La contestazione dell ordine sociale e politico: Antistene e i cinici
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- Fiora Nardi
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1 Le conquiste di Alessandro il Macedone, che in un decennio di guerre vittoriose ( a.c.) estende il suo dominio dalla Grecia all Indo, segnano la fine di un epoca, quella delle pòleis indipendenti, e insieme l inizio di una nuova era, indicata come ellenismo: le barriere che da sempre separavano l Occidente dall Oriente vengono abbattute, lo spazio si amplia indefinitamente e la cultura greca si estende di pari passo con la marcia dei conquistatori. In questo periodo, nel campo del pensiero politico si riflette una significativa divaricazione, che vede la contemporanea presenza di una riflessione ancora strettamente legata all ambito della città e di una produzione in cui queste coordinate tradizionali sono abbandonate, in nome di una critica o addirittura di un aperta ribellione nei confronti dell assetto comunitario, oppure prefigurando, sulla scorta della nuova realtà politica monarchica, nuovi modelli di aggregazione. La contestazione dell ordine sociale e politico: Antistene e i cinici Già nella prima metà del IV secolo i valori e le tradizioni della città sono messi sotto accusa da Antistene, discepolo di Socrate e rappresentante di quell indirizzo radicale nato nell ambito del socratismo che si oppone agli sviluppi platonici. Nella biografia di Diogene Laerzio questo personaggio si caratterizza per l asprezza delle sue prese di posizione, che censurano i comportamenti individuali e politici all interno della pòlis. Antistene si delinea come l assertore di un grande rigore morale, facendosi portavoce di una dottrina della virtù che è l esito di uno sforzo e di un assidua applicazione: come afferma Diogene Laerzio, «che la fatica (pònos) sia un bene lo dimostrò per mezzo del grande Eracle e di Ciro, traendo il primo esempio dai Greci, l altro dai barbari» (VI, 2). Questi due personaggi sono centrali anche nelle opere di Senofonte, che certamente frequenta Antistene nella cerchia di Socrate, facendone uno dei protagonisti delle sue opere socratiche, quali il Simposio e i Memorabili. La virtù diviene, per Antistene, l unico bene che il saggio mira a perseguire e a possedere: tutti i valori socialmente apprezzati perdono qualsiasi rilevanza, anzi, sono proprio le istituzioni sociali e politiche a esercitare un influsso negativo e corruttore. Atteggiamenti analoghi, di violenta rottura nei confronti dell ordine costituito e dei valori socialmente condivisi, emergono con piena evidenza dalle testimonianze che riguardano Diogene di Sinope, detto il Cane, che vive tra il 400 e il 325 a.c. e che dà vita al movimento cinico. Le fonti antiche, tra cui Diogene Laerzio, attribuiscono grande rilevanza all influsso che su di lui avrebbe esercitato Antistene, benché non si possa parlare di un rapporto di discepolato: Antistene, infatti, «non voleva accogliere nessuno come allievo» (Diogene Laerzio, VI, 21). Entrambi rivendicano un modello di vita caratterizzato dalla libertà, da non intendersi più, tuttavia, in senso giuridico e politico, bensì come autàrkeia,
2 quell autosufficienza che è completa indipendenza dalle convenzioni. La pratica dell aretè, della virtù, presuppone un ritorno alla natura, e di conseguenza la rottura con la dimensione della pòlis, che è indicata come un istituzione contro natura. L eccentricità di Diogene è attestata da una ricchissima aneddotica. Già il suo aspetto fisico è significativo e sarà destinato a contrassegnare, d ora in poi, il filosofo cinico, soprattutto nella sua versione più nota, il filosofo popolare della diatriba: avvolto in un ruvido mantello, porta sempre con sé una bisaccia in cui tenere le provviste rimediate con l accattonaggio e dorme in una botte. La ricerca di una sempre maggiore frugalità è attestata dal celebre aneddoto secondo cui, avendo visto un fanciullo bere acqua nel cavo della mano, Diogene avrebbe buttato via la ciotola che portava nella bisaccia (Diogene Laerzio, VI, 37). Questi atteggiamenti sono motivati da un esplicita critica nei confronti di tutti i valori sociali. La philargyrìa, l avidità di ricchezze, viene indicata come metròpolis, madrepatria e perciò origine, di tutti i mali (Diogene Laerzio, VI, 50), la nobiltà di nascita e la fama sono definite «appariscenti ornamenti del vizio» (VI, 72). Ispirati a questa contestazione globale di tutte le prerogative più pregiate sono i numerosi aneddoti che pongono di fronte Diogene ad Alessandro il Macedone, incarnazione di ciò che viene da tutti considerato eccellente: famosissimo è quello riportato da Cicerone (Tuscolane, V, 92), secondo cui, al re che gli domandava se gli servisse qualcosa, Diogene avrebbe risposto di scostarsi un po dal sole, per consentirgli di godere del suo calore. Molto meno persuasiva appare la frase che avrebbe pronunciato pronunciato il Macedone in occasione di uno di questi presunti incontri, destituiti di qualsiasi attendibilità storica: «Se non fossi Alessandro, vorrei essere Diogene». Estremamente problematico è stabilire se Diogene avesse consegnato la sua ricetta di vita a qualche scritto: Diogene Laerzio registra la difformità di posizioni che, su questo tema, ha riscontrato nelle sue fonti, alcune delle quali non riconoscono al filosofo cinico alcuna opera (VI, 80). Per parte sua, egli attribuisce a Diogene quattordici dialoghi e sette tragedie. Tra i dialoghi viene annoverato quello che si intitola Politèia, sulla cui effettiva esistenza gli studiosi hanno a lungo dibattuto. Riguardo a questo scritto è importante la testimonianza di Filodemo di Gadara, filosofo epicureo del I secolo a.c., che ne discute nella sua opera Sugli stoici ponendolo in stretta relazione con il testo di Zenone di Cizio che porta lo stesso titolo. Gli argomenti che Diogene avrebbe sviluppato colpiscono per il loro carattere nettamente sovversivo. Filodemo gli attribuisce anzitutto le seguenti posizioni: l uso delle armi è del tutto inutile, bisogna attribuire corso legale agli ossicini in sostituzione delle monete, è ammessa la pratica dell antropofagia (coll. XV 12-XVII). Il rifiuto radicale delle istituzioni comporta la cancellazione della famiglia, cui subentra la comunanza dei figli, il venir meno della proibizione dell incesto, la libertà di accoppiarsi con chiunque. Si tratta di comportamenti che testimoniano la totale
3 rottura con la dimensione della città, finalizzata a condurre una vita secondo natura, qual è quella degli animali, tra cui i cani, kỳnes, da cui i cinici, kynikòi, prendono il nome. Solidale con l eliminazione dell òikos è l uguaglianza tra uomo e donna, che comporta, accanto a una pari libertà nel comportamento sessuale, l adozione degli stessi abiti e la partecipazione alle stesse attività, tra cui gli esercizi nelle palestre. Qui le donne «si mostrano nude alla vista di tutti», come nella Repubblica di Platone, che certamente funge da modello per questo radicale rifiuto delle convenzioni sociali, ma che, a differenza di Diogene, non contempla alcuna forma di promiscuità. Alcuni precetti della Politèia hanno per altro trovato effettiva attuazione nell ambito della setta cinica. Così, il legame tra Cratete di Tebe, discepolo di Diogene, e la sua compagna Ipparchia rompe con le consuetudini proprie del matrimonio tradizionale: come riferisce Diogene Laerzio, la donna indossava lo stesso abbigliamento di Cratete, «andava in giro con lui e si univa con lui in pubblico e con lui andava ai conviti» (VI, 97). In nome del rifiuto di ogni norma politica e sociale, Diogene, a chi gli chiede di dove sia, risponde: «Sono cittadino del mondo (kosmopolìtes)» (VI, 63): questa dichiarazione di cosmopolitismo si specifica come appartenenza a quell «unica retta costituzione politica (orthè politèia)» che coincide con l universo, il kòsmos (VI, 72). In questa affermazione occorre vedere più l accentuazione del rapporto con il mondo della natura che non la rivendicazione di una comunità umana universale, cui fa riferimento la nozione corrente di cosmopolitismo. In questo senso sono da interpretare i versi composti da Cratete di Tebe: «La mia patria non ha una torre sola né un tetto solo; ma dove ci è possibile vivere bene, in ogni punto di tutto l universo, lì è la mia città, lì la mia casa» (VI, 98). Sebbene i cinici si oppongano alle rigide gerarchie continuamente riaffermate all interno della città, e cioè a quelle che intercorrono tra uomini e donne, liberi e schiavi, Greci e barbari, sembra essere estranea al loro orizzonte la concezione di un effettiva unità del genere umano. Alle attuali, artificiose spaccature ne subentra una, l unica valida, che separa il gruppo ristretto dei saggi dalla massa degli stolti. Solo il saggio possiede la pienezza dell umanità e rappresenta quell uomo in senso forte che costituisce un eccezione, come mostra Diogene andando alla sua ricerca con una lanterna accesa in pieno giorno (VI, 41). Nonostante la consapevolezza che i più sono relegati in una condizione di stoltezza, i cinici praticano la philanthropìa, un atteggiamento in qualche modo missionario, teso a diffondere la loro concezione di vita. L adozione di comportamenti eccentrici e scandalosi possiede certamente un valore esemplare, destinato comunque ad avere efficacia su un numero ristretto di individui e non certo sulle masse. Appare estraneo al cinismo l intento di modificare effettivamente le strutture strutture della società: la politèia cosmica alla quale aspirano, del resto, si realizza soprattutto con un modo di vita, e non tramite l instaurazione di apparati istituzionali alternativi a quelli dati.
4 Gli epicurei: il disimpegno politico del saggio Il saggio «né parteciperà alla vita politica, né sarà tiranno, né si comporterà come i cinici, né mendicherà» (Diogene Laerzio, X, 119): questa affermazione di Epicuro, tratta da un opera intitolata I modi di vita, chiarisce efficacemente il rapporto che la scuola epicurea intrattiene con la città e con la dimensione politica. Da una parte viene respinta ogni forma di partecipazione alle cariche pubbliche e all esercizio del potere, ma dall altra questo rifiuto non comporta quell atteggiamento di violenta contestazione nei confronti dell ordine costituito che si riscontra nei cinici. Rispetto a queste due alternative, gli epicurei scelgono una terza via, quella che conduce alla «sicurezza (asphàleia) della vita tranquilla, lontana dalla folla» (Massime capitali, 14), un obiettivo realizzabile solo nell ambito di una città dotata di un efficiente sistema legislativo e di governo. L assenza di regole, del resto, produce inevitabilmente il conflitto generalizzato tra gli individui. Poiché all uomo viene negata qualsiasi tendenza naturale alla socievolezza, «una volta eliminate le leggi, vi sono unghie di leoni, denti di lupo, ventri di buoi, colli di cammello», come fa dire Plutarco a Metrodoro, amico e discepolo di Epicuro (Contro Colote, 1125 b), rievocando uno stato di natura di tipo hobbesiano, all insegna dell homo homini lupus. A impedire il reciproco annientamento, e pertanto in vista dell utile, gli uomini, che per natura non sono «animali politici», stringono un patto (synthèke) finalizzato a neutralizzare la distruttività della propria violenza: nascono così la dimensione politica e le leggi. Anche le nozioni di giusto e di ingiusto hanno un origine contrattualistica e corrispondono parimenti al criterio dell utile: «La giustizia non era qualcosa in sé e per sé, ma una convenzione nata nei reciproci rapporti, valida sempre secondo i luoghi, perché nessuno apporti o riceva danno» (Massime capitali, 33). Benché dunque la dimensione politica costituisca una necessità, il saggio epicureo deve «liberarsi dalla prigione delle occupazioni quotidiane e dagli affari pubblici» (Sentenze vaticane, 58): all interno della città, il suo orizzonte di vita è costituito dall ambito più ristretto della scuola, che funge da nuova e più rassicurante comunità. La prospettiva perseguita dall epicureismo si rivela, in tal modo, come nettamente individualistica. In tempi difficili, contrassegnati dalle lotte di potere tra i diadochi, i successori di Alessandro, Epicuro elabora una filosofia che assume una fondamentale finalità terapeutica, farmaco contro le paure e i turbamenti che assillano in modo sempre più pressante gli individui: questa liberazione mira all atarassia, alla tranquilla imperturbabilità, e comporta, di conseguenza, il venir meno di tutti i pesi e le preoccupazioni legate alla vita pubblica. Làthe biòsas, «vivi nascosto, appartato», costituisce il motto in cui si compendia questa nuova modalità di esistenza, la sola compatibile con la saggezza e la felicità. Questa opzione
5 astensionistica non implica tuttavia una totale svalutazione della vita politica. Come rileva Plutarco (De tranquillitate animi, 2, 465 sgg.), Epicuro ritiene che individui amanti degli onori e della fama (philotìmous kài philodòxous) debbano assecondare le loro ambizioni, connesse a un temperamento che non consente loro di stare in riposo (hesykhiàzein): i loro desideri sono del tutto naturali, e pertanto non criticabili, anche se sono destinati inevitabilmente a produrre turbamento. Il conseguimento dei loro obiettivi, come anche la conservazione delle posizioni raggiunte, richiede una costante e logorante competizione, e da questa assoluta mancanza di sicurezza consegue più fastidio che piacere. Così, l incompatibilità tra la vita pubblica e la felicità spinge Epicuro e Metrodoro a imporre ai propri discepoli di astenersi da ogni forma di partecipazione volontaria alla politica. I legami di solidarietà tra cittadini sono d altronde sostituiti, per Epicuro, dall amicizia, philìa, che si stringe tra i membri della scuola e che è finalizzata alla salvaguardia della propria esistenza contro la conflittualità endemica che percorre la società. Il movente dell amicizia sembra essere dunque l utile, anche se, diversamente da quanto accade nella philìa tradizionale, la rassicurazione psicologica sostituisce le remunerazioni più concrete, beni o servizi, che il greco si attende dagli amici. La componente affettiva acquisisce senz altro un notevole rilievo, anche perché, se si deve dar credito a Diogene Laerzio, il saggio, secondo Epicuro, «né si sposerà né genererà figli» (X, 119). La presa di distanza dai capisaldi della vita greca comporta il venir meno dei tradizionali rapporti gerarchici che si perpetuano nella società. Nella scuola epicurea è attestata la presenza non solo di donne, addirittura di etere, ma anche di schiavi, uno dei quali, di nome Mys, Topo, sembra aver svolto un ruolo di rilievo. Ciò non significa, tuttavia, che Epicuro si sia fatto sostenitore dell uguaglianza tra tutti gli uomini: la parità vige solo tra i membri della scuola, tra coloro che si sono posti sulla via della saggezza. L epicureismo, predicando l astensionismo e non avendo avuto alcun contatto con la politica attiva, non sembra neppure aver mai espresso chiaramente la preferenza per un tipo particolare di regime. Resta ferma l esigenza, per la scuola, di contare su un assetto politico stabile, in grado di assicurare l ordine, a sua volta funzionale alla tranquillità e alla sicurezza del saggio: a questo scopo, non solo è un fatto negativo intrattenere rapporti conflittuali con l autorità, ma è anche preferibile che questa sia rappresentata da una monarchia piuttosto che da una democrazia. Il sovrano, infatti, concentrando il potere nelle sue mani, solleva il saggio dall obbligo del politèuesthai, dell adempimento dei doveri inerenti allo statuto di cittadino. Gli stoici: tra radicalismo e conformismo Un tratto significativo accomuna la riflessione
6 etico-politica degli stoici a quella dei cinici e degli epicurei, al di là delle differenze che separano i tre indirizzi filosofici: l oggetto del discorso è il medesimo, la figura del saggio, che si scinde sempre più nettamente dal resto dell umanità. Per gli stoici, la scansione tra chi è saggio e chi non lo è, tra il sophòs e i phàuloi, è drastica e non indica unicamente una differente configurazione antropologica. Questa divaricazione, infatti, fa riferimento alle coordinate più generali del pensiero stoico, alla concezione del mondo che esso elabora. La saggezza costituisce la piena e perfetta adesione alla natura, intesa come forza razionale e anzi come perfetta ragione, lògos: vivere secondo natura realizza la virtù e, attraverso questa, la felicità. Questa armonia è dunque la prerogativa del saggio; chiunque non la realizzi si qualifica come stolto e insieme malvagio. Non esistono gradi intermedi tra le due polarità, così come non si pone alcuna gradazione tra ciò che è buono e ciò che è cattivo. Quanto non rientra in queste due opposte categorie morali è adiàphoron, indifferente, un denominatore che racchiude prerogative tradizionalmente pregiate dalla società greca, come la nobiltà di nascita, la ricchezza, la stessa libertà. «Solo il saggio è libero; gli stolti sono servi; la libertà è la facoltà di agire in modo autonomo, la servitù è privazione di questa facoltà» (Diogene Laerzio, VII, 122): gli stoici prendono le distanze dalla tradizionale nozione politico-giuridica di libertà per instaurarne una nuova e diversa. La libertà si realizza tramite la vita secondo natura e in conformità alla perfetta razionalità che la permea. I saggi divengono gli abitanti di un nuovo modello di città, raffigurato da Zenone, l iniziatore dello stoicismo, nella sua Politèia. Di questo scritto rimangono solo testimonianze frammentarie, ma significative. Il resoconto più ampio è fornito da Diogene Laerzio (VII, 32-34). Il carattere elitario della comunità progettata da Zenone doveva apparire evidente fin dall introduzione dell opera, in cui l autore indicava come suoi membri solo i saggi, affermando che coloro che non sono virtuosi sono «estranei, nemici e servi ed estranei gli uni agli altri; così anche i padri ai figli, i fratelli ai fratelli, i parenti ai parenti» (VII, 32). Solo la saggezza fonda un legame saldo tra gli individui, che sostituisce i tradizionali rapporti familiari. Nella Politèia zenoniana un particolare accento è posto proprio sulla nozione di homònoia, concordia, che indica la solidarietà destinata a regnare nella comunità dei saggi. A consolidare questa coesione tra i saggi sembra contribuire l abolizione del matrimonio, sostituito dalla comunanza delle donne: come nei cinici, ciò significa una vera e propria libertà di accoppiamento, che viene interpretata da Filodemo di Gadara nel suo scritto Sugli stoici come una forma di totale promiscuità. Questo testo individua le strette affinità tra le opere che, con lo stesso titolo, Politèia, sono state redatte in sequenza da Diogene il Cinico, Zenone e Crisippo: uno dei principali tratti comuni è proprio la comunanza delle donne. Secondo Diogene Laerzio, l intento di Zenone, seguito poi da Crisippo, nel proporre questa misura è senz altro nobile: eliminare ogni forma di
7 gelosia che si connette al rapporto affettivo nell ambito della famiglia e assicurare di conseguenza una maggiore concordia. A cementare ulteriormente l unione tra i saggi contribuisce l èros, l amore con cui «il saggio amerà quei giovani che nell aspetto esteriore mostrano una naturale propensione alla virtù» (VII, 129). In Zenone, a questo tipo di rapporto si connette un fine coesivo, l instaurazione cioè di un legame tra le generazioni, così come avviene nel mondo spartano, a cui gli stoici guardano con particolare interesse. Ma, rispetto a tutte le forme di organizzazione politica esistenti, la comunità di Zenone presenta una peculiarità: al suo interno non esistono né templi né tribunali né ginnasi (VII, 33). Composta di saggi, questa città rende onore agli dei tramite l aretè insita nei suoi cittadini e non ha pertanto bisogno di luoghi di culto. Costoro non si macchieranno mai di alcun delitto, rendendo così superflui gli organismi giurisdizionali. Per la pratica ginnica, che pure risulta presente se è vero che ad essa si dedicano congiuntamente uomini e donne, non appare necessario costruire edifici specifici, come i ginnasi. Ugualmente messa al bando è la moneta, esclusa sia come mezzo di scambio all interno della città, sia nei rapporti con gli altri Stati. La connessione tra la Politèia zenoniana e il cinismo appare senz altro evidente, tanto da motivare motivare la nota battuta, riferita da Diogene Laerzio, secondo cui essa sarebbe stata scritta «sulla coda del cane» (VII, 4). Ma se esiste sicuramente questo rapporto di filiazione, del resto motivato dal fatto che la formazione di Zenone avviene al seguito di Cratete, la Politèia non sembra contrassegnata da un atteggiamento puramente contestatorio e distruttivo nei confronti delle strutture sociali e politiche esistenti. Zenone intende delineare in positivo i contorni della nuova comunità dei saggi, anche se è difficile, allo stato attuale della documentazione, stabilire in che misura l opera rappresenti un utopia piuttosto che un vero e proprio manifesto programmatico. Finley ravvisa nella Politèia un testo a carattere utopistico, destinato a delineare un modello alternativo a quello offerto dalla realtà contemporanea, contrassegnato dal caos, una ricetta di risanamento in cui risuonano gli slogan comuni a tutti gli utopisti: ordine, stabilità e virtù. A conforto di questa interpretazione, che esclude dall orizzonte zenoniano la preoccupazione della praticabilità, sembra contribuire quanto gli stoici affermano del loro rapporto con la realtà storico-politica contemporanea: il saggio stoico, a differenza dell epicureo e del cinico, parteciperà alla vita politica, a meno che qualcosa non lo impedisca, come scrive Seneca nel De otio (3, 2 = SVF 1, 271). Stobeo, il dotto del V secolo d.c. autore di antologie di testi, filosofici e letterari, altrimenti perduti, riferisce poi più ampiamente sui modi di vita ritenuti dagli stoici compatibili con la figura del saggio: si tratta, in sequenza, dei modi di vita regale, politico e professorale, dedito all insegnamento (II, 109, , 8 = SVF 3, 686). Se è vero che il sophòs in quanto tale è re, gli stoici ben difficilmente possono pensare che a questo titolo sia connesso l effettivo esercizio del potere monarchico. Più
8 realisticamente, il saggio stoico potrà vivere accanto ai sovrani e, come afferma Plutarco nelle Contraddizioni degli stoici, coadiuvarli anche nelle campagne militari (1043 b-c = SVF 3, 691). Quanto alla pratica di vita definita come politica, Stobeo si limita a dire che il saggio trarrà sostentamento (khrematismòs) dalla politèia e da quegli amici che occupano posizioni di rilievo, riecheggiando, probabilmente, le accuse di parassitismo che dovevano essere avanzate dai detrattori. Nel testo di Plutarco è attribuita a Crisippo una presa di posizione ben più decisa: il saggio parlerà in pubblico e parteciperà al governo, come se considerasse beni la ricchezza, la reputazione, la salute (1034 b = SVF 3, 698). Tutti e tre gli elementi rientrano piuttosto nella categoria dei preferibili, avvicinabili ai beni nella misura in cui appaiono cose degne di essere scelte in quanto dotate di un valore, secondo la classificazione presentata da Diogene Laerzio in VII, La scelta infine di dedicarsi all insegnamento, menzionata anche da Plutarco (Contraddizioni degli stoici, 1047 f = SVF 3, 693), assume anch essa in qualche modo un carattere pubblico, se vi è connesso un intento educativo. Tutta questa serie di asserzioni trova un concreto riscontro nelle scelte di vita operate dagli stoici stessi. Zenone, ad Atene, si dedica all insegnamento e, essendosi rifiutato di assumere la cittadinanza ateniese per non «recare ingiustizia» alla sua nativa Cizio, nell isola di Cipro (Diogene Laerzio, VII, 12), non partecipa alla vita politica attiva. Ciò non toglie che egli appaia ben inserito nella realtà storico-politica contemporanea: da una parte, sono ampiamente attestati i suoi rapporti con il re di Macedonia Antigono Gonata, dall altra, si è voluto vedere in lui, certo alquanto forzatamente, un sostenitore dei moti antimacedoni che si verificano di continuo in Atene nella prima metà del III secolo. Di sicuro Zenone sceglie per sé la via dell astensione ed è seguito su questa strada da Cleante, che come lui rifiuta la cittadinanza ateniese; due loro discepoli, Perseo e Sfero, si recano, per contro, rispettivamente alle corti di Antigono e di Tolomeo IV Filopatore. Perseo vive a stretto contatto con Antigono Gonata e svolge anche ruoli rilevanti a livello militare. Quanto a Sfero, prima del viaggio ad Alessandria è attestato un suo soggiorno a Sparta, che dimostra di essere effettivamente, per gli stoici, una sorta di luogo di elezione, e si vuole che proprio con le sue dottrine egli abbia influenzato l opera politica dei due re riformatori del III secolo, Agide IV e Cleomene III, preoccupati di risollevare la città dalla crisi in cui era caduta. Si apre in tal modo un problema, se questa partecipazione miri in qualche modo alla modificazione delle strutture date oppure se gli attuali assetti siano giustificati alla luce dell assunto secondo cui tutto ciò che accade è necessario; in più, a livello etico, la condizione di saggezza appare indipendente dalle condizioni materiali, e pertanto politiche, in cui si vive. L affermazione attribuita a Crisippo, secondo cui tutte le leggi e tutte le costituzioni sono sbagliate (SVF 3, 324), unita a quella, riportata da Diogene Laerzio, relativa al ruolo educativo svolto dal saggio
9 (VII, 121), induce a ritenere che il filosofo stoico intenda assumersi il compito di proporre una serie di correttivi per sanare gli errori più gravi. Nell ambito della loro riflessione politica, gli stoici, e soprattutto Crisippo, manifestano un particolare interesse per il tema della legge, ponendo in primo piano il rapporto tra le leggi politiche e la legge divina, perfettamente razionale, che regge il cosmo. Significativa è la definizione che di questa dà lo stesso Crisippo, riprendendo l identificazione tra legge, natura e divinità presente nell Inno a Zeus di Cleante: Il nòmos è sovrano (basilèus) di tutte le cose divine e umane: è necessario che esso sia il protettore (prostàtes), il capo (àrkhon) e il condottiero (heghemòn) sia di ciò che è bello (kalòn) sia di ciò che è turpe (aiskhròn), e per questo deve essere la regola del giusto e dell ingiusto, ordinare agli uomini, animali per natura politici, ciò che si deve fare e vietare ciò che non deve essere fatto (SVF 3, 314). Questa formulazione è destinata a diventare canonica e come tale è ripresa da Cicerone nel De legibus, il testo che costituisce peraltro la fonte più ampia e autorevole per ricostruire il pensiero politico stoico: «La legge è norma suprema insita nella natura, la quale ordina ciò che si deve fare e proibisce proibisce il contrario. Questa norma medesima, quando è resa evidente e impressa nella mente umana, è la legge» (I, 18). Questa legge è dunque sempiterna et immutabilis, come la definisce sempre Cicerone nel De re publica (III, 33), e sarà identica «a Roma e ad Atene, ora e poi». La legge e il diritto naturali costituiscono così l unico fondamento della legislazione umana: di conseguenza, è indicata come ingiusta, e pertanto priva di validità, ogni norma che prescinda da essi. Nel tentativo di conciliare il perfetto dover essere della ragione universale e le situazioni storiche date, gli stoici da una parte riconoscono la positività della struttura statale definita ad esempio da Cleante un istituzione buona che mira a dispensare la giustizia (SVF 1, 587), dall altra si sentono parte della comunità cosmica cui partecipano congiuntamente gli uomini e gli dei grazie al possesso del lògos. Questo orizzonte è presente nella Politèia di Zenone ed è riecheggiato da Crisippo nella definizione di kòsmos che gli viene attribuita, quale «associazione (sỳstema) di dei e di uomini» (SVF 2, 527), ma è destinato a essere ulteriormente valorizzato dalla media Stoà, cui si rifà Cicerone, conferendo ampio sviluppo al tema della communis urbs et civitas (De finibus, III, 64). Se dalla consapevolezza di appartenere a questa società scaturisce, nel medio e tardo stoicismo, la viva esigenza della solidarietà che deve intercorrere tra tutti gli uomini, lo stoicismo antico non sembra disponibile a superare lo scarto insanabile che contrappone i saggi agli stolti: solo i primi sono «amici, parenti, liberi», come afferma Zenone, connessi ai propri simili dall oikèiosis, il rapporto di affinità che, prima di tutto avvertito nei confronti di se stessi, si amplia nella dimensione intersoggettiva per coinvolgere chi ci assomiglia.
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