Centro Militare di Studi Strategici Ricerca 2010



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Centro Militare di Studi Strategici Ricerca 2010 IL RUOLO DEGLI INVESTIMENTI DIRETTI ESTERI CINESI. IMPLICAZIONI IN AMBITO SICUREZZA, CONSEGUENZE STRATEGICHE E POLITICHE, POSSIBILITA DI SVILUPPO ECONOMICO Direttore della Ricerca Dott. Nunziante MASTROLIA

Indice Executive Summary... 3 Introduzione... 5 Gli investimenti diretti esteri: qualche definizione... 11 Consistenza ed evoluzione del fenomeno... 14 I settori nei quali Pechino investe... 20 La dimensione geografica... 22 Chi investe?... 45 Conclusioni... 56

Executive Summary Obiettivo dello studio è una analisi delle opportunità o minacce legate al fenomeno degli investimenti diretti esteri cinesi. Sulla base delle osservazioni e delle analisi condotte in questo studio, pare lecito poter affermare che il secolo cinese non è ancora alle porte. La forza con cui Pechino, infatti, si è lanciata sul mercato internazionale, per la prima volta nella sua storia, come investitore, deriva dalle difficoltà che gravano sulla Cina. I numeri dei suoi investimenti sono ancora relativamente piccoli, ma certo la progressione è impressionante Materie prime, energia, servizi finanziari per poter accompagnare le proprie piccole e medie imprese nella conquista di mercati internazionali, tecnologie da poter impiegare in patria, sono lo specchio delle difficoltà interne. In secondo luogo Pechino deve riuscire in qualche modo a liberarsi dalla trappola del dollaro in cui si è cacciata: le sue enormi riserve valutarie rischiano di deprezzarsi considerevolmente al calare del valore del dollaro e in caso di inflazione. Per fare ciò, Pechino non può che servirsi delle sue aziende di Stato, che tuttavia, proprio per questa loro natura, incontrano costantemente difficoltà nel portare a compimento il compito loro assegnato: devono muoversi con cautela, visto che nei paesi in cui operano c'è sempre il rischio, soprattutto nei paesi sviluppati, che venga invocata una protezione contro la minaccia cinese incombente. Se così stanno le cose, sembra possibile affermare che è vero che le imprese di Stato cinese, che, come si è cercato di mettere in evidenza nel seguente studio, guidano la campagna di investimenti all'estero, sono alle dirette dipendenze del potere politico e pertanto soggiacciono a una policy governativa, tuttavia questo non significa che tale policy abbia come obiettivo quello di conquistare posizioni economiche tali da poter condizionare strategicamente e politicamente i paesi in cui investe. Detto in altre parole Pechino non investe per poter minacciare l'occidente. Pertanto non sarebbe molto oculato, per i paesi sviluppati, chiudere completamente le porte a tali investimenti, d'altro canto i settori in cui gli investimenti cinesi possono arrecare un danno strategico al paese ospitante, sono relativamente pochi e possono essere controllati. Inoltre, come scrive l'economist, se le compagnie cinesi vogliono avere successo all'estero nelle fasi post acquisizione will have to adapt. That means hiring local managers, investing in local research and placating local concerns for example by listing

subsidiaries locally. Indian and Brazilian firms have an advantage abroad thanks to their private-sector DNA and more open cultures.. Il che significa che devono lasciarsi ulteriormente contaminare dal modello capitalistico occidentale (che fa tutt'uno è bene ricordarlo con democrazia e nomocrazia), il che inoltre significa che più entrano nel mercato internazionale, più potrebbero potrebbero essere costrette a svincolarsi dal controllo diretto dello Stato. In conclusione si può dire che gli investimenti diretti esteri cinesi, condotti dalle imprese di Stato, potrebbero essere una minaccia se puntassero all'acquisizione di un controllo di assets strategici, ma tale minaccia può essere gestita, sono invece una opportunità economica utile a dare linfa finanziaria ad un occidente dove un modello di capitalismo, il paradigma hayekiano, è entrato in crisi, ma non, per fortuna, il capitalismo né lo stesso occidente.

Introduzione La gravità delle crisi economica che da ormai due anni sta colpendo il mondo non consiste solo nei danni economici, rilevanti, che essa sta arrecando. Ha anche un risvolto più pernicioso e più preoccupate. Essa, infatti, rappresenta la fine di un modello di sviluppo: il neoliberismo (o paradigma hayekiano). Il crollo di questo modello tra trascinando con sé quelle che fino a qualche anno fa erano l'orgoglio dell'occidente che aveva trionfato nella Guerra Fredda: il primato della legge, la democrazia, il capitalismo e l'economia di mercato. La crisi ha rivelato le fragilità del sistema economico americano ed ha evidenziato le capacità del modello di governo cinese nell'affrontare tempestivamente situazioni impreviste e difficili. 1 Gli Stati Uniti, questa volta, si son presi la febbre, a Pechino per ora neanche uno starnuto2. Questo è un dato di fatto. L'elemento singolare tuttavia è che, in 1 L. Napoleoni, Maonomics, Rizzoli, Milano, 2010 2 I dubbi sulla tenuta della salute economica del paese, tuttavia, si addensano. L'inflazione ritorna a preoccupare sfiorando la soglia di sicurezza posta dal governo al 3%. Ma soprattutto cresce il timore per un collasso del settore immobiliare: anzi per Kenneth Rogoff, economista di Harvard, è solo una questione di tempo: stiamo per assistere al collasso nel settore immobiliare [cinese] e questo colpirà il sistema bancario. I prezzi delle case sono saliti alle stelle, a Pechino un appartamento costa tremila euro al metro quadro, quanto il reddito medio annuale. Si stima che siano sessantacinque milioni che case rimaste senza acquirente Il timore è che la bolla possa sgonfiarsi improvvisamente affossando così il settore dell'edilizia che assorbe in massima parte la manodopera non specializzata proveniente dalle campagne, di qui il divieto di acquistare seconde case e la proposta di una tassa sugli immobili, per frenare la speculazione immobiliare. Si teme, in altre parole, uno scenario americano per Pechino: default bancari, credit crunch e via discorrendo. Inoltre, il mondo del lavoro cinese è in subbuglio. Si sciopera per ottenere salari migliori, migliori condizioni sul posto di lavoro, nel complesso un trattamento più umano e dignitoso. Alla Foxcom, azienda che produce componenti elettroniche per i maggiori marchi globali del settore, tra cui la Apple, per rivendicare aumenti salariali e più umane condizioni di lavoro non si è trovato altro mezzo che il suicidio e non per una particolare propensione asiatica al togliersi la vita, ma perché questa diventa l unica via di fuga quando tutte le possibilità di espressione di dissenso e disagio sono ostruite. Non può essere una forma di protesta, ma il rifiuto di un molto dal quale non si può evadere se non con la morte. In una prima fase l'azienda è ricorsa a metodi abbastanza ridicoli per provare a mettere un freno al fenomeno: grate alle finestre, reti di protezione, l'assunzione solo a chi sottoscriveva un impegno formale a non suicidarsi, spettacoli ed intrattenimento con clown per tirare su il morale dei lavoratori. Ma ovviamente nulla è servito. Solo successivamente la direzione aziendale ha deciso di aumentare i salari di circa il 30%. Così anche nelle altre imprese (Honda, Hyundai, Kentucky Fried Chicken e Toyota) in cui si sono verificati gli scioperi si è giunti ad aumenti salariali fino al 60%. Il governo è dalla parte dei lavoratori. Il premier Wen Jiabao li ha definiti figli della nazione, che con il loro sangue e sudore stanno costruendo il Paese e vanno trattati membri della nostra stessa famiglia. Lo stesso Quotidiano del Popolo è intervenuto a più riprese schierandosi al fianco degli scioperanti per chiedere salari migliori: le paghe dei lavoratori devono essere aumentate per proteggere la stabilità della nazione. La motivazione di tale sponsorship politica è duplice: da una parte gli incrementi salariali hanno come effetto quello di aumentare il potere d'acquisto dei lavoratori, cosa perfettamente il linea con la decisione di far correre l'economia sulla base dei consumi interni. Dall'altra perchè il partito comunque ha timore che il malcontento possa esplodere. In questo doppio senso va letta anche la decisione di introdurre, per ora solo in alcune aree del Paese, il salario minimo, prima nell'area di Pechino dove si passa da da 800 a 960 yuan (quasi 96 euro). L enorme provincia centrale dell Henan che ospita almeno 100 milioni di residenti ha aumentato le paghe del 33%, arrivando fino a 600 yuan. Si pone tuttavia un problema, chi ha diritto al salario minimo? Solo i residenti. La questione, infatti, si lega legata a filo doppio al fenomeno dei migranti. Nessuno ne conosce il numero con esattezza, ma si stima che possano essere oltre i

un'occidente economicamente ingolfato e politicamente disorientato, alla ricerca spasmodica di un modo per uscire dalla crisi, si sta insinuando il dubbio che ci sia una diretta connessione tra la salute economica cinese e il suo impianto politico-istituzionale e si inizia a guardare all'esperienza cinese quasi come il nuovo paradigma3. La diagnosi è più o meno questa: l'euforia della vittoria del comunismo ha accecato l'occidente al punto da convincerlo che (il modello) che possiede è già perfetto 4 mentre a Pechino dopo il 1989 ( ) si è continuato a studiare il marxismo insieme a tutte le altre teorie economiche. Ebbene, questo lavoro ha portato alla creazione di un modello nuovo, moderno, improntato al più severo pragmatismo. ( ) Il capitalismo made in China usa duecento milioni (E. Izraelewicz, La Sfida, 2005) - una migrazione che per numero non ha precedenti nella storia universale - i lavoratori che dalle zone interne del Paese si spostano sulla costa, o che comunque lasciano il proprio luogo di residenza per cercare lavoro, entrando così in una sorta di anonimato giuridico. E' la questione dell' hukou, un sistema di registrazione familiare, introdotto da Mao nel 1958 che lega la persona al luogo in cui è nata impedendole di trasferirsi altrove. Fino all'inizio delle riforme degli anni Ottanta era impossibile per un contadino trasferirsi altrove, era legato alla terra come un servo della gleba, se riusciva a raggiungere un centro urbano correva il rischio di essere arrestato e rispedito al suo villaggio con il foglio di via. Negli ultimi anni le autorità hanno deciso di chiudere tutti e due gli occhi e circa duecento milioni di abitanti delle campagne si sono riversati nelle città dove le nuove industrie nascenti e il boom edilizio richiedono manodopera. Ma il sistema di registrazione familiare, l'hukou, è ancora in vigore e condanna gli immigrati alla discriminazione e all'arbitrio dei loro datori di lavoro che spesso li pagano quando e se ne hanno voglia. Le richieste di una riforma in senso occidentale (l'introduzione di una carta di identità) si vanno intensificando eppure nulla pare muoversi. Il controllo delle grandi masse è una preoccupazione millenaria del potere politico in Cina, per questo è ben difficile che una riforma possa vedere presto la luce. Più conveniente politicamente ed economicamente portare lo sviluppo nelle zone interne del Paese. E' qui infatti che molte delle aziende, tra cui la Foxcom, oltre ad aumentare i salari per venire incontro alle richieste dei lavoratori, stanno iniziando anche a delocalizzare parte delle loro attività nelle zone interne e nel Nord Ovest. Una decisione che ricalca la volontà del governo di armonizzare lo sviluppo cinese, promuovendo anche la crescita delle aree interne (si parla di investimenti in infrastrutture per cento miliardi di dollari). Eppure sino oggi, pare, che poco o nulla sia stato fatto. Tuttavia ora riequilibrare lo sviluppo interno, limitare le fluttuazioni dell'immensa massa di lavoratori migranti, per evitare che una vera e propria bomba sociale si inneschi, diventano delle necessità non più dilazionabili. Perché? Perché a Pechino hanno pianificato XI piano quinquennale di scollegare il grosso della crescita economica dalle esportazioni sui mercati internazionali, per fare affidarsi gradualmente ai consumi interni. Tale intento è stato accelerato dal calo della domanda delle voracissime bocche americane ed europee. La leadership pare consapevole del fatto che tale decoupling potrebbe comportare un costo altissimo, nella fase di transizione, in termini di disoccupazione di una manodopera non specializzata e a basso costo: in pratica grossa parte dei settori che per trent anni hai trainato la crescita cinese. Inoltre, a Pechino sanno che non possono trasformare dall oggi al domani le braccia a basso costo in bocche voraci. A ciò si aggiunga quello che preoccupa maggiormente i leader: la disoccupazione intellettuale, la crisi impedirà alla stragrande maggioranza di laureati e diplomati di trovare posti di lavoro all'altezza delle proprie aspettative. La paura è che questa intellighenzia déclassé, quanto meno nelle aspettative, possa guidare una protesta e fare da detonatore al malcontento della massa di lavoratori semplici espulsi dal mercato del lavoro. Negli anni 70, la soluzione di Mao fu di spedire i laureati nelle campagne; Hu Jintao, invece, ha deciso di parcheggiarli nell impresa come stagisti. Non solo nelle imprese di Stato, ma anche nelle Forze Armate. Il 21 giugno del 2009 il Quotidiano del Popolo annunciava la volontà dell Esercito di Liberazione nazionale di reclutare 120.000 diplomati con un età compresa tra i 18 e i 20 anni, ma il limite di età può essere innalzato fino a 24 anni per i laureati. Un evento unico per la consistenza dei numeri: più di sei milioni di studenti che si sono diplomati la scorsa estate e un milione che ancora apsetta di essere collocato dallo scorso anno. 3 Un atteggiamento - scrive Bill Emmott - che non è solo il portato della crisi molte persone che pure vivono in una società democratica, covano una strisciante ammirazione per il modo in cui le dittature ( ) riescono a prendere le decisioni e far si che le cose avvengano, a ottenere, cioè, qualcosa di simile al successo di Mussolini nel far arrivare i treni in orario, B. Emmott, Asia contro Asia, pag. 85 4 L. Napoleoni, Maonomics

tutto ciò che funziona (dall'impresa privata al controllo sui capitali) ed è quindi più flessibile e più attuale di quello occidentale. Il modello cinese sa adattare l'economia a cambiamenti epocali e repentini, quali il processo di globalizzazione, e questa flessibilità aiuta la Cina a diventare la super potenza del villaggio globale e a ridefinire i parametri della modernità 5. Sembra proprio che lo Spirito del Mondo abbia cambiato casa, la traslatio imperii si muove rapidamente e, l'occidente pare, forse per la prima volta, sentirsi dalla parte sbagliata della Storia. Deng avrebbe, dunque, visto più lontano di tutti gli altri: il colore dei gatti non ha nessuna importanza, ciò che conta è che lavorino per restaurare la grandezza del socialismo cinese6, o meglio dell ex Impero di Mezzo. Se così stanno le cose, la via della salvezza per l Occidente non può che consiste nell' abbandonare il nostro modello economico e politico ormai logoro 7 e curarsi con l'amara medicina del modello cinese. Questo, d'altronde, significherebbe prendere atto che l'occidente si è illuso che il binomio democrazia-mercato potesse essere il sacro Graal della crescita economica. I fatti sembrano parlar chiaro: da quel lontano 1989 le condizioni di vita medie dei cinesi sono migliorate radicalmente, mentre nell'est europeo e nei territori della vecchia Unione Sovietica, dove la democrazia di stampo occidentale ha attecchito, povertà e analfabetismo sono tornati alla ribalta 8. Se nel bel mezzo della crisi, si argomenta, la Cina ha continuato a veleggiare spensierata, ciò sarebbe dovuto proprio alla sua conformazione politica. L'ultima crisi del capitalismo globale sembra dirci che, almeno in questa fase di evoluzione, c'è bisogno di uno Stato ben presente, e l'esperienza cinese dimostra che l'economia funziona meglio se la guida rimane nelle mani di chi rappresenta il più possibile gli interessi del popolo e non delle élite 9. La sintesi asiatica di autoritarismo politico e capitalismo economico binomio rinsaldato e vivificato dai valori asiatici o confuciani - sarebbe dunque il vero Graal dell'eterna crescita. D'altronde, si sostiene, la compatibilità di tale binomio era già stata dimostrata in altri paesi, come il Cile, la Corea del Sud, Taiwan e Singapore 10, dove si era elaborato un modello di Stato, più simile al Giappone dei Meiji che alle democrazie 5 Ivi 6 Nelle parole di Deng La democrazia può svilupparsi solo gradualmente, e noi non possiamo copiare i sistemi occidentali. Se lo facessimo sarebbe un disastro. La nostra costruzione socialista può essere realizzata solo sotto una leadership, in modo ordinario e in un ambiente di stabilità e unità, citato in F. Mazzei, V. Volpi, La rivincita della mano visibile, Università Bocconi Editore, Milano, 2010, pag. 159. 7 Napoleoni, Ivi 8 Ivi 9 Ivi 10 R. Harvey, Breve storia del neoliberismo,

occidentali 11 in cui uno Stato autoritario ma non totalitario 12 è capace di coniugare spazi di libertà concessi alla società civile e tollerare le forme di dissenso, ma non consentire una vera alternanza 13. Ottenendo la quadradura del cerchio: la necessità della crescita economica con l'esigenza, vitale, di conservare i valori confuciani e salvare così l'anima. La Cina, pertanto, sarebbe l'ultimo e più grandioso alfiere di un confucian style, in grado di indicare la vera strada per la modernità. Quest'ansia nel ricercare un'alternativa politica al modello occidentale è, in maniera indiretta, una conferma del fatto che la crisi che da due anni sta ferendo il mondo, è innanzitutto di natura politica. La diagnosi però non è del tutto corretta. Ad essere entrato in crisi è non è la grammatica occidentale nomocrazia, democrazia, modernità e secolarismo quando piuttosto è invecchiato un certo linguaggio. In altre parole non è la piattaforma informatica ad essere entrata in crisi, ma solo uno dei software compatibili con tale piattaforma: il software hayekiano. Il fatto che si tenda a condannare l'intero impianto occidentale14 è pertanto un errore macroscopico. Un errore che però non deve né essere guardato con sufficienza, né sottovalutato, potrebbe essere il segnale di qualcosa di più profondo e cioè che la crisi sta lavorando in maniera profonda le coscienze prese orami dall'angoscia e, come ha giustamente notato Dominique Moïse, dalla paura di cui sono preda le società aperte che in massima parte corrispondono con lo stesso Occidente. E' l'occidente ad aver paura e tale paura consiste nella perdita di controllo sul futuro 15. E' un punto che va tenuto a mente. E come si collega la paura con la crisi della democrazia? 16 Scrive Moïse quando le democrazie predicano valori che non praticano più perdono la propria superiorità morale e, con essa, la propria forza d'attrazione 17. E' questa la ragione che, probabilmente, aiuta a spiegare le reazioni anche dure con cui, in Europa (il caso Continetal) e Stati Uniti (il caso Unocal) sono stati respinti i tentativi di acquisizione da parte delle compagnie di Stato cinesi. Non era solo questione di implicazioni strategico-industriali. Era anche un modo per evitare il contagio di un 11 G. Borsa (a cura di), L'Asia orientale fra democrazia ed autoritarismo, Asia Major 1995, Bologna, Il Mulino, 1995, citato in M. Gilardi, Singapore. Quale democrazia?, pag. 19 12 ibidem 13 ibidem 14 L'attacco spesso è condotto in maniera rabbiosa contro l'esistente, in questo senso, non è impossibile sostenere che le tante andate di anti politica che a più riprese gonfiano nell'opinione pubblica non abbiano solo come oggetto i malaffari e i peccati dei rappresentanti, ma la rappresentanza in sé. Per certi versi quindi, l'anti politica, in nuce, porta con sé antidemocrazia. 15 D. Moïsi, Geopolitica delle emozioni, Garzanti Libri, 2009, pag. 139 16 Crisi che si estrinseca in maniera più diretta nell'antipolitica, ma in maniera più soft sebbene altrettanto grave nella disaffezione verso la politica oggigiorno cittadini su entrambe le sponde dell'atlantico provano un orgoglio nettamente ridotto per i loro modelli democratici e i loro leader eletti, D. Moïsi, Geopolitica delle emozioni, pag. 142 17 Ivi

capitalismo, che nonostante i successi economici, si riteneva giustamente uno stadio di evoluzione e non un modello da acquisire. Le difficoltà della crisi economica hanno mutato il modo di vedere tali investimenti, sia perchè la liquidità cinese può essere una boccata d'ossigeno per le imprese occidentali che stentano a riprendersi, sia perchè la crisi ha insinuato il dubbio in occidente che forse il modello cinese o più in generale il modello di capitalismo di Stato o Stato sviluppista può ancora insegnare qualcosa ai paesi sviluppati. Lo stesso ragionamento in termini opposti ovviamente è stato fatto in Cina. La crisi era l'opportunità visti i crolli del capitalismo alla Wall Street, di affermare il modello cinese. A più riprese i leader del partito comunista cinese, infatti, hanno affermato che per la Cina la crisi sarebbe stata una grande opportunità, tanto che Xia Bin, Direttore dell Istituto di ricerche finanziarie del Consiglio di Stato, si è spinto a pronosticare che tra cinque/otto anni, la Cina potrebbe essere grata agli Stati Uniti per questa crisi finanziaria. Il fatto che il premier Wen Jiabao già nel 2009 a Davos dichiarasse fiducioso che questa crisi per Pechino sarebbe stata una grande opportunità, testimonia come si fosse diffuso un certo ottimismo in alcuni strati della leadership cinese su un avvento repentino del secolo cinese: le difficoltà economiche e i titoli dei listini falcidiati dalla crisi erano un'occasione per accelerare lo sviluppo cinese e rinsaldare ed espandere il proprio modello di capitalismo nel cuore dei paesi sviluppati, avvantaggiandosene ulteriormente. Le cose non stanno del tutto così. Anzi la crisi sta portando al pettine tutti i nodi del modello economico cinese: non solo gli squilibri geografici interni, le difficoltà sociali (in questo senso la marcia a tappe forzate per la creazione di un sistema sanitario nazionale), ma soprattutto gli enormi squilibri finanziari: l'enorme massa di riserve valutarie accumulata per poter rastrellare dal mercato dollari e tenere così basso il cambio dello yuan in modo da favorire le esportazioni, è una valanga che rischia di abbattersi innanzitutto sulla Cina stessa, nel caso in cui il dollaro dovesse svalutarsi o in caso di una inflazione rampante. Ma non si tratta solo di nodi economici. Il punto essenziale è l'aspetto politico. Intimamente le democrazie non si fidano dei sistemi autoritari. Così anche quando Pechino tenta un investimento del tutto legittimo, come il tentativo di incrementare in suo investimento in Rio Tinto, visto è la Cina è uno dei maggiori importatori mondiali di ferro, può essere facilmente additata come il Dragone che tutto vuole fagocitare. Ma la questione politica è un problema anche interno, questo perchè per dirla in maniera netta mentre i sistemi democratici sono riformabili, i sistemi autoritari no e questo perchè il binomio capitalismo-democrazia resta inscindibile. Se così stanno le cose è chiaro che

una riforma del capitalismo cinese implicherebbe una riforma del sistema politico cinese, il che non significa altro che l'attuale o la futura leadership deve lavorare per poter preparare la sua morte politica o meglio lavorare per aprire ad altre forze l'arena politica scalzando il partito comunista cinese dal suo ruolo di primazia assoluta. Nell'analisi che segue si è cercato di collegare queste valutazioni più generali alla questione degli investimenti diretti esteri per cercare di capitale l'evoluzione del modello cinese in connessione con la crisi. Infatti, il ruolo di una Cina come grande investitore internazionale è un fenomeno recentissimo, che tuttavia ha subito un'accelerazione impressionante. La tesi che si è provato a sostenere in questo studio è che tale accelerazione sia solo in parte connessa con l'opportunità di accedere ad assets industriali, tecnologici e Know-how, diventati più a portata di mano economicamente e politicamente a causa della crisi, mentre può trovare una maggiore ricchezza esplicativa se la si legge come il tentativo di liberarsi in maniera oculata e composta dal peso di quella valanga di dollari che grava sulla testa di Pechino. Per fare ciò Pechino può utilizzare le proprie imprese di Stato, nei confronti delle quali è sempre aperta una linea di finanziamento direttamente collegata alle proprie riserve valutarie. In secondo luogo nel 2007 viene costituito a tale scopo il fondo sovrano cinese la Chiana Investment corporation. Tale necessità di fuggire cautamente dal dollaro Pechino la sta facendo conciliare con le sue esigenze economiche. La Cina è diventata negli ultimi trent anni il più grande hub manifatturiero del mondo e le sue esigenze economiche derivano da questo dato. Pertanto gli investimenti diretti esteri sono finalizzati ad assicurarsi innanzitutto quelle materie prime che sono funzionali al mantenimento della macchina economica in funzione, sia attraverso l'acquisizione o partecipazione di società direttamente impregnate nel settore o indirettamente attraverso acquisizioni di fondi che hanno nel proprio portafoglio tali attività sia attraverso l'acquisizione di servizi finanziari che sono comunque finalizzati all'esigenza della macchina manifatturiera interna. Di qui il fatto che Pechino almeno ad oggi colloca solo una piccolissima parte dei propri investimenti diretti esteri nei paesi sviluppati, mentre investe massicciamente nei paesi ricchi di materie prime Africa ed Australia in primis. Questo dato emerge con chiarezza se si escludono e la decisione può certo sembrare un po' arbitraria tutti gli investimenti diretti esteri che Pechino colloca nei paradisi fiscali, dei cui successivi impieghi non è possibile tracciare il percorso e tali vanno considerati a parte le note Isole Vergini Britanniche o le Cayman anche Hong Kong e Macao. In sintesi, dato che Pechino, attraverso la strategia del Go Global, può avvalersi

direttamente dei proprio campioni nazionali quali attori globali e quali strumenti di investimento diretto estero, si può affermare che la Cina investa all'estero per poter soddisfare le sue esigenze interne.

Gli investimenti diretti esteri: qualche definizione Una definizione molto efficace di investimenti diretti esteri (IDE) (o Foreign Direct Investment, FDI) definisce gli IDE quali un investimento internazionale effettuato, da parte di un soggetto residente in un dato paese (investitore diretto estero), in una impresa residente presso un altro paese (impresa oggetto di investimento diretto). Tale investimento ha l obiettivo di ottenere un interesse durevole, cioè esso mira ha stabilire una relazione di lungo termine tra il soggetto partecipante e l impresa partecipata nonché un grado di influenza significativo nelle gestione dell impresa 18. La definizione del Fondo Monetario Internazionale è leggermente diversa e fa riferimento all'ide come an investment in an economy other than that of the investor, the investor's purpose being to have an effective voice in the managment of the interprise. Con ciò si vuole sottolineare come tale investimento deve essere di una certa percentuale, che lo stesso FMI fissa di almeno il 10% delle azioni ordinarie dell'impresa partecipata, al fine di poter exert a significant influenze (potentially or actually exercised) over the key policies of the underlyung project 19 L'UNCTAD pone l'accento su un altro aspetto l'ide è an investment involving a long-term relationship and reflecting a lansting interest and control of a resident entity in one economy (foreign direct investor or parent enterprise) in an enterprise resident in an economy other than that of the foreign direct investor 20. In questa definizione si pone in risalto, per differenziare gli investimenti diretti esteri dalle operazioni di portafoglio, il carattere temporale: lungo termine per gli IDE, breve termini per le operazioni di portafoglio. In sintesi quindi le caratteristiche essenziali di un IDE sono la lunga durata e il controllo totale o la possibilità di poter prendere parte alle decisioni dell'impresa partecipata. Classificazione degli IDE Per avere un quadro preciso del fenomeno è utile procedere ad una classificazione dei vari tipi di IDE. Una prima classificazione che riguarda la tipologia di investimento è quella che suddivide 18 N. Acocella, LE STATISTICHE SUGLI INVESTIMENTI DIRETTI ESTERI E SULL ATTIVITA DELLE IMPRESE MULTINAZIONALI, Presidenza del Consiglio dei Ministri, luglio 2002. 19 I. A. Moosa, Foreign Direct Investment: Theory, Evidence, and Practice, Palgrave Macmillan, 2002 20 UNCTAD, World Investment Report (WIR), 2010

gli IDE in orizzontali e verticali Per IDE orizzontali si intende un'operazione di investimento che afferisce alla produzione di un bene dello stesso settore merceologico che si produce in patria, all'estero. Esempio, l'apertura di uno stabilimento Iveco in Cina. Perchè produrre in loco e non commercializzare? La decisione di procedere ad un investimento di tipo orizzontale è spesso legata a motivazioni di ordine extra economico: aggirare barriere tariffarie, poter accedere ad agevolazioni (fiscali e non), rispondere a particolari policy di sviluppo economico decise dal paese ospitante: è il caso del trasferimento tecnologico o della necessità di aumentare l'occupazione. Sono investimenti dunque che hanno come obiettivo la conquista di un mercato cui sarebbe più difficile o impossibile accedere esportando direttamente il prodotto. Sono quindi investimenti market-seeking. IDE verticali, fanno riferimento ad investimenti che riguardano una o più fasi della produzione di un bene. Sono in altre parole il cuore dell'attuale fase di globalizzazione economica: è l'esplosione dell'antica catena di montaggio (racchiusa all'interno di uno stesso stabilimento nel quale entravano le materie prime ed usciva il prodotto finito) e la frammentazione della produzione (e dei servizi correlati) a livello globale a seconda dei vantaggi comparati offerti dai vari mercati. L'obiettivo principale di questo tipo di investimenti è, pertanto, quello di ridurre i costi di produzione: trasferimento di quelle fasi della produzione il cui costo in patria è maggiore rispetto al altri paesi. Il che può fare riferimento sia al trasferimento delle fasi labour-intensive, sia alla delocalizzazioni dei servizi, si pensi al caso indiano. In questo senso gli IDE possono essere considerati come investimenti che tendono a ridurre i costi di produzione (cost saving). Tuttavia è anche possibile che una impresa tenda a delocalizzare alcune fasi della produzione per cercare una produzione di qualità, potere avere accesso a saperi e Know how o marchi (inteso come saper fare e non come acquisizione di tecnologie). Un esempio in questo caso potrebbe essere quello della cinese Haier che dopo l'acquisizione di una impresa italiana di elettrodomestici (in particolare frigoriferi) da vendere nel mercato europeo, ha iniziato ed esportarli anche in Cina, dove tuttavia sarebbe di gran lunga più conveniente produrli. Dov'è dunque il vantaggio? Nell'attrazione che ha sui potenziali consumatori il marchio made in Italy: in questo senso tali investimenti potrebbero essere definiti quality-seeking. Una ulteriore forma di classificazione degli IDE fa riferimento al grado di coinvolgimento dell'investitore estero nelle attività o nel controllo dell'impresa ospite. Investimenti di tipo greenfield, con questo termine si fa riferimento alla costruzione ex novo

di un impianto di produzione in un paese diverso dal paese di origine. Mentre per investimenti brownfield, si fa riferimento all'acquisizione di un impianto già esistente o la partecipazione al suo capitale. In questo secondo caso, a seconda della percentuale di partecipazione, gli IDE si possono distinguere in fusioni o acquisizioni (M&A); Joint-venute o Non equity Pact: franchising (contratti di agenzia per la commercializzazione) o licensing (contratti di licenza per la produzione). A seconda poi degli obiettivi che l'investitore persegue gli IDE possono essere suddivisi in: Investimenti resource seeking: acquisizione di materie prime o comunque fattori della produzione Investimenti market seeking: poter avere accesso a mercati, come si accennava in precedenza, protetti ad esempio da barriere commerciali o per i quali è più conveniente la commercializzazione in loco piuttosto che la semplice esportazione del prodotto Investimenti efficiency-seeking razionalizzazione delle attività internazionali, per migliorarne la competitività globale ogni affiliata si specializza in una fase del processo produttivo (o in un particolare bene) Strategic asset seeking: per avere accesso a nuove tecnologie e Know-how

Consistenza ed evoluzione del fenomeno Rispetto al crollo degli investimenti diretti esteri durante la fase più cruda della crisi economica a cavallo del 2008-2009 si è registrato un modesto recupero, sebbene abbastanza irregolare. Ciò ha generato un cauto ottimismo tra gli osservatori internazionali circa le possibilità a breve di un ritorno della situazione alla fase pre-crisi, senza tuttavia raggiungere il picco del 2007, quando la quota degli IDE è arrivata a 2.100 miliardi Secondo le stime presentate nell'ultimo rapporto Unctad World Investment Report 2010 i flussi globali di investimenti diretti esteri per l'anno in corso dovrebbero toccare quota 1.200 miliardi di dollari, per poi proseguire la loro fase di ascesa nel 2011 e salire fino a 1.300-1.500 miliardi di dollari, per poi attestarsi nel 2012-2013 tra i 1.600-2000 miliardi di dollari, senza comunque raggiungere i livelli pre-crisi. La contrazione dovuta alla crisi è stata infatti pesantissima: nel 2009 si è registrato, infatti, un calo del 37%, 1.114 miliardi di dollari, con una flessione degli IDE in uscita (outbound) del 43%, scendendo fino a 1.101 miliardi di dollari. Nel 2008 si era avuta una flessione del 16%. Le economie in transizione e in via di sviluppo ha attirato la metà dei flussi di IDE a livello mondiale, e hanno investito un quarto del globale dei flussi in uscita. E sono proprio questi paesi che stanno trainando la riprese dei flussi di IDE a livello globale: sia per i loro investimenti all'estero sia perchè continuano a rimanere paesi di destinazione interessanti per gli investitori internazionali. Fra i principali destinatari degli IDE, la Cina è ormai stabilmente al secondo posto, con 95 miliardi di dollari, dopo gli Stati Uniti nel 2009, a quota 130 miliardi di dollari (324,6 nel 2008). Ma è un fenomeno che nel complesso vede protagonisti (come destinazioni di IDE) tutti i paesi in via di sviluppo, basti considerare che tra le prime sei principali destinazioni degli IDE la metà riguarda paesi in via di sviluppo. Per quanto riguarda le operazioni di M&A a livello internazionale i paesi sviluppati continuano a fare la parte da leone, sebbene la partecipazione dei paesi in via di sviluppo e delle economie in fase di transizione sia cresciuta considerevolmente negli ultimi anni passando da un 27% del 2007, dati UNCTAD, ad un 31% nel 2009. Oltre due terzi dei cross-border M & A continua a coinvolgere i paesi sviluppati, ma la

quota dei paesi in via di sviluppo e delle economie di transizione, è salita dal 26 per cento nel 2007 al 31 per cento nel 2009. A ciò va aggiunto il fatto che nel 2009 più del 50% degli investimenti di tipo greenfield sono stati fatti nei paesi in via di sviluppo e delle economia in transizione. Sul fronte degli investimenti in uscita, Hong Kong (vera e propria piattaforma finanziaria cinese), la Cina e la Federazione russa, in questo ordine, compaiono ormai all'interno della classifica dei primi 20 investitori nel mondo. I Flussi di IDE verso Sud, Est e Sud-Est asiatico hanno fatto registrare il loro maggior calo dal 2001, anche se sono quelli che stanno mostrando i primi segni di ripresa dopo la crisi. L'afflusso verso la regione è diminuito del 17 per cento nel 2009, a 233 miliardi dollari, a causa principalmente del calo delle fusioni e acquisizioni, che è stato particolarmente grave nel settore dei servizi (-51 per cento). Nel complesso gli IDE in uscita dalla regione sono diminuite dell'8 per cento a 153 miliardi dollari, con cross-border M & A acquisti in calo del 44 per cento. In controtendenza rispetto al quadro regionale i dati che riguardano la Cina i cui investimenti all'estero continuano a crescere, soprattutto nei settori delle materie prime e, viste le stangate che la crisi ha causato sui listini internazionali, aumentano anche gli investimenti sotto forma di M&A. Flussi di IDE in entrata, 1980 2009 (in miliardi di dollari) Fonte: UNCTAD, World Investment Report, 2010 Come si accennava in precedenza, più della metà degli investimenti diretti esteri continua a dirigersi verso i paesi in via di sviluppo e i paesi in via di transizione. Mentre le operazioni di M&A continuano ad essere effettuate soprattutto nei paesi sviluppati. Tutta via come emerge abbastanza chiaramente dal grafico sopra, si nota che, per usare

l'espressione di Friedman, il mondo sta davvero diventando piatto. A partire dal 2007 i paesi sviluppati hanno perso drasticamente il proprio primato come destinatari degli investimenti internazionali. Mentre i paesi in via di sviluppo o le economie in transizione hanno tenuto botta. A livello globale i flussi di IDE in uscita nel 2009 sono diminuiti del 43 per cento assestandosi a quota a 1.101 miliardi di dollari, in parte seguendo il trend decrescente degli IDE in entrata. In particolare si segnala una forte riduzione del ruolo dei paesi sviluppati quali investitori internazionali, a seguito della crisi. Si registrano comunque alcuni segnali di ripresa. Nel primo trimestre del 2010 i flussi di IDE, stando ai dati UNCTAD, in uscita hanno fatto registrare una aumento del 20% rispetto allo stesso periodo del 2009. Per avere un'idea di quanto forte sia stato l'impatto della crisi, può essere utile raffrontare i due grafici a lato. Entrambi fanno riferimento al flusso in uscita di investimenti esteri. Sono in pratica la classifica dei maggiori investitori internazionali (fonte UNCTAD, WIR, 2010, e il secondo WIR 2008). Nel 2005 la Cina non compariva nella top ten dei maggiori investitori internazionali. E' solo nel 2006 che, per la prima volta, il rapporto UNCTAD inserisce Hong Kong. Nel biennio 2008-2009 invece Pechino entra nella classifica raggiungendo il quinto posto, anche a voler sommare gli investimenti all'estero di Hong Kong. Nel complesso come sembra emergere dai dati, la crisi ha di fatto colpito duramente gli investimenti diretti esteri dei paesi sviluppati (emblematico a tale proposito il caso della Gran Bretagna, che praticamente precipita nella classifica), mentre si è abbattuta con minore impeto sui paesi in via di sviluppo e i paesi in transizione. Nel complesso infatti questo gruppo di paesi ha mantenuto o incrementato la propria posizione. Questo impressionante balzo in avanti potrebbe avere varie spiegazioni da una parte l'istituzione

nel 2007 della China Investment Corporation (CIC) con una dotazione di 200 miliardi di dollari, dall'altra l'incremento progressivo della strategia del Go Global, adottata sin dal 2002, e che di recente ha comportato un ulteriore allentamento dei controlli sui capitali in uscita dalla Cina. Ma c'è anche un'altra spiegazione. E' convinzione diffusa che Pechino abbia incrementato in maniera così significativa il suo profilo di investitore internazionale per alleggerire le pressioni che i paesi sviluppati fanno perchè proceda ad un più consistente aumento della valutazione dello yuan. In altre parole Pechino non rivaluta ma aiuta la crescita economica dei paesi sviluppati facendo investimenti. Come si vedrà di seguito i dati smentiscono questa interpretazioni, dato che ad accogliere i maggiori investimenti diretti esteri cinesi, sia prima che dopo la crisi, non sono i paesi sviluppati, ma in massima parte i paesi in via di sviluppo. Il che sta probabilmente a significare che Pechino, più che restituire sotto forma di investimenti, quello che non vuole dare sotto forma di aumento delle importazioni a danno delle sue esportazioni, intende diminuire la propria esposizione rispetto al dollaro. In altre parole, al di là di quanto negli ultimi anni si è scritto circa la vulnerabilità americana dovuta alla enorme potenza di fuoco delle gigantesche riserve monetarie cinesi (oltre 2.200 miliardi di dollari) e al fatto che Pechino sia tra i maggiori detentori di T-bond americani (oltre 800 miliardi di dollari), è la Cina ad essere in difficoltà, imbrigliata com'è in una sorta di trappola del dollaro, trappola che scatta nel momento in cui negli Stati Uniti parte l'inflazione, cosa che la FED sta deliberatamente facendo. E' proprio questo timore che ha spinto Pechino nei quattro angoli del globo negli ultimi anni alla ricerca di investimenti che da una parte soddisfacessero alcune sue esigenze (materie prima, accesso a nuovi mercati, acquisizione di tecnologie etc) dall'altra diminuissero la propria esposizione al dollaro. In maniera abbastanza provocatoria, pertanto, si potrebbe dire che Pechino è costretta ad investire all'estero e che i suoi successi quali investitore internazionale sono il tentativo di rimediare ad una sua debolezza. Una ipotesi questa che può essere corroborata sei si prende in considerazione anche la forza (sebbene le cautele tipiche del mondo della finanza abbiamo attenuato solo in apparenza i toni) con cui Pechino ha cercato di premere per andare in direzione almeno di un bilanciamento del ruolo del dollaro a livello internazionale, basti ricordare le parole in questo senso del governatore della Banca Centrale Cinese, in favore di un ruolo maggiore da riservare ai Diritti Speciali di Prelievo emessi dal Fondo Monetario Internazionale. Nonché la concomitante serie di iniziative condotte da Pechino per la creazione di un'area dello yuan. E' una corsa forsennata se si considera che anche nel pieno della crisi, mentre i flussi globali di IDE calavano del 20%

quelle cinesi nearly doubled 21. Cina: la storia di un investitore A ricostruire la storia cinese quale investitore internazionale qualche ulteriore conferma in questo senso può essere tratta. La crescita cinese ha avuto tra i maggiori protagonisti l'immenso afflusso di investimenti diretti esteri in Cina. A fronte di questa valanga di investimenti in entrata, gli investimenti in uscita sono rimasti pressoché insignificanti fino a pochissimi anni fa. Nel 1979 la Cina non investiva all'estero (in questo senso di fa riferimento ai soli investimenti diretti, non agli aiuti alla cooperazione o gli aiuti ai regimi comunisti amici, che potrebbero essere definiti aiuti alla rivoluzione). Nel 2009 lo stock degli investimenti diretti esteri cinesi ammontava (dati UNCTAD) a 229 miliardi di dollari e 600 milioni, era di 27 miliardi di dollari e 768 milioni nel 2000, di 4 miliardi di dollari e 455 milioni nel 1990. A questi dati, tuttavia, andrebbero aggiunti gli investimenti che fanno capo ad Hong Kong che ammontano (dati UNCTAD) a 834 miliardi di dollari e 089 milioni di dollari nel 2009, ammontavano a 388 miliardi di dollari e 380 milioni nel 2000 e a 11 miliardi di dollari e 920 milioni nel 1990. A questi vanno aggiunti anche quelli di Macao che nel 2009, unico dato disponibile ammontano a 1 miliardi di dollari 211 milioni. Nel complesso il flusso di IDE in uscita nel 2009 ammonta a 48 miliardi di dollari. Erano 52 nel 2008 e 22,5 nel 2007. Anche i flussi in uscita da Hong Kong sono aumentati (52 miliardi di dollari) rispetto al 2008 (50 miliardi di dollari), senza tuttavia raggiungere i livelli pre-cresci: nel 2007 erano di 61 miliardi di dollari. Leggermente diversi di dati del MOFCOM. Per il Ministero del Commercio Estero cinese, il flusso in uscita degli investimenti diretti cinesi nel 2008 ha raggiungo la cifra di 55, 91 miliardi di dollari, facendo registrare un incremento del 111% in più rispetto all'anno precedente. Nel 2008, continua il MOFCOM, 8.500 imprese cinesi hanno aperto 12.000 attività all'estero, in 174 paesi, per un stock di 182,97 miliardi di dollari di investimento. Nel complesso, stima il MOFCOM, il totale degli investimenti all'estero in possesso di operatori cinesi, ammonta a mille miliardi di dollari. Gli investimenti finanziari nel 2008 hanno raggiunto la cifra di 14,5 miliardi di dollari, di cui 13,2 appartengono al settore bancario e corrispondono al 94% del totale. A fine 2008 lo stock di investimenti finanziari accumulato da operatori cinesi ammonta a 36,69 miliardi di 21 K. Davies, On China's rapid growth in outward FDI, China Daily, 3 agosto, 2009.

dollari, di cui, 26, 79 nel settore bancari, 510 milioni nel settore assicurativo, 530 milioni al settore delle securities e 8,86 rientrano in altri comparti finanziari, per un valore percentuale, rispettivamente del 73%, 1,4%, 14% e 24,2% Se si guarda la progressione storica appare chiaro come il fenomeno degli investimenti diretti esteri cinesi sia in fortissima crescita. Ciò non dimeno in termini assoluti la frazione degli investimenti cinesi sul totale resta bassissima, si va dallo 0,6 stimato dall'unctad allo 1,6 del MOFCOM Fonte: UNCTAD, World Investment Report, 2010