«Guarda che da me tu non sia mozzo»

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1 «Guarda che da me tu non sia mozzo» Lettura e commento del canto XVI del Purgatorio Elaborato a cura di CANDELORO Gianmarco CIRILLO Mario CURTI Nicola DI GIOVANNI Simone DI SANTE Jennifer GIANSANTE Chiara GIORGIONE Magda LUTSYCHYN Nazar MATRICARDI Jacopo MORSELLA Kevin PIZZUTO Alessandro ZOPPI Giulia Classi IV Liceo Scientifico e Linguistico Europeo dell Istituto Nostra Signora Referente: prof. Vincenzo Narciso

2 LA CAGION CHE L MONDO HA FATTO REO Buio d inferno e di notte privata d ogne pianeto, sotto pover cielo, quant esser può di nuvol tenebrata, non fece al viso mio sì grosso velo come quel fummo ch ivi ci coperse, né a sentir di così aspro pelo, che l occhio stare aperto non sofferse; onde la scorta mia saputa e fida mi s accostò e l omero m offerse. (Purg., XVI, 1-9, nostre sottolineature) Nell incipit del canto XVI del Purgatorio Dante propone un atmosfera infernale, rimandandoci così al III dell Inferno: utilizza, infatti, quasi esattamente la stessa terna di rime: pelo cielo gelo (nell incontro con Caronte) e in seguito, perfettamente la stessa terna di rime nel II canto del Purgatorio (nell incontro con l angelo): velo cielo pelo. La ripetizione è voluta dall autore perché egli, con maggiore consapevolezza, vuole esprimere un concetto sempre più profondo utilizzando ogni volta le parole in senso più autentico: mentre nell Inferno le anime dei dannati avevano perso qualsivoglia valore, quelle del Purgatorio, i valori li avevano solamente smarriti. L ambientazione della cornice degli iracondi ci ricorda il paesaggio infernale dei superbi, che prosegue nell incontro con Marco Lombardo: egli, uscendo dal fumo, apre paradossalmente gli occhi a Dante esprimendo e chiarendo un concetto vitale, da sempre a base della morale: la distinzione tra il bene e il male. Marco apostrofa umilmente Dante dicendogli: Frate, lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui. / Voi che vivete ogne cagion recate / pur suso al cielo, pur come se tutto / movesse seco di necessitate (XVI, 65-69). La parola frate, in posizione forte, evoca il cammino da intraprendere nel Purgatorio: l umiltà come mezzo per cominciare la via della purificazione; così ci rimanda al mondo terreno, aprendoci una finestra sul modo di vivere degli uomini e di come molti di questi, superficialmente, preferiscono maledire il cielo piuttosto che giudicare e cercare di risolvere le proprie difficoltà. Si evidenzia così il problema della politica a quel tempo, e forse ancora quello di oggi: l assenza di un autorità. Non a caso il canto XVI è centrale nella Commedia, precisamente il cinquantesimo, ci fa capire come l affidarsi all autorità sia il primo passo verso la salvezza e quindi il motore primario che ci farà poi muovere verso il paradiso. Marco afferma che, per contrastare il male, la volontà 2

3 umana deve liberamente decidere di lasciarsi guidare dalla ragione verso qualcosa di più grande rispetto a noi, che non possiamo evitare o far finta che non esista: A maggior forza e miglior natura / liberi soggiacete; e quella cria / la mente in voi, che l ciel non ha in sua cura. (79-81). L uomo, per essere guidato al bene, ha bisogno di un autorità e questa deve trovarsi nel sistema che educa e che vuole il bene del proprio popolo, quindi nella politica. È la questione che emerge con maggior forza dal discorso del penitente. Difatti poco dopo si apre una parentesi sulla situazione politica contemporanea a Dante e di come le istituzioni della Chiesa e dell Impero siano in difetto. Per restaurare una politica forte e basata sulla voglia del bene, occorre sciogliere ed eliminare quella scissione dualistica avvenuta tra valore e cortesia che non esisteva nell Impero romano. Dante annuncia così il cambiamento che deve essere attuato per arrivare ad una realtà morale e politica che liberamente soggiace al cielo. L autore, così facendo, diventa portatore del messaggio divino senza dimenticare la propria umanità. Dante sosteneva che gli uomini (in quanto anime semplicette che tornano volentieri a ciò che le trastulla) non nascessero malvagi, ma potessero comunque divenire tali e dunque rovinare la propria società e il proprio stato: Ben puoi veder che la mala condotta / è la cagion che l mondo ha fatto reo, / e non natura che n voi sia corrotta. D opinione diametralmente opposta era Machiavelli che sosteneva l idea della natura malvagia dell uomo. Un argomento su cui Machiavelli e Dante erano invece d accordo era il modello del mondo romano: Soleva Roma, che l buon mondo feo due soli aver, che l una e l altra strada facean vedere, e del mondo e di Deo. L un l altro ha spento; ed è giunta la spada col pasturale, e l un con l altro insieme per viva forza mal convien che vada; però che, giunti, l un l altro non teme: se non mi credi, pon mente a la spiga, ch ogn erba si conosce per lo seme. ( ) Scrivendo ciò Dante non solo ci rende partecipi della situazione politica del tempo (in cui il Papato con lo Stato della Chiesa era riuscito ad oscurare i piccoli regni, comuni e signorie italiani), ma anche del fatto che era contrario all unione di potere temporale e spirituale. Questo concetto sarà ripreso più volte anche nel De Monarchia, opera alla quale s ispirerà due secoli dopo Machiavelli per il De Principatibus. 3

4 Uomini fummo, e or siam fatti sterpi Questa era la visione di un uomo di corte, proprio come molti personaggi che Dante durante il suo viaggio incontra. Tra tutti citiamo Ciacco, Pier Delle Vigne, Farinata e Sordello. I primi tre sono collocati nell Inferno, l ultimo invece nel Purgatorio. Sordello da Goito fu tra i più famosi e grandi trovatori italiani. È evidente che Dante abbia visto in lui la persona che, per il suo impegno politico e civile, meglio poteva rappresentarlo nel ruolo di censore delle autorità terrene. Egli compare a metà del canto VI, solitario e tanto maestoso e solenne da poter essere paragonato ad una statua, mentre gli altri personaggi dell antipurgatorio non si distinguono mai del tutto dalla schiera cui appartengono. L anima è scorta da Virgilio che le si avvicina per chiedere informazioni sul percorso. Il penitente non risponde, ma appena scopre che si tratta di un suo compatriota, corre ad abbracciarlo e si presenta come Sordello. Questo abbraccio è dettato esclusivamente dall amore di patria, dal riconoscersi conterranei. Ne scaturisce la lunga e commossa invettiva Ahi, serva Italia, di dolore ostello (Purg., VI, 76ss.) Ciacco è situato nel terzo cerchio dell inferno. È condannato per il peccato di gola, per il quale è fiaccato sotto la pioggia. Il goloso è uno che sottrae ad altri, per egoismo, preziose risorse alimentari che potevano, in quell epoca, scarseggiare con molta facilità a causa di frequenti carestie. Dunque la severa punizione può apparire a noi sproporzionata se non si tiene conto del significato negativo ed egoistico che esso assume in epoca medievale. Dante gli pone alcune domande sul futuro di Firenze, città politicamente lacerata, gli chiede inoltre se ci sia qualche giusto e le cause di tanta discordia. Ciacco risponde con una perifrasi polemica che costituisce una sferzata morale per quei fiorentini macchiati dall odio, dalla gelosia che li ha spinti alla affannata corsa per il potere. Inoltre, con un linguaggio oscuro, il goloso preannuncia un futuro di contrasti e scontri cruenti fra i Guelfi di parte bianca e quelli di parte nera. Nella seconda parte del dialogo Dante si mostra ansioso di conoscere la sorte di diversi uomini politici noti per le loro benemerenze civili. La risposta di Ciacco è sconvolgente: sono tutti all inferno tra l anime più nere in quanto hanno infranto la legge morale. Pier delle Vigne racconta la sua vicenda nel canto XIII dell Inferno. Fu consigliere fidatissimo e ministro di Federico II di Svevia, cadde in disgrazia per l invidia dei cortigiani. Così, per proclamare la propria innocenza e fedeltà, si uccise. Il discorso di Piero è la dimostrazione di chi, riuscito a divenire intimo consigliere dell imperatore mantenendo una assoluta fedeltà, pagò col suicidio l invidia altrui. L imperatore viene ricordato dapprima col nome proprio, Federigo, per sottolineare l amicizia personale; poi con l appellativo di Cesare e di Augusto quando è rievocato a corte; infine è definito mio segnor quando si tratta di riaffermare l assoluta fedeltà. La pietà di Dante è il sintomo di una profonda solidarietà che deriva da una parziale identificazione col 4

5 destino di Piero; anch egli ha provato le dolorose conseguenze dell ingiustizia degli uomini: sia Pier delle Vigne sia Dante furono dilaniati e ingiustamente allontanati, il primo col suicidio, il secondo attraverso l esilio. Dante e Virgilio incontrano infine Farinata degli Uberti nel canto X dell Inferno. Importante esponente politico della fazione dei ghibellini, quando questi proposero di radere al suolo Firenze, fu l unico a opporsi. La sua anima si erge maestosa nel sesto cerchio, ove sono puniti gli eretici che giacciono in tombe arroventate dal fuoco. Si tratta di un avversario politico di Dante, ma entrambi sono potentemente animati da una passione, che è segno dell attaccamento alla patria. L incapacità dei Ghibellini di rientrare in Firenze è per Farinata motivo di un tormento peggiore della sua stessa pena infernale. Così, come con Pier delle Vigne, si arriva a un processo di parziale autoidentificazione di Dante col personaggio che gli sta di fronte: sono accomunati da uno stesso destino di esilio definitivo dalla propria patria, anche se divisi dal credo politico. Nave sanza nocchiere in gran tempesta Avanzando nella fitta nebbia, Dante sente invocare l Agnus Dei per ottenere pace e misericordia, con un canto concorde e armonioso: l agnello infatti, come simbolo di mitezza, in contrasto con l iracondia, rappresenta il sacrificio di Gesù che si impone non con la forza, ma con il dono di sé. Dante, alla domanda fatta da uno spirito, esordendo con una captatio benevolentiae risponde che avrebbe udito cose incredibili se l avesse aiutato: Allora incominciai: «Con quella fascia che la morte dissolve men vo suso, e venni qui per l infernale ambascia. E se Dio m ha in sua grazia rinchiuso, tanto che vuol ch i veggia la sua corte per modo tutto fuor del moderno uso, non mi celar chi fosti anzi la morte, ma dilmi, e dimmi s i vo bene al varco; e tue parole fier le nostre scorte». (37-45) Lo spirito si rivela e afferma di chiamarsi Marco, cortigiano dell Italia settentrionale nel Duecento. Dante gli affida la discussione riguardante il libero arbitrio, l origine della corruzione nel mondo e il rapporto tra potere temporale e spirituale. Marco Lombardo in cambio gli chiede di pregare per la propria ascesa in Paradiso. Egli afferma che la concezione dell impero romano sia la migliore: due soli, che rappresentano l impero e la chiesa, detenevano il potere politico e potere spirituale. Ma con il passare del tempo le 5

6 cose sono andate sempre più a confondersi: infatti, papa Bonifacio VIII deteneva il potere spirituale e cercava di impadronirsi anche di quello politico: L un l altro ha spento; ed è giunta la spada col pasturale, e l un con l altro insieme per viva forza mal convien che vada; però che, giunti, l un l altro non teme: se non mi credi, pon mente a la spiga ( ). Marco Lombardo illustra la situazione politica dell impero romano e di Firenze intorno alla fine del XIII secolo, periodo nel quale Dante è nel pieno della sua attività letteraria. L assetto dell impero romano incarna lo stato ideale: vi era una rigorosa suddivisione di ogni tipo di potere, ma soprattutto potere politico e potere spirituale erano nettamente separati: il Papa si occupava dell ambito spirituale, mentre l imperatore e gli altri personaggi politici di spicco amministravano il potere politico. Marco illustra la situazione che troviamo invece al tempo in Italia e a Firenze: l mondo presente disvia (v. 82); il Papa, cercando di amministrare tutti e due i poteri finì per non svolgere bene nessuno dei due. Questa è una conferma che chi detiene il potere facilmente può lasciarsi corrompere, pensando solamente a se stesso e non al bene del popolo. Eppure ciò che ci viene detto a proposito dell impero romano e della situazione italiana del 300, si ripete ancora oggi in Italia. I politici sembrano pensare solo a se stessi, e non curarsi del popolo, e l unico momento in cui mostrano interesse è in prossimità delle elezioni, quando devono attirare più voti dalla loro parte. La situazione che si vive oggi in Italia è una delle più difficili, perché a quasi due mesi dalle elezioni il popolo italiano si trova senza un governo, senza una guida. A questo punto vien da pensare che aveva ragione Marco, quando affermava che l idea di stato perfetto si poteva trovare realizzata solamente duemila anni fa con l impero romano. Per modo tutto fuor del moderno uso E libero voler [ ] / poi vince tutto, se ben si notrica : per Dante un uomo può soggiacere veramente libero, quando non solo fa quello che vuole, ma soprattutto vuole davvero quello che fa, e quando questo suo volere e fare sono perfettamente coerenti col suo essere che agisce in funzione di un bene maggiore. Questa dinamica si avvicina a tratti al pensiero del filosofo tedesco Immanuel Kant, che sosteneva idee apparentemente opposte, di stampo razionalista: Ogni cultura e arte, ornamento dell umanità, e il migliore ordinamento sociale sono frutti dell insocievolezza, la quale si costringe da sé a disciplinarsi e a svolgere quindi compiutamente con arte forzata i germi della natura (Idee per una 6

7 storia universale dal punto di vista cosmopolitico, 1784, in Stato di diritto, p. 104). Come per Kant, anche per Dante l uomo deve vincere i propri istinti, ma mentre per il poeta questo va fatto al fine di raggiungere un bene maggiore, per Kant l obiettivo finale è quello di costruire una società perfetta, capace di sottomettere gli uomini alla propria giustizia per poi lasciarli liberi, cioè indipendenti. La libertà che solo il soggetto può trovare, non è infatti condizionata da nessun oggetto o agente esterno, data la superiorità del soggetto stesso. Dante, come Kant, si vede autore della propria storia, fautore del proprio destino, ma ci invita, attraverso la lettura della Commedia, a essere protagonisti unici e irripetibili della nostra vita, attraverso una serie di incontri ed esperienze. Infatti, mentre per Dante l autorità politica deriva direttamente da Dio ed ha a che fare con libertà e responsabilità personali (quindi non si può né fondere né scindere né sostituire a quella papale), per Kant questo dilemma non si pone nemmeno, perché egli in pieno illuminismo ha un ottica puramente laica e razionalista: Non c è da attendersi che i re filosofeggino o che i filosofi diventino re, e neppure è da desiderarlo, perché il possesso della forza corrompe il libero giudizio della ragione (Per la pace perpetua, 1795). Nell ultima parte della sua opera, Kant si approccia invece a un idea più romantica, infatti, come suo epitaffio fa scrivere una frase tratta dalla Critica della ragion pratica: Due cose hanno soddisfatto la mia mente con nuova e crescente ammirazione e soggezione e hanno occupato persistentemente il mio pensiero: il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me. Perché l Italia del 200, come quella del 500 e come quella odierna è sempre in crisi politica? Perché non troviamo un Monarca, un Principe o un Presidente in grado di guidare una nazione in modo saggio e gentile come fa un pastore con le proprie pecore? Forse in Italia siamo tutti pecore, in mezzo al gregge c è qualche lupo, ma di pastori neanche l ombra. I cervelli fuggono, i ribelli sfuggono, e un intero popolo dotato di facoltà di scelta vota chi sembra meno peggio. Il principe di Machiavelli si presta a fare cose apparentemente immorali per il BENE del proprio principato, del proprio popolo; i potenti di oggi neanche si curano di salvare l apparenza. Ma non possiamo aspettare che cambi chi ha in mano il potere: auguriamoci che ci sia partecipazione alla vita socio-politica e non corruzione. Dovremmo tornare ad essere quelle anime semplicette che vogliono il bene. Altro ben è che non fa l uom felice; / non è felicità, non è la buona / essenza, d ogne ben frutto e radice (Pur., XVII, ). 7

8 Chiedi umilemente che l serrame scioglia Liberi dall inferno Dante considera la libertà come sottomissione a qualcuno (cfr. v. 80). Per comprendere a fondo la questione, è necessario liberarsi dal pregiudizio in cui la nostra società si è incagliata, e arrivare al significato autentico della sottomissione: essa non deve essere intesa come il legame tra un padrone e il proprio schiavo, bensì come il rapporto di affezione di una madre col figlio o di uno studente verso il proprio insegnante. La sottomissione è una tendenza innata nell essere umano. Sin dalla nascita sentiamo il bisogno di stare sotto a qualcosa di più grande; basti pensare agli uomini primitivi che si inginocchiavano davanti al tuono o veneravano la montagna, oppure al mondo antico, che proiettava le proprie passioni su una serie di divinità a immagine e somiglianza degli uomini. Costretto a questo atto di sottomissione, l uomo sente però di perdere la propria libertà. La novità portata dal cristianesimo consiste non tanto nel sottomettersi a qualcosa, ma nel fidarsi di qualcuno: ed è proprio su questo che per Dante si distinguono i dannati dell inferno, incapaci di fidarsi se non di se stessi, le anime del purgatorio che si sono pentite e hanno chiesto perdono, e i beati del paradiso che hanno sperimentato questo legame. Vorremmo qui richiamare la figura di Giuda e l episodio dell arresto di Gesù: Mentre parlava ancora, ecco arrivare Giuda, uno dei Dodici, e con lui una gran folla con spade e bastoni, mandata dai sommi sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore aveva dato loro questo segnale dicendo: «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo!». E subito si avvicinò a Gesù e disse: «Salve, Rabbì!». E lo baciò. E Gesù gli disse: «Amico, per questo sei qui!». Allora si fecero avanti e misero le mani addosso a Gesù e lo arrestarono. (Mt., 47-50) Giuda aveva scelto liberamente di seguire il suo maestro e quindi di sottomettersi a lui, ma durante la sua vita viene attratto sempre più dal materialismo, fino al tradimento. Subito dopo si pente della sua scelta, ma, non sapendo come rimediare, si suicida: invece di chiedere perdono come accadrà a Pietro decide di condannare se stesso. Giuda si scandalizza del proprio male, non comprende la misericordia di Gesù, il quale, nonostante il tradimento, sarebbe stato capace di perdonarlo ancora. È questo che lo porta nel più profondo dell inferno. Dante lo considera il simbolo dell avarizia e del tradimento, è il peccatore che soffre la pena peggiore di tutte: viene infatti collocato nella quarta zona di Cocito (IX cerchio). Non è sepolto nel ghiaccio come gli altri, ma, in quanto traditore di Cristo e della Chiesa, è dilaniato da Lucifero nella bocca della faccia centrale; il mostro gli graffia la schiena con gli artigli e talvolta gliela scortica totalmente: 8

9 A quel dinanzi il mordere era nulla verso l graffiar, che talvolta la schiena rimanea de la pelle tutta brulla. «Quell anima là sù c ha maggior pena», disse l maestro, «è Giuda Scariotto, che l capo ha dentro e fuor le gambe mena. (Inf., XXXIV, 58-63) Giuda, sottomettendosi al materialismo, perde tutto ciò che l uomo ha di più importante: i propri valori. Scegliendo il tradimento, come detto, la sua libertà decide di rivolgersi contro il maestro e in ultima analisi contro se stessa. In questo episodio dobbiamo fare attenzione anche ad un altro particolare: molti si saranno domandati come sia possibile che Gesù di Nazareth, conoscendo il suo destino, ma soprattutto sapendo delle intenzioni da parte di Giuda, non abbia fatto nulla per evitarlo; Giuda opta coscientemente e responsabilmente per il tradimento aderendo (sottomettendosi) a Satana, e Dio inserisce questo indegno atto umano nel Suo libero ed efficace progetto di salvezza. Dio non è scandalizzato dalla scelta del traditore; egli la rispetta e non la blocca, anzi gli lascia tutta la libertà di compiere il suo tragitto. Questa formula vuole indicare che anche la libertà umana con le sue follie e vergogne può essere inserita in una prospettiva divina superiore. Bisogna dunque rifiutare una visione individualistica ed autonoma, evitare un bene individuale e cercare di portare dentro di sé un bene comune: liberi soggiacete! Maestro e autore Facendo un lungo passo indietro, fino al canto I dell Inferno, proprio all inizio del viaggio, in un momento di difficoltà umanamente impossibile da superare, vediamo il poeta compiere un atto di umiltà, il primo nella Commedia: egli chiede aiuto ad una presenza ancora non ben conosciuta. «Miserere di me», gridai a lui, «qual che tu sii, od ombra od omo certo!» (Inf., I, 65-66) Dante capisce che per superare le avversità è indispensabile lasciarsi guidare da un altro. Durante tutto il viaggio nell inferno, il poeta pone domande alla sua guida in quanto non riesce ancora a comprendere il significato di diverse situazioni che Virgilio invece conosce, avendo già una volta percorso quella strada. Una volta fuor dell aura morta, ai piedi della montagna del Purgatorio, la situazione cambia radicalmente: non c è più bisogno di chiedere a Virgilio il senso di quanto accade, poiché Dante capisce che quello a cui va incontro ha uno scopo ben preciso e non si tratta di certo di un azione fine a se stessa. 9

10 Il I canto del Purgatorio si chiude con il rito della purificazione: il poeta latino cinge il corpo del viaggiatore col giunco e gli lava il viso, mentre Dante non fa più domande e libero soggiace a questa consacrazione, perché sa che quello per cui si sta preparando non è ancora pienamente comprensibile a lui. Così man mano il poeta acquisisce maggior consapevolezza delle proprie azioni, tanto che poco prima di varcare le soglie del Purgatorio, lancia un invettiva contro lo Stato e la Chiesa che, presi dai propri affari, lasciano consapevolmente nel disordine più assoluto il popolo, al quale non permettono di avere un riferimento né spirituale né politico. Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di province, ma bordello! (Purg., VI, 76-78). L Italia è serva : però non soggiace liberamente, perché la sella è vota (ivi, v. 89), non esiste cioè una figura che si metta a capo del popolo per guidarlo verso il bene. Un autorità nel cieco mondo Come già detto, l incipit del XVI canto del Purgatorio è caratterizzato da un atmosfera tetra e inusuale: Buio d inferno e di notte privata d ogne pianeto, sotto pover cielo, quant esser può di nuvol tenebrata, non fece al viso mio sì grosso velo come quel fummo ch ivi ci coperse, né a sentir di così aspro pelo, che l occhio stare aperto non sofferse; (Purg., XVI, 1-7) Tutto è ricoperto da un fumo denso e scuro che non permette di vedere. Dante è tuttavia rassicurato da Virgilio e si paragona a un cieco che va dietro a sua guida. La cecità è una delle caratteristiche principali di questo canto: anche gli iracondi, i purganti di questa cornice, sono stati accecati in vita dall ira e ora vivono nella nebbia totale per la legge del contrappasso. In questo ambiente prevalgono dunque sensazioni uditive: Dante sente le anime cantare armoniosamente Agnus Dei e questa concordia immediatamente lo rassicura. Improvvisamente si manifesta Marco Lombardo, il protagonista di questo canto, che esordisce in modo suggestivo: Or tu chi se che l nostro fummo fendi, e di noi parli pur come se tue partissi ancor lo tempo per calendi? (ivi, 25-27) 10

11 A differenza di altri personaggi nella Commedia, egli non viene descritto da Dante, il quale non può vederlo a causa del fumo. I due si tengono in contatto solo tramite l udito, come ribadito dallo stesso Marco: e se veder fummo non lascia, / l udir ci terrà giunti in quella vece. (35-36). Proprio questo rende particolare l intero canto: non sappiamo bene la storia del personaggio, che si presenta in una sola terzina: Lombardo fui, e fu chiamato Marco; del mondo seppi, e quel valore amai al quale ha or ciascun disteso l arco. (46-48) La sua presenza è come una voce fuori campo che chiarisce a Dante il dubbio dentro il quale questi scoppia: perché il mondo è di malizia gravido e coverto (v. 60)? Dante vuole infatti conoscere la cagione del male sulla Terra, dato che alcuni danno la colpa agli influssi astrali, altri agli uomini. Marco risponde: lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui. (v. 66). Ritorna dunque la mancanza di vista che caratterizza l intero canto. Gli uomini pongono la causa di ciò che accade in cielo, come se tutto si muovesse per necessità e ciascuno non potesse fare nulla per cambiare la propria situazione. In realtà non è così, perché l uomo ha lume e libero voler con i quali combatte gli influssi astrali. Egli deve sottoporsi liberamente a una forza maggiore e a una natura più alta di quella del cielo: Dio, il quale crea l anima razionale, costituita da intelletto e volontà. Essa si muove verso ciò che più le piace, ma ha bisogno di guida o fren che torce suo amore, altrimenti s inganna (v. 93). Questa guida, purtroppo, non indica più la vera strada al suo popolo, ma si sofferma solo sui beni materiali e in questo viene imitata dalla gente. La cagion che l mondo ha fatto reo (v. 104) è dunque la mancanza di un soggetto super partes di cui l anima umana, dotata di libertà, ma inesperta e facile a cadere in errore, ha bisogno per dirigersi verso il bene. Anche il finale del canto è inusuale: come è apparsa, così l anima bruscamente va via: Così tornò, e più non volle udirmi. (v. 145). Ci troviamo al centro di tutta la Commedia: questo canto occupa infatti il cinquantesimo posto e tratta il tema cardine di tutto il Purgatorio, la libertà. Marco Lombardo ne dà questa paradossale definizione: A maggior forza e a miglior natura / liberi soggiacete (79-80). Bisogna fidarsi di qualcuno e fare la sua volontà per essere veramente liberi. Si tratta di qualcuno che ti vuole bene, che vuole che tu faccia la sua volontà solo perché sa che puoi migliorare la tua condizione, che puoi aspirare a una dimensione maggiore. Per dirla con un termine dantesco, è un autore (dal latino auctor, derivato da augeo, cioè far crescere: colui che fa crescere). Tu se lo mio maestro e l mio autore (Inf., I, v. 85): Virgilio non è solo maestro di Dante, non solo insegna a un alunno che apprende passivamente, ma soprattutto lo coinvolge in prima persona, lo chiama in causa, gli fa 11

12 capire ciò che deve fare non solo con le parole, ma anche con i gesti. L uomo riacquista così dignità, ritorna a essere davvero libero perché segue la volontà di un altro, volontà che coincide con la propria. Non dobbiamo tuttavia riporre fiducia in chiunque, ma abbiamo due strumenti fondamentali per capire a chi affidarci: lume v è dato a bene e a malizia, / e libero voler (75-76). Il voler non è solo, ma è accompagnato dall aggettivo libero. Dunque la libertà coincide con la volontà. L uomo ha a disposizione intelletto e volontà: dopo un attento vaglio della realtà può giungere a capire chi potrebbe essere il suo autore da seguire. È ciò che fa Dante nell Inferno: non si fida subito di Virgilio, ma accetta di compiere il viaggio con lui solo quando il poeta latino gli chiarisce nei minimi dettagli che il cammino di Dante fa parte di un progetto più grande, voluto da Maria e passato attraverso santa Lucia e Beatrice. Non basta dunque una conoscenza teorica: per recuperare pienamente la ragione, Dante deve prima attraversare il luogo in cui vi sono le genti dolorose / c hanno perduto il ben de l intelletto (Inf., III, 17-18). Una pretesa di indipendenza Questo canto può essere paragonato con la vicenda di Ulisse, protagonista del canto XXVI dell Inferno, ambientato nella bolgia dei consiglieri fraudolenti. L eroe antico, come la maggior parte degli uomini, identifica la libertà come totale indipendenza e, a causa della sua ferma convinzione, va inesorabilmente incontro ad una tragica morte, inghiottito dal mare appena scorge la montagna del Purgatorio: quando n apparve una montagna, bruna per la distanza, [ ] Tre volte il fé girar con tutte l acque; a la quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, com altrui piacque, infin che l mar fu sovra noi richiuso. (Inf., XXVI, ) Sia il viaggio di Ulisse in mare sia quello di Dante nella cornice degli iracondi si svolgono in assenza di luce: il primo, nonostante veda le stelle del mondo sanza gente, non è capace di orientarsi perché non le conosce; il secondo, invece, sebbene sia immerso in una coltre di fumo che gli impedisce la vista, sa bene come proseguire, essendo saldamente attaccato alla spalla di Virgilio. Con quella fascia / che la morte dissolve men vo suso / e venni qui per l infernale ambascia. (Purg., XVI, 37-39). Queste sono le parole di Dante per sintetizzare il cammino fatto fin qui. La parola fascia si riferisce al corpo di Dante e a sua volta quest ultimo afferma di esser rinchiuso nella grazia di Dio. Tutto il resto del mondo è invece di malizia gravido e coverto e il poeta si 12

13 distingue perché è protetto da chi lo ama. Il termine fascia compare però anche nel canto di Ulisse nell Inferno: Dentro dai fuochi son gli spirti / catun si fascia di quel ch elli è inceso. (Inf., XXVI, 47-48, sottolineatura nostra) dice Virgilio. Anche i consiglieri fraudolenti sono avvolti da una fascia : essa non rappresenta però la salvezza, come nel caso di Dante, ma una punizione eterna. Per quanto riguarda le modalità di affrontare i rispettivi viaggi, Ulisse si muove alla scoperta dell ignoto insieme ai suoi compagni; Dante invece sale la montagna del purgatorio per riacquistare la dignità umana perduta dai dannati. Ulisse, nel suo discorso, incita i compagni: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza. (Inf., XXVI, ), ma in qualche modo li inganna; Dante sa perfettamente che la strada della purificazione è stretta e fatta su misura per ognuno. A dimostrazione di ciò si possono confrontare gli ingressi ai due mondi: la porta infernale è larga e sempre aperta, fatta per coloro che si comportano da bestie e devono quindi lasciare ogni speranza, mentre quella del Purgatorio è piccola, ma a misura d uomo, perché chi l attraversa possa compiere un passo di conoscenza importante e capire ciò che vuole davvero. Ulisse può infine essere confrontato anche con Marco Lombardo: il primo vuole compiere il viaggio per divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore. (Inf., XXVI, 98-99); il secondo invece dice: del mondo seppi, e quel valore amai (Purg., XVI, 47-48), avendone fatto una vera esperienza in vita. Gli incipit di entrambi i discorsi sono addirittura apparentemente uguali. Nella sua orazion picciola Ulisse chiama bonariamente i suoi compagni Frati e li incita a proseguire il viaggio, ma non è pienamente consapevole di ciò a cui va incontro. Anche Marco chiama Dante Frate, ma, a differenza dell eroe greco, è cosciente fino in fondo del significato di quella parola: essa implica sia un autentico legame con l interlocutore sia l intenzione di recargli davvero giovamento attraverso il proprio discorso. Un altra analogia tra i due consiste in ciò che dicono agli uditori: Ulisse parla di virtute e canoscenza, ma non potrà raggiungerle sol con un legno ; Marco Lombardo fa riferimento a lume e libero voler, avendone chiaro il significato. Ulisse, uomo del mondo antico, compie il suo viaggio avendo come punto di riferimento gli astri, mentre Marco ammonisce Dante, rappresentante del genere umano, dicendo: Voi che vivete ogne cagion recate / pur suso al cielo, pur come se tutto / movesse seco di necessitate. (58-60). L uomo non è impotente di fronte agli astri, ma deve agire consapevole del fatto di possedere il libero arbitrio e di poter scegliere ciò che è meglio per lui, lasciandosi guidare da un autorità. Nel canto XXVII del Purgatorio Virgilio annuncerà finalmente a Dante l arrivo nelle vicinanze dell Eden e la conquista della felicità: Quel dolce pome che per tanti rami / cercando va la cura de mortali, / oggi porrà in pace le tue fami. ( ). A questo punto Dante è pienamente 13

14 consapevole che vuole fino in fondo ciò che desidera: Tanto voler sopra voler mi venne / de l esser su, ch ad ogne passo poi / al volo mi sentia crescer le penne. ( ). Egli, dopo che Virgilio gli ha detto che stanno per arrivare da Beatrice, brama solo di raggiungerla il più in fretta possibile. L incontro con lei è il passo ulteriore e definitivo del viaggio di Dante: dalla dimensione della libertà si passa a quella della grazia, elemento chiave del Paradiso. Beatrice tutta ne l etterne rote / fissa con li occhi stava; e io in lei / le luci fissi, di là su rimote. (Par., I, 64-66). D ora in poi, il poeta capisce che dovrà solo cercare la grazia. Guardare Beatrice è appunto un segno di grazia: essa è ciò che serve a Dante per poter arrivare a contemplare la gloria di Dio, quell amore che comprende tutto e che fa muovere la realtà. Due facce di una stessa medaglia Esce di mano a lui che la vagheggia prima che sia, a guisa di fanciulla che piangendo e ridendo pargoleggia l anima semplicetta che sa nulla salvo che, mossa da lieto fattore, volontier torna a ciò che la trastulla. (Purg., XVI, 85-90, sottolineatura nostra) In queste due terzine pronunciate da Marco Lombardo, si intravede già quello che sarà il punto d arrivo del percorso di Dante. Descrivendo il processo attraverso il quale avviene la creazione umana, il primo fattore che viene messo in risalto è la semplicità dell anima, che assomiglia a una bambina il cui primo aspetto evidenziato è l ignoranza, sa nulla, perché la nostra conoscenza non è e non può essere innata. Non si parla infatti esclusivamente di una mancanza di conoscenza, intesa come legame e rapporto cosciente con l universo, bensì dell unico attributo, presente già dal principio nella nostra anima: il desiderio innato di tornare al proprio creatore, autentica fonte di bene e di appagamento. La spinta a ritornare ad un punto d origine e l aspirazione a raggiungere l obiettivo di un sapere universale si possono tradurre in un analogia in cui autore della creazione e conoscenza, in un certo senso, coincidono. Più precisamente, come accade nel mito della caverna di Platone, in cui Socrate individua nel sole il simbolo sia della verità assoluta, di un sapere stabile, sia di un punto lontano, un vertice apparentemente irraggiungibile, si potrebbe affermare che l approfondimento e l espansione delle proprie esperienze è il percorso che conduce a qualcosa di più grande, al Bene. 14

15 Il perché della volontà naturale, dalla quale gli uomini sono spinti a ricercare questo qualcosa di così celestiale, è scritto già nella parola desiderio. Il termine deriva dal latino desiderium, composto da de (prefisso che può introdurre un complemento di origine, di allontanamento o di materia) e sidus, sideris (stella). Secondo l etimologia, gli uomini dovrebbero essere positivamente superbi e ambiziosi: se il de introduce un complemento di origine o di allontanamento, il desiderio può essere inteso come qualcosa che ha origine dalle stelle o la condizione di nostalgia che vive colui che è stato separato da esse; se esso invece introduce un complemento di materia, il desiderio diventa qualcosa che è fatto dello stesso materiale con cui sono fatte le stelle. William Shakespeare dirà infatti: Siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni e la nostra breve vita è circondata da un sonno (La Tempesta, atto IV, scena I). [ ] «Frate, lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui. Voi che vivete ogne cagion recate pur suso al cielo, pur come se tutto movesse seco di necessitate. (Purg., XVI, 65-69, sottolineatura nostra.) Come già rilevato, Dante ci pone di fronte a un apparente paradosso: Marco Lombardo, iracondo, immerso nella nebbia e privo della vista, dice a Dante che è lui ad essere cieco, come del resto è il mondo. La visione di cui si parla non è certo quella immediata, superficiale e materiale, bensì è quella dell animo, impronta di Dio, che oltre allo sguardo terreno offre una visione ragionevole completata dalla fede, unico mezzo di prova e dimostrazione del Bene. Il limite umano sta proprio nell incapacità di riconoscere l evidenza, nell ostinazione ad accostarsi al piacere materialistico piuttosto che fidarsi dell amore di Dio. Siamo ciechi nel senso che non riusciamo a capire che dietro ogni vantaggio apparente, perché facile da raggiungere, si cela sempre un danno nascosto che, prima o poi, mostrerà sicuramente i suoi effetti. L animo umano, semplice e privo di conoscenza, ci devia, facendoci perseguire un illusione: vogliamo il malo obietto, un obiettivo che stabiliamo noi e, a causa della nostra ignoranza, scambiamo per fonte e mezzo di verità: Né creator né creatura mai», cominciò el, «figliuol, fu sanza amore, o naturale o d animo; e tu l sai. Lo naturale è sempre sanza errore, ma l altro puote errar per malo obietto o per troppo o per poco di vigore. Mentre ch elli è nel primo ben diretto, 15

16 e ne secondi sé stesso misura, esser non può cagion di mal diletto; ma quando al mal si torce, o con più cura o con men che non dee corre nel bene, contra l fattore adovra sua fattura. (Purg., XVII, ) La nostra imperfezione, inoltre, si rivela anche in ciò di cui parla Aristotele nella sua Etica : il vizio è nell eccesso, la virtù nel mezzo. Questo concetto, secondo cui appunto bisogna mantenere sempre, in ogni cosa, il senso della misura, viene ribadito da Dante anche nel Convivio, dove lo applica all amore scrivendo: E ciascuna di queste vertudi, ha due inimici collaterali, cioè vizii, uno in troppo e un altro in poco [ ] (Trattato IV, XVII, 7) Il senso della misura umana si acquisisce attraverso le esperienze, seguendo le varie opportunità di amare che la vita ci offre, ma solamente con l aiuto della ragione e della fede potremo vedere con occhi nuovi ciò che ci si presenta, in forza di una continua tensione verso Dio, il nostro Bene; se così non fosse, la nostra vista rimarrebbe misera, offuscata dalla dura realtà, senza un vero obiettivo o scopo. Tocca solo ed unicamente a noi uomini, adoperando il libero arbitrio, fare la scelta giusta, che nasce dopo una continua scoperta del nostro io attraverso le nostre esperienze. Questa volontà non si acquista da nessuna parte, nessun uomo può vantarsi di possederla a priori; è una facoltà che si conquista di volta in volta, collezionando le esperienze. Una volontà che è spinta dal desiderio, desiderio di conoscere quelle cose che non abbiamo avuto ancora l opportunità di apprendere, quelle cose ancora ignote che aspettano solo di invaderci. L uomo, inoltre, può anche scegliere se seguire le conoscenze giuste o quelle sbagliate. Le conoscenze giuste sono difficili da trovare, perché siamo costantemente offuscati da tutto ciò che apparentemente ci sembra giusto, e solo con l aiuto di qualcun altro riusciamo a non farci coinvolgere dal male e tornare sulla via del bene. Si tratta quindi di un desiderio di Bene, di un desiderio di qualcosa di sereno che non reca sofferenze, ma soltanto gioie. E cosa può rappresentare il Bene se non l amore, quello puro? Amare è bene, amare è conoscere, amare è custodire. Si conosce per sapere, per appagare il desiderio di qualcosa che ci appassiona, una passione che si ama. Si tratta di un percorso circolare: alla nascita, allontanandosi da Dio, l uomo inizia ad acquisire una sorta di voglia di tornare da dove è venuto; il bello sta nel fatto che Dio non lo costringe a niente, ma è l uomo stesso a maturare, grazie alle esperienze di vita che lo segnano, una conoscenza certa il cui apice sta proprio in Dio. Quando si ama, si custodisce ciò che si ama, lo si protegge, lo si fa crescere. Ed è questa particolare cura che contraddistingue l uomo che ama. 16

17 A nostro avviso, il cuore di questa riflessione si trova concentrato in una terzina del XVII canto del Purgatorio: Ciascun confusamente un bene apprende nel qual si queti l animo, e disira; per che di giugner lui ciascun contende. ( ) Secondo quanto scrive Dante, ogni uomo concepisce, anche se in maniera confusa, un idea del bene in cui l anima possa pienamente appagarsi, e la desidera; in virtù di questo desiderio, ciascuno si muove e si sforza di raggiungerlo. Attraverso lo studio di questi passi della Commedia, abbiamo compreso che Dio, secondo noi, ha voluto far nascere gli uomini liberi, privi di un sapere già insito nell animo affinché, spinti dalla sete di una conoscenza sempre nuova, dalla voglia di crescere e dal desiderio di arrivare, potessero tracciare da soli, volenterosamente, ciascuno la propria strada verso il Paradiso. Liberi soggiaciamo al desiderio di bene, alla verità, all amore di Dio: Io sono la Via, la Verità e la Vita (Gv., 14, 6). 17

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