Avv. Massimo Stefanutti



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Avv. Massimo Stefanutti 30175 - Marghera (Venezia) Piazza del Mercato n. 13/a Privacy? Forse... La privacy non esiste!! ha sempre urlato Rupert Murdoch dall alto dei suoi giornali e delle sue reti televisive, in risposta alle accuse di intrufolarsi nelle vite altrui e di mettere in piazza vizi e virtù di personaggi noti e meno noti, anche con foto alquanto imbarazzanti. La privacy esiste!! ha sempre urlato Silvio Berlusconi dall alto dei suoi giornali e delle sue reti televisive, in risposta alle immagini - alquanto imbarazzanti - riprese nell interno della sua villa in Sardegna. Due concezioni della privacy, entrambe corrette e sbagliate nello stesso tempo (ma che riguardano anche tutti noi) e che testimoniano del fenomeno dell identità e delle relazioni personali: un conflitto tra diritto a vedere e a sapere e un diritto a non vedere e non sapere. Pubblico e privato, uno contro l altro armati. L equilibrio in questo terrore reciproco non sta nelle armi ma nella sussistenza (o meno) di un interesse superiore a quello personale alla conoscenza e diffusione di dati personali, tra i quali c è anche la propria immagine. E le normative attuali (art. 10 Codice civile, art. 96 97 Legge sul diritto d autore, Dlgs. 196/2003 c.d. legge sulla privacy, Codice deontologico dei giornalisti, Carta di Treviso sui minori, ecc.) tutte ragionano in questo modo: vi è libertà ma con dei limiti. Tutto (anzi tutti) si possono fotografare, fatti salvi un immediata negazione allo scatto espressione di un diritto del singolo pari ed uguale a quello del fotografo - e l esistenza di un confine al di là del quale l immagine non è utilizzabile. Nessuna censura preventiva in teoria al fotografo su cosa, come, dove riprendere ma piuttosto un filtro (forse, alla fine, un autocensura?) all utilizzo dell immagine. Fino al 1996 (entrata in vigore della prima legge sulla privacy), nessuno parlava di questo argomento in quanto la materia era regolata sia dal codice civile (art. 10 sull abuso dell immagine altrui, norma che risale al 1942) che dalla Legge sul diritto di autore (artt. 96 e 96 che risalgano al 1941). I casi che si erano presentati erano stati risolti dai giudici non certo con grande coraggio per il diritto di riservatezza del singolo ma in fondo si affermava il principio di una tutela della sfera privata: il leading-case erano state delle immagini della Principessa Soraya e del regista

Franco Indovina carpite all interno della loro abitazione, risolta dopo lunga causa avanti la Corte di Cassazione. Ma all epoca gli anni 70 esistevano sì le norme dell art. 96 e 96 L. 633/1941 ma non la sensibilità sociale che tali norme presupponevano. Solo dopo il 1996 e la c.d. legge sulla privacy, la coscienza (e la conoscenza) dei singoli virano verso uno spiccato concetto d identità e di tutela della medesima, spesso alterato da una scarsissima conoscenza delle norme giuridiche. In sé, nulla cambia, serve solo un consenso (come prima ma questa volta, per una casistica particolare, anche per iscritto) per trattare (utilizzare) un dato personale e tra questi dati vi è anche la propria immagine. Invero vi è sovrapposizione tra le due normative e se ne esce solo considerando le norme sulla privacy applicabili alla fotografia come integrative rispetto agli artt. 96 e 97 Legge diritto d autore, aggiungendo altri limiti ma anche altre eccezioni. In concreto, come possiamo salvarci da questa tagliola giuridica? Solo con una corretta interpretazione e applicazione delle norme. Se il principio è che: Art. 96. Il ritratto di una persona non può essere esposto, riprodotto o messo in commercio senza il consenso di questa, salve le disposizioni dell'articolo seguente. E che 97. Non occorre il consenso della persona ritrattata quando la riproduzione dell'immagine è giustificata dalla notorietà o dall'ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico. E chiarito ritratto non viene inteso in senso strettamente fotografico ma significa molto di più: le sembianze di un soggetto che porti al suo riconoscimento. Perciò non solo il ritratto del solo viso, ma anche quello di parte di una persona o di un oggetto collegato ad essa, addirittura anche la sola ombra o la silhouette, dobbiamo solo interpretare e capire. Al di là dell esenzione sulla base del concetto di interesse pubblico che è legato ad un fatto che rileva per esser conosciuto da una collettività di persone indeterminata ma non indeterminabile, vi è tra le varie esenzioni (che in quanto tali devono esser interpretate nel senso meno esteso possibile proprio per il loro carattere di eccezionalità), vi è quella relativa agli scopi scientifici, didattici o culturali. La dizione esatta per la parte che qui interessa - è...quando la riproduzione dell immagine è giustificata (...) da scopi scientifici, didattici e culturali...,

precisando come il termine riproduzione vada inteso in senso ampio, come divulgazione dell immagine sotto ogni forma. Tralasciando gli scopi didattici e scientifici, ci si chiede come si debbano interpretare gli scopi culturali e individuare una serie di casi concreti nei quali tale scopo appare prevalente sul contemporaneo diritto del soggetto alla riservatezza della propria immagine. La trattazione non può che iniziare dal termine scopo in quanto la norma così indica: scopo potrebbe voler dire fine, intento, mira, proposito che si vuole raggiungere. Ma, in senso fotografico, il fine per cui un immagine è prodotta spesso non coincide con l uso di quell immagine e occorre attentamente verificare il contesto cui appartiene e per la quale viene utilizzata, anche e soprattutto in riferimento a diversi momenti del tempo. A titolo esemplificativo, un ritratto di Mussolini ripreso nel 1940 e in una delle sue tipiche pose a mascella alta e mani sui fianchi, all epoca dello scatto aveva il fine di simboleggiare la potenza del duce fascista e veniva utilizzato con scopi di propaganda. Ma, ai tempi nostri, il medesimo ritratto viene esaminato non solo dal punto di vista storico (l icona di un dittatore) ma utilizzato anche sulle pagine dei libri di storia, per uno scopo che non è più propagandistico ma piuttosto illustrativo e, nello stesso tempo, culturale, inteso come conoscenza. E nella fotografia questi due livelli (il prelievo dalla realtà e il successivo contesto di utilizzo) all inizio possono andare di pari passo, salvo poi divergere subito dopo ed indirizzarsi verso lidi diversi. E, nella norma in esame, sembra proprio che il legislatore (si era nel 1941!!!) non avesse presente questa dicotomia tra prelievo del reale ed contesto di utilizzo, usando il termine scopo: una fotografia, al momento dello scatto, può avere o non avere uno scopo ma porsi in relazione ad un uso in un suo contesto che la denota e la connota, immediatamente o successivamente, anche cambiando nel tempo la lettura dell immagine. E nella norma si considera il termine riproduzione per riferirsi al successivo momento dell uso dell immagine all interno di un contesto che si definisce scopo culturale ma dove scopo vuol dire uso. E cosa vuol dire culturale? E un aggettivo, significa pertinente alla cultura. Il termine è assente nei dizionari di fotografia e da una ricerca in rete vi sono solo associazioni o istituzioni che dichiarano di esprimere una cultura della fotografia o una fotografia come cultura. Da una parte la possiamo riferire all uomo e la sua formazione di crescita individuale dall altra parte alla società (di qualunque tipo sia) e le sue manifestazioni. Il primo caso qui interessa in quanto chi scatta è pur sempre un soggetto umano che seleziona all interno della realtà e porta il proprio sguardo su fatti, accadimenti, circostanze che sono diversi da fotografo a fotografo. Anche l immagine di un muro può avere una valenza culturale, se supportata da una ragione concreta: ma non si può ricondurre la cultura ad un fenomeno puramente soggettivo, confondendola con l attività di accrescimento personale di ognuno di

noi. La seconda prospettazione pone l accento sulla realtà e sulla sua documentazione e/o rappresentazione e sembrerebbe esser più calzante: in verità la fotografia è un media complesso, capace ed contemporaneamente incapace di trasmettere informazioni e valori, anche culturali. Facile con un immagine descrivere qualcosa che riteniamo diverso da noi in quanto appartenente ad una differente area geografica o sociale, difficile far comprendere con un immagine (se non con un testo a supporto) la complessità della realtà che ci sta davanti. Spesso la fotografia (sia per problemi di comunicazione che di lettura da parte del fruitore) non parla ma si vorrebbe che parlasse da sola. Ed anche per le sembianze di una persona, quanto detto non cambia: il ritratto di una barista cinese può aver diverso significato (e il significato è l uso che se ne fa) se esposto in mostra amatoriale (qui serve il consenso) piuttosto che invece in un esposizione magari commissionata da una municipalità per documentare le mutazioni nel tessuto sociale di un quartiere (qui non serve il consenso). Per cui culturale significherebbe un uso informativo/sociale e nello stesso tempo rappresentazione all interno di un contesto complesso, se non addirittura di un progetto preliminarmente precisato. Di qui la necessità di una copertura (preventiva o successiva) per la/le fotografia/e del collegamento all interno di un operazione più complessa o comunque espressamente dichiarata come culturale. Leggendo i due articoli più sopra, ci si accorge come manchino due ipotesi di esenzione dal consenso: la cronaca e l arte. La prima è facilmente intuibile: se fosse ammessa come esenzione, il consenso non servirebbe più e sarebbe vanificato tutto il sistema in quanto ogni scatto sarebbe ricondotto, nel bene e nel male, alla cronaca. Invece l arte (o l espressione artistica) è meno giustificabile, perlomeno in questo momento storico ma comprensibile nel 1941, data di entrata in vigore della Legge sul diritto di autore che non elencava, negli artt.1 e 2, le fotografie come opere dell ingegno di carattere creativo ed oggetto della protezione. Solo con il D.P.R. n. 19/1979, all art. 2, n. 7, sono state aggiunte le opere fotografiche e quelle espresse con il procedimento analogo a quello della fotografia sempre che non si tratti di semplice fotografia protetta ai sensi delle norme del capo V del titolo. Però non è che le attuali norme dividano le fotografie in artistiche o non artistiche: la classificazione è tra creative e semplici (o non creative). Il requisito dell artisticità o quello più semplice estetico, non servono come criterio differenziatore. Per cui, nel 1941, la fotografia non era considerata arte e tanto meno appartenente ai territori dell arte e tanto meno era intesa come un mezzo capace di fare arte. A tanti anni di distanza sono questioni oramai superate in quanto, nell ambito delle arti visive, c è anche la fotografia ma resta la distinzione (se realmente sussiste) tra una fotografia che si esprima con il linguaggio dell arte ed una che appartenga ad altro

Nel 2003 interviene un importante Direttiva Europea (art. 9 n. 95/46) che riordina alcuni aspetti e soprattutto, aggiunge una nuova ipotesi di esenzione relativa ai trattamenti (cioè uso del dato personale) eseguiti per finalità di manifestazioni del pensiero e nel campo dell espressione artistica. La norma italiana, che apprende questo principio, è la seguente: Art. 136. Finalità giornalistiche e altre manifestazioni del pensiero 1. Le disposizioni del presente titolo si applicano al trattamento: (...) c) temporaneo finalizzato esclusivamente alla pubblicazione o diffusione occasionale di articoli, saggi e altre manifestazioni del pensiero ANCHE NELL'ESPRESSIONE ARTISTICA. La norma italiana attua solo in parte la direttiva europea, non solo tralasciando del tutto l espressione letteraria (nemmeno citata) ma soprattutto inserendo (anzi, incollando) la previsione dell espressione artistica in fondo ad un capo, la lettera c) dell art. 135, che nulla ha che fare con l espressione artistica. Ad una lettura superficiale, si autorizzerebbe il trattamento dei dati personali nell espressione artistica relativamente ad un trattamento temporaneo: ma non sembra configurabile un trattamento temporaneo ad usi artistici, a meno che non pensiamo ad un ritratto di una persona che subito dopo esser eseguito, venga distrutto. Per cui il principio dell esenzione dal consenso nell espressione artistica è qualcosa di autonomo, che deve avere una sua ragion d essere permanente: la norma, però, sembra pensata per alcune forme d arte (pittura, scultura, disegno, ecc.) nel quale l artista si ispira ad un soggetto reale e ne traspone l immagine in qualcosa che è altro. Posto che il risultato non è il ritratto della persona effigiata ma qualcosa di autonomo e diverso, ben si giustifica l esenzione da un consenso che altrimenti dovrebbe esser dato. Per la fotografia, invece si impongono delle considerazioni sul suo porsi quale pratica artistica. Partendo da punti (abbastanza) fermi, la fotografia e l arte si contaminano nel momento in cui la prima serve alla seconda per testimoniare di un operazione artistica che altrimenti non lascerebbe traccia di sé e nella quale, addirittura, gli artisti non danno rilevanza all immagine e alle problematiche tecniche. E diventa in seguito il mezzo privilegiato della e nella rappresentazione artistica, quando ci si renderà conto come la fotografia possa imbrigliare tutte quelle tensioni che sono essenziali per la produzione di un opera d arte, da sola o mescolata ad altri mezzi artistici. E anche la fotografia, nelle sue quasi infinite declinazioni tecniche, non fa che mettere in azione quel presupposto che è insito in tutte le opere d arte: far vedere un qualcosa ma contemporaneamente

parlare d altro. In fondo è solo questione di capire il meccanismo dell arte e riportarlo tale e quale nella fotografia e verificare se c è veramente quella densità concettuale che è veicolo dell uomo verso l indicibile e, nello stesso tempo, espressione del medesimo. Per concludere, una provocazione per questa mostra: siamo sicuri che tutte le pecette che trovate sulle immagini esposte servano? Provate tutti a fare un gioco: sostituite le pecette con una didascalia, anche inventata ma coerente con l immagine, però senza pensare all uso prettamente giornalistico. Fate parlare la fotografia non solo con quanto appare ma anche con quanto le fate dire (un orrore per quanti sostengono che un immagine vale mille parole!!). Vedrete che ogni immagine potrà stare in piedi da sola, senza tanto bisogno di consensi preventivi o successivi, di censura pre o post scatto. Usate questo escamotage per tutte le vostre fotografie, in qualunque parte del mondo e in qualunque situazione espositiva: chi potrà mai contestarvi un uso NON culturale (e quindi anche sociale, ecc.)? Se poi attenzione che è sempre una provocazione firmerete l immagine con il vostro nome e cognome, seguito da artista fotografo, sarete fuori da ogni pantano giuridico. Riproduzione riservata Avv. Massimo Stefanutti, diritto della fotografia e della proprietà intellettuale www.massimostefanutti.it