SAN MARTINO di Giosue Carducci. Contributo didattico alla lettura di un testo poetico.



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Transcript:

Mariano FRESTA SAN MARTINO di Giosue Carducci Contributo didattico alla lettura di un testo poetico. Premessa Questa notissima poesiola del Carducci ha, didatticamente, una storia lunga: credo, infatti, che generazioni e generazioni di scolari elementari e medi nell'ultimo secolo l'hanno se non imparata a memoria almeno letta e commentata con gli insegnanti. E' così diventata patrimonio di moltissimi ed è facile rintracciarla nella memoria di coloro che hanno frequentato la scuola dell'obbligo anche tanto tempo fa. Càpita, talora, di sentirla ripetere in luoghi poco scolastici, come è successo a me recentemente: in una giornata nebbiosa, al mercato settimanale, due bancarellaie, ispirandosi al clima, l'andavano recitando un verso per una. La breve lirica carducciana, dunque, al contrario di ciò che spesso succede alle cose che si studiano a scuola, ha avuto e continua ad avere successo. Le sue immagini fresche ed immediate ed il suo ritmo musicale si imprimono nella mente e nell'orecchio dei lettori. Ritengo, tuttavia, che questa lirica sia stata e continua ad essere appresa solo a livello di denotazione; ci si ferma, cioè, al solo aspetto bozzettistico: ci si limita a "sentire" il suono di quell'aggettivo «irti», ma non ci si sofferma sul suo valore metaforico; si sente l'odore aspro del vino, ma solo inconsciamente si avverte che esso significa qualcosa di più del suo senso letterale. E ciò accade perché la lettura di San Martino è quasi sempre delegata alla scuola dell'obbligo, dove, nella stragrande maggioranza dei casi, è sottoposta ad una interpretazione semplicemente denotativa (nelle scuole superiori lo studio privilegia altri componimenti del Carducci, ritenuti più significativi, e quando si ricorre a San Martino o a Pianto antico, il tipo di commento non cambia). Credo, invece, che attraverso un'analisi più attenta e più profonda, mutuata dalla semiologia e dalla grammatica testuale, se ne possa dare un'altra lettura e dimostrare che si tratta non di una poesiola per soli ragazzini, ma di un componimento complesso e di felice esito poetico. Da far leggere, quindi, anche nelle scuole superiori, senza tuttavia smettere di farla conoscere anche agli alunni della scuola dell'obbligo, se pure con tattiche e strategie diverse da quelle tradizionali.

Il testo La nebbia agli irti colli Gira sui ceppi accesi piovigginando sale lo spiedo scoppiettando, e sotto il maestrale sta il cacciator fischiando urla e biancheggia il mar. sull'uscio a rimirar Ma per le vie del borgo tra le rossastre nubi da il ribollir de' tini stormi d' uccelli neri va l'aspro odor de' vini com' esuli pensieri l'animo a rallegrar. nel vespero migrar. La parafrasi Prima di passare ad un esame dettagliato della lirica, conviene farne la parafrasi, perché non si possono cogliere i significati connotativi se non si è compreso quello denotativo. E' pur vero che il significato più profondo si consegue dopo aver esperito tutte le analisi, ma è altrettanto corretto partire già con un'idea abbastanza precisa dei contenuti del componimento. Per questo, sarebbe opportuno, a livello didattico, ritornare, esaurita ogni analisi, a rivedere la parafrasi, a correggere, eventualmente, o a precisare l'interpretazione precedente. Il componimento di Carducci appare come un brano la cui comprensione è immediata e facile; ed in effetti per molti aspetti lo è; ma, come l'analisi successiva dimostrerà, ci sono alcuni elementi che non possono essere compresi a prima lettura. Per questo ritengo che prima di avviarci alla riflessione critica occorra presentare la trasposizione in prosa dei versi carducciani: «La nebbia, sciogliendosi in una leggera pioggerella, risale per le colline rese quasi ispide dalle piante ormai prive di fogliame e, spinto dal vento freddo di nordovest, il mare rumoreggia frangendosi sulla scogliera, con onde dalla bianca spuma. Ma per le vie del piccolo paese contadino si diffonde, dai tini dove fermenta il mosto, l odore aspro del vino nuovo che rallegra i cuori. E intanto sulla brace del focolare scoppiettano le gocce di grasso che cadono dallo spiedo su cui cuoce la cacciagione; e il cacciatore se ne sta sull'uscio a guardare stormi di uccelli che, a contrasto con le rosse nubi del tramonto, sembrano neri, come quei pensieri che si vorrebbe mandar via lontano». La struttura metrica Uno dei motivi della facilità di apprendimento mnemonico di questa lirica e della permanenza nella memoria di molti di coloro che l'hanno studiata dipende certamente dalla sua struttura metrica e dal suo andamento ritmico. Si tratta di versi settenari, degli stessi versi, cioè, che molto spesso si incontrano nelle filastrocche e nelle conte infantili. E' pur vero che qualcuno la indica come una "anacreontica", ma in effetti, a parte la divisione in quattro strofe e la disposizione delle rime, l'impressione è che ci si trovi di fronte ad un piccolo componimento esemplato sulle filastrocche infantili. Tra l'altro, non dimentichiamo che già il Carducci, nel 1871, aveva sperimentato questo andamento ritmico-melodico, a proposito di Pianto antico, nel quale il doloroso ricordo del figlio morto si esprimeva attraverso una struttura fortemente ancorata alle modalità delle rime infantili: la stessa con la quale si presenta San Martino, composta dodici anni dopo, nel 1883. La lirica è composta da quattro quartine di settenari, i primi tre di ogni strofa sono piani, l'ultimo è tronco; in ogni quartina il primo verso è libero di rima, il secondo e il terzo rimano tra loro; il quarto verso rima con gli ultimi versi di ogni strofa. Lo schema delle

rime è dunque ABBC. Il fatto che l'ultimo verso di ogni strofa ha la stessa rima crea come una melodia di sottofondo che tende a tenere unita, musicalmente, tutta la breve composizione. E' questa una caratteristica che era già stata utilizzata in alcuni Canti dal Leopardi (per es. Il canto notturno di un pastore errante dell'asia). Oltre alla rima, l'altro fattore di musicalità della lirica è dato dalla disposizione degli accenti nei settenari: tre versi piani e uno tronco sono tipici delle ariette metastasiane e delle canzonette settecentesche; si tratta di uno schema ritmico-musicale piuttosto semplice ed orecchiabile come, appunto, quello delle rime e delle conte infantili. Ma il Carducci è più smaliziato degli autori settecenteschi e gioca con grande accortezza e perizia con gli spostamenti degli accenti interni ai versi. Nella prima quartina, il primo accento si incontra sulla seconda sillaba nei primi tre versi (la nébbia; piovìggi...; e sòtto) e sulla prima nel quarto (ùrla): quest'ultimo, insieme con il significato del verbo e con il suono /u /, che è l'unico di tutta la strofa, sottolinea la violenza con cui ci si mostra la furia del mare nei mesi invernali. Lo stesso schema degli accenti si ripete nella seconda strofa: qui è la parola animo che è sottolineata, perché è l'animo il destinatario dell'allegrezza che dà l'odore del vino nuovo. Nella terza quartina, è la prima sillaba del primo verso ad attirare la nostra attenzione: né potrebbe essere altrimenti, visto che è proprio lo spiedo a compiere l'azione più importante di tutta la scena. Poi si susseguono altri quattro versi che hanno il primo accento sulla seconda sillaba, per arrivare a stòrmi, che interrompe la ripetitività del ritmo e attira la nostra attenzione su questi uccelli-pensieri che si vorrebbero mandar via. Lo strato fonologico E' ormai quasi scontato che la specificità del linguaggio poetico è dovuta al ruolo che svolge il segno e soprattutto uno dei suoi due elementi costitutivi, il significante. Questo, infatti, oltre a rimandare al significato, assume una propria autonomia, attuando una relazione con il significato diversa da quella che si ha nel linguaggio non poetico. Così, nel linguaggio comune, i suoni di / ebbia/, / iggi /, / eggia / non hanno particolare funzione; ma nella prima strofa di San Martino diventano onomatopeici e ci fanno sentire l'acquerugiola che lievemente scende sul paesaggio e ci fanno vedere il mare frangersi sulla costa. Allo stesso modo i suoni / bor/, /ri /, / ir/, / spro/, /or/, /ra /, / ar / costituiscono la "melodia" della seconda quartina, sostenuta dal suono della a di ogni sillaba iniziale di verso (Ma, da, va, l'a-). Interessante la parola rallegrar, che è quasi un palindromo ("rargellar"). L'onomatopea domina la terza strofa: i suoni / ppi/, /cce/, /spied/, /scoppie/, / ttando/, /fischia/, /uscio/ servono a rappresentare i rumori che provengono dal focolare e lo zufolare soprappensiero del cacciatore. Il colore caratterizza, invece, l'ultima strofa, non tanto per gli aggettivi rossastre e neri, quanto per la presenza di vocali scure come la /o/ e la /u/ (rossastre, nubi, stormi, uccelli, esuli, vespero) che indicano un sentimento di tristezza, appena temperato da un lieve speranza che si manifesta nelle vocali di suono chiaro e nel rosso del tramonto ("rosso di sera, bel tempo si spera"). L'analisi quantitativa Fare l'analisi quantitativa di un testo può sembrare un esercizio inutile ed arido; ma, visto che il significato complessivo di un testo dipende sempre dal numero e dalla specie di sostantivi, di verbi e di aggettivi che contiene, diventa opportuno talora utilizzare anche questo strumento ermeneutico. Didatticamente esso, al primo impatto (ma anche successivamente), può risultare noioso; per questo motivo, forse, è bene usarlo quando si è certi che ci saranno degli utili risultati. Ma questa è un'avvertenza che vale per qualsiasi tipo di analisi; non credo, infatti, che un'analisi soltanto contenutistica della Pioggia nel pineto o della Sera fiesolana di D'Annunzio possa dare risultati soddisfacenti.

Sostantivi molti, aggettivi pochi, due congiunzioni L'analisi quantitativa ci dice che nella lirica i sostantivi sono diciannove, i verbi tredici (di cui uno, ribollir, sostantivato), gli aggettivi sei. Ci sono poi articoli, preposizioni e due congiunzioni. Partiamo da queste: la prima è la e del v.4 della prima strofa; niente di particolare, perché si tratta di una semplice coordinativa copulativa che lega insieme due verbi dello stesso soggetto, urla e biancheggia. Molto più importante è, invece, il Ma del primo verso della seconda quartina: questa avversativa non si limita a contrapporre grammaticalmente una proposizione ad un'altra; essa ha una valenza maggiore, in quanto contrappone la tristezza ed il pessimismo, che impregnano la descrizione del paesaggio invernale della prima strofa, a quel motivo di speranza a cui invitano la vita del villaggio, i ceppi accesi del focolare, il colore del tramonto. La presenza di molti sostantivi e di pochi aggettivi è di per sé significativa. L'aggettivo viene usato per conferire ad un sostantivo un colore, un attributo, un valore che lo stemperino o lo rafforzino, che lo modifichino, insomma; il sostantivo da solo definisce e puntualizza, ritrae l'oggetto così com'è. In San Martino la relativa abbondanza dei sostantivi è funzionale ad una descrizione referenziale del paesaggio. L'insieme deve dare il risultato di un bozzetto, di un arazzo in cui le figure umane e la natura si sono fissate per sempre. Per questo motivo gli aggettivi sono appena sei; quattro svolgono la normale funzione di tutti gli aggettivi qualificativi: l'odore del vino novello non può che essere "aspro", i ceppi nel focolare devono essere "accesi" per cuocere la carne, oltre che per riscaldare l'ambiente; le nubi del tramonto sono "rossastre" ed, infine, gli uccelli in controluce appaiono "neri". Anche questi aggettivi sono dunque da considerarsi di livello "referenziale" e rafforzano la sensazione di bozzetto di tutta la composizione. Da notare che le rossastre nubi e gli stormi di uccelli neri danno luogo ad un chiasmo. Gli "irti colli", però, e gli "esuli pensieri" non sono così semplici da spiegare. Certamente essi corrispondono ancora una volta al progetto del poeta di realizzare un quadro al di fuori del tempo, senza tuttavia ricorrere alla referenzialità che, tra l'altro, in questo caso avrebbe danneggiato quella sintesi che è la caratteristica e la forza della lirica. Il poeta è, quindi, ricorso alla metafora: un aggettivo usato traslatamente può avere la stessa energia descrittiva di un insieme di parole atto a definire un elemento od un fenomeno. Così è per irti: le piante ormai privi di fogliame innalzano al cielo i loro rami nudi facendo apparire le colline come corpi ricoperti di spini, irti appunto. "Esule" significa "chi va o è in esilio"; non è il caso, dunque dei "pensieri" carducciani. Qui la metafora è ancora più ardita, bisogna attuare qualche passaggio in più per poter arrivare al significato che il poeta ha voluto dare a questo aggettivo. Qualcuno pensa che possa essere interpretato nel senso di "tristi", perché tali sono i pensieri di un esiliato; in questo modo negli ultimi tre versi il poeta esprimerebbe il desiderio di vedere volare via, lontano, come gli uccelli, i suoi tetri pensieri. Altri, invece, propongono di leggere "esuli" nel senso di "sperduti, che vagano lontano e si perdono nell'infinito". Molto probabilmente "esuli" racchiude tutti e due i significati e forse qualche altro ancora che ci sfugge e che ci può essere suggerito dal suo ritmo sdrucciolo e dal quel cupo ed angoscioso suono della /u/ della seconda sillaba. I tempi verbali La presenza così massiccia di voci verbali non fa che accentuare quel senso di bozzetto che ispira San Martino. Il modo più importante è infatti quello dell'indicativo e il solo tempo usato è quello del presente. Ma l'azione non appartiene al nostro oggi contempora-

neo, perché essa si svolge in un presente metatemporale, così come le azioni descritte nei proverbi e nelle frasi sentenziose, valide in ogni tempo e in ogni stagione. Per sua definizione il modo infinito non indica nessuna determinazione; l'uso che il Carducci ne fa è del tutto consequenziale alla sua idea di costruire un quadretto senza storia e senza movimento (l'unica cosa che si muove, che "va", è l'odore del vino; gli stessi uccelli sono raffigurati nel loro "migrar" indefinito, così che noi li vediamo come puntini neri, immobili nel cielo). I tre casi di gerundio presente non introducono una proposizione subordinata; al massimo potrebbero indicare un'azione che si compie contemporaneamente ad un'altra, potrebbero cioè introdurre una temporale. Ma anche se così fosse, questo gerundio potrebbe essere inteso come un participio presente, come un aggettivo che definisce la qualità di quell'oggetto o di quella persona nel momento stesso in cui si rappresenta. Si torna, cioè, a ribadire ancora una volta la staticità di un paesaggio e di sentimenti fissati una volta per sempre. La rappresentazione dello spazio Il paesaggio che ci appare nella prima quartina presuppone che l'osservatore (il poeta, ma anche il lettore) si trovi su un punto alto e panoramico, da cui l'occhio possa spaziare in lungo ed in largo. Da qui, seppure velate dalla nebbia, ci appaiono le colline maremmane che digradano verso il mare che, laggiù, infuria e rumoreggia sotto la spinta del maestrale. Nel cinema, questo modo di rappresentare il paesaggio si chiama "panoramica" ed è eseguito con un obiettivo grandangolare. Poi, la visione si restringe: dalla panoramica si passa al "campo lungo"; tra la nebbia appare il borgo, con le sue strade percorse da gente che sembra, nonostante la stagione, allegra. Il punto di osservazione è cambiato, non è più un posto panoramico; forse è una finestra alta dalla quale, oltre che osservare la vita del villaggio, si può sentire l'odore del mosto che fermenta nelle cantine. L'inquadratura successiva è fatta con uno zoom; l'obiettivo riprende gli interni di una casa: è la spaziosa cucina contadina in cui il protagonista indiscusso è il focolare. L'occhio è attratto dallo spiedo che gira lentamente: si può anche sentire lo sfrigolio del grasso che cade sulle braci. Poi dal focolare si passa ad inquadrare il cacciatore, che se ne sta sull'uscio. La macchina da presa, seguendo il suo sguardo, si sposta dall'uscio verso il cielo, dove c'è una fuga di uccelli che si stagliano neri contro le rosse nubi del tramonto. Così, dal paesaggio invernale, uggioso e triste, posto nella parte più bassa dello spazio, si è passati al borgo e alla casa, collocati sullo stesso piano dell'osservatore. Qui l'animo si è alquanto rinfrancato, alla constatazione che la vita continua a svolgersi nonostante la natura ostile, trovando anche momenti di serenità. Poi si passa al calore della casa; si può quindi guardare nella parte alta dello spazio, verso il cielo, dove si possono mandar via i pensieri tristi e dove le nubi si colorano di un lieve ottimismo. Conclusioni Dante Isella, in un saggio intitolato Due lucciole per San Martino, apparso in «Strumenti critici» del febbraio 1967, ha dimostrato come l'antecedente di questa breve lirica si trovi in una poesia di Ippolito Nievo pubblicata nel 1858. Ad essere onesti, bisogna riconoscere che molti elementi lessicali (nebbia, colli, mare, pensieri, uccelli, vespero, rosseggiare, ecc.) e alcune immagini sono comuni ai due brani e siccome quello del Nievo apparve venticinque anni prima, è chiaro che Carducci lo riprese e lo fece suo. Si tratta, quindi di un «alibi» letterario che, secondo Angelo Marchese (L'officina della poesia, p. 202) «non può non condizionare il giudizio troppo positivo espresso sinora dalla critica a proposito di questa celebrata poesia». Marchese ha ragione, ma il San Martino carducciano rimane lo

stesso di molto superiore alla lirica del Nievo. Semmai le notizie forniteci dall'isella ci possono suggerire un altro percorso didattico, che ci porta a scoprire gli intrecci e le allusioni che si susseguono da un poeta all'altro e che la poesia può anche nascere senza spontaneità e originalità di sentimento, magari soltanto riuscendo a dare sintesi e unità ad immagini e sentimenti che qualcun altro aveva precedentemente espressi in maniera vaga e dispersiva. Note di bibliografia G. CARDUCCI, Tutte le poesie, Milano, 1964 M. FUBINI, Metrica e poesia, Milano, 1962. G.L. BECCARIA, L'autonomia del significante, Torino, 1975. A. MARCHESE, L'officina della poesia, Milano, 1985 Montepulciano, 23-27 dicembre 1992 _