. Prendendo a prestito una metafora eraclitea: è un po' come quando ci si bagna più volte nell'acqua di un fiume, non bagnandosi mai tuttavia nella stessa acqua, bensì in un'acqua continuamente rinnovata. Per ciò si usa l'espressione sacralità del tempo: il tempo viene letteralmente sacralizzato. La concezione del tempo profano precedente, invece, dava ad intendere che non c'era niente di davvero sacro, poiché ogni singolo rito veniva ripetuto ciclicamente nello stesso e identico modo. Prima del giudeo-cristianesimo, infatti, vigeva un'indiscriminata profanazione del tempo, in quanto non vi era distinzione alcuna tra sacro e profano. Tutto prima era soltanto profano. Tutto dopo divenne sacro, ossia dopo la materializzazione sullo scacchiere della storia della poetica e rivoluzionaria figura di Cristo. Poetica perché professante un amore incondizionato. Rivoluzionaria perché fautrice della dimensione originaria che è in ognuno di noi, la cosiddetta: scintilla divina degli gnostici. A sua volta la religione giudeo-cristiana è strettamente imparentata col mito dell'eterno ritorno; difatti, numerosi riti del secondo ci dice Eliade sono sopravvissuti e si sono integrati nel primo, in un perfetto connubio sincretistico. Si veda, tra tutti, l'anno cristiano la cui ripetizione ciclica è palesata dal suo calendario liturgico: il Natale testimonia la Nascita, la Pasqua invece la Morte e successiva Resurrezione. Quindi il giudeo-cristianesimo ha conservato l'usanza dei culti precedenti di edificare il suo nuovo culto sulle antiche e già consolidate radici del precedente. Questo per non disorientare troppo i suoi credenti e fornire ad essi delle coordinate cultuali già preordinate. Proprio la ciclicità dell'anno cristiano rivela la lontana parentela del giudeo-cristianesimo con i culti delle società arcaiche legati alla rigenerazione illimitata del tempo, seppur esso ha saputo orientare il tutto in chiave prettamente escatologica/finalistica; ovvero, per i cristiani, a differenza dei pagani, ci sarà una Fine il Giorno del Giudizio a tutta la sequela di fini tronche e provvisorie fin qui succedutesi. Questa Fine richiama l'idea già enunciata da Platone nel libro decimo della Repubblica e più precisamente nel mito di Er, secondo cui: bisogna comportarsi bene in questa vita, se non si vuol affrontare successive reincarnazioni in vite più sfavorevoli. In estrema sintesi, l'idea platonica anticipatrice di quella che poi sarà anche l'idea cristiana è che presto o tardi dovremmo tutti fare i conti con la giustizia divina, che non è fallace come quella umana. Questa è anche, a dire il vero, l'unica consolazione che rimane al vecchio Jean-Jacques Rousseau, quello tanto per intenderci delle passeggiate solitarie, che si vede vittima di un complotto molto più grande della sua umana, dunque limitata, comprensione.

Nonostante l'escathon cristiana annunciante la fine della storia, il mito dell'eterno ritorno sopravvive persino nel giudeo-cristianesimo, poiché vi è un'ineludibile e intrinseca difficoltà dell'uomo a rapportarsi con l'idea della Fine, sia essa la propria o quella dell'intera umanità. Finché l'uomo sarà uomo: per ogni Fine ci sarà un nuovo Inizio. Forse è per ciò che lo scrittore aforistico tedesco Karl Kraus ripreso da Walter Benjamin nelle sue Tesi sulla storia ha scritto che: «L'origine è la meta». La vita dell'uomo arcaico è imitazione dell'archetipo 5 divino. Da un lato si deve considerare che nel suo antropomorfismo di fondo l'uomo proietta sulle divinità alcuni suoi spiccati caratteri e aspetti «umani troppo umani» direbbe Nietzsche. D'altro lato, invece, si consideri il dualismo platonico, secondo cui: la «Città interiore» 6 deve fare i conti con una esteriore. Quella interiore esiste solo nei più alti discorsi degli uomini ed è atta a perfezionare le imperfezioni di quella esteriore. Senza lo stimolo di questa «Città interiore» quella esteriore cadrebbe presto in rovina. Ecco spiegato il perché dell'utopia platonica, come di ogni altra utopia del resto, che è tendere al miglioramento incessante. Da non confondere, però, il tema del miglioramento con quello del progresso. Spesso usati come sinonimi, migliorare e progredire in realtà non lo sono affatto. Infatti si può migliorare senza per ciò progredire. Il miglioramento non coincide con il progresso se si crede nell'irripetibilità dello stato di natura rousseauiano, vale a dire: nell'età dell'oro dell'umanità secondo la mitologia greca, o dell'eden perduto secondo la religione giudaico-cristiana. Perché chi dice che le leopardiane «magnifiche sorti e progressive» siano l'unica via al miglioramento? E poi ancora, chi dice che invece del progresso, se si crede davvero nel rousseauiano stato di natura (pre-morale e pre-sociale), non sia preferibile il regresso? Regresso inteso come ritorno alle vere origini dell'uomo, quando la società non l'aveva ancora intaccato come fecero i marosi con la statua del Glauco marino. Per attuare un simile regresso c'è bisogno di una definitiva Rivoluzione, confidando nell'etimo della parola revolvere, cioè tornare indietro. E dove tornare se non in illo tempore, ovvero nel tempo dell'inizio? Ammettiamo con ciò che «l'origine è la meta» per dirlo con Karl Kraus. La meta finale diventa l'eden ritrovato, cioè riscoprire la condizione originaria. Il più terribile dei mali dell'uomo, la morte, ad esempio, secondo l'ottica del giudeo-cristianesimo non è che il triste retaggio della nostra cacciata dal giardino dell'eden. Se ritroveremo il nostro paradiso perduto ma mai dimenticato potremo riconquistare la nostra immortale condizione di beatitudine. 5 Termine derivante dal greco arché, principio, e tipos, modello. 6 Platone, Repubblica, 592 B.

4. Il tempo dell'inizio Ogni concetto umano è ispirato a un fantomatico concetto divino. L'atto di consacrazione di uno spazio, al fine di renderlo abitabile, equivale a tramutare il «caos» in «cosmos», afferma Eliade: «Gli innumerevoli gesti di consacrazione [ ] tradiscono l'ossessione del reale, la sete del primitivo per l'essere» 7. Di solito ciò che sancisce il rito della consacrazione è il sacrificio fondativo, che secondo lo studioso francese René Girard è il fondamento stesso della nostra civiltà occidentale 8. Lui è convinto che solamente con l'avvento di Gesù Cristo si è passati dalla logica della violenza vetero-testamentaria a quella dell'amore neo-testamentaria. Per ciò dovremmo convenire che Cristo stesso non volle rompere con la tradizione, ma semmai innovarla. Ciononostante gran parte dell'ebraismo non si convertì al cristianesimo e non riconobbe mai la natura divina di Cristo. Tuttavia questo non ha impedito lo stacco decisivo dal Dio ebraico violento e vendicativo al Dio cristiano amorevole e misericordioso. Il «simbolismo del centro» è la pietra angolare fondante ogni civiltà umana. Dice Eliade: Le città e i luoghi santi sono assimilati alle cime delle montagne cosmiche. Per questo Gerusalemme e Sion non sono state sommerse dal diluvio. [...] La sommità della montagna cosmica non è soltanto il punto più alto della terra, ma è anche l'ombelico della terra, il punto in cui ha avuto inizio la creazione. [ ] L'antichissima concezione del tempio come imago mundi, l'idea che il santuario riproduce il tempio nella sua essenza, si è trasmessa all'architettura sacra dell'europa cristiana: la basilica dei primi secoli della nostra èra e la cattedrale del medioevo riproducono simbolicamente la Gerusalemme celeste. 9 Oltre alle creazioni della natura, quali le montagne, e quelle dell'uomo, quali i templi antichi e moderni, tutto riporterebbe alla «simbologia del centro». Il centro infatti è il luogo d'origine del sacro. È risaputo il richiamo mistico di elevazione spirituale proprio delle montagne, dove l'uomo, scalandole, pretende se non di ascendere al divino, quanto meno di approssimarsi ad esso. Se il «centro» dunque delimita lo spazio per antonomasia del sacro, tutto ciò che è al di fuori di esso è profano, ossia quel luogo degradato dove il divino cede il passo all'umano. Si dice umano tutto ciò che è decomponibile, ovvero che è sotto la tirannia della morte e corruzione della materia. La ripetizione rituale è ciò che caratterizzava tutte le popolazioni arcaiche. V'è una sola fondazione, a dispetto di molte creazioni. Le seconde, le creazioni, non sono che ripetizioni della fondazione archetipica-originaria. La fondazione è avvenuta una volta sola e ha gettato le fondamenta, poggiate sull'abisso, dell'esistenza umana. Tale abisso è costituito dal nulla eterno della morte. È possibile 7 Eliade, M., Il mito dell'eterno ritorno, Roma, 2007, p. 20. 8 Girard, R., Il sacrificio, Milano, 2004. 9 Eliade, M., Il mito dell'eterno ritorno, Roma, 2007, pp. 24-25-26.

superare quest'ultima, secondo l'ottica fideistica-religiosa, per mezzo di un passaggio a miglior vita. Una delle religioni più nichiliste quali il buddhismo, è tutta incentrata sul principio del nulla, il nirvana, che rappresenta l'annullamento del ciclo di morti e rinascite. Pure la filosofia occidentale tramite il suo padre-fondatore, Platone, concepisce il paradiso come luogo di annullamento di ogni separazione e di pura contemplazione del bello o vero 10, vedi l'iperuranio, ossia il sopra-mondo delle idee del quale è un riflesso sbiadito il sotto-mondo delle copie: copia imperfetta della copia perfetta. Per ciò il più importante neoplatonico, Plotino, ha collocato nell'uno il vertice più alto del suo pensiero, che in età tardo-imperiale viene poi mischiato al culto di Mitra, Eliogabalo e a quello del Sol Invictus. Specie quest'ultimo ha avuto un ruolo cruciale nell'affermazione della religione cristiana in seno all'impero romano. Una coincidenza nient'affatto casuale fa cadere il giorno della nascita di Gesù proprio il 25 dicembre: giorno natale pure del Sol Invictus. Persino la stessa religione cristiana è da taluni 11 accusata di nichilismo, anche se Eliade ci vede piuttosto un superamento delle antiche concezioni legate ai miti dell'eterno ritorno, poiché in essa vi è il trionfo del tempo unico su quello ciclico. Il tema della fondazione ne ripropone uno altrettanto scottante: quello dell'inizio. Tale inizio ha strettamente a che fare con la consacrazione anche se non più di uno spazio, bensì di un dato tempo. All'origine infatti per tutti i miti e tutte le religioni vi è un tempo mitico, pre-sacrale, ovvero primadel-sacro. Poiché così come vi è originariamente uno spazio sacro altrettanto vi è un tempo sacro e questo è il tempo dell'inizio, cioè per dirlo con Eliade: Con il paradosso del rito, ogni spazio consacrato coincide con il centro del mondo, proprio come il tempo di un qualsiasi rituale coincide con il tempo mitico dell'«inizio». [ ] Un rituale qualsiasi [ ] si sviluppa non soltanto in uno spazio consacrato, cioè essenzialmente distinto dallo spazio profano, ma anche in un «tempo sacro», «in quel tempo» (in illo tempore, ab origine), cioè quando il rituale è stato compiuto per la prima volta da un dio, da un antenato o da un eroe. 12 La consacrazione è per l'immaginario mitico-religioso l'equivalente della distinzione per quello filosofico. Infatti si consacra per distinguere, ossia separare/discernere, il sacro dal profano. Gli uomini sin dalla notte dei tempi non hanno fatto che ripetere i loro atti o gesti rituali ispirandosi a presunti «modelli divini». La religione giudaico-cristiana, ad esempio, prevede il riposo del «settimo giorno» poiché in tale giorno il suo Dio si è riposato dopo l'atto della creazione. Lo stesso 10 Per la filosofia platonica i concetti di bello e vero sono pressoché sinonimi. 11 Si veda: Dostoevskij, la leggenda del Grande Inquisitore contenuta ne I fratelli Karamazov. 12 Eliade, M., Il mito dell'eterno ritorno, Roma, 2007, p. 29.

discorso vale per i seguaci di Dioniso 13, che nel ripetere ritualmente i riti orgiastici non fanno che commemorare le gesta mitiche ossia risalenti al mito del loro dio; vale altrettanto per il rito del matrimonio, che ha un corrispondente modello divino nella ierogamia 14, ovvero «l'unione tra il cielo e la terra» 15. Dal cielo infatti proviene il nutrimento, la pioggia, necessario per fertilizzare la terra. Il che è precisamente quanto avviene nell'atto amoroso fra l'uomo e la donna, laddove il primo simboleggia appunto il cielo fertilizzante e la donna invece la terra gravida. Il matrimonio fra Didone ed Enea, raccontatoci da Virgilio nell'eneide, con l'abbraccio dei due novelli sposi simboleggia la congiunzione degli elementi dispensatori di vita. Per ciò la loro unione viene celebrata in mezzo a una pioggia battente che ha per scopo l'adempimento dell'inseminazione della terra. Altri esempi di questo tipo pullulano nella letteratura occidentale, Eliade ci porta quelli di Demetra e Giasone unitisi in primavera, ossia proprio nel momento dell'anno in cui la terra è fresca di semina. Un dato rilevante dimostra come soprattutto nel centro-nord Europa, fino a non molto tempo fa, era frequente l'«unione simbolica delle coppie nei campi» 16 ; altrettanto avveniva in Cina. Quest'usanza dunque era comune sia all'occidente che all'oriente, e di conseguenza a tutti i culti. Tant'è che Eliade afferma: «L'assimilazione dell'atto sessuale e del lavoro dei campi è frequente in numerose culture» 17. In sostanza: sia i riti orgiastici che matrimoniali c'insegnano che l'intera vita umana è poggiata su basi extra-umane. 5. Ridiventare bambini Ripetere un gesto archetipico vuol dire riattualizzarlo, renderlo di nuovo attuale. Fa parte di questo processo di «riattualizzazione» il ripetersi delle guerre. Esse sono evidentemente fondate su motivi irrazionali, altrimenti sarebbero inspiegabili le carneficine che ne derivano. Quindi, le guerre e non solo anche i duelli o le edificazioni hanno una precisa origine rituale, il cui motivo ispiratore è riattualizzare «quel» tempo mitico quando tutto ha avuto inizio. Lo studioso di religioni Georges Dumézil, nel suo Gli Dèi dei Germani, ha gettato luce sull'origine archetipico-divina dei conflitti umani 18. Chiarificatore è l'esempio della religione guerresca dei vichinghi, che si origina dallo scontro epico fra due schiere di divinità: gli Dèi Asi e i Vani. Nell'ottica di questa mitologia religiosa che vede nella guerra il suo fulcro costitutivo è spiegabile la notevole bellicolisità che ha 13 Otto, W.-F., Dioniso, Genova, 2006. 14 Tali unioni prendono il nome dal termine greco hieros gamos, che significa matrimonio sacro. 15 Eliade, M., Il mito dell'eterno ritorno, Roma, 2007, p. 32. 16 Eliade, M., Il mito dell'eterno ritorno, Roma, 2007, p. 33. 17 Eliade, M., Il mito dell'eterno ritorno, Roma, 2007, p.34. 18 Dumézil, G., Gli Dèi dei Germani, Milano, 1991.

contraddistinto durante tutto l'arco della storia le popolazioni germaniche del centro-nord europeo. Del resto, se il loro orizzonte mitico-religioso traeva spunto da combattimenti incessanti e se gli stessi vichinghi s'immaginavano il loro paradiso come un luogo dove ci si divideva fra due occupazioni soltanto, banchettare e guerreggiare, non si poteva pretendere che essi sviluppassero un'indole pacifica. La guerra è inscritta profondamente nel DNA di queste popolazioni, che hanno mantenuto questa loro peculiarità fino in epoca recente. Non è un caso, infatti, che il degenerativo e drammatico fenomeno del nazionalsocialismo si sia originato proprio in Germania e non altrove. Con ciò non si vuol insinuare alcunché di capzioso, bensì constatare un'evidenza, con tutto il carico di responsabilità che ne consegue. Il detto eracliteo secondo cui «il carattere è il destino di un uomo», a quanto pare si può estendere anche a un popolo al cui carattere, spesso e volentieri, coincide nel bene e nel male un destino. Tuttavia, ponendo il freno a un certo fatalismo di circostanza, che non si vuol qui minimamente lasciar passare, è pur vero che conoscendo il nostro carattere possiamo decidere di cambiare il nostro destino. Altrimenti non avrebbe più senso la logica del libero arbitrio, che si deve preferire per il nostro bene a quella della predestinazione. Poiché se niente può essere cambiato, niente avrebbe più senso. Laddove, invece, proprio il senso è il tessuto connettivo delle nostre esistenze. E appunto trovare un senso è lo scopo più alto e nobile dell'esistenza umana. Conoscere le forze soverchianti che ci schiacciano, non vuol dire semplicemente arrendersi ad esse. L'amor fati è la scelta più avvilente che una persona possa fare, sia dal punto di vista pratico che teoretico. Affidarsi ciecamente al detto orientale secondo il quale «non importa a che ora ci si alzi al mattino tanto il nostro destino si alza un'ora prima di noi» è assurdo quanto da vili. Magari è inutile tentare di cambiare le sorti della tela della nostra esistenza già decise da Àtropo, una delle tre Moire secondo la mitologia greca, le altre due sono Clòto e Làchesi. Ma tentare è ciò che trasforma le nostre semplici vite in: vite eroiche... A tal proposito, ci viene in aiuto la suddetta mitologia, con l'esempio edificante dei Titani, i figli ribelli degli Dèi, i quali tentarono di spodestare i loro padri dall'olimpo, malgrado le loro speranze di riuscita si approssimassero allo zero. Nel periodo romantico furono in molti a rivalutare la leggenda dei Titani e da ciò in letteratura derivò il termine titanico, per denotare quelle imprese che, pur perse in partenza, vale la pena combattere. Certo, si obietterà su che senso abbia conseguire tante vittorie di Pirro quando si è destinati a perdere l'ultima battaglia, quella decisiva, riguardante la nostra sopravvivenza. A quest'obiezione mi sento di rispondere, dicendo che forse il senso sta appunto nel tentare l'intentabile, la scalata all'olimpo, affinché non sia mai detta l'ultima parola e magari un giorno si possa trionfare come nelle nostre più rosee utopie, o quanto meno si possa dire il giorno della resa: