abbia inciso anche sull occupazione più qualificata). Una quota poco inferiore lavora (27,2%) invece tramite borse di studio o assegni di ricerca.

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1 Il 91,5% dei dottori di ricerca lavora a quattro anni dal conseguimento del titolo e l 87% svolge un lavoro consono con il livello di istruzione Solo il 12,5% si è trasferito all estero. Ma un dottore di ricerca su tre di quelli in Italia potrebbe espatriare: precarietà e bassi redditi i motivi principali che spingono a lasciare l Italia Secondo una visione declinista, molto in voga negli anni della crisi, l Italia sarebbe un paese senza futuro, caratterizzato da un sistema formativo inadeguato rispetto alla domanda di competenze delle imprese e incapace di offrire prospettive ai giovani. L intollerabile livello della disoccupazione giovanile sembra confermare che il paese, oltre a non riuscire a creare opportunità di lavoro, penalizza e umilia soprattutto i giovani più preparati e brillanti. Questa situazione contribuirebbe a determinare quindi la fuga di cervelli, ossia l emigrazione all estero di coloro che dopo avere affrontato un lungo percorso di studi non trova in Italia opportunità di lavoro adeguate alla loro preparazione. La fuga di cervelli riduce fortemente il potenziale di innovazione che l Italia può esprimere e incide negativamente sulla crescita economica. I dati diffusi dall Istat sull inserimento professionale dei dottori di ricerca relativi al 2014 riequilibra parzialmente questo quadro e offre degli spunti da non trascurare. Non è vero che i giovani più brillanti e preparati (in questo caso giovani che dopo la laurea hanno conseguito il dottorato di ricerca) siano condannati alla disoccupazione se restano in Italia. Tutt altro: a quattro anni dal conseguimento del 1

2 titolo, infatti, il 91,5% dei dottori di ricerca lavora. Di questi, solo il 12,5% (pari all 11,4% del totale) si è trasferito all estero in maniera permanente. Oltre a garantire alti tassi di occupazione, il titolo di studio di dottorato permette di accedere a posizioni professionali adeguate. L 87% dei dottorati dichiara di svolgere un attività consona con la propria preparazione e il 74,4% ha la possibilità di svolgere attività di ricerca e sviluppo in modo prevalente o solo in parte. I dati non chiariscono quali sono le imprese che occupano in misura maggiore i dottorati di ricerca. Ciò nonostante, le percentuali più alte di occupazione si riscontrano nei campi scientifici: scienze matematiche e informatiche (95,8%), ingegneria industriale e dell informazione (95,6%) e scienze fisiche (93,4%). 2

3 Percentuali più contenute, e comunque significative, si riscontrano nelle scienze umanistiche dove risulta occupato sempre almeno l 85% dei dottori di ricerca. Altro dato importante: i dottori di ricerca vorrebbero continuare a lavorare in Italia. Tra i dottori di ricerca residenti in Italia, il 55,4% dichiara infatti di non avere intenzione di lasciare il paese nei 12 mesi successivi. Solo l 8,2% ha intenzione di andare in un altro paese, in modo permanente o temporaneo. È invece molto ampia la quota di coloro che sono incerti circa il loro futuro (il 36,3%). È proprio l elevata quota di coloro che sono tentati dall estero a destare preoccupazione. Nonostante gli elevati tassi di occupazione e l abbinamento relativamente buono della professione svolta con il titolo di studio, oltre un terzo dei dottori di ricerca non rifarebbe lo stesso corso di dottorato (39,3%) adducendo quale motivo principale l insoddisfazione per gli sbocchi professionali offerti dal titolo di studio (51,3%). In questo caso, insoddisfazione per gli sbocchi professionali significa a) trattamento economico inadeguato e poco competitivo rispetto a quello ottenibile all estero. A quattro anni dal conseguimento del titolo il reddito mediano mensile di un dottorato è di euro, 830 in meno rispetto a chi lavora all estero. I dottorati nelle discipline scientifiche riescono a guadagnare di più ma sono anche i più esposti alla concorrenza dei paesi esteri. A migrare maggiormente sono infatti soprattutto i dottori di ricerca in fisica, nelle scienze matematiche o informatiche. I paesi maggiori poli di attrazione sono il Regno Unito (16,3%), Stati Uniti (15,7%), Francia (14,2%), Germania (11,4%) e Svizzera (8,9%). b) bassa sicurezza del posto di lavoro. Solo il 32% dei dottorati che hanno conseguito il titolo nel 2010 ha un contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato (tale quota è pari al 42,4% per i dottorati nel 2008, a testimonianza di quanto la crisi 3

4 abbia inciso anche sull occupazione più qualificata). Una quota poco inferiore lavora (27,2%) invece tramite borse di studio o assegni di ricerca. QUALI MISURE PER TRATTENERE I CERVELLI IN ITALIA? Dai dati sull inserimento professionale dei dottorati di ricerca emergono quindi circostanze non trascurabili. a) L investimento in formazione garantisce l inserimento professionale in tempi relativamente brevi anche in un paese come l Italia nel quale la crisi ha prodotto livelli di disoccupazione non tollerabili; b) Solo una piccola parte dei nostri cervelli è fuggita all estero. Vi è però una quota molto alta (il 39,3% ) che sono tentati a migrare non tanto per la carenza di lavoro quanto per la precarietà e le basse remunerazioni italiane. c) L investimento in capitale umano è correlato positivamente e in maniera forte alla crescita economica. Un paese che coltiva i talenti ma che poi non è in grado di valorizzarli condanna sé stesso a una bassa crescita. Considerando l alta quota di dottori di ricerca che sono ancora in Italia ma che sono tentati dall estero, la politica dovrebbe dunque 1. Combattere la precarietà. È infatti inaccettabile che, al termine di un percorso di studio lungo, impegnativo e costoso, un dottorato di ricerca su quattro sia impiegato con un assegno di ricerca o una borsa di studio; 2. Creare opportunità lavorative adeguate ai titoli di studio sul territorio. In Italia questo significa una cosa sola: favorire l occupazione dei giovani laureati nelle piccole imprese che rappresentano oltre il 97% del nostro tessuto produttivo. 4

5 1. Obiettivo occupazione stabile. Il Jobs Act: una prima risposta positiva per stabilizzare l occupazione Il Jobs Act è una prima misura efficace per combattere la precarietà poiché l esonero dal versamento dei contributi per le assunzioni a tempo indeterminato sposterà la convenienza delle imprese verso il contratto a tempo indeterminato. Da un sondaggio realizzato dalla CNA prima della approvazione del Jobs Act, emerge infatti che il contratto a tempo indeterminato è vantaggioso anche per le piccole imprese poiché fidelizza i lavoratori (per il 55,3% è questa la principale motivazione alla base della scelta di questo contratto) e in questo modo li rende più produttivi. Esso è, però, relativamente il più costoso (solo il 5,9% delle imprese lo sceglie ritenendolo vantaggioso in termini di costo) e garantisce alle imprese una flessibilità 5

6 limitata rispetto al contratto a tempo determinato e, ancor più, ai contratti atipici (lavoro a chiamata, lavoro occasionale e somministrazione). Con le disposizioni contenute nel Jobs Act (ci riferiamo alla decontribuzione, alla modifica della normativa sui licenziamenti - articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori - e alla revisione della disciplina in materia di mansioni), il tempo indeterminato potrà diventare veramente il contratto ideale per le imprese una volta sgravato di una quota significativa dei costi. 2. Obiettivo alta occupazione qualificata nelle PMI. Tante iniziative pochi risultati Gli interventi legislativi adottati negli ultimi anni volti a favorire l inserimento di giovani qualificati nelle PMI non hanno sortito effetti soddisfacenti. Un esempio è il credito di imposta del 35% a favore delle imprese che assumevano a tempo indeterminato dottori di ricerca e laureati in discipline tecniche e scientifiche introdotto nel La norma, di per sé apprezzabile, ha avuto vita breve risultando abrogata con la Legge di Stabilità Un altro tentativo fallito di favorire l inserimento dei cervelli nelle PMI risale al 2013 quando il Decreto del fare aveva introdotto una norma (art. 57) diretta al sostegno e allo sviluppo delle attività di ricerca che il MIUR avrebbe dovuto attuare mediante la concessione di contributi alla spesa attingendo al Fondo per le agevolazioni alla ricerca (FAR). Tra gli obiettivi dell intervento figurano sia il potenziamento del rapporto tra mondo della ricerca pubblica e imprese che il sostegno agli investimenti in ricerca delle PMI. Anche in questo caso, a oggi, si registra un nulla di fatto: la norma è ancora in attesa di un decreto di attuazione. 6

7 Le proposte CNA: un laureato in ogni piccola impresa Il fallimento di queste iniziative è particolarmente grave anche perché il numero di assunzioni dei laureati nelle imprese più piccole è estremamente ridotto (2,9% sul totale nel 2014) e non è aumentato negli anni della crisi. Di fatto, le piccole imprese non hanno aumentato il capitale umano al loro interno per contrastare la recessione. La CNA è convinta che l inserimento di manodopera altamente qualificata nelle piccole imprese sia una misura in grado di accrescere la produttività in maniera molto significativa, contribuendo così a riportare l Italia in un sentiero di crescita sostenuta. Per questo propone l introduzione di un super bonus che, da un lato, permetta di inserire un laureato in ogni piccola impresa in maniera poco costosa e, dall altro, renda la piccola impresa una meta lavorativa attraente per i giovani laureati. 7