Domande inquiete tra morbo del mattone e benedizioni della povertà Editoriale di Presbyteri, 2/2009, 81-90
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- Elisa Clemente
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1 Domande inquiete tra morbo del mattone e benedizioni della povertà Editoriale di Presbyteri, 2/2009, Da tempo si ventilava una crisi dell economia occidentale. Con l autunno è arrivata. Nonostante gli ottimismi di maniera e di mestiere («È dannoso allarmare la gente!»), siamo di fronte alla recessione e davanti allo spettro della fame, almeno di un serio disagio, anche per milioni di italiani. Il lavoro diventa un privilegio, non più un diritto ed il fondamento della nostra Costituzione. La disoccupazione raggiunge percentuali spaventose e tanti risparmi si volatilizzano con la caduta in picchiata delle borse. Da parte loro gli stati socializzano le perdite e privatizzano profitti ed aziende. Salvano le banche, ma lasciando ai loro posti i manager che hanno provocato il disastro. L aspetto peggiore è il vuoto che si disegna in volto ai giovani quando affrontano l idea del loro futuro. Che sia anche in questo vuoto del loro tempo una delle radici della loro voglia di sballo e di disimpegno? Certo è difficile avere voglia di manifestare un disagio, una paura del vivere o una sete di speranza quando ci si accorge di non avere interlocutori seri. Si esce dalla crisi solo perché si consiglia alle ragazze di sposare uomini miliardari? Non si dice così che davvero non c è futuro per i poveri cristi, e che l unica cosa da tentare, anche prostituendosi, è far parte del club degli eletti? E si risolve qualcosa affermando che gli italiani sono ricchi perché l 80% delle famiglie è proprietaria di una casa? Il meno che si possa dire è che c è un distacco notevole tra questa gente che dovrebbe servire il popolo conoscendone prima i bisogni, e l uomo comune che arriva alla seconda settimana col suo stipendio, racimola un pasto alla Caritas e che non si vergogna di vestirsi nella boutique dei poveri, nei bazar dell usato. C è appena bisogno di dirlo: i poveri di lunga data ed i nuovi poveri ci appartengono. Vengano o no in chiesa, essi sono la nostra gente, sono figli di Dio che il Padre ci ha affidato. Come appariamo ai loro occhi? Ecco un problema serio. La vecchia storia dei «preti che i soldi li hanno» noi potremmo liquidarla magari indicando parrocchie e ministri ordinati di esemplare povertà. Non sono pochi i preti che condividono tutto (comprese le stanze della canonica e la sacrestia nel loro folle tentativo di dare un tetto ad un barbone), che dunque «non hanno niente» e che un pasto caldo lo hanno quando qualcuno li invita a cena. Ma questa è solo una faccia della realtà. Se una volta tanto accettiamo di farci identificare con la Chiesa, se insomma ammettiamo che non hanno tutti i torti quanti ci vedono appartenere ad un insieme che chiamano casta sacerdotale, allora dobbiamo ammettere che in mezzo ai poveri la Chiesa non è povera, che solo sulla carta ammette di avere «scelto i poveri», che girano nel clero idee tipiche di chi guarda il mondo e la vita con gli occhi dei privilegiati. Potrebbe essere oggetto di un fruttuoso esame di coscienza una domanda del tipo: «Guardiamo il mondo con gli occhi dei ricchi o con quelli del Povero, di quel Dio che si identifica col povero, con il bisognoso?». Non sarebbero scontati gli esiti. Certamente guarda con gli occhi dei ricchi chi trova nella figliolanza da Dio solo il diritto alla libertà (enfasi tipica del liberalismo di sempre) e non anche e primariamente la sorgente di tutti quei diritti inalienabili che esplicitano in modo concreto l unica dignità umana. Senza questa sorgiva attenzione, si finisce per dimenticare molto di quanto il neoliberismo oggi ci impone di dimenticare: che senza uguaglianza concreta dei diritti, senza uguaglianza tra gli uomini nella dignità, sparisce la giustizia perché domina la legge dei privilegiati, scompare la democrazia perché uomini forti e saggi credono di dovere reggere i popoli per mandato divino, si eclissa la stessa libertà perché diventa solo garanzia di prepotenza dei forti. Historia docet. 1
2 Guarda con gli occhi dei ricchi chi, avallando un sistema economico e politico che ha portato all attuale crisi dell Occidente, forse non si è reso conto che, dopo 60 anni dalla Dichiarazione dei diritti dell uomo, oggi i diritti si sono trasformati in privilegi per alcuni e in concessioni e caritàelemosina per la maggioranza degli umani. Non può non guardare con gli occhi dei ricchi chi sia spendendosi per la gente oppure sciupando il tempo ha uno stipendio portato a casa ( sostentamento clero ), chi non ha problemi di tetto, di pasto, di futuro, di medicine, di freddo, di vestiti, di macchine, di vacanze Una simile esperienza di benessere disabilita chiunque ad interessarsi per sapere cosa è povertà. Nonostante tutto però il miracolo esiste. Ci sono preti che riescono a guardare con gli occhi dei poveri. Uomini non solo poveri e capaci di incredibili condivisioni, ma davvero vicini ad ogni problema della povera gente, presenti dove si discute di un posto di lavoro, della dignità di una scuola, della chiusura di una fabbrica. Di più: esistono anche altri preti che intervengono a livelli più alti nel dare voce ai poveri. Quanti hanno un minimo di conoscenza della Dottrina sociale della Chiesa, non possono accettare acriticamente le teorie mercantilistiche che stabiliscono il giusto prezzo di tutto in base alle eterne leggi della domanda e dell offerta, aspettando dalla mano invisibile della concorrenza che eventuali disordini vengano corretti. Essi sanno, e lo predicano, che ci sono diritti dell uomo da rispettare, ci sono beni comuni non disponibili alle leggi del mercato, ci sono bisogni primari da soddisfare ad ogni costo perché legati allo stesso diritto primordiale alla vita. Si pensi al cibo e alla casa, alla salute e all educazione, all acqua e ad un terra non contaminata. Se nel modo di pensare tra noi ministri ordinati c è una certa pluralità di opinioni e di atteggiamenti, nel campo pratico la diversità può apparire contraddizione. Pare che la sensibilità sociale riesca a scomparire quando si tratta di cavare soldi dai risparmi investiti in banca o di mettere a frutto beni della parrocchia. Allora non si guarda più per il sottile e si cerca come fanno tutti la massimizzazione dei profitti. Come se vivessimo in una doppia morale: una cosa è affermare in linea di principio che i beni della terra ci sono per tutti, che l ordine economico deve essere giusto per permettere ad ogni creatura umana una vita dignitosa, altra cosa è la prudenza e la scaltrezza nel gestire i beni di questo mondo, nel far fruttare i beni che poi neppure ci appartengono, dato che sono di proprietà della chiesa parrocchiale o della diocesi. Non si possono avere scrupoli: si deve cercare quella banca che ci assicura un migliore interesse, tentare perché no? l investimento creativo, speculare sull andamento di titoli azionari. A meno che non ci si voglia impelagare in un gretto moralismo e non ci si candidi a farsi accusare di imperdonabile irresponsabilità. Si porta come argomento decisivo di tale atteggiamento (o come scusa di fronte alla propria coscienza) che per avere la possibilità di aiutare i poveri bisogna ragionare come ragionano i ricchi. Sono infatti gli unici esperti a far fruttare i talenti. E se davanti agli occhi si ha una massa di disgraziati vittime magari dei disastri provocati dal neoliberismo attuale a cui noi ci siamo affiancati finiamo anche noi per pensare che «non possiamo farci nulla contro le disgrazie innumerevoli della vita» parola di un vecchio realista prete e che «non possiamo farci intenerire dalle facce di questi clandestini che dovrebbero stare a casa loro e invece ci stanno invadendo» come si espresse in una assemblea di clero, senza che nessuno battesse ciglio, un direttore Caritas diocesano... Grazie a Dio, la maggior parte dei preti ha veramente ben altro da fare che giocare in borsa o tentare il colpaccio favorevole nell altalenare dei mercati mondiali. I nostri sacerdoti saranno magari ingenui in finanza, agiscono come tutti nelle banche, ma è raro che se ne trovi qualcuno a cui la gente appioppi il titolo di traffichino o di usuraio o di uomo d affari. Questo non ci esime dal chiederci cosa succede nell animo di un comune credente quando si imbatte in un prete affarista che trova magari mille motivi morali per ritardare il pagamento degli stipendi, che segna al minimo di legge i contratti di lavoro, che trova del tutto legittimo pagare a 180 giorni certe fatture di fornitori in difficoltà, o che affitta con criteri del tutto economici i locali della curia o dell ex Azione Cattolica. Già, cosa succede quando un battezzato scopre questo aspetto del clero, magari generalizzando a tutta la categoria ciò che sarebbe vizio o mancanza di uno? 2
3 Forse pensiamo poco che se è vero che Dio lo si incontra nelle persone, è anche vero che lo si può perdere a causa di persone concrete, anche a causa di uno sfratto targato chiesa. E non badiamo a sufficienza che l incontro di un uomo della strada con un rappresentante di Dio non è un incontro qualsiasi. Mai un prete agisce in nome proprio. A torto o a ragione, la gente ritiene che il prete non ha una sua vita privata. È sempre uomo di Dio, sempre rende visibile il sacro. Oppure lo nasconde e lo contraddice. E ancora: rendiamoci conto che per molta, per troppa gente, la Chiesa è il parroco, il vescovo di quel posto, oppure addirittura il prete con cui viene a contatto in modo più significativo. E allora, riteniamo da sopprimere la domanda se «nei nostri incontri di ministri ordinati con la gente siamo roccia della loro fede o pietra di inciampo?». Lo sappiamo bene che a nessuna categoria si richiede tanto in abnegazione, onestà, correttezza, dedizione amorevole, serenità, limpidezza come ai preti. Ma non diciamo noi stessi che il prete è alter Christus? Comunque che è unico nella sua vocazione a fare del Regno e della sua giustizia lo scopo e il significato della sua vita? Se è così, siamo costretti a pensare che la gente ha diritto di scandalizzarsi quando un prete agisce negli affari, come tutti, a prezzi di mercato, seguendo quella logica mondana che poi nelle sue prediche astratte condanna, brandendo magari paragrafi delle encicliche sociali dei papi. Il problema si propone come un autentico caso di coscienza ed acquista una sua vistosità quando lo stesso ministro ordinato, vescovo o prete che sia, amministra beni ecclesiastici o presiede agli uffici amministrativi della curia. In questo caso se non si hanno occhi penetranti non è raro che si dia scandalo, pur agendo nella più chiara legalità. Al di là degli aspetti personali e del tenore esterno di vita tenuto da chi materialmente tiene la cassa, le cose diventano davvero gravi perché sono in gioco consistenti beni ecclesiastici (palazzi, appartamenti, fondi, titoli azionari ) che il prete gestisce in nome della stessa Chiesa. Si tratta di cose enormi, se fosse vero che la Chiesa detiene un sesto dell intero patrimonio immobiliare italiano. Allora c è un dissidio: da una parte si vuole che i beni rendano, sovvengano alle molteplici necessità di una diocesi (formazione del clero, costruzione di nuove chiese, sussidi straordinari a parrocchie in difficoltà...), e dunque li si amministra col criterio del massimo profitto ; dall altra ci si rende conto che, così facendo, si offre il fianco allo scandalo, perché la durezza delle leggi economiche la gente giustamente pensa che si addica ai servi di Mammona, non ai ministri di Dio. Allo scandalo seguono giudizi anche sommari, ma sempre con un orecchio alle parole di quel Falegname di Nazareth che dichiarava che l uomo pone il cuore là dove ha «il suo tesoro». Nessuno nega che un edificio dismesso da un ordine religioso, un piccolo seminario ormai inutilizzato, un episcopio vuoto da decenni abbiano valore commerciale considerevole. Ma non dovrebbero anche avere un valore pastorale? Di testimonianza? Affidarli ad un palazzinaro amico è la soluzione giusta quando la Caritas diocesana non sa dove accogliere i figli di Dio allo sbando, o quando l unico centro sociale del quartiere è stato smantellato dall ultimo sindaco? C è o no il rischio che contrabbandiamo per virtù la stessa logica di accumulo? L «affanno per le ricchezze» può ingabbiare anche un prete, un consacrato. Ci sono intere province religiose come intere diocesi dove la manutenzione delle strutture, il reperimento dei fondi per restauri è la primaria preoccupazione di nuclei di consacrati, ridotti numericamente all osso, nel presenziare illustri edifici dei secoli passati. Non sempre la ristrutturazione è funzionale ad un investimento speculativo (un seminario minore, un convento trasformato in albergo per turismo religioso ), a volte si tratta di tenere in piedi, perché non cada a pezzi, proprio un pezzo di storia dell Ordine, di una diocesi. È fondata l impressione che questa sorveglianza ai mattoni sia quasi fine a se stessa, dato che subordina a sé lo stesso servizio pastorale. La cosa ha una spiacevole ricaduta. È così preponderante questa cura di case ed edifici storici che nella scelta dei responsabili, perfino dei superiori di una casa religiosa, si deputano coloro che coi soldi ci sanno fare, anche se non proprio molto inclini ad una vita interiore sentita ed esemplare. L uomo di cui l istituzione ha bisogno finisce per essere non più l uomo saggio e santo, ma l uomo esperto nelle cose del mondo, che gli affari li sa concludere. Salvo magari ritrovarsi in perdite miliardarie per investimenti azzardati. 3
4 Per quanto ci possa dispiacere ammetterlo, è un dato di fatto che con troppa facilità la gente (anche battezzata e non ostile al Vangelo) vede nella Chiesa un gruppo di potere, di pressione economica, mai sazia di soldi dello stato, in possesso essa stessa di immensi beni; e dunque ricca ed amica dei ricchi. In altri termini, serva di quel dio-denaro che essa, secondo il Vangelo, dovrebbe detronizzare. Tutti abbiamo incontrato ministri ordinati che, in merito a problemi come questi, si trincerano dietro la convinzione che la gente «è piena di pregiudizi» e che è da folli andarci dietro. Sarà magari così. Ma vogliamo negare che questi pregiudizi hanno, purtroppo, un fondamento? O vogliamo dimenticare che la testimonianza richiesta da Gesù è nell ordine anche della visibilità esterna, e non dell interiorità nota solo a Lui? C è spesso uno squilibrio o una adolescenziale sprovvedutezza nell uso del denaro. Lo si dilapida in oggetti di facciata, in uffici arredati all ultimo design, in sciocchezze vanitose che indicano ridicoli raggiungimenti di status superiori. Può anche girare in diocesi l idea che il prete è qualcuno soprattutto se trova soldi, se edifica case, se crea beni che rendono. Tutto ciò rende patetica una omelia che proclamasse la predilezione di Gesù per i poveri Restiamo perplessi di fronte a cose simili, e ne abbiamo il diritto. Ci impelagheremo in difese apologetiche che almeno ridimensionino cifre e metri quadrati e spieghino che in fondo questi beni ricchi sono a servizio dei poveri? Non è invece più consono alla natura stessa della Chiesa interrogarci se una pastorale adeguata ed un annunzio più puro del Vangelo non esigano interventi propositivi perché la Chiesa non solo sia povera ma sia vista tale agli occhi dei poveri? L attuale crisi economica mondiale che sta creando miliardi di nuovi poveri non può considerarsi una Parola detta alla stessa Chiesa oggi? È lecito continuare nelle nostre dinamiche finanziare come se nulla succedesse sotto i nostri occhi? Vecchi ricordi di teologia morale ci rassicurano sulla legittimità della nostra gestione, almeno nella maggioranza dei casi. Ma badiamo forse poco al fatto che lo stesso popolo di Dio è disposto a perdonare molto al prete, perfino le sue fin troppo umane debolezze, perfino scivolamenti affettivi, ma non quell attaccamento al denaro che di solito gli rimprovera o che constata anche in religiosi che personalmente vivono in austera povertà. Che fare? Quali criteri seguire? Si può oltrepassare in questo campo la weberiana etica della responsabilità e seguire principi che mostrino concretamente la Chiesa non conforme agli «schemi di questo mondo» ma conforme al suo Signore? Ritorniamo così a parlare di un problema che occupa e preoccupa la Chiesa fin dalle sue origini, ma che oggi sembra decisivo per le sorti dell umanità, se è vero che l attuale globalizzazione economica, gli attuali sistemi di mercato sono alla base dell impoverimento del pianeta nel periodo della sua massima complessiva ricchezza. Ci è difficile, molto difficile, parlare della povertà e della priorità dell uomo, quando concretamente noi inseriamo nella logica perversa dei ricchi quei beni che la gente ha dato per i poveri della Chiesa. Ci rendiamo conto che il problema è complesso, ed è insieme decisivo per la nostra credibilità. Noi riteniamo che una sorta di voto di povertà e gratuità sia connaturale con la vocazione e la missione del battezzato, soprattutto di quanti vogliono fare dell annunzio del Vangelo l unico orizzonte della loro vita. E che altro è un prete? Ma riteniamo pure che se la comunità credente si vuole efficacemente inserire nella ricerca di una nuova economia che salvaguardi la priorità della vita sul pianeta, deve trovare altre direttive per l amministrazione dei suoi beni, altri criteri nei propri investimenti. Sarebbe paradossale (ed è capitato!) che si aiutino i disastrati di una guerra con i proventi di un investimento bancario che ha finanziato quella guerra. Non bastano i consulenti economici, non bastano i consigli di amministrazione composti anche da laici se non c è una spiritualità del denaro, perfino un qualche gusto per la civiltà della povertà termine oscuro questo, ce ne rendiamo conto, e che esigerebbe ben altro spazio. Nulla basta a dissolvere il 4
5 pericolo dello scandalo se non ci si convince, in qualche modo, che i beni di Dio non possono essere amministrati secondo i criteri degli uomini. La monografia a questo soltanto tende, a porre qualche domanda perché l amministrazione dei beni finisca di sfigurare il volto vero della Chiesa: presenza del Povero lungo i secoli. Non solo, ma diventi occasione dell annunzio di un Vangelo che, salvando nella storia, costruisce una storia di salvezza. Il problema che stiamo trattando non attiene solo alla teologia morale e pastorale. Tocca la fede. Dobbiamo prendere coscienza che le critiche di papa Wojtyla al neoliberismo si pensi alla Centesimus Annus sono servite a ben poco. Forse solo a rafforzare la sua leadership personale, e ad accrescere quel vano prestigio dei chierici che, proditoriamente quasi, hanno fatto propri il coraggio e la lungimiranza del defunto papa, senza però arrivare mai a significativa conversione. Dichiarazioni come quelle, e anche più esplicite, servono a poco se esse non vengono supportate dalla pratica coerente dei cristiani e, in particolare, di quei ministri ordinati preposti alla gestione dei beni ecclesiastici. Il mondo oggi è solo finanza. O ci si sgancia dalla sua logica bottegaia e si contesta così il predominio di Mammona, o lo si segue, decretando così lo svuotamento del Vangelo. Siamo convinti che questo sganciamento dal sistema è solo il primo passo. Dovrà necessariamente seguirne un altro: quella nuova evangelizzazione che tende a confrontarsi con la vecchia cultura signorile diseguale e ingiusta, per ribaltarla in una cultura della solidarietà e del puntiglioso rispetto del diritto alla vita umana di ogni creatura sotto qualsiasi cielo. Per evitare che gli anni 2000 continuino la barbarie del 900, il secolo breve, è fondamentale che il cristianesimo diventi annuncio di un uomo nuovo che, sentendosi uguale a ogni altro uomo, non ha bisogno né di tirannia e schiavitù, né di sfruttamento e dominio. Un uomo disposto a porre al centro di tutto l irriducibilità di ogni volto che apre alla comunicazione e predispone al rispetto di ogni diversità. Un uomo dunque che non calcola più il suo sviluppo in termini di Prodotto Interno Lordo (Pil), ma di qualità di vita e di umanità. Per quanto ci riesca difficile spiegarci in questa sede, avvertiamo che questo cambiamento di cultura non è certamente stato operato. Non sappiamo neppure se è stato iniziato. Solo in una minoranza umana va facendosi strada negli ultimi cinquant anni, e al di là di ogni fede professata. Anzi, questa strana tribù di folli, che crede nell uomo-servo (cioè nell uomo che è tale perché relazione, dono, servizio a un fratello che, in fondo, è uno con lui, è lui così come ha indicato Gesù di Nazareth), questa genia di stravaganti idioti destinati ad auto crocifiggersi, è continuamente minacciata dall establishment e da quei nuclei agguerriti che inaugurano il nuovo razzismo. Anche il nuovo emergente razzismo cristiano. «Questi idealisti sono una razza in estinzione», proclamava sicuro il direttore di un quotidiano. Sarebbe la storia, la storia che viviamo, a togliere loro la parola. Sarà vero, ma da ciò non ne ricaviamo nessun senso di sconfitta. Diciamo solo che prima ancora della difesa dei conclamati valori che stanno a cuore ai cattolici, c è da operare questa rivoluzione. Senza di essa i valori restano ambigui o vuoti. Il mondo non ha bisogno di una pace americana o occidentale, neppure di una pace islamica (sarebbe tirannia), ma di pace, sic et simpliciter. Gli uomini non hanno bisogno di un dio, ma del Dio di Gesù, fondamento e custode della dignità di ogni uomo. Non abbiamo bisogno di un ulteriore progresso tecnico per pochi eletti, ma dell estensione al pianeta delle mete raggiunte. Non ci serve affatto un qualsiasi lavoro (in fabbriche di armi, prostituzione, esercito, lavoro minorile, in nero ); ci serve un lavoro che costruisca la vita e restauri questo pianeta devastato. Soprattutto non abbiamo bisogno della libertà dei ricchi e dei potenti, così proclive a trasformarsi in tirannica legge della giungla, ma di libertà umana che sia sempre in grado di percepire domande e dare risposte (la responsabilità!) a ogni compagno di cammino. Se questo ribaltamento culturale è autentica missione della Chiesa intera, pare ovvio concludere che un tale compito si presenta particolarmente difficile quando essa stessa ha una rapporto ambiguo, non esclusivamente evangelico, col denaro, la ricchezza, i mattoni. Parafrasando le parole di un prete, forse dobbiamo confessare che è tempo di smetterla di leggere il Vangelo come se non avessimo soldi, e di servirci dei soldi come se non sapessimo nulla del Vangelo. (F. S.) 5
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