Jazz School. Chip Music is (not) dead. Bruno Pronsato. Il suono. Romantic Techno

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1 digital magazine luglio/agosto 2011 n New Italo Jazz School Kekko Fornarelli, Luca Aquino, Gianluca Petrella, M.O.F. 5tet, Giovanni Guidi Il suono dei collettivi Godspeed you! black emperor Arcade fire broken social scene Akron/family animal Collective Heinz Hopf//City Final//MANIK Clams Casino//I Cani Bruno Pronsato Romantic Techno 4mat, goto80, Pixelh8 Chip Music is (not) dead

2 luglio/agosto N p. 4 Turn On Heinz Hopf, City Final, MANIK, Bruno Pronsato p. 10 Tune-In Clams Casino, I Cani p. 18 Drop Out Il suono dei collettivi New Italo Jazz School (Kekko Fornarelli, Luca Aquino, Gianluca Petrella, M.O.F. 5tet, Giovanni Guidi) Chip Music is (not) dead (4mat, goto80, Pixelh8) Recensioni p. 58 Libri» 108 Live» 112 Gimme some inches» 116 Re-Boot» 118 China underground» 120 Campi magnetici» 126 Classic album» 127 Direttore: Edoardo Bridda Direttore Responsabile: Antonello Comunale Ufficio Stampa: Teresa Greco, Alberto Lepri Coordinamento: Gaspare Caliri Progetto Grafico e Impaginazione: Nicolas Campagnari Redazione: Alberto Lepri, Andrea Simonetto, Antonello Comunale, Edoardo Bridda, Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Nicolas Campagnari, Stefano Pifferi, Stefano Solventi, Teresa Greco, Staff: Stefano Gaz, Stefano Solventi, Stefano Pifferi, Giancarlo Turra, Gaspare Caliri, Marco Canepari, Teresa Greco, Fabrizio Zampighi, Nino Ciglio, Fabrizio Gelmini, Marco Braggion, Federico Pevere, Andrea Napoli, Mauro Crocenzi, Diego Ballani, Gabriele Marino Copertina: Bruno Pronsato Guida spirituale: Adriano Trauber ( ) SentireAscoltare online music magazine Registrazione Trib.BO N 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Direttore responsabile: Antonello Comunale Provider NGI S.p.A. Copyright 2009 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare

3 Heinz Hopf Turn-On. City Final Turn-On. Pure harsh electronics... for the iron youth Abbiamo ballato Il nuovissimo duo spaccatimpani di Göteborg tra harsh, industrial e isteria japanoise. L ennesimo pugno in bocca dall algida Svezia. Due chiacchiere col vocalist e guitarist Andrea Pirro: da Sheffiled all Italia, via cinema francese e dark-folk senza confini Gli Heinz Hopf per certi versi potrebbero essere il gruppo noise definitivo, perfetto. Hanno un nome teutonico ma simpatico allo stesso tempo, dal vivo suonano dieci minuti ma quando finiscono ti lasciano totalmente inerme (spontaneo il parallelo, assai poco ortodosso in realtà, con i Dwarves dei bei tempi); hanno un layout e un iconografia ultra-minimale che strizza l occhio alle diverse anime del variegato sottomondo noise e industrial, sufficientemente home-made per i primi, scura quanto basta per i secondi. Musicalmente fanno man bassa di quanto di più estremo vi sia nel già incompromissorio panorama rumoroso: ultra-violenza sonica di scuola Whitehouse/ Genocide Organ mischiata con l isterismo, mai troppo serio, del japanoise targato Incapacitans, CCCC e compagnia degenere. Raggiungono livelli parossistici di volume, distorsione e feedback senza però mai recitare la parte teatrale (e un po farsesca) dei progetti power electronics. Aggiungiamo che a dar fuoco alle polveri sono due vecchie guardie della scena out scandinava (nello specifico Dan Johansson, già Sewer Election e Ättestupa, e Matthias Andersson, tenutario della Release The Bats e da poco attivo in solo come Arv & Miljö) e il quadro è completo. Per loro già in circolazione l immancabile manciata di cassette di rito e ora, dopo il tour italiano insieme ai giovani Lust For Youth e ai partenopei Matar Dolores, arriva l album di debutto per la milanese A Dear Girl Called Wendy la cui recensione trovate su queste pagine virtuali. Non paghi, gli scandinavi hanno anche licenziato da pochissimo una fugace collaborazione con un altro losco abitante dei tetri anfratti devoti al culto del feedback. È infatti di questi giorni la pubblicazione del 7 pollici split con Kam Hassah, uno dei vari pseudonimi sotto cui si cela Matteo Castro, tenutario di Second Sleep e attivo nei vari Lettera22 ed Endless Sea. Che sia un piccolo oggetto altamente infiammabile va da sé, che sia distribuito direttamente da Release The Bats pure. Piatto al solito indigesto, l impietoso assalto sonoro in bianco&nero del duo svedese, ma il nome ha già fatto breccia tra i maniaci del frastuono più assordante: lo testimoniano i numerosi commenti di encomio sui forum di riferimento del sottobosco noise come Special Interests (un nome che è tutto un programma) e Chondritic Sound. Quanto basta per far ben sperare la label meneghina e procurare a tutti gli altri un inevitabile quanto spassoso (guardate la foto di copertina e provate a trattenere un sorriso) mal di testa. Andrea Napoli Un discorso complesso, quello dei City Final e di Andrea Pirro, frontman e leader della band, fatto di un continuo fare e disfare tipico di chi non si accontenta. Tutto era iniziato nel 2005 a nome La Passione Nera: un progetto solista che ha portato a un EP, ma che si è arenato dentro a una fuga verso la Gran Bretagna, destinazione Sheffield. Tornato in Italia ho voluto continuare il discorso rincominciando da quattro, racconta Andrea Pirro. Nessuna scelta stilistica definita, se non un evoluzione naturale. E la voglia di rivolgersi maggiormente all Italia, nonostante il cantato esclusivamente in inglese. Nel sound di How We Danced c è uno sguardo rivolto equamente ad Albione (Morrissey su tutti) e certa America tinta di scuro (Roy Orbison, Johnny Cash), per un folk cinematografico e darkeggiante che potrebbe essere stato scritto ieri come oggi o domani. I riferimenti cinematografici, sebbene non siano così circoscrivibili, sono comunque una parte determinante della proposta musicale dei City Final: Se dovessi citarti un esperienza cinematica definitiva, probabilmente direi il connubio tra Louis Malle ed Erik Satie in Fuoco Fatuo o anche Malle e Miles Davis in Ascensore per il Patibolo. L idea di cinema a braccetto con la musica è un idea che per Andrea Pirro non ha confini di genere: la malinconia francese di Yann Tiersen, le grandi orchestrazioni di Nino Rota, lo spaghetti-western di Morricone e Bacalov. E entrato tutto nel DNA dei City Final sulla base del desiderio di creare, a modo nostro, il feeling intimo delle orchestrazioni di una volta con l approccio più diretto della line-up a quattro; o, visto altrimenti, dal desiderio di traslare in dimensione da camera l immagine tipicamente rock di un organico con chitarre, basso, e batteria. Nonostante questo background culturale complesso, le canzoni devono rimanere semplici. lasciamo che i vari layer della musica si sovrappongano tra loro, come spesso avviene per le colonne sonore, ma credo che l aspetto cinematico rimanga più legato a un certo tipo di ambientazioni che altro. Ecco riemergere il lato folk e cantuatoriale di Pirro e soci. Ho sempre nutrito un debole per la musica cantautoriale, sia che avesse ad oggetto i bordelli, come in Scott Walker che riprende Jaques Brel, oppure i cuori infranti cantati da Orbison o i fuorilegge e la cocaina di Cash. Dopo il calvario delle registrazioni, che però hanno coinvolto anche Liam McKahey dei Costeau ( una leggenda assoluta e i Costeau sono uno dei miei gruppi preferiti ) e Nicola Manzan, How We Danced ha cominciato la sua vita tra banchetti, cantine e balere. Ancora una volta, in una perfetta scena finale da film in bianco e nero. Marco Boscolo 4 5

4 M A N I K New talents in da house Una generazione di giovani artisti a delineare il carattere dell attuale scena house. Intervista a Chris Manik per approfondire temperamento e peculiarità degli ambienti USA Turn-On. Chris Manik è uno dei giovanissimi ribelli di oggi che col loro carattere e la loro voglia di distinguersi stanno plasmando la nuova immagine della house odierna. Nato e cresciuto a New York, in poco più di un anno Chris è salito alla ribalta grazie ad una serie di EP (Park To The Slope, Keep That Fresh, McLovin You...) pubblicati su Culprit e sulla Ovum Recordings di Josh Wink, che hanno subito impressionato per la loro inusuale maturità compositiva (stiamo parlando di un ragazzo di 25 anni) e per l autorevolezza con cui mischiavano hip-hop, funk ed house in totale naturalezza. Un crossover style sempre grintoso e un energia glamour di particolare efficacia gli hanno valso l attenzione di riviste specializzate come Mixmag e DJ Mag, che l hanno segnalato tra gli artisti emergenti da tenere maggiormente d occhio per il Recentemente è finalmente arrivato all album d esordio, Armies Of The Night, un solido e impegnato viaggio deep che emana gli odori dei quartieri newyorkesi, raccontando storie e visioni proprie della città che ama. Lo abbiamo contattato per farci raccontare come la sua generazione si pone nei confronti della materia dance, e con quale spirito la scena USA ambisce a distinguersi dal resto del globo. Ne è emerso un interessante affresco come artista di grande carisma, che non punta a seguire mode o generi ma vuol mettere in gioco tutta la propria personalità per lasciare un impronta personale al continuum dance a cui appartiene. Ascoltiamolo. Come descriveresti la tua musica? Solitamente odio dare etichette alla mia musica, ma potremmo descriverla come ispirata ad una house fuori dagli schemi, con una marcata componente synthwave. In che modo stai tentando di distinguerti dagli altri? Evitando di pensare ai generi. Nel mio album, sono semplicemente me stesso. Ossia, un artista che ama tanto l hip-hop quanto i synth, la house o la disco. Insomma, mi piace la roba buona! Con quali intenzioni ti impegni a far musica? Hai una missione artistica? Sì: fare la musica più drogata che abbiate mai sentito. Agire da fuoriclasse, senza scusanti. Stai tentando di dire qualcosa di diverso dal resto della scena dance? Anche se posso avere lo stesso carattere di altri, e come loro credo che la buona musica sia buona musica indipendentemente dai generi, sto fondamentalmente cercando di essere me. Nel senso che quello che state ascoltando è ciò che sono, al 100%, solo io e nessun altro. È questa la differenza con gli altri. Come percepisci la differenza tra dance USA e UK oggi? In che modo la scena da cui provieni sta cercando di mostrare il proprio carattere rispetto all altra? Penso che gli USA stiano proprio spassandosela oggi. Lavoriamo tutti sodo, quindi quando facciamo spettacoli o concerti ci stiamo semplicemente divertendo. Non prendiamo la cosa troppo seriamente, ma ci comportiamo comunque da professionisti. Facciamo la musica che ci piace, e questo ci rende differenti. Non ci preoccupiamo dei generi, che è la cosa che più ci distingue dal resto del mondo oggi. Troppe etichette o djs altrove si preoccupano di capire se si tratta di questo o di quest altro. Non qui. Dall esterno si può avere l impressione che l approccio UK alla dance music sia più eclettico, mentre quello USA sia più serio. Cosa ne pensi? Penso che entrambe le scene siano uniche, ognuna a proprio modo. Penso che la scena britannica abbia un seguito e un attenzione enormi. La gente lì è davvero pronta a divertirsi ascoltando buona musica. Sfortunatamente il pubblico americano sta ancora crescendo, quindi non è ancora a quel livello ma sta andando dritto in quella direzione. Musicalmente parlando, la scena USA è più intensa, lenta, in generale offre un suono differente. Quali sono le tue ispirazioni? Quali artisti hanno avuto maggiore influenza su di te? Sono influenzato da qualsiasi cosa: la musica con cui sono cresciuto, le persone che ho conosciuto, le cose che ho visto. Nella nostra scena potrei dire Matthew Dear, Jamie Jones, Mathew Jonson, Kerri Chandler, Josh Wink, Soul Clap, Larry Levan. E poi lui, David Mancuso. E tanti altri ancora. Fuori dal mio ambiente, sicuramente DJ Premier. Il tuo album di debutto arriva dopo un lungo periodo di sempre maggiori aspettative. Come ti senti in questo momento? Timori, speranze, desideri? Sono davvero felice. Penso che il mio sia tra gli album più completi e ricchi del 2011: ha avuto il supporto di tanti dj come The Revenge, Clive Henry, Lee Foss, Soul Clap e tanti altri. Sono onorato di vedere come la gente apprezzi il fatto che in quest album abbia voluto scrivere una storia, la mia storia: ecco perché ci ho messo dentro tutto quello con cui sono cresciuto, dall hip-hop alla house, dal funk alla disco. Dal tuo punto di vista, in che direzioni sta andando oggi la scena dance a cui appartieni? In una direzione benefica. Mi piace chi ci sta rappresentando oggi, e sono sicuro che il futuro promette bene. Go USA! Programmi per il futuro? Quest autunno arriva il mio nuovo EP su Hot Creations, e sono davvero eccitato. E poi un 12 su Culprit che vedrà un remix da parte di Revenge. Un nuovo video per un altro singolo quest anno. Poi sarò in tour in Europa per tutta l estate, e mi dedicherò ad un side project con un amico vocalist. Carlo Affatigato 6 7

5 Bruno Pronsato Romantic techno Il terzo album di Steven Ford a nome Bruno Pronsato è il pretesto perfetto per tracciarne un profilo essenziale, all ortodossia glitch di Bobby Karate alla ricerca organica degli ultimi lavori... Turn-On. Inquadrato, di volta in volta, come produttore glitch, micro-house, minimal, Steven Ford è sempre riuscito a tirarsi fuori dalle etichette di genere arricchendo il proprio suono di elementi (senza mai farsene assorbire completamente) o spostandone sensibilmente il baricentro (mantenendo sempre il proprio tocco). Noi, che avevamo cercato di affrancarlo definitivamente in tal senso, parlando di organicaltronica a proposito del suo capolavoro Why Can t We Be Like Us, coerentemente, ci vediamo contraddetti dall ultimissimo Lovers Do... Dagli Slayer alla glitch Da ragazzino, il seattleano Steven Ford pesta la batteria in una band punk/speed-metal texana, tali Voice of Reason, passando le giornate ad ascoltare ossessivamente caposaldi del genere come Venom, Slayer e Napalm Death ma anche act avant-rock come My Bloody Valentine e Gang Of Four, sempre alla ricerca delle cose più strane, le più libere possibili ed estreme. Dopo la sbornia adolescenziale, per alcuni anni Steven mette tra parentesi la musica. L interesse riprende nel 1998, quando torna stabilmente a vivere a Seattle e scopre i compositori dodecafonici (Schoenberg e allievi) e - attraverso l interesse per la micro-tonalità tipico delle avanguardie classico-contemporanee - si immerge in quella che tra fine anni Novanta e primi Duemila sembra essere una vera e propria rivoluzione (e che presto diventerà una moda e una cosmesi timbrica buona per tutti, nel bene e nel male), quella di un elettronica fatta di suoni atomizzati, di micro-suoni, un estetica post-digitale fatta di clicks & cuts che continua di fatto, con mezzi e fini diversi, la grande tradizione colta della sperimentazione elettroacustica (l integrazione di suoni di sintesi e musica concreta): la glitch music di label come Mille Plateaux, Warp e Raster-Norton. Steven rimane letteralmente folgorato, recupera il tempo perduto e si mette a produrre studiatissimi glitch-scapes con lo strano moniker Bobby Karate, di cui ci restano un mini di 4 tracce del 2002 e un album, Hot Trips, Cold Returns (Woodson Lateral), di inizio L elettronica suonata, l impro, Berlino Il 2003 è un anno importante, Steven adotta infatti il moniker definitivo, quello con il quale centrerà la propria cifra produttiva e con il quale diventerà famoso a livello internazionale, e al quale, salvo piccole eccezioni (il 12 pollici a nome Osvaldo - strizzatina d occhio a Maurizio/Von Oswald? - No More Vampires nel 2006, votato ad un suono oscuro e sinistro), resterà sempre fedele: Bruno Pronsato. La prima prova è un 12 su Orac, due pezzi (Read Me e Silver City) di so-called micro-house così pieni di sberciature glitch da sembrare quasi-industrial. Nel 2004 l album, ottimo, Silver Cities, sempre su Orac, una deep così glitchata e stilizzata, e con un forte gusto jazz, da poter altalenare con classe, forte di un tocco subito notato dagli appassionati, tra rumorismo (e ritroviamo Read Me) e silenzio (Pedestrian Plan). I metà Duemila saranno per Steven/Bruno, etichettato in ogni caso come produttore minimal, anni di ricerca, obiettivo non fossilizzarsi, rinnovarsi restando comunque riconoscibile, continuando a sperimentare. Bruno pubblica così più di una decina di EP di affinamento (impossibile seguirli tutti) e soprattutto, in parallelo a grandi e quotatissimi producer come Moritz Von Oswald e Mathew Jonson, si interessa all elettronica live e suonata e all improvvisazione (2005). Nel 2006 il passo quasi obbligato di trasferirsi nella culla di quei suoni che tanto ama (tanto la glitch, quanto molta minimal-techno), nel cuore della scena: Berlino. Why Can t We Be Like Us viene pubblicato dalla tedesca Hello? Repeat a fine dicembre 2007 come doppio 12 e a gennaio dell anno successivo come full vero e proprio. E il disco Berliner di Bruno, animato da una algida sensualità ben inquadrata dalla copertina lesbian-porcelain e fortemente sbilanciato sulla ricerca timbrica. In brani dalla lunghezza mediolunga, lungamente cesellati, Bruno fa il punto della situazione sulle sue ricerche e propone la sua sintesi. Organicaltronica Per sgusciare dalla impasse definitoria delle etichette di genere, l abbiamo chiamata organicaltronica, sottolineando in questo modo non tanto le dimensioni di scala della sua musica (sostanzialmente inquadrabile nel micro-cosmo minimal), non il taglio delle sue strutture ritmiche (che sono di base techno - e lui non manca occasione per ribadire che la sua è Romantic techno - ma che flirtano volentieri con il battito e gli spazi più ariosi della house), non la sua curatissima palette di suoni (tanto quelli di sintesi, spesso sovrapponibili a quelli della deep, quanto quelli concreti - voci comprese - o comunque modificati dal laptop, leggi glitch), quanto proprio l approccio generale con cui Bruno prende tutti questi elementi e li mette assieme, li ingloba in un unico corpo sonoro. Si ritorna così al ventre materno dell elettronica/electronica. Questo che può sembrare un escamotage si rivela invece un ottima prospettiva critica, se senza troppi patemi appunto di genere ci permette di inseguire le giuste pertinenze e accostare artisti anche molto diversi da Bruno e diversi tra loro che però, al di là delle specificità di suono, ritmo, atteggiamento eccetera, condividono proprio l idea di un suono elettronico che suoni organico, di una fusion di elementi retti sempre e comunque da un impalcatura essenziale e iterativa (leggi minimal). Ecco quindi che Bruno merita il suo posto nella nebulosa di produttori minimal/fusion/organic che comprende Luciano, Cobblestone Jazz, Shackleton, Andrea Sartori, Moritz Von Oswald, Ricardo Villalobos, Theo Parrish, Terre Thaemlitz, Amon Tobin e persino Fennesz (quello di Endless Summer, che del primigenio amore di Bruno per i My Bloody Valentine incarna alla perfezione la trasfigurazione anni Duemila). Nel 2009, galvanizzato dall apprezzamento della critica internazionale (tra le tante, le recensioni di opinion leader come XLR8R e The Wire, non di Pitchfork, che sembra averlo scoperto quest anno; in Italia hanno parlato di lui in pochissimi), Bruno fonda la propria label personale, Thesongsays, la cui prima uscita è The Make Up The Break Up (2009), un EP con un unica lunga traccia di 38 minuti. Da molti salutato come il miglior lavoro pubblicato da Pronsato fino a quel momento, è la rielaborazione di un pezzo risalente alle session di Why Can t We Be, una suite electro che piega nelle forme di un etereo trip house fatto di continui inglobamenti, inserti e meticciati, in un ottica sottilmente e pacificamente tribal, le cavalcate Kraut che all house diedero una propulsione fondamentale, da Manuel Göttsching in poi. Oggi Steven/Bruno continua il proprio percorso di produttore minimal eretico, evoluto e irrequieto, sempre attento a non ripetersi pur mantenendo il proprio tocco, sempre interessato a rinnovare il proprio stile e ad esplorare le diverse e nuove sfumature di un suono che è nato in emulazione, ma già maturo. Soprattutto, sempre capace di smarcarsi non appena si cerca di ingabbiarlo in una qualsiasi etichetta. E proprio questo che accade nel nuovissimo Lovers Do. Gabriele Marino 8 9

6 Tune-In. Clams Casino Cloud rap? Trip hop soul? Mike Volpe aka Clams Casino incarna una nuova generazione di nerd da cameretta capaci con due mosse giuste di fare il botto. Lo abbiamo intervistato per capire da dove viene e dove vuole andare... Testo: Gabriele Marino Mike Volpe aka Clams Casino ha 23 anni, vive a Nutley, New Jersey e lavora a tempo pieno come interno - studia fisioterapia - nell ospedale locale. Con un padre musicista, Mike armeggia con la batteria da quando ha sei anni; scopre poi il beatmaking, un po come tutti, negli anni del liceo e inizia a fare le primissime produzioni. Nel 2006 comincia a modellare un suono più personale (indica come prima prova compiuta un remix di Got It Twisted di Mobb Depp), affinando quella miscela fragrante ed emotiva di chiaroscuri hip hop e soul alla Burial che abbiamo magnificato su Instrumental Mixtape. Nel 2007 si mette a setacciare Myspace alla ricerca di possibili partner musicali, cerca rapper interessati a cantare sulle sue basi, disposto a mandare beat a chiunque mi avesse risposto. E così che nel 2008 entra in contatto (ma occhio, da bravi pischelli internet generation, i due ad oggi non si sono mai fisicamente incontrati) con Brandon McCartney aka Lil B. Californiano di Berkeley classe 89, descritto dalla stampa USA come one of a growing number of weird-o emcees e a brilliantly warped, post-lil Wayne deconstructionist from the Bay Area, Lil B ha tirato su in pochi anni un vero e proprio impero hype sul web, con strategie virali lanciate su Myspace e Twitter e una prolificità esagerata e tentacolare (centinaia e centinaia di produzioni). Ha realizzato due dischi con il gruppo hip hop The Pack e ben sei da solista tra il 2009 e questi primi mesi del 2011, forte del buzz scatenatosi - tra le tante cose - attorno ad alcuni pezzi come I m God, prodotto proprio da un Clams in stato di grazia [l embed qui sotto], e al titolo di uno dei suoi album, I m Gay, che gli sarebbe addirittura costato alcune minacce di morte. Lil B in ogni caso è un personaggio chiave nella storia di Clams, perché lo tira fuori dal chiuso della cameretta (più metaforicamente che fisicamente) e gli dà un enorme visibilità, altrimenti difficilmente immaginabile, introducendone le produzioni presso altri hot mc della Twitter generation, primo fra tutti il chicagoano classe 90 De- Andre Way aka Soulja Boy. Per inciso: tanto Lil che Soulja - tanto per il look, quanto per la sostanza musicale - di primo acchito non sembrerebbero proprio i personaggi più adatti per cantare sulle affusolate produzioni di Clams. E invece - per quanto tutti, noi compresi, sottolineino come i pezzi di Instrumental Mixtape siano perfettamente compiuti come strumentali - il binomio funziona sorprendentemente bene, forse proprio per la frizione tra questi due elementi apparentemente così lontani, e potrebbe anzi segnare una via nuova per molto rap: freakerie eredi del marciume street del gangsta anni Novanta, da una parte, e morbide produzioni abstract, dall altra. Del resto, Flying Lotus sogna sempre di collabora

7 re con Lil Wayne (e lo sogna anche Clams). Tornando a noi, il ragazzo produce tracce sparse e fa remix lontano dai clamori della scena, apparentemente disinteressato all hype che gli si è creato intorno dopo un paio di mosse azzeccate (Pitchfork sugli scudi, FactMagazine, addirittura The Wire, ovviamente tantissimi forum hip hop). Scrive sul suo Twitter, ma con la leggerezza del teenager entusiasta; cura - sempre meno, come impongono i tempi - quel Myspace barenaked da cui era partito; (stranamente) non ha una pagina personale su Facebook e la pagina non ufficiale a lui dedicata conta ancora meno di 500 fan [aggiornamento: la pagina che si propone come ufficiale è nata da pochissimo e al momento di fan ne conta poco più di 200; la vostra cover band probabilmente ne fa già di più]. Insomma, oggi Mike Volpe aka Clams Casino aka ClammyClams è un personaggio in piena fase di transizione, tanto musicale, quanto comunicativa e - quindi - esistenziale. Noi lo abbiamo contatto con un giro di mail tramite un canale Youtube gestito da un amico che gli uppa i pezzi. Il ragazzo è subito disponibile e veramente easy, ma ci sorprende - ingenui noi - con quelle dichiarazioni di svagatezza e serendipità artistica che solo certi americani (è lo stesso discorso che abbiamo già fatto a proposito di James Pants): diciamo J Dilla, diciamo Massive Attack, diciamo Burial e lui candido confessa ma non è che io li conosca poi molto sti musicisti (occhei, una cosa è che da più parti paragonino il suo approccio a quello usato da How To Dress Well con l r n b e lui dichiari di non averlo mai ascoltato; ma qui siamo davvero a livelli da shock anafilattico). E così pure glissa sui suoi ascolti formativi (riassunti con un laconico hip hop ) o quando gli chiediamo se un video come quello di Gorilla (con immagini d annata del mago David Copperfield solarizzate e rallentate) sia una dichiarazione implicita di fascinazione per l estetica hauntologica. Ok, qui avevamo decisamente preteso troppo Sappiamo pochissimo di te. Puoi dirci come hai cominciato con la musica, ad ascoltarla prima, a suonarla e a produrla poi? Con che musica sei cresciuto? Ho cominciato a suonare la batteria da piccolissimo, ma non ho cominciato a fare hip hop fino al primo anno delle superiori. Cazzeggiavo con i miei amici, volevamo semplicemente scrivere e registrare i nostri pezzi, portarli a scuola per farli sentire a tutti (risata). È cominciata così. Il tuo moniker viene da un piatto tipico a base appunto di vongole (clams). L hai scelto perché ha un suono evocativo? Decisamente. Anche se mi dispiace dover ammettere che è un nome che non ha poi molto senso (risata). Come mai hai deciso di rendere disponibile Instrumental Mixtape in free download? Per raggiungere il più vasto pubblico possibile? Ho solo voluto dare ai tanti fan che mi chiedevano sempre le strumentali di certi pezzi quello che che volevano. Non ho pensato una strategia o cose così. Infatti sono davvero sorpreso di quanta gente abbia scaricato e ascoltato il disco. Tu fai hip hop strumentale. Su una pagina Facebook nonufficiale dedicata a Clams Casino c è scritto come genere di riferimento cloud rap. Anche qui, un nome evocativo. È farina del tuo sacco? Lo possiamo intendere come hip hop densamente atmosferico? Esatto, direi proprio che tutta la roba che ho prodotto più di recente è molto atmosferica. Ho trovato la dimensione giusta, cerco di fare cose che ti coinvolgano in una esperienza totale, che vada oltre il semplice ascoltare musica. In questo modo puoi davvero perdertici dentro. Ed è questo che voglio. Ho definito la musica di Instrumental Mixtape trip hop soul. Nel senso che sembri mettere assieme la soft darkness del trip hop dei Massive Attack e di Tricky, il boom bap dell hip hop avanzato (J Dilla?) e il pathos soul del dubstep di Burial. Sto dicendo una cazzata o ci siamo? Non ti saprei dire, davvero non ho molta familiarità con la musica degli artisti che hai citato [Qui il simpatico intervistatore sviene; incalziamo poi il ragazzo, che aggiunge] Ho sentito qualche beat di J Dilla, ma adesso non ricordo esattamente quale. Burial invece non l ho mai sentito. Ti senti parte di una scena di produttori strumentali? Quali produttori segui oggi? Adesso sì, ma solo da poco. Non ho mai pensato di pubblicare musica strumentale prima d ora, ma la risposta che sto avendo da qualche mese a questa parte con le mie produzioni strumentali mi sta facendo seriamente orientare verso questa idea. Mi piacciono tantissimo 40, il produttore di Drake, LOS e Tricky Stewart [per capire di che stiamo parlando: quest ultimo è uno dei produttori di Umbrella di Rihanna; ndr]. I tuoi artisti preferiti di sempre? Lil B, Cam ron, Lil Wayne, Juelz Santana, 50 Cent, The Pack. Con che cosa produci i tuoi beat, che mezzi usi? Prendi ancora ispirazione da frammenti musicali trovati sul web cercando sui motori di ricerca parole chiave come blue, cold, ecc.? Oggi uso solo software. Quando ho cominciato a produrre, circa dieci anni fa, invece usavo soltanto campionatori, tastiere e registratori analogici. Non cerco sample con quella tecnica delle parole chiave da un po di anni ormai. Anche se devo dire che è una cosa che ha sempre funzionato molto bene. Credo di avere smesso semplicemente perché negli anni mi sono costruito una libreria di suoni enorme, dove trovo già quasi tutto quello che mi serve. Dopo il puriferio scatenato da Instrumental Mixtape, consideri ancora il beatmaking come un hobby? Sì. Solo che adesso è molto meglio: è un hobby per cui mi pagano (risata)! Sappiamo che lavori come fisioterapista in un ospedale. Spiegaci meglio, in pratica sei costretto a produrre solo di notte? È difficile conciliare le due cose e io cerco sempre di fare musica in tutti i momenti liberi che ho a disposizione. Non so mai quando andrò in studio di preciso, non facci piani o tabelle. Sei un grande fan di Lil Wayne e 50 Cent. Tu su che basi li faresti rappare? Ci sono tantissimi producer abstract/strumentali che sono fan di questi mc nugangsta, ad esempio Flying Lotus. È una cosa strana e interessante: perché in qualche modo i produttori strumentali come te sono il futuro dell hip hop, mentre i rapper pimp & pimped ne rappresentano un po il passato, il lato primitivo Mi piacerebbe alla follia poter dare a un rapper come Lil o 50 cose completamente diverse rispetto a quelle su cui sono soliti rappare, e vedere in che modo riescono a usarle, a farle proprie. Sarebbe bellissimo sentirli sperimentare. [Gli chiediamo di Flying Lotus] Flying Lotus: sono andato ad ascoltarmi qualcosa su Youtube dopo che un po di gente mi ha chiesto se lo conoscevo e ha fatto paragoni tra la sua e la mia musica Su Pitchfork leggiamo: a self-titled tape is now being released on vinyl by experimental label Type. Di che si tratta? È sempre l Instrumental Mixtape, sarà presto pubblicato solo su vinile. Suoni in giro? Ti piace? O resti sempre un nerd da cameretta? Sto cominciando a suonare di più in giro in questo periodo, ma resto fondamentalmente un topo da cameretta/ studio (risata). [special thanks: Filippo Papetti] 12 13

8 Tune-In. I Cani Proprio come me e te Da I pariolini di diciott anni a fenomeno pop della rete indie. Il segreto? Affondarci dentro. Testo: Giulia Cavaliere Quando I Cani, più di un anno fa, ha fatto il suo ingresso nel web invadendo facebook e tutto il social networking possibile e immaginabile con I pariolini di 18 anni, pochi o nessuno avevano capito che cosa avevamo di fronte: testo acuto, electropop per tutti, si balla, si canta e ci si scherza ma si parla comunque di qualcosa che non siamo noi e nonostante la morale della storia ( ed io, che di nascosto vivo, io non vivo che nascosto, / però ho un po più di anni ma non so che cosa invidio ) quelli restavano sempre e comunque dei pischelli fascistoidi e noi eravamo comunque meglio. Poi è successo che in rete abbiamo scoperto che c era Wes Anderson e allora abbiamo pensato che I Cani fosse un po il cantore di questo nostro essere indiedelcazzo, tutti colorati sovraesposti e alla fine molto più fighi degli altri perchè, se non altro, i finali di amori in discesa noi li sognavamo agrodolci. E seguito Il pranzo di Santo Stefano e I Cani è stato ancora dalla nostra almeno fino all arrivo di Velleità dove, in un elenco che spezza le gambe, siamo stati nominati tutti: tutto il wannabe che ci circonda e ci coinvolge senza mezze misure. I Cani, insomma, ha iniziato a togliere le virgolette alle definizioni mettendoci di fronte alle cose come stanno, tutte, le più scomode e quelle che, se non riguardano proprio noi in prima persona, possiamo comunque ritrovare in una buona porzione delle nostre conoscenze e delle nostre amicizie di almeno due generazioni. Con l uscita dell intero LP, il 3 giugno scorso, è esploso il putiferio: un caos infernale in tutta la rete dove si moltiplicano interviste, speculazioni, recensioni, saggi brevi, leccate e insulti a una velocità da scandalo italiano con pochi precedenti per una band di musica pop. Che piaccia o no, Il sorprendente album d esordio dei Cani rappresenta una svolta meta-narrativa neorealistica assai interessante, cantautorato borghese sviluppato in modo piuttosto anarchico e inconsueto. I primi due pezzi, I pariolini di diciott anni e Wes Anderson sono venuti fuori in modo totalmente estemporaneo. Quando mi sono reso conto che la direzione in cui andavo era qualcosa di interessante per parecchie persone, ho cercato di focalizzare quello che stavo facendo, ma è stato un processo molto lungo. Retrospettivamente sono molto contento di essermi fermato prima di iniziare a scrivere nuovo materiale (i 2 pezzi li ho pubblicati a giugno, il resto l ho iniziato a scrivere a ottobre) perché mi ha aiutato a evitare di subire le varie pressioni che c erano su di me, dal critico musicale che mi diceva devi cambiare temi alle cose più stupide tipo l amico che chiedeva perché non fai una canzone su questo?, tutte cose che comunque creano una percezione di quali sono le aspettative su di te. Il fatto che alla fine di questo processo, che ho capito strada facendo, io sia riuscito a tirare fuori un disco coerente, che mi rappresenta tantissimo, e su cui non ho nessun rimpianto del tipo questa parte è un po facile o tirata via, per me è 14 15

9 una specie di miracolo. A infuocare più che mai gli animi degli ascoltatori/ blogger e chi più ne ha più ne metta, è stato l anonimato dell autore di questi pezzi che, con il loro piglio di fiabe reali e senza speranza, tutte dotate di una loro morale sottesa, non esplicitata eppure chiarissima, puntano il dito su tutti La scelta dell anonimato in realtà non è stata molto ragionata e a dire il vero fare delle canzoni completamente da solo in cui parli dei cazzi tuoi e poi pubblicarle su internet non è una cosa troppo facile, almeno per me. Chi ha un gruppo almeno ha altre persone con cui confrontarsi che gli possono dire no, guarda, questa canzone fa cagare. Poi col tempo è anche diventata una scelta che forse ha aiutato a creare attenzione intorno al progetto, quindi tanto meglio. Una cosa che appare del tutto certa, all ascolto, è che chi ha scritto questi brani lo ha fatto dall interno, nell assoluta consapevolezza di fare parte del mondo di cui parla e di essere egli stesso parte della propria critica ( i gruppi hipster indie hardcore punk electropop...i cani in Velleità). L elemeno autocritico attutisce il colpo, contribuisce in parte ad aumentare le simpatie per il progetto ma soprattutto accompagna questo disco a essere osservato da una prospettiva diversa, forse più interessante: non si tratta solo di ritrattistica, di storie di un mondo alla moda che, per definizione, si vorrebbe indie(pendente), diverso, migliore ma di un discorso sull onestà, di ammettersi per quello che si è, di rendersi consapevoli con più o meno fierezza di fare parte di qualcosa che non ha nulla di diverso e di indipendente per davvero da tutto ciò che invece si rifugge. Allargando il campo, come avviene in Perdona e dimentica, di ammettere anche le proprie bassezze, che vanno dalla fame di soldi e di potere alla semplice gioia di vivere in una casa costosa. Quello che parla in prima persona è sempre un personaggio, non sono io. La cosa difficile è renderlo un personaggio credibile, e questo avviene solo se dietro alla canzone c è un vissuto reale e si riesce a fare emergere questo vissuto. Penso che sia giusto accettare le cose e guardarle in faccia, anche se questo non vuol dire necessariamente andarne fieri. Troppa cultura di sinistra, e questo termine in Italia in qualche modo comprende sia la musica indie che i collettivi della protagonista della canzone, non affronta ancora il senso di colpa dovuto alla propria provenienza sociale e quindi tenta di rimuoverla. Io credo che sia giusto accettarla, ma non per questo smettere di viverla in modo problematico. Parlando di Solondz (Perdona e dimentica, prima di essere il titolo della canzone de I Cani è il titolo italiano del suo ultimo film n.d.r): una delle cose che mi ha più colpito in assoluto è la scena di Happiness (segue spoiler) in cui il padre pedofilo risponde onestamente, piangendo, alle domande di suo figlio che gli chiede se ha violentato i suoi compagni di classe e i dettagli sul modo in cui li ha molestati. Mi ha aiutato a focalizzare la convinzione che la verità ha un valore indipendentemente dal giudizio morale su di essa. Verità per verità, I Cani parla di Roma senza peli sulla lingua: tutti i testi hanno ambientazione romana e vengono nominati luoghi precisi (il Pigneto, Monte Sacro, i Parioli...) o precise situazioni, habitat naturali dei personaggi di cui si racconta come il Fish n Chips, nota serata indie della capitale. Non è difficile estendere il discorso, uscire da Roma, pensare a Milano, anzitutto, al quartiere Isola, a via Savona o Ticinese, al Rocket o al Plastic col suo London Loves. In ogni caso i luoghi citati nelle canzoni di questo disco sono simboli, non soltanto precise location anche se probabilmente, per chi non vive a Roma o Milano, comprendere alcune sfumature di questi brani non sarà ugualmente facile e l impatto violento sarà decisamente attutito. Allo stesso modo è davvero difficile decontestualizzare questo lavoro dal nostro tempo, dal questo preciso momento sociale italiano. Quindi è quasi impossibile immaginarne un seguito... Io parlo di Roma semplicemente perché è qui che vivo ed è qui che ho visto le cose di cui parlo. Mi piace chiamare le cose con il loro nome, anche quando è specifico e oscuro ai più (i quartieri ad esempio), perché mi sembra che gli elementi specifici permettano all ascoltatore di associare più facilmente le cose di cui parlo nelle canzoni con la realtà in generale. In un certo senso ho la convinzione paradossale che più si è specifici e più si ha speranza di dire cose vere e quindi universali. Penso che le cose di cui parlo abbiano delle componenti superficiali che probabilmente sono molto legate al contesto specifico, ma io ho sempre cercato di usarle solo come elementi esteriori che mi servivano a dire qualcosa di più profondo e, credo, più duraturo nel tempo: prendi Velleità: è una canzone che in qualche modo coinvolge anche i cinquantenni, non parlo solo dei miei coetanei di qui ed ora. Per quanto riguarda un seguito dei Cani: se avrò qualcosa da dire e penserò che il modo giusto per dirla sia con un disco, proverò a fare un secondo album dei Cani Molti hanno già associato il lavoro de I Cani a quello fatto da Le luci della centrale elettrica relativamente all analisi della nostra realtà di giovani in questa contemporaneità. Vasco Brondi è anche citato in Velleità dove diventa uno di quegli elementi di wannabe di cui si diceva: i giovani non sognano più di essere famosi come Vasco (Rossi), non sognano insomma di essere davvero noti, sognano di essere famosi come Vasco - pausa importante - Brondi, famosi nel piccolo, di una notorietà che basti a non farsi fregare la ragazza da uno più conosciuto di te. Rispetto a Le luci della centrale elettrica in questi testi si dipinge, con più autenticità e meno tentato/ostentato lirismo mediocre, una certa povertà del nostro tempo, un certo modo di essere giovani che in Hipsteria è descritto senza mezzi termini: sognare la fuga ma una fuga da ricchi, una fuga facile da un disagio millantato, una fuga da borghesi in un posto cool, da borghesi che leggono libri nobili perchè li leggono tutti ( Andrò a New York a lavorare da American Apparel. Io ti assicuro che lo faccio, o se non altro vado al parco e leggo David Foster Wallace.(...) Andrò a New York a lavorare o a studiare. Dirò ai miei genitori che sto male qui a Roma. ) Ecco, non credo basti leggere Wallace, anche con il massimo della comprensione e dell onestà, per essere brave persone. Quello che voglio raccontare sono gli sforzi e non i risultati. Alla fine trovo che tutti gli sforzi siano interessanti: quello di essere fighi, quello di essere buoni, quello di essere socialmente accettati, quello di essere gli ultimi veri romantici. I risultati a volte sono ridicoli, a volte sono pessimi, a volte sono buoni, ma non sono al centro del mio interesse. E mentre tutti dicono, talvolta tra l offeso e lo sconcertato, che una cosa così la potevano fare tutti, da queste parti siamo certi che non sia proprio del tutto vero e che comunque, prima o poi, qualcuno avrebbe dovuto farla. E quel momento è arrivato con stile, su tappeti elettronici, synth e atmosfere, anche loro per tutti, come il pop dovrebbe sempre fare. Il primo live sarà al MiAmi di Milano il 12 giugno. Noi ci siamo, magari anche con tutti i cameratismi del caso. Vestiti a righe e leggings fluorescenti compresi

10 Il suono dei collettivi Drop Out Dalla sparizione musicale e individuale del post-rock alla rinascita. Passione, grandeur, continuità, metamorfosi e vicissitudini del suono che più di ogni altro ha caratterizzato il Duemila... Godspeed You! Black Emperor 18 Testo: Giancarlo Turra 19

11 Continuità e discontinuità. Dai Novanta ai Duemila La musica pop vive di eterni rimescolamenti e ritorni, ed è un fatto a tal punto noto da passare quasi inosservato. A maggior ragione oggi, allorché ogni cosa si accavalla caoticamente confondendo la prospettiva. Sovrapponendosi, però, succede che anche i proverbiali corsi e ricorsi storici divengano altro: non sempre apprezzabile, ma la questione sta nel conferire un valore il più possibile personale ai modelli sotto pelle; nel far brillare di una luce che non sia semplice riflesso la nostra educazione sentimentale, così da ricavarne opere che posseggano un motivo che ne giustifichi l esistenza. Chiusi i convulsi anni zero, riflettiamo sulla con-fusione che sono stati, simile a quella del decennio precedente ed ecco un ennesima fonte di continuità tra le due epoche. Nelle quali, tra le infinite altre cose, il crossoverstilistico e attitudinale nato negli anni 80 si è perfezionato e dilatato, assumendo la forma di una complessa tessitura. L elettronica si infiltra ed esce dalla cameretta e il noiseindustriale (ri)diventa voga, l America si scopre weirde la suburbia balla e sballa su una deriva squassante del drum n bass. In questo composito e affollato quadro c è spazio anche per un grande suonoche non deriva da una malintesa magniloquenza prog, già messa a tacere dall ironia di un Wayne Coyne e dall urgenza del post-rock, semmai da un sentire che muove dall universo per comodità definito indie. Sulla scorta del decentramento geografico, di un partecipato distacco ironico e della disinvoltura con la quale oggi nelle canzoni si infila stilisticamente tutto(senza però scordare di scrivere melodie che rimangano), ci si appoggia con l umiltà che appartenne all underground pre Nevermind a collettivi ricchi di strumenti e ambizioni, inseguendo un epica che, il cuore sulla manica ella camicia, resiste alla grandeur. In queste band - capaci di approfittare della distanza dai grandi centri per rielaborare tendenze e ispirazioni in totale libertà - c è il rifiuto di soddisfare l ego del singolo. Prevale una visione genuinamente di gruppo che sviluppa le intuizioni del singolo in qualcosa di coeso e policromo. Un et pluribus unumche, lontano anni luce dal populismo sonoro di U2 e Simple Minds (di Coldplay e Muse ), risale a meravigliosi esempi di umanesimo progressista come Penguin Cafè Orchestra e Ordinaires (come Rachel s e Tin Hat Trio ); che trae linfa da misconosciuti ma fervidi laboratori del passato chiamati Black Sun Ensemble e Savage Republic; che si riallaccia alla scuola di Canterbury, agli intellettuali in opposizione e al kraut-rockpiù tribale. Comune a tutti costoro l aver superato in modo credibile il formato del quartetto/quintetto rock tradizionale imposto da mercato e industria; condotta per diverse vie, la loro è stata una rivoluzione autentica e feconda perché strutturale e formale. Entità agili anche laddove numerose, hanno ricavato un linguaggio dalla consapevolezza che una seria evoluzione del rock passa attraverso canzoni e strumenti, tecniche esecutive e di registrazione. Come i loro discendenti di casa Constellation, fermo posta Montreal, Canada. Abbiamo però corso e urge riavvolgere il nastro alla fine del XX secolo, quando la comunicazione diviene sempre più indiretta, le certezze vacillano e l individuo attraversa una robusta crisi d identità. Scopre attorno a sé un universo caotico di possibilità da esaminare e di vite parallele spesso senza peso; riconosce definitivamente la solitudine nella massa. Eccolo di fronte a un bivio che ha un parallelo nelle scelte musicali: rinchiudersi nel proprio io, o magari dietro uno pseudonimo da spacciare per band a tutti gli effetti; diversamente, cercare dei simili appassionati di canzoni come si facevano una volta, in chi applica la tecnologia a finalità comunicative e rifiuta i virtuosismi perché il rock ormai è morto e non risorgerà. Ma siamo proprio sicuri del decesso? A essere trapassata, nonostante il suo patetico fantasma ancora si aggiri, è piuttosto il rockismo : un proteggersi dentro la malintesa autenticità e nell eroismo dello strumento per distrarre da retorica ammuffita e deboscia delle star. Cose che vorremmo sepolte per sempre e che neppure il 77 aveva sradicato. Cose che il post-rock ha infine smascherato in tutta la loro vacuità e supponenza, mostrando che una musica grandiosa ma non auto-compiaciuta era possibile. Semmai, il suo problema era l eccesso di freddezza: nessuno, del resto, è perfetto... Il risultato attuale essendo che, oggi come oggi, non trovate - per fortuna - in giro una rockstar come la conoscevamo, essendo stata l ultima e definitiva un involontario martire del nord-ovest americano, giusto nel momento in cui i rimasugli di innocenza scomparivano sotto al cinismo, al distacco e all autocritica di Sonic Youth, Pussy Galore, Slint. Sappiamo com è finita, e prova ne siano i settantenni sopravvissuti dei sixties, che col super-io hanno combattuto venendone a patti e cavandone soldi. Nulla di male, ma i tempi sono cambiati e di burattini come Pete Doherty e del loro ribellismo da supermarket non si sente davvero il bisogno. Tempi mutati, benché serbino comunque memoria dell anima primigenia di quel decennio di crescita artistica continua: nel non porsi limiti e abbattere quelli che separano dalla realizzazione di un idea, nell osare e tuffarsi in un ribollire di elettriche ed elettrizzanti possibilità. Così è stato per coloro che allo spegnersi del posthanno riscoperto un indole progressista: Mercury Rev e Flaming Lips non erano che la punta di broken social scene 20 21

12 un iceberg di spontanea complessità e cattedrali sonore che non fossero di cartone. Se era la sostanza a interessarci oltre la mera curiosità di fenomeni (più da baraccone che di sostanza) tipo Polyphonic Spree e lo scadimento modaiolo degli I m From Barcelona toccava scandagliare una terra di pochi dai contorni sfumati e fertili, dove il dopo-rock privo di facce, eroi ed edonisti sfumava - ritornando alle origini dei 60 - da progetto in famiglia. Da lì ad allargarsi a comunità il passo è stato breve e benedetto da Sigur Rós e Mùm, ma pure dai crescendo chitarristici e delle pause di riflessione dei Mogwai, divenendo coralità liturgica venata di mestizia e di eclettismo. E, per via dell urgenza dionisiaca connaturata a chi risiede in zone periferiche del globo, esposto a quel che avanza di una natura selvatica e matrigna, è servito da carburante per uno slancio creativo di tutto rispetto: Islanda, Canada, Australia, l America rurale di Akron/Family e Animal Collective. Senza dimenticare un Inghilterra che - attraverso Tunng e i più oltranzisti Focus Group - fa lo stesso con inquietanti e atavici culti misterici, con un passato reinventato dalla ghostalgia. Ognuno memore del fatto che il segreto per durare è scrivere canzoni figlie di misura e contaminazione, di arguzia e senso del tempo - il proprio e quello appartenente a un primae addirittura un dopo. Intanto, come per ogni solida strategia che diventa genere, la coralità genera seguaci e si divide in mille rivoli. A conferma di come, tra Novanta e Anni Zero, vi sia una linea di continuità e adattamento. Il Canada. A porte aperte Solido ponte sull oggi si erge la Constellation, etichetta autogestita mescolando la fierezza anarchica dei Crass, il rispetto per i fan che animava i Grateful Dead e un affilato idealismo militante da comune tedesca anni 70. Di Godspeed You! Black Emperor (avete fatto caso al pronome, che viene spontaneo tradurre col plurale voi?), collettivo di punta divenuto inattaccabile culto anti-mainstream recentemente tornato sulle scene, appassionano l impegno politico giocato per sottintesi e l evocativa desolazione cinematica, le sferzanti masse d archi in movimento su chitarre distorte e ritmica instancabile. Una trasfigurazione di melodie popolaresche in transito dall arcano al dopo bomba, anzi al dopo capitalismo, Wastelanddenunciata con fiero atteggiamento barricadero che non scade nel comizio. Sia da f#a#, Yanqui U.X.O. che da esibizioni dal vivo divenute leggendarie si solleva viceversa un blues metafisico presto restituito alla carne viva della realtà, come accade con A Silver Mount Zion, che di tale prodigio incarnano - non solo per la compresenza di musicisti - la diretta derivazione. Piacciono di loro la spiritualità del porgersi e gli impasti strumentali, pause e riverberi che spazzano via mentre un ugola umanissima scava nell anima. Banditi i melodrammi e i vicoli ciechi della retorica, chi, pensando al post-rock, ancora discetta di freddezza e distacco, riascolti apici come il programmatico This Is Our Punk Rock o il solido Kollaps Tradixionales. Magari mentre riflette su un altro dato assai indicativo: ogni decade ha i propri chitarristi simbolo. Tanto per restare nei massimi sistemi e nel recinto dei classici conclamati, i Sessanta di Jimi Hendrix e Jerry Garcia e i Settanta di Jimmy Page e Duane Allman si scontrano (e rispecchiano, tramite Tom Verlaine e Robert Fripp) negli Ottanta di The Edge e Keith Levene, risorgendo mutati lungo i 90 dominati per la prima metà da Tom Morello, Kim Tahyl, Dave Pajo. Persino il punk, paradossalmente, aveva i suoi axemen. a silver mt zion Provate però a tirar fuori una sei corde simbolo del 2000: farete una fatica immane perché - grossomodo dal 95 in poi - è l insieme sonoro a imporsi sul peso dei singoli strumenti. Controprova ne sia che dei Franz Ferdinand rammenti riff e incisi, mai assoli che peraltro; lo stesso vale per i succitati Mogwai, giusto per chiudere un altro cerchio. In una sorta di purificazione sonora, il concetto di solo è accantonato in favore del rumore strutturato di Spacemen 3 e My Bloody Valentine e degli intrecci provenienti dall asse Chicago-Louisville, tant è che persino in ambito neo-hard si sceglie un minimalismo ascetico che del metallo raccoglie la ruggine e ignora gli smalti. Deve essere un segnale se, anche dove regna il formato del power-trio(o addirittura duo: si vedano i magnifici Om) detta legge un rigore che, nella complessità strutturale, punta a comunicare quando l impresa è sempre più ardua o andrebbe ripensata. L individuo, atomizzato e scollegato dalla società circostante, oggi osserva gli avvenimenti dall esterno filtrandoli nei media. Un processo contrario alla sua essenza di animale sociale, che per quanto sopita lo spinge prima o poi a cercare dei simili. A far leva sulla collettivitàper affrontare ogni bruttura e l incertezza. Per questo, deve necessariamente liberarsi di qualsiasi zavorra. Da qui origina in buona parte un senso della musica improntato alla democrazia, concepita a partire da un puritanesimo indie che elimina la pretenziosità di proge concept e li restituisce a nuova e infine dignitosa vita. Quella stessa spinta autarchica che, si badi bene, scaturì dal punk primigenio e - attraverso new wave e hardcore - fu il terreno su cui germogliarono alcuni tra i più esaltanti esperimenti sonori di Ottanta e Novanta. Il filo che connette il plotoncino della Constellation ad Arcade Fire e Broken Social Scene va pertanto oltre la semplice provenienza geografica o le collaborazioni incro

13 ciate: le quali non mancano, è ovvio, però si associano a una disposizione a orchestrare panorami sonori senza cadere in barocchismi, evitando l autismo dei virtuosi e l arroganza da primi della classe. Li aiuta vivere in Canada, stato dove si respira un diverso senso della socialità. Dove la vita scorre con molti meno individualismo ed esasperazione rispetto agli U.S.A.: basta pensare alla scena di Bowling A Colombine in cui Michael Moore scopre con stupore che dall altra parte del lago Michigan la gente non chiude a chiave la porta di casa. Un esagerazione scenica, forse, tuttavia in quella nazione non si pensa soltanto a sé stessi, non ci si barrica in città/quartieri isolati dall altro là fuori, che nei secoli ha assunto le sembianze di pellerossa e comunisti, di alieni e zombie. Corre una differenza sostanziale tra l onanismo che affossa i Mars Volta e il gioco di accumuli primari (voglia di enciclopedismo che è lascito post-moderno) dei Broken Social Scene. Guarda caso fondatori della Arts & Crafts, etichetta che porta lo stesso nome del movimento guidato nell Inghilterra del XIX secolo da William Morris. Obiettivo principale: colmare lo spazio tra istinto creativo e abilità tecnica, realizzando manufatti a metà strada tra l arte e il mestiere come dovrebbe ogni artigiano indipendentedegno di tal nome. Niente cambia, tutto cambia. Spesso, infatti, è proprio questa la sensazione che ricavi dai Broken Social Scene, aggregatisi nel 1999 attorno a Kevin Drew e Brendan Canning, amici che in ventiquattro mesi affinavano l amalgama di mitologia pop, neopsichedelia al quadrato e omaggi ai Sonic Youth, ammirando per i primi due arcade fire ingredienti esempi britannici classicamente anni 90 come James e Boo Radleys. Apprezzabile la calligrafia riassuntiva e l evidenza delle fonti, l insieme raggiunge vette che sovrastano la somma degli elementi. L esordio Feel Good Lostdel 2001 è ancora acerbo e nondimeno indica il metodo lavorativo: spartire le idee con connazionali impegnati in altri progetti, ad esempio i post-rocker urbani - va da sé, su Constellation - Do Make Say Think. Al secondo lp, numerosi come una squadra di calcio centrano il capolavoro: You Forgot It In People pulsa di magia policroma e stordente tra fiati, elettronica e mulinare ritmico; apparecchiata in disturbati epperò perfetti inni college rocke ripensamenti modernisti di folk alle prese col jazz e viceversa. Dove avanza spazio, infilano camerismi, nevrotiche ballate e country sporcato da gas di scarico. Costante e collante, un apertura verso l ascoltatore che, con umana modestia, è invitato a calarsi nel tessuto sonoro per comprenderne l essenza. Raccolto un premio Juno per album alternativo dell anno, rimandano l appuntamento col seguito al 2005, consegnando un lavoro significativamente omonimo che inaspriva i toni nei testi e schiacciava il pedale pop-motorik. Spettava a un paio di buone scappatelle del duo - con gli altri a dar man forte: la famiglia è famiglia - ratificare l esubero creativo e infine cristallizzare il messaggio, laddove lascia perplessi l ultimo Forgiveness Rock Record, cambio di pelle che non svilisce la formula aurea per ottenere il successo planetario. Resta tuttavia indeciso sulla via da intraprendere, spostandosi su sfocati panorami eightiesper rifugiarsi nella tristallegria dei tardi Flaming Lips. Una costante di queste pagine, peraltro, mascherata in mezzo a mutazioni pop e colpi di genio nei nomi riuniti sotto l egida Arts & Crafts, che preferiscono lasciare le inquietudini sotto pelle, trattarle alla stregua di un non detto che colorano di tinte pastello. Di caratura soddisfacente seppur non memorabile quelle recapitate dai Most Serene Republic, sestetto proveniente dall Ontario e primo in catalogo a non possedere legami con i padroni di casa. Nel 2005, il debutto Underwater Cinematographer mescolava pianoforti maestosi, rabbia chitarristica e un indole torturata da discreto bignami dell odierno indie-rock, il melodramma contenuto però nei limiti come accadeva lungo il successore Population. Nel frattempo, il clamore attorno ai capoccia discografici e ai relativi spin-off diventava biglietto da visita d eccezione col risultato di influenzare la proposta sonora, che andava viepiù complicando brani cangianti e raffinati, benché talora fragili nonostante i mezzi e l ampissima cultura musicale. Difetti radicati nel DNA del pop colto, questi ultimi: lo sottolineava un anno fa And The Ever Expanding Universe, rassegna di piacevoli clichè che svanivano ad ascolto concluso. Parabola discendente che richiama quanto accaduto al progetto The Stars, nati a Toronto sull amore per Marvin Gaye, Smiths e New Order(dove confessione e danza possono andare a braccetto: vedere alla voce Sarah Records, soprattutto i Field Mice), scottati dalla trasferta nella Grande Mela e riparati nella quieta Montreal. Dove hanno temperato la miscela di elettronica e intimismo, immaginando Morrissey che si alterna con Momus - entrambi loro fan, ovviamente - in canzoni a lento rilascio arredate dai Saint Etienne. Nostalgie 80 e sofisticata tecnologia sommate a seduzioni orchestrali, un desiderio di aprire cuore e diari segreti mai venuta meno nella prima metà del decennio, da Nightsongs fino all equilibrato Set Yourself On Fire passando per il morbido Heart. Spettava tuttavia alla magniloquenza da Broadway di In Our Bedroom After The War ridimensionare la penna del leader Torquil 24 25

14 Campbell, inducendo un tedio che il successore The Five Ghosts non ha arginato. Smaliziato e citazionista, laccato e inquieto, se il pop non si decide tra aprirsi alla totale teatralità delle emozioni o il nascondersi dentro una ragnatela di domande, rimane schiacciato dall indecisione. Rischio che non corre - per l abilità a sfatare le attese sfruttando i colpi di genio - l altra numerosa ed eccezionale congrega ubicata a Montreal, Arcade Fire. Avviati peraltro da una coppia di fratelli statunitensi, Win e William Butler, capaci di astrarsi e raccontare dall esterno la Big Country dalla quale provengono, di farne una metafora dei nuovi timori universali. Allo stesso modo di The Band - toh: altri canadesi che raccontarono l America con abilità ineguagliata - si considerano un gruppo rock tradizionale e, con l haitiana Régine Chassagne, moglie di Win, e Owen Pallet a/k/a Final Fantasy ad arrangiare archi possenti ma docili (talora maneggiati dai Godspeed ), hanno riletto in chiave epico-malinconica il cubismo dei Pixies e l ampiezza di ambizioni dei Talking Heads. Idea che gli ha garantito una posizione di tutto rispetto e il plauso dei decani Gabriel, Byrne e Bowie. Se i primi e.p. mettevano a fuoco la non facile proposta, il colpo di reni giungeva con un lavoro cupo in cui perdita, distacco e malinconia stemperavano un epica giammai sopra le righe. Funestato dalla morte di alcuni parenti dei Butler e della Chassagne, l appropriatamente intitolato Funeral - eletto da Rolling Stone miglior disco del decennio, se per voi significa qualcosa - scoperchiava nel 2004 un mondo energico e fantasioso solcato da frequenti echi popolareschi e partecipata laboriosità. Regalando, tra il resto, la sublime introspezione agitata di Une Année Sans Lumiere e il perfetto anthempost-adolescenziale Rebellion (Lies). Generava aspettative rilevanti - mentre la macchina commerciale prendeva a girare con più velocità, sicché in Europa la Universal si incaricava di stampare e distribuire il disco - l immaginifico Neon Bible, titolo prelevato da un romanzo di John Kennedy Toole per un risultato pari o quasi, che si misurasse con suite orchestrali, folk agro e nuovi inni da cantare a squarciagola. Un sogno che si avvera, a farla breve: Black Francis a capo dei Waterboys (ma pure l eterna adolescenza di certi James ) sotto la volta di un duomo, lo Springsteen spectoriano di Born To Run impegnato a rifare Ocean Rain. Giunti nell estate 2010 al fatidico terzo lp The Suburbs, Arcade Fire hanno evitato una trappola che nella loro posizione davamo per scontata. Invece di dare alla gente ciò che desiderava e schiacciare eccessivamente il pedale su pomposità e grandezza, hanno seguito l istinto temperando i chiaroscuri e offrendo del già detto senza annacquarlo, anzi piegandolo dentro un romanticismo del ricordo che trascolora in amare riflessioni sull oggi. Dal punto di vista sonoro, il gesto ha comportato una riscrittura del canone in pause acustiche, accenni beatlesiani ed elettro-rockduro però elegante. A riprova della loro serietà e onestà, la transizione è stata coraggiosa e affrontata a testa alta. Del resto, ottenere e poi gestire il successo seguendo le proprie regole rappresenta sempre e comunque un attestato di correttezza e maturità. Attributi rari, coi tempi che corrono. akron/family weird Americae del suo folk stralunato. Sonorità misteriose e (pure troppo ) libere che attecchiscono dove la presenza dell uomo è ridimensionata dal territorio, dove la vastità si rivela tornasole e catalizzatore più che eden in cui ricostruire una verginità lontana dalle regole e dai ritmi soffocanti della società. Ne deriva una risposta alla necessità di ricavare spazi mentali in un mondo sempre più ravvicinato e globale: reperire dentro di sé ciò che non è più riscontrabile fuori, assecondando un processo che ha inizio con la controcultura beat degli anni 50. E ricostruire un rapporto antico e meno mediato dalla razionalità con la natura, tenendo però presente che una tecnologia ben utilizzata e non prevaricatrice è pur sempre un ottimo mezzo per allargare le coscienze. Lo dimostrano Akron/Family e, in misura più acutizzata, Animal Collective. Significativo che esplicitino nella ragione sociale il senso ultimo di questo capitolo, indicando con programmatica chiarezza il collettivo, la famiglia, l animalità, la provincia industriale (Akron è la città dell Ohio, capitale mondiale della produzione della gomma dalla quale provenivano i Devo ). Liberi di pensare che sia un caso ma, come si suol dire, da un gruzzolo di indizi non puoi che ricavare solide prove. Forti del distacco oggettivo e ironico dei luoghi decentrati, Akron/Family contano su una libertà e una calma che prescindono dalla metropoli, forti di un abilità a rivisitare le mode con serenità, libera dall ossessione dell ultimissimo trend. Si concedono il lusso di riflettere e manipolare ancor più a dovere elementi già sentiti e soffiarvi vita per quanto possibile nuova. Amalgamando il folk dell altro mondo messo a punto dalla Incredible String Band (ma con melodie di limpidezza degna del White Album), l approccio tribale appartenuto agli Holy Modal Rounders con più sintesi e struttura, aggiungendo dell elettronica umanizzata e una California cristallina perché Dalla coralità al collettivo. Natura selvaggia e nuovi freak Per quanto la mimetizzino con una certa sapienza, nemmeno Win e Regine sono esenti dal riprendere fiato in paesaggi bucolici, accennando a un ritorno nella natura come spazio in cui smarrirsi che rappresenta la base della 26 27

15 ricostruita da ricordi a posteriori. Sereni e concentrati sul loro operato (postrock, dove sei?), il quartetto giunge da piccoli centri di Pennsylvania, California e dallo stato di New York sensibile al magnetismo torbido emanato da Michael Gira, che ne ha pubblicato i primi quattro album e li ha voluti come strumentisti. La sua apertura mentale - di individuo passato da rovinosi clangori elettrici ad altrettanto inquiete ballate e ritorno - traspira nella disinvoltura con la quale i Nostri offrono dolci surrealismi (la gemma I ll Be On The Watersull esordio) e conoscenza della storiografia rock, attingendo da Beatles e Fugs, da Radiohead e Captain Beefheart. Non perdendo mai il filo del discorso, soprattutto, e allestendo sin dal disco omonimo datato 2005 un universo di meraviglie, più free nel successivo di un anno Meek Warrior e perfetto all altezza di Love Is Simple, nel 2007 ultimo passo con il cantante principale Ryan Vanderhoof, che gli ha preferito una comune buddista. Defezione incassata benissimo, tenendosi stretti stile e sicurezza sia in Set Em Wild, Set Em Free del 2009 che nel recente II:The Cosmic Birth And Journey Of Shinju. Inafferrabili mutanti in mutazione, Akron/Family conoscono il segreto del cambiamento nella continuità e stupiranno, sempre e comunque. Argomentazioni simili possono essere espresse a proposito degli Animal Collective, pur con alcuni distinguo. Dal grembo della contea di una Baltimora che il regista John Waters elegge a simbolo dell America provinciale - normalità e follia a braccetto dietro alla sonnacchiosa apparenza: perfetto - Avey Tare (David Porter, fan dei Grateful Dead: ovvio, no?), Panda Bear (Noah Lennox), Deakin (Josh Dibb) e Geologist (Brian Weitz) spariscono dietro pseudonimi e una produzione discografica copiosa, divisa in svariati rivoli solisti. In ciò esibendo una tendenza comune a schivi songwriter loro connazionali che fanno cadere la maschera della band in un estremo colpo di coda della Generazione X, del suo irridere l apparenza trattandola come burla, gioco, paravento. Diventati grandi, Will Oldham, Bill Callahan e Conor Oberst hanno infine dichiarato la loro identità, e allo stesso modo, Animal Collective hanno accantonato i travestimenti metà teatralità esasperata memore di Caroline Rainbow e Residents e metà rituale celebrativo della Madre Terra. Oscillando tra l antico di un acustica traslucida e un evoluto impastare il suono, che utilizzano al pari di uno strumento e idem lo studio e i processi di registrazione, sull esempio del glitch e del dub. In comune con Akron/Family hanno l appropriazione giocosa e fanciullesca di Incredible String Band e Holy Modal Rounders, percorsa da richiami vocali a Brian Wilson e a una tradizione che, nuovamente grazie alla lente post, acquisisce nuovi valori. Indicando spesso e volentieri un punto d arrivo per le analoghe - benché più rigorose e dotate di maggior continuità - imprese di Gastr Del Sol, Califone e Books e gettando nel pentolone un estro che spinge a collaborare con l icona del sixties folk britannico Vashti Bunyan ed esprimere ammirazione per il producer elettronico Zomby. Frenetici e instancabili, attraversano a perdifiato cinquant anni di musica da bravi giovani d oggi, difetti inclusi, e centrano con l ottava fatica Merriweather Post Pavilion il successo. Ennesima dimostrazione di come l avanguardia venga assorbita dal sistema, con buona pace degli integralisti snob che vorrebbero i loro eroi confinati a un circolo ristretto ed elitario. Dopo l adolescenza trascorsa in campagna ascoltando dischi sotto le stelle, i ragazzi partivano in totale autosufficienza nel 2000 da Spirit They re Gone, Spirit They ve Vanished, introduzione col seguente Danse Manatee a un indagine stupefatta su anfratti e discordanze tra vocazione freak, ronzii ambientali, rumore rock. Psichedelia più ideale che stilistica, ecco, allestita sulla scorta di una bassa fedeltà irrobustita dalla passione per Ligeti, assimilato tramite la colonna sonora di Shining, per l avanguardia colta e i vinili degli Orb, che guarda alle radici contadine con lo scarno Campfire Songs - in mezzo un tour con i Black Dice: tutto quadra, niente quadra - e l ostico Here Comes The Indian, ambedue pubblicati dall autarchica etichetta Paw Tracks ( tracce di zampe : sempre animalità, insomma). Impegni ed età adulta arrivati assai presto, sicché assistiamo a un primo temporaneo rompere le righe per ricaricare le pile. Al ritorno, nel maggio 2004, le novità sono un contratto di distribuzione con Fat Cat e la fragile, quasi luminosa cantabilità di Sung Tongs che spiana la strada alla collaborazione con la Bunyan dell e.p. Prospect Hummer del E più di tutto a Feels, approfondimento di tematiche popolari ampio come la trasfigurazione cui queste vengono sottoposte ed entrata nell alta società, sebbene per gli insensati parametri della generazione Myspace/Facebook/ Twitter/Saiddiochealtrosi sia addirittura in ritardo. Provvederanno a chiarire le carte in tavola i baccanali a base di elettronica sperimentale e di favolistica inafferrabilità Strawberry Jam e Merriweather Post Pavilion, quest ultimo di una trasversalità più accessibile premiata anche economicamente. Quante facce abbiano nemmeno loro lo sanno: che spetti a noi risolvere l enigma? L abbraccio pop della provincia del mondo. Dal collettivo alla partecipazione Arduo, del resto, raccapezzarsi anche in una dimensione cui abbiamo fatto l abitudine in quest era: la raffinata oasi dell hyper-popenciclopedico e combinatorio che dell attualità riassume, nel bene e nel male, tutti i crismi. Anch essi canadesi, gli Hidden Cameras di Joel Gibb hanno sin qui allestito - tra naturali alti e bassi: i medesimi del solito Morrissey - un sound orchestrale animal collective 28 29

16 devoto ai ricorrenti Spector e Wilson, come pure a R.E.M., Magnetic Fields e Belle & Sebastian (un altro ensemble folto, va da sé) che si sforza di non cadere sotto gli esempi impegnativi. Gibb non ha remore nel descrivere una sessualità esplicita e omo con fare gioioso; opponendo un no ai platonismi da cameretta tipici dell indie, proietta esuberanza e kitscherie in musica e liriche. Ragion per cui la sua gay church folk musicsmarrisce il nord e tuttavia si fa notare eccome, sin da concerti che sono esempi di intrattenimento su larga scala con attori, ballerini e un rifarsi al musical che è cronaca del 2010 raccolta persino da David Byrne. L esordio Ecce Homo raccoglieva nel 2000 una manciata di demo mostrando verve e poca personalità, ma possedeva comunque il merito di sedurre Rough Trade e persuadere Gibb ad allestire una nutrita band attorno a sé. Ventiquattro mesi dopo, The Smell Of Our Own si raccontava elaborato e policromo ancorché sotto l influenza di Stephen Merritt e Stuart Murdoch. Mississauga Goddam aggiustava il tiro tra archi, carillon e un muro del suono gestito oculatamente, nel quale l appiccicosa Doot Doot Ploot e la Motown traslocata oltre il vallo di Adriano di Fear Is On rivelavano una certa evoluzione. Segno che il progetto possedeva sostanza al di là delle pruderie, notata nel 2006 da Arts & Crafts per Awoo, umoristico pescare dal rock chitarristico poco o nulla macho dei R.E.M. e colmo di ancheggianti passeggiate tra country e soul, vaudeville e art-punk. Materiale che preparava il terreno alla prova migliore Origin: Orphan, che lo scorso anno sintetizzava brillantemente una mistura osando viepiù. Drammi pop, citazioni trash, omaggi ai maestri sfilano dentro un disco incantato e fieramente artificiale, come una bolla di vetro che basta scuoterla e scende la neve. Sostituite a quest ultima lo zucchero filato e l incognita latente di una certa saturazione, corroborata dalla tenacia a mettersi costantemente in gioco. Come è stato lungo un momento breve ma felice per gli australiani Architecture In Helsinki, che riscoprono nella solarità della scrittura il meticciato totale e umoristico che, per l ennesima volta, traghetta i 90 nell attualità. L ottetto di Melbourne metteva a fuoco a inizio decennio una godibile unione tra i Talking Heads falsamente lineari di This Must Be The Place, la scuola scozzese (da Orange Juice a Stuart Murdoch & soci via i Pastels) e un atteggiamento fanciullesco e (s)combinatorio che ricorda They Might Be Giants. Pirotecnico duo la cui lezione veniva affidata a una line-up più estesa, arricchita d elettronica vintage, quadretti da spiaggia a fine stagione e malinconia teen. Nel 2004 Fingers Crossed apriva le finestre su una brezza di miniature delicate (certe cose paiono marcette da Cluster rasserenati, da Eno che maneggia acquerelli in preda a lieve ebbrezza alcolica) e ambienti da casa delle bambole. Nel volgere di un anno, In Case We Die conduce la ricetta a perfezione, rafforzato dai mesi trascorsi sul palco a scambiarsi gli strumenti in sorridente uguaglianza. Frizzante festa dalla quale non butti via nulla e che al cocktail aggiunge la vocalità stridula di Frank Black, r&b isterico e ipotesi di un Grease per mentalmente disturbati, ospita la quasi danzereccia Do The Whirlwind che, decollata da Speaking In Tongues, ne fa stelline. Stupore in technicolor che non dura, poiché il successore Places Like This risente del rimescolamento d organico, del trasferimento a Brooklyn del principale motore creativo Cameron Bird e del ritorno in voga degli 80. Pur non disprezzabile, si accomoda su una monotonia con pochi guizzi, accantonando il coraggio ad eccezione di qualche brillante spunto etnico. Conferma il regresso un tour nel quale la cover di turno non è più una vibrante Love Is the Drug (i Roxy Music ancora potabili), ma il super-fluoottanta di una Give It Up dei compatrioti Mental As Anything. Da allora i ragazzi non hanno più dato segnali di vita rilevanti sino al 2011, all altezza di un Moment Bends, nel quale la loro idea di pop è solare, fors anche evanescente ed era rischio in ogni caso latente. Inni (d)al futuro. Nel gioco delle emulazioni, dei rimandi, dei ritorni e dei salti temporali degli anni Zero, nella smania di questi anni a prospettiva schiacciata sul presente e sul social network, il percorso che abbiamo appena delineato finisce per incarnare il proprio tempo partendo dal passato. Lungo il Duemila, sostanzialmente spaccato tra un prima dominato dal revival post-punk e un dopo da suoni più sintetici e prepotentemente 80, queste formazioni hanno scavato una trincea profonda e difficilmente attaccabile, rispondendo ai trend con una presa di posizione ferma, con la quale faremo i conti nei decenni che seguiranno. Mescolando la sottrazione dei Novanta alle stratificazioni odierne, un post-rock epico ma umanista ha imposto una strategia democratica al concetto di gruppo che non è più rock; che oppone una piccola comunità senza leader egomaniaci che mette il gruppo stesso al centro e sottopone l individuo a un costante impegno di partecipazione. Una sorta di naturale evoluzione/umanizzazione delle modalità da team tipiche delle gerarchie economiche e sociali del Novecento che ci piacerebbe vedere raccolta anche in altri contesti e approfondita lungo il nuovo millennio. Un concetto di democrazia autentica da vivere nel quotidiano e che a esso stesso dia forma e sostanza nuova. E magari, da portare avanti tutti assieme, appassionatamente. architecture in helsinki 30 31

17 New italo jazz school Drop Out Kekko Fornarelli Luca Aquino Gianluca Petrella M.O.F. 5tet Giovanni Guidi I nuovi protagonisti del jazz italiano a cavallo tra rock, jazz, elettronica, tradizione e futuro. Testo: Stefano Solventi Marco Braggion 32 33

18 Un fantasma si aggira nella Penisola. Un ectoplasma vivo e vegeto, malgrado quello che spesso si è sentito (e si sente) dire in giro. Ci riferiamo al jazz, con particolare riferimento ad una sua peculiare declinazione: quella proposta da una generazione di musicisti giovani e diversamente disposti nei confronti d una tradizione che nei loro piani non smette di ripensarsi, di proporre prospettive diverse, nuove e in qualche modo avanguardistiche. Analogamente a quanto accade per il pop-rock, la situazione jazzistica italiana vive in una dimensione eternamente periferica ma ostinatamente attiva, dalla quale sono emerse nel tempo figure apprezzate anche oltreoceano. Calibri come Gianni Basso, Enrico Rava ed Enrico Pieranunzi hanno lavorato - a partire dai Sessanta - ad altissimo livello (Steve Lacy, Paul Motian, Lee Konitz, Chet Baker, Miles Davis tanto per fare qualche nome) disimpegnandosi tra standard, sperimentazione e viaggi in tutto il mondo. Nello stesso solco e con rilevante fortuna si sono mossi in tempi successivi tra gli altri Roberto Gatto, Paolo Fresu, Massimo Urbani, Danilo Rea e Stefano Bollani, abbozzando una sorta di genìa cui si aggiungono periodicamente nuovi mostri sacri. Accanto a questo plotone di artisti versatili, acuti e raffinati, ormai sdoganati su etichette culto (ECM, Impulse, etc.), si va consolidando da anni una tradizione virtuosistica che poco concede alla ricerca, ma impressiona per dinamismo e inventiva. Non mancano anche in questo caso gli apprezzamenti oltre confine per i super trumpeter come Marco Tamburini o Fabrizio Bosso, o per saxofonisti come Francesco Cafiso e Daniele Scannapieco. D altro canto, come ben sanno i lettori di SA, agisce senza sosta sul nostro territorio una scena senz altro più defilata - da un punto di vista mediatico - identificabile non senza approssimazione come impro, le cui premesse free le consentono scorribande trasversali che hanno spesso creato interessanti ibridi specialmente in ambito post-rock (vedi il Kekko Fornarelli catalogo di Improvvisatore Involontario, Wallace o Setola di Maiale, solo per citare qualche label), uno scenario che su queste pagine abbiamo peraltro già affrontato. Non abbiamo però ancora messo a fuoco il nostro fantasma. Compenetrazioni (incompatibili) Esiste infatti un altro versante, naturalmente imparentato con gli altri eppure capace di distinguersi per la particolare attitudine, per la tensione verso sonorità contemporanee, globali e futuribili con parecchie aree di intersezione in analoghe situazioni di ambito rock : suoni elettrici ed elettronici, distorsioni e manipolazioni all interno di una visione caleidoscopica, trame che continuano fieramente a definirsi jazz ma che risaltano per connessioni borderline. Non stupisce affatto quindi che i meccanismi promozionali indirizzino all attenzione di webzine come la nostra dischi e personaggi di questo tipo. Sono ascolti in grado di inserirsi senza difficoltà nelle playlist dell appassionato indie-rock, tuttavia l incontro di questi due mondi continua ad essere per certi versi incompatibile. Sembrano quasi coesistere e compenetrarsi all insaputa l uno dell altro. Senza né vedersi né ascoltarsi. Senza sentirsi, o quasi. E un fenomeno che riguarda con diverse modalità sia i musicisti che gli ascoltatori, cui può capitare d incontrarsi nella zona franca del passato glorioso, quasi a circoscrivere un comune terreno di coltura: se i rockofili non disdegnano i Davis, i Coltrane, i Coleman, i Weather Report, i Monk o i Mingus, molti appassionati jazz si concedono scappatelle Jimi Hendrix, Lou Reed, Genesis, Ry Cooder, Grateful Dead, Brian Wilson o Van Morrison. Nomi che del resto fanno riferimento a un epoca che vide collidere obiettivi, modi, forme e formazioni rock e jazz. Oggi i Settanta della (rimpiante e vituperata) fusion sono solo un ricordo, le sonorità di quel tempo sono state canonizzate e probabilmente l ascoltatore di rock occasionale non le frequenta più come un tempo, data la mole di novità e di tendenze che si susseguono a velocità ultrasonica e forse anche grazie a campagne di marketing che del passato propongono esclusivamente raccolte, cofanetti e memorabilia per matusa. Gli illuminati che hanno l onere (e probabilmente anche il piacere) di ripensare criticamente il passato, oggi più che mai sono proprio gli artisti. In questo caso, giovani che hanno ereditato la lezione dai grandi maestri citati all inizio. Che tentano di portare avanti il testimone, tenuta in debita considerazione la diversità degli ambiti - tra implosione italica ed esplosione globale - e una mai doma pulsione progressiva. Nell impossibilità di sentire tutte le voci, abbiamo selezionato un piccolo gruppo di giovani, tra di loro amici, colleghi di palco e di studio, pensatori di suoni e innovatori. Tentiamo quindi con questo nostro articolo, una prima e inevitabilmente parziale esplorazione delle connessioni tra le due estetiche (rock e jazz), sviluppando una riflessione direttamente dalla viva voce dei protagonisti di questo momento musicale 100% made in Italy. I nomi sui cui abbiamo puntato per la ricognizione sono Gianluca Petrella, Giovanni Guidi, Kekko Fornarelli, Luca Aquino e - unico gruppo - i M.O.F. 5tet. Reciproche ghettizzazioni Uno dei primi interrogativi che ci siamo posti riguarda il punto di vista: perché quello che può sembrare evidente a noi osservatori - spettatori tutt altro che disinteressati, la sensibilità distorta dalla malattia rock - potrebbe 34 35

19 invece non risultare a chi la musica la fa, la vive e (possibilmente) ne vive. Tanto per sondare il terreno, quantificare la distanza e verificare un eventuale processo di avvicinamento, abbiamo chiesto chiarimenti sulla percezione di questa compenetrazione e assieme di questa distanza tra jazz e rock. Esiste una reciproca ghettizzazione, di sicuro dal punto di vista commerciale, esordisce Luca Aquino. Nato a Benevento nel 74, è un trombettista autodidatta all esordio nel 2008 con Sopra le nuvole, cui sono seguiti altri lavori tra cui l ottimo Lunaria (che gli ha guadagnato il prestigioso premio di Musica Jazz come miglior talento italiano ), fino all ultimo, splendido Chiaro. Dal punto di vista musicale però non esistono barriere. I suoni che sto adoperando, pur facendo jazz, rimandano al rock. Infatti mi accorgo che il mio pubblico si sta allargando, e di questo sono contento. Penso insomma che la musica sia una. Logico ci sono dei limiti che i musicisti rock dovranno scontare quando suoneranno coi musicisti jazz, e viceversa. Non la pensa diversamente Kekko Fornarelli: fino a qualche tempo fa vivevo questa divisione ad ambienti stagni come fosse la normalità. Ma da un po di tempo tento di volgere il mio sguardo verso un orizzonte più vasto. Con tre album in repertorio, Fornarelli è un pianista barese classe 78. Di formazione classica, a 18 anni fu colto da improvviso amore per il jazz, passione poi coltivata in Francia dove ha collaborato con pesi massimi quali Manhu Roche, Benjamin Henocqe e i nostri Flavio Boltro e Rosario Giuliani. Senza mai perdere il gusto di esplorare, di smarcarsi, deviando quindi in zona Esbjorn Svensson Trio nel recentissimo Rooms Of Mirror. Moralmente giustificabile o no, questa separazione è una realtà. Ritengo però che la fonte del problema sia una questione di educazione alla musica (in senso letterale) del pubblico, dei musicisti stessi, degli addetti ai lavori tutti. Bisognerebbe imparare ad ascoltare tutta, la musica. Gianluca Petrella Concetto espresso più bruscamente anche dai M.O.F. 5tet: la ghettizzazione è figlia dell ignoranza, e, in questo senso, più si esplorano e conoscono mondi musicali, più si è liberi di pensare con la propria testa. Sono cinque ragazzi freschi di conservatorio che si sono imposti il nome di un parcheggio gratuito nel centro di Ferrara (il Mercato Orto Frutticolo), all esordio lo scorso anno con un Embarassing Days nel quale stemperavano tradizione e contaminazione con impudente competenza, permettendosi di annoverare in scaletta la cover di No One Knows dei Queen Of The Stone Age. Cerchiamo di far confluire nella nostra musica tutte le influenze dei nostri ascolti che, naturalmente, come tutte le persone appassionate di musica, non dipendono certo dalle etichette di genere. Queste piuttosto rispondono a logiche di mercato, che decidono che cosa è jazz e che cosa è rock, perché in questo modo si possono creare dei prodotti riconoscibili e, di conseguenza, vendibili. Non è altrettanto ecumenico l approccio di Gianluca Petrella, trombonista-monstre apprezzato anche oltreoceano (quelli di Down Beat - rivista statunitense considerata tra le bibbie del jazz - lo hanno eletto per due anni consecutivi quale miglior artista internazionale emergente). Io non sono un grande cultore di rock, ci tiene a precisare. Quello che riesco a scorgere è che accendendo la radio, o seguendo altri canali mediatici che propongono musica, il rock vive un altra situazione rispetto al jazz. Trentaseienne, barese, un palmares di collaborazioni ad altissimo livello tra cui Greg Osby, Pat Metheny ed il solito Rava, dal debutto X-Ray del 2001 ha pubblicato due dischi per la prestigiosa Blue Note (Indigo 4 e Kaleido) e l altrettanto ottimo Coming Tomorrow per la stessa etichetta (la Spacebone) che griffa il recentissimo Slaves. Il jazz è musica che sta da tutt altra parte rispetto al resto. E musica un pochino più... Pensata. Di jazz ci sono tanti filoni, c è il jazz commerciabile quale potrebbero essere che ne so i CD che troviamo in autogrill per esempio, quelli dei grandi maestri da Louis Armstrong a Miles Davis e qualche altro. Quello è il lato più commerciale del jazz. Ci sono tante cose più di nicchia, più underground, che è difficile proporre alla massa, cosa che dal mio punto di vista non succede con il rock. Io farei un po di distinzione, non li metterei sullo stesso piano. Le obiezioni verrebbero spontanee, visto che noi sappiamo bene quanto rock underground covi nell ombra all insaputa del grande pubblico. Per il momento però assumiamo come significativa questa mancanza di percezione delle propaggini rock alternative e proseguiamo. Fusioni transitorie Più conciliante è la posizione di Giovanni Guidi, uno che con Petrella ha suonato e suona (il trombonista figura tra i credit del suo recente quinto opus We Don t Live Here Anymore). Questa ghettizzazione esiste e non esiste, nel senso che per noi musicisti non esiste. Pianista classe 85, Guidi si è formato alla corte di Enrico Rava che lo notò durante i seminari di Siena Jazz. L esordio come leader risale al 96 con Tomorrow Never Knows, che annoverava accanto a brani originali e standard jazz versioni intensissime di pezzi firmati Brian Eno, Lennon/McCartney e Radiohead. Il mercato funziona in questo modo, per cui tutte le cose sono settorializzate, anche all interno di questi due generi enormi. Sotto ci sono tante piccole classificazioni che poi in realtà non significano niente, se consideriamo la musica come un linguaggio universale. Quella tra jazz e rock contemporanei si profila quindi come una liaison plausibile ma tutt altro che scontata. Non credo che ci sarà mai una fusion definitiva, per quanto certi scenari potrebbero lasciarlo credere. Fornarelli non crede 36 37

20 M.O.F. 5tet alle contaminazioni proposte dall onda lunga del post-rock (dai Tortoise ai The Ex) o alle ibridazioni electro tipo Moritz Von Oswald Trio o Francesco Tristano Schlimé. Continuerà ad esserci una separazione nei due percorsi, magari con qualche eccezione eversiva, ribadisce, ma le due strade non si uniranno mai. Meno drastico, ma altrettanto cauto è Aquino: Nel jazz è predominante l improvvisazione. Anche nel rock ci sono musicisti che fanno così, ma a dire il vero non vale per la maggior parte dei musicisti indie-rock, coi quale proverei difficoltà a suonare perché secondo me in fin dei conti fanno musica... Pop. E vero però che ci sono grandi musicisti indie rock, con una solida preparazione musicale. Questa è la condizione essenziale perché ci si possa incontrare. Diametralmente opposta la posizione di Petrella: secondo me sono due generi che potrebbero convivere tranquillamente, sia da una parte che dall altra. L importante - ribatte Guidi - è che qualsiasi cooperazione nasca da un esigenza e da un urgenza artistica, sulla base di una profonda sincerità, e non come spesso avviene per esigenze di marketing: ad esempio recentemente ho avuto modo di vedere un concerto del tour di Bollani che suonava Zappa e ho avuto la netta sensazione che lui amasse profondamente e conoscesse pienamente Zappa, che non fosse un operazione commerciale. I M.O.F. 5tet chiosano con laconica seggezza: riteniamo che niente possa o debba restare ciecamente separato da qualcos altro nella misura in cui serva ad assecondare un idea artistica ben definita. Ripensando ai sixties, sembra quasi incredibile la naturalezza con cui la scena psichedelica guardava al jazz, così come più avanti il progressive avrebbe condiviso il terreno di coltura della fusion. Un attenzione reciproca: basti pensare a certi lavori del Davis elettrico (e alla sua purtroppo abortita collaborazione con Hendrix), poi ad Hancock, Pastorius, ai grandi Area... Poi i link si sono sfilacciati, ed è inevitabile chiedersi se la causa debba ricercarsi negli sviluppi succedutesi su un versante - a partire dalla brusca semplificazione del wave punk - o sull altro (la fiera autoreferenzialità del jazz). Secondo me è colpa della parola jazz, sostiene Aquino. Molti la associano al jazz americano tout-court, quello dei Wynston Marsalys, per intendersi. Non è così. C è un jazz con tante zeta, quello dei jazzisti che collaborano - vedi Francesco Bearzatti coi Sax Pistols o Bosso a Sanremo - che deve tanto al jazz americano ma è ovunque, è spugnoso, insegue la modernità assaporando tutti i sapori d oggi. Petrella la butta invece su un mix tra fatalismo e determinismo storico: Io penso che sia colpa del caso. Capita molto spesso che si aprano dei periodi rosei per certe nuove tendenze, poi il tutto può tranquillamente andare a scemare, come è successo un po per l acid jazz, no? Certo poi c è da tener presente che nei Settanta contava molto il fattore politico, che adesso non c entra più molto, se non per le disgrazie che comporta. Perché quello che sta succedendo negli ultimi tempi per quanto riguarda la cultura e lo spettacolo è una vera tragedia. Di sicuro - puntualizza Fornarelli - esistono logiche di mercato capaci di muovere le masse, ben più forti del nostro volere o del nostro ricercare o comunicare. Ma credo che l intraprendere (o il ritornare a) percorsi distinti sia dipeso dal fatto che ognuno sentiva di dover comunicare qualcosa di proprio. Il nodo torna. Siamo tutti diversi. Non esiste un linguaggio universale, ne credo esisterà mai. La natura del musicista racchiude dentro di sé (soprattutto il musicista jazz, salvo qualche eccezione) un valore di libertà espressiva difficilmente omologabile. Non è difficile scorgere in queste parole una ben meditata dichiarazione di alterità. Certe irriducibili alterità E palpabile, e neanche troppo in filigrana, quanto questi musicisti pur con la loro disponibilità al confronto e all ibridazione si considerino al di sopra delle finalità estetiche, poetiche ed espressive del rock. In Italia c è poco rock che m interessa, ammette Guidi. Con qualche eccezione però: una cantautrice che amo molto è Cristina Donà, con cui mi piacerebbe collaborare. A proposito di collaborazioni, detto che Petrella - il quale tra l altro dichiara di non disdegnare quel sound che si rifà a personaggi come Nick Cave, per esempio - ha suonato nel buon A Sailor Lost Around The Earth dei Valerian Swing (band post-rock di Correggio), e aggiunto che Aquino compare in una traccia di Indie Rock Makes Me Sick dei beneventani Chaos Conspiracy, non si registrano altri incontri ravvicinati significativi tra i due mondi. Molte buone intenzioni per Fornarelli ( Non ho alcuna remora verso la possibilità che io possa collaborare con qualche musicista rock in futuro, nè ho preferenze di sorta sul chi. L importante è che ci siano belle idee da sviluppare e che io possa dare, in qualche modo, un personale contributo alla cosa. Non riuscirei ad essere mero esecutore... ) e un bel po di apprezzabili sogni nel cassetto per i cinque ferraresi: Nei nostri concerti eseguiamo brani riarrangiati dei Radiohead, Sigur Ros, Queens of The Stone Age, Jethro Tull, Aphex Twin con i quali naturalmente ci piacerebbe collaborare. Fra le altre collaborazioni ideali: Mike Patton, Mogwai, Cinematic Orchestra, Notwist, Stateless, The 38 39

21 tantissimi vocaboli in più rispetto al musicista elettronico che introduce elementi jazz, ha più colori sonori. A premere il pedale della prudenza pensa Fornarelli, secondo il quale non sarà di certo un suono di synth o un loop ad attirare altri pubblici al jazz. Del resto sono inserti molto delicati, poichè possono caratterizzare ma anche risultare invasivi da un punto di vista jazz. E sempre tutto molto soggettivo e dipende dalla consapevolezza che ogni musicista o compositore ha raggiunto nell utilizzo di tali strumenti. Per avvicinare altri pubblici al jazz (o viceversa) sono ben altre le leve da muovere. XX, i Subsonica, Marta sui Tubi e molti altri. La sensazione è che non manchi il terreno in comune, vasto e profondo sotto molti punti di vista ma spezzato da una linea di confine difficile da valicare: cioè la convinzione tutta jazzistica che il musicista jazz possieda le chiavi di un codice altro e più alto. Per il quale la padronanza tecnica e il dominio timbrico ( quando suono - sostiene Aquino - penso al suono ), la capacità di risolvere le complessità armoniche della composizione e di cavalcare il frullo dell improvvisazione sono gli ingredienti irrinunciabili che ne sostanziano l arte. Al contrario, il rock può permettersi di trascendere la tecnica alla luce di un espressività che preme per imporsi, fidando anche solo sulla propria peculiarità o urgenza (vedi i casi di Neil Young o di più o meno tutto il punk). Su queste basi è difficile ipotizzare un colloquio più che estemporaneo, eppure ciò di cui stiamo parlando in queste pagine sembra proprio una convergenza parallela in atto. Resa possibile da un additivo speciale: l elettronica. Sono sempre stato un amante della musica elettronica, dice Petrella, ho sempre avuto questo pallino sin da bambino perché avevo le prime tastierine elettroniche, mi divertivo a cambiare i suoni.... Parole che potrebbero uscire dalla bocca di un qualsiasi musicista di area lo(glo)-fi o folktronica. I M.O.F. 5tet arrivano persino a porre in posizione centrale la componente sintetica, che gioca un ruolo importante all interno del nostro progetto. L elettronica, intesa sia come synth che rumoristica real time, crea spesso un contrasto con sonorità di stampo jazzistico. Probabilmente questo può renderlo appetibile anche ad un pubblico non jazzistico, ma il nostro primo obiettivo è quello di soddisfare le nostre esigenze musicali. Per Aquino però non sono tutte rose e fiori: per noi jazzisti è un po difficile gestire l elettronica, perché abbiamo un po i paraocchi. Personalmente ho messo più ad imparare l elettronica che ad imparare la tromba. E comunque il jazzista ha GIovanni Guidi Luca Aquino Disequilibri futuribili E un fatto comunque che continuano a fioccare con cadenza regolare uscite dichiaratamente jazz che ammiccano senza remore verso il pubblico ed i media indie-rock, o che possiedono tutti i requisiti per fare breccia in questo pianeta così lontano così vicino. Ad esempio e non certo a caso, durante la stesura di questo articolo abbiamo ricevuto No Project, album d esordio per il combo Emoticons, che vede la partecipazione di un pianista di vaglia come Danilo Rea e annovera riletture di pezzi a firma Stevie Wonder, Paul McCartney, Leonard Cohen e - ancora - Radiohead. Poi Move Is firmato dal trio Bearzatti-Angelini-Peala, un intrigante raccolta di pezzi ispirati a classici del cinema che chiama in causa il cool jazz e certo croonerismo obliquo Robert Wyatt. E ancora il nuovo del trombettista Giorgio Li Calzi, un altro che ama rimettere in discussione le regole del gioco ricorrendo ad un peculiare utilizzo delle elettroniche. Solo la punta di un iceberg, indizi che fanno sospettare l esistenza di un 40 41

22 movimento jazzistico italiano - tu chiamalo se vuoi new italo jazz school - che intende smarcarsi dalle coordinate tradizionali, dall autorevolezza un po imbalsamata dei mostri statunitensi e dalla succedaneità dei senatori nostrani. In altre parole, e tanto per utilizzare una terminologia in voga, potrebbero essere visti come dei benemeriti rottamatori, quelli che scassano l andazzo bolso della consuetudine. In realtà quello che ci piacerebbe rottamare - puntualizzano i M.O.F. 5tet - è più la percezione/idea che molte persone hanno del jazz, ovvero d una musica elitaria e imbalsamata. Quando invece la sua storia dimostra esattamente il contrario. Di rottamazione invece Petrella non vuole neanche sentire parlare, dal momento che non si possono cancellare alcune cose della musica, non si può fare la guerra o portare alla rottamazione il jazz di sessant anni fa. Io sono uno di quelli che lascia vivere chiunque, sono molto tollerante. Gli fa eco Guidi: no, assolutamente, nessuna rottamazione. Voglio fare la mia musica il meglio possibile, quella che piace a me, senza nessuna competizione nè desiderio di attaccare quello che c era prima o quello che ci sarà dopo. Aquino invece, con tipico acume partenopeo, la butta sullo spirito: Sì, mi sento un rottamatore. Ma a dire il vero perché non sono riuscito a suonare il jazz come gli americani (ride). Ho provato a studiarlo, ho lavorato tantissimo su bop e hard-bop, ma loro sono più bravi di me. Per cui ho preferito rottamarlo, e quindi rottamarmi. Se mai riuscissimo a fare qualcosa di nuovo dovremmo ringraziare il coraggio di allontanarsi dagli standard americani. Il Fornarellipensiero è sulla stessa lunghezza d onda: il jazz dovrebbe evolversi, se non altro per non perdere quel senso di libertà che ne ha rappresentato il fulcro e la linfa vitale, ma che negli anni si è sempre più inscatolato, omologato, autoghettizzato. Disparità di vedute che però mirano lo stesso obiettivo: innestare suoni nuovi per tempi nuovi sul fusto sonoro sedimentato come cultura. Rendere possibile il diverso come soluzione di crescita della tradizione, negandole l avvitamento sterile, la difesa oltranzista dell indifendibile inaridirsi. Dietro di noi c è una tradizione enorme e meravigliosa, dalla quale spesso per alcuni è difficile discostarsi, chiosa Guidi, per poi regalarci un affermazione che ha il sapore delle sintesi definitive. Quando uno decide di approcciarsi liberamente alla materia musicale pur avendo in mente dei riferimenti forti - ed io li ho - è più facile che trovi qualcosa che sia riconducibile a se stesso. Forse il rock - con tutte le sue circostanze alternative e sperimentali - non è che una situazione tra le tante che il jazz ha incontrato e incontrerà sul suo cammino. Ma è possibile ovviamente anche il contrario. Ed è proprio questo (dis)equilibrio quantico di possibilità che rende il presente un luogo interessante da vivere. Da ascoltare. LUGLIO 2011 Dal 26 maggio al 18 settembre 2011 il Carroponte è aperto tutti i giorni con concerti spettacoli teatrali, aree relax, ristorazione attività per bambini, libreria e mercatini SABATO 2 LUGLIO Ingresso 5 euro NADA MARTEDI' 5 LUGLIO ingresso 10 euro in prevendita, 12 in cassa ISRAEL VIBRATION (Jamaica) VENERDI' 8 LUGLIO ingresso 10 euro in prevendita, 12 in cassa CLUB DOGO SABATO 9 LUGLIO Ingresso 15 euro CAPAREZZA LUNEDI' 18 LUGLIO Ingresso 15 euro SABINA GUZZANTI MARTEDI' 19 LUGLIO Ingresso 10 euro BANDABARDO' VENERDI' 22 LUGLIO Ingresso 5 euro LE LUCI DELLA CENTRALE ELETTRICA SABATO 23 LUGLIO Ingresso 10 euro MANNARINO GIOVEDI' 28 LUGLIO Ingresso 10 euro DHOL FOUNDATION (UK) VENERDI' 29 LUGLIO Ingresso 5 euro 24 GRANA 42 Carroponte info via Granelli 1 info@carroponte.org Sesto San Giovanni carroponte.org

23 4mat / goto80 / Pixelh8 Drop Out I nuovi fermenti 8bit sono solo la punta dell iceberg. Vi sveliamo ogni segreto della scena sommersa chiptune: una storia ventennale, una precisa identità collettiva e diversi propositi per il futuro. Testo: Carlo Affatigato 44 45

24 Nell ultimo biennio l utilizzo dei suoni e dell immaginario dei videogame è stato oggetto di un ritorno di attenzioni ed interessi da parte della comunità musicale ed artistica. Dalla nostra angolazione, dalla quale osserviamo sempre più spesso gli sviluppi delle contaminazioni elettroniche britanniche, gli esempi più recenti ce li ha offerti la Hyperdub con una buona gamma di esplorazioni -step intorno all estetica degli 8 bit: Quarta330 (emblematico il gameboy-dub di Bleep From Outer Space finito nell Hyperdub 5.3 EP di fine 2009), Zomby (fin dal primo singolo Mu5h, per poi continuare con Gloop nello Zomby EP) e soprattutto l acclamato esordio di Ikonika (con il concept legato ai videogiochi di terza generazione Contact, Love, Want, Hate) sono ottimi esempi di una nuova effervescenza legata allo spettro di suoni dei chip audio anni 80. Ad essere oggetto di attenzioni non sono soltanto le colonne sonore degli old games, bensì l intero immaginario di un epoca fatta di videate a bassa risoluzione, cartoons e in generale caratterizzata da un inventiva costretta a limitarsi a causa di una lo-finess pervasiva, ma a quel tempo considerata all avanguardia. Andando ancora a pescare nel presente, non possiamo non citare la copertina coi pixeloni di Africa Hitech o, su un piano più prettamente mainstream, l ultimo tour dei Pet Shop Boys i cui allestimenti hanno compreso ogni sorta di rimando grafico alla videogame age per eccellenza. La fascinazione per l epoca dei coin-up ha coinvolto sempre di più ampie fette di musicisti, ovviamente anche al di là dell Atlantico. Alcuni esempi sono Flying Lotus (Pattern+Grid World EP), l intera cricca wonky con Hudson Mohawke (soprattutto all inizio, vedi Hudson s Heeters e il Choices Vol.1 EP) e Bibio (con Clark nel recentissimo Willenhall/Basterville Grinch EP su Warp). Anche il glo-fi, che di anni 80 vive e respira, risente l influenza del classic gaming come oggetto di catarsi malinconica (vedi il Cabazon EP di Jacob 2-2). La stessa scena italo-wonky abbonda poi di reminescenze dei videogiochi anni 90, con le produzioni di Digi G Alessio e Planet Soap su tutti. A ben vedere il suono di questi chip audio obsoleti è stato usato e sfruttato lungo tutti i noughties, decennio di riscoperta degli 80s e decade retrologica per eccellenza, come ci dirà presto Simon Reynolds nel suo nuovo saggio Retromania (in una vecchia intervista chiedevamo a Jamie Stewart se era un gamer, per via di alcuni proverbiali suoni a 8 bit in Fabulous Muscles, trucchi estetici che ritorneranno poi molto spesso nella poetica Xiu Xiu). Nel 2006 usciva sul magazine Blow Up un articolo storico e divulgativo firmato Valerio Mattioli dedicato proprio alla micromusic, nome di una delle tante comunità chip music diffuse in Europa ed etichetta che ha finito per rappresentare l intera macro scena italiana. Già allora la chiptune community era un mondo iperattivo e ramificatissimo, che ha visto probabilmente nei Crystal Castles il pescecane più vorace: famigerati i casi di furto dei sample presi indebitamente da 8bitpeoples.com, la più importante delle netlabel specializzate, per l album omonimo del È quindi evidente il ruolo emblematico assunto da quei suoni, che per un periodo limitato hanno furoreggiato nelle case, nei bar e sale giochi delle vacanze estive di migliaia di teen. Da Pong in poi, il videogioco vintage ha fatto da ponte tra le generazioni anche attraverso i Multiple Arcade Machine Emulator, con i quali è stato possibile far rivivere a tutti i tardoadolescenti della fine Novanta la sinestesia uomo-macchina attivata originariamente nel decennio della sala giochi. Dalla fine dei 90s, il famoso M.A.M.E di Nicola Salmoria e altri emulatori hanno permesso il salto temporale verso quella folgorante epoca di rock n roll videoludico. Ricordi di un epoca che dal 1994 fu oscurata dall avvento della PlayStation. Non stupisce pertanto che in pieno boom della famosa consolle, grossomodo tra il 1995 e il 1998, Rephlex pubblichi progetti intrisi di suoni videogame come Cylob (già nel primo album Cylobian Sunset, 1995, era presente un brano come Synek), DMX Krew (la lo-fi-electro di You Can t Hide Your Love è datata 1997) e nel 99 i tedeschi Bodenständig 2000 (le esplorazioni tra chips e eurodance di Maxi German Rave Blast Hits 3). Lo stesso Aphex Twin, co-owner della label, sotto il moniker Power-Pill, aveva anticipato il revival già nel 1992, con lo storico Pac-Man EP (cinque versioni euro-techno del famoso game con voci sintetiche e tagli spastici di realtà virtuali primitive à la Tron) e con le sonorità dei suoi primi EP del 1991 (Analogue Bubblebath e Bradley s Beat a firma Bradley Strider). Episodi di quel sarcasmo feroce con il quale la cultura rave assimilò e stravolse i ricordi d infanzia trasformandoli successivamente in moda con la Happy Techno e le sigle di Pinocchio (vedi ad esempio i tormentoni del gruppo Pin-Occhio formato da Nicolas Savino e Marco Biondi) e di altri cartoni animati d antan. Gli esempi di come la più ampia generation E abbia sfruttato l immaginario bambinesco si sprecano, ma ciò che si conosce meno è la vera comunità chiptune, quella che fin dai primi anni 80 si è dedicata alla musica prodotta con i primi home computer (Atari, Commodore, Amiga) e game consolle. Poco noto infatti come questi gruppi di nerd genialoidi e hackers si scambiassero tracce audio prima via posta ordinaria e poi tramite nodi della rete digitale, dieci anni prima della nascita di Internet

25 La chip music, come tutti i revival che abbiamo vissuto nella storia della musica, dal rockabilly al glo-fi, è da sempre legata alla nostalgia e al ricordo. Ha appena compiuto trent anni ma rispetto a quella metà dei 2000 in cui si parlava tanto di 8bit e si facevano le sociologie del caso, sembra proprio che in pentola bolla qualcosa di nuovo. Gli stessi membri della community hanno voglia di spingersi verso il futuro, oltre i limiti della sottocultura, con la chiara volontà di far riconoscere la chip music come genere tra i generi, al pari del folk, del pop, del rock. Ne abbiamo parlato con tre degli esponenti più rappresentativi: goto80, 4mat e Pixelh8. Tre artisti e tre album in questo 2011 che smuovono pensieri, energie e bit non solo a pacchetti di 8. Questi ragazzi, oggi più che trentenni, ci racconteranno verso quali direzioni sta puntando la chip music e se dobbiamo aspettarci l esplosione decisiva del bitpop sound negli ascolti di larga scala. Ve lo diremo alla fine. Prima un diverso tributo a questa appassionante storia, forti delle fonti e delle informazioni che fino a pochi anni fa non erano così disponibili come lo sono adesso. Superficie e underground: la videogame music La parte più conosciuta e visibile di questa storia è quella che accosta la chip music alla musica dei videogiochi di seconda generazione: quelli a cavallo tra gli anni 70 e gli 80, l età d oro dell arcade game, la cui esplosione si può far coincidere con l uscita di Space Invaders nel E lo stesso periodo che segna la diffusione dei primi home computers tra le pareti domestiche, prima con l Apple II e il Commodore PET nel 1977, poi con l Atari 400 e il Texas Instruments, fino ad arrivare al mitico Commodore 64 nel E il momento in cui le colonne sonore dei videogame acquistano un ruolo sempre più importante all interno del prodotto venduto. Durante gli anni 80 la game industry si arricchisce di personaggi di grande carisma, che diventano i miti della bit generation: tra i più conosciuti Martin Galway, uno dei più grandi virtuosi del SID (il chip audio del C64), autore delle musiche di Arkanoid e Wizball, Rob Hubbard, che a partire dal 1985 realizza le soundtrack di videogiochi culto come Commando o Skate or Die, e la coppia Christopher Grigg-David Lawrence, autori della colonna sonora dell adventure più famosa della decade, Maniac Mansion. Il loro contributo (insieme a quello di altri nomi storici come Tim Follin e Jeroen Tel) elevò sensibilmente la qualità delle videogame tracks che circolavano in quel periodo, conferendo al sonoro uno spazio decisivo all interno dell esperienza di gioco. Ma quello dei videogiochi è solo lo scenario più evidente, quello di più immediata e generalizzata percezione. Nel frattempo, su uno strato pressoché sconosciuto e parallelo, si va sviluppando la generazione dei chiptuners: la nascita del fenomeno collettivo chiptune non va ricondotta all industria del videogame, ma ad un livello underground sottostante, in cui la composizione di musica 8-bit si sviluppa come pratica diffusa tra gli adolescenti sparsi per il globo. La scena si muove così lungo un binario separato rispetto all industra blasonata, rivendicando una propria genuina originalità contro gli intenti più earning-oriented delle produzioni ufficiali. L indipendenza DIY che torna a porsi in conflitto col mainstream, in un ricorso storico esemplare, coi chiptuners nei panni dei rock-rebels e le varie Taito, Electronic Arts e LucasArts nei panni delle major. La never-ending story continua. La demoscene e gli anni 80 Insieme alla diffusione capillare degli arcade games degli anni 80, esplode tra gli adolescenti la voglia di provare tutti i giochi in circolazione, ma c è un grosso semplicissimo problema: non tutti i ragazzi potevano permettersi di acquistare le nuove uscite. Entra dunque in gioco la figura del cracker, che (illegalmente, of course) rimuoveva la protezione dalla duplicazione e ne effettuava copie pirata. Mossi da orgoglio e senso della sfida, per i crackers era fondamentale che i propri sforzi venissero riconosciuti: perciò, si diffuse la tendenza di firmare i propri interventi con le cosiddette crack-intro, una piccola introduzione grafica al gioco contenente il nome dell autore della crack. Negli anni la intro si è sempre più andata raffinando ed evolvendo, da semplice frame grafico a set più complesso, coinvolgendo motion picture e musica. La diffusione dei giochi (e delle demo) passava sempre più attraverso zone temporaneamente autonome visibili in rete (i BBS, Bulletin Board Systems) e raggiungibili attraverso connessioni remote via modem. Cominciò una vera e propria sfida, a chi creava la demo più efficace, sempre utilizzando solo le risorse hardware di base, e a fine anni 80 divennero eventi regolari i cosiddetti copy parties, in cui i crackers si sfidavano a programmare in un tempo limitato la migliore demo (valutata da un apposita giuria) su un tema svelato solo all inizio della sfida: siamo in piena demoscene, eoni prima di The Social Network. Le demo divennero rapidamente dei lavori estremamente complessi, re

26 alizzati da gruppi di ragazzi, ognuno con una propria specializzazione: chi si occupava del codice, chi della grafica, e chi - eccoci - delle musiche. Dalla demoscene al ragazzino della porta accanto il passo è breve: nasce così la generazione dei chiptuners, che si occupavano di produrre musica attraverso l utilizzo delle sempre più diffuse consolle domestiche, nella prima fase soprattutto Commodore 64 (forse il più amato di sempre tra i chip-musicisti) e Amiga, più avanti anche NES (il primo Nintendo) e Gameboy. Gli anni 80 vedono il fenomeno in continua crescita: nel 1985, quando Rob Hubbard rilasciava la sua prima colonna sonora ufficiale (il mitico Commando), si contavano già almeno demo in giro per la rete. E il panorama si andava arricchendo sempre più di giovani creativi che, chiusi nella propria cameretta, liberavano la loro ispirazione a sette note con gli unici strumenti che avevano a disposizione (perché ricordiamolo, non tutti potevano permettersi quella splendida invenzione che è il sintetizzatore). Una formidabile fucina di materiale che quasi mai è riuscita a ottenere visibilità, ma che è stata la fondamentale base di consolidamento della scena (è dal materiale prodotto tra gli 80 e i 90 che 4mat, ad esempio, ha pubblicato Decades nel 2010, subito diventato un classico della chip music). Sulla cresta dell onda: gli anni 90 e la web explosion Negli anni 90, la chip music inizia ad affiorare anche tra le uscite discografiche regolari. Gli Urban Shakedown, gruppo nato nel 1990 dalla scena rave/techno/jungle, possono essere considerati il primo esempio di chiptune band: la loro musica era interamente prodotta coi suoni dell Amiga, fin dal primo singolo (Some Justice, 1991). Uno dei primissimi software ad uso casalingo fu proprio il Protracker, sempre per Amiga, che compare abbastanza presto nelle uscite di Osdorp Posse (Osdorp Stijl, edito su Djax Records nel 1992), Psycho Drums (Pattern 1-6 su Overdrive, Pattern 7-12 su R&S), e dello stesso fondatore degli Urban Shakedown DJ Aphrodite (tutte le sue prime uscite del 93 su Aphrodite Recordings). Pian piano la cosa si fa più esplicita e guerrigliera (sono gli anni dell esplosione europea del gabba). Il suono videogame diventa suono di rottura: nel 93 i Neophyte pubblicano The Three Amiga EP e Protracker EP e Hardsequencer l Amiga EP mentre del 1995 è l esordio su album degli Atari Teenage Riot (anche Collapse Of History dell ultimo Is This Hyperreal? riprende i suoni di Pong) il combo più rappresentativo di queste tendenze (ricordiamo anche il side project Nintendo Teenage Robots con We Punk Einheit!, del 1999, con tutti suoni per Gameboy). Sempre nel 95 esce su Irdial Discs una delle prime compilation, The Electric Family Mariopaint, fatta di brani realizzati col solo utilizzo di un Super Nintendo. E così via, in un crescendo di diramazioni e scene, da quella di terroristi sonori come Venetian Snares (le prime autoproduzioni Spells, Subvert!), Kid606 e Lesser (che nel 2002 tirerà fuori il mix C64 SID 6581 Massive) a veri e propri fanatici degli 80s a tutto campo come James Ferraro (il film in VHS Rapture Adrenaline). Ma è negli anni Duemila che la chiptune inizia a percepire sé stessa come una scena compatta. Da una parte l esplosione di Internet offre nuovi canali di confronto e contatto, oltre a diventare la principale vetrina per aumentare la propria visibilità. Dall altra, la chip music conosce una nuova fase di successo in quanto importante espressione di riscoperta nostalgica, che la generazione noughties riversa sull ultima decade compatta e riconoscibile, gli 80 appunto. I musicisti del nuovo millennio ritrovano nell 8-bit music il loro primo contatto adolescenziale con la dimensione sonora, e la usano con uno spirito revivalistico differente da chi invece 10 anni prima la adottava come elemento di rottura rispetto alla diffusione della high fidelity. Da trick alternativo a fenomeno di tendenza, dunque. Nei 00 assistiamo alla nascita di web community come la label 8bitpeoples (fondata nel 99 da un altro dei pilastri, Nullsleep), Micromusic, 8bitcollective, e più recentemente chipmusic.org e True Chip Till Death. La chiptune diventa un argomento che desta interesse: a partire dal 2000 sul canale radio svedese P3 va in onda Syntax Error, rubrica settimanale incentrata su demo e computer music. Nel 2003 la chiptune giunge alle orecchie di un big come Malcom McLaren, che la definisce la folk music - e accortamente non punk music - dell era digitale, e si guadagna un articolo su Wired. I nomi legati alla chip music diventano man mano più popolari. Sempre in Svezia, nel 2003 il 2-chip-step act Puss viene nominato ai Grammy Awards come miglior dance act. Acquisiscono risonanza sempre maggiore realtà come 8 Bit Weapon, Gameboyzz Orchestra, FirestARTer, Teamtendo. Nel 2005 è anche la volta di Beck, che in Girl gioca col Little Sound DJ, un software generatore di suoni per Gameboy nato alcuni anni prima. A partire dal 2006 la 8bitpeoples organizza il Blip Festival, evento a cadenza annuale con sede a New York ma che ultimamente ha visto cloni anche in Europa e Giappone, trovando spazio anche su Pitchfork.tv

27 I 2000 sono anche gli anni in cui la chiptune si diffonde in Italia. I Micropupazzo, due che coi chip bazzicano la techno di Mr. Oizo, sono stati tra le prime realtà italiane ed erano sul palco al primo evento live italico in assoluto, nel 2004 al Linux Club di Roma, insieme a FirestARTer e Role Model. Nel 2006 nasce ufficialmente la prima community italiana, la bolognese Micro.Bo, facente parte dell area Micromusic. Più avanti arrivano anche le web labels, come la CouCou, diretta da Buskerdroid e J8bit. Tra i nomi più importanti oggi, oltre a quelli già citati, ci sono nrgiga a Bologna e il bitpunk di Postal_m@rket nel torinese, poi a Roma Lo_Lo e Cobol Pongide (che nel videogame world sembra essersi perso) e i techno act Tonylight (direzione acid) e Kenobit (happy mood) a Milano. Proprio a Milano si è tenuta tra marzo e aprile 2011 la mostra Bit World, un approfondimento della chip music italiana col documentario The Italian Micromusic diretto da Andrea Galuppini. Oggi la scena chiptune globale è divisa: da un lato le nuove leve continuano a subire il fascino del suono nostalgico, mantenendosi fedeli a NES e Gameboy e riuscendo in certi casi ad acquisire una buona visibilità (è il caso degli Anamanaguchi, uno dei nomi oggi più conosciuti). Dall altro, molte realtà che in passato hanno sposato l 8-bit sound sembrano adesso volersene allontanare (Adventure recentemente si è convertito al classic synth-pop, mentre Polish Ambassador ha aperto le porte ad un ampio crossover di electro-funk con sfumature hip hop). In mezzo ci stanno le colonne storiche, che hanno vissuto la storia del genere sulla loro pelle e che oggi sentono forte il peso degli anni passati (col loro carico di eventi che lasciano il segno, come il suicidio nel 2005 di Kjell Nordbø, uno dei producer più apprezzati all interno della community). Quali sono dunque gli ascolti imprescindibili per chi vuole scoprire la chip music? I più emotivamente legati ai videogame troveranno soddisfazioni nella compilation Back In Time, rilasciata dalla High Tecnology Publishing nel 1997, che raccoglie i cult game classici del Commodore 64. Chi invece vuole approfondirne il versante più genuino, non ha che l imbarazzo della scelta: Dawn Metropolis, album d esordio degli Anamanaguchi, è un brillante esempio di chiptune-punk che ha scosso il panorama contemporaneo; The Phantasmal Farm di Polish Ambassador offre un efficace spaccato della varietà offerta dall artista californiano, chiamando in causa movenze synthpop e vivacità dance; gli amanti dell hardcore-metal apprezzeranno Delete Top-10 chiptune tracks of all times 1. 4mat Chipmusic Is Dead 2. Anamanaguchi Blackout City 3. goto80 Breakfast 4. Virt Survivors 5. Pixelh8 Girl Fight 6. Minusbaby Kicking Make-Believe Pebbles Into Cars 7. Covox Switchblade Squadron 8. Puss 3step 9. The Polish Ambassador Subterranean Stepdance 10. Nullsleep Ballistic Picnic The Elite di Covox; mentre a chi vuole osare si consiglia FX3 di Virt, capace di momenti epici (Bedtime Story) o approcci jazz (Survivor) e dotato di una notevole espressività melodica di matrice rock che gioca con riff massicci di bip analogici. E se ancora non bastasse, c è un mondo sterminato di produzioni da scoprire sulle pagine delle net-label, con particolare menzione per 8bitpeoples. com, che raccoglie news su uscite ed eventi, consente il download gratuito o l ascolto online della musica prodotta da oltre 50 artisti e organizza periodicamente compilation e raccolte a tema. Com era prevedibile per un fenomeno underground legato al web e diffuso in ogni parte del mondo, lo scenario è una polveriera fin troppo vasta, che offre materiale per tutti i gusti ma in cui orientarsi può diventare difficile. Un punto di partenza possibile è allora proprio la storica compilation 8bp050, celebrativa della 50 release, con il meglio della crew (25 artisti per 25 tracce) e una panoramica che copre passato, presente e futuro della label. Oggi però è sacrosanto partire proprio dalle ultime intuizioni di goto80, Pixelh8 e 4mat, che provano ad offrire alla chipmusic nuove opportunità e nuove direzioni possibili: giocando coi generi riproducibili (il primo), esplorando il range sonoro dei chips (il secondo), superando la dimensione underground (l ultimo). Non vi resta che ascoltare le loro stesse parole. Top-10 chiptune tracks of all times 4mat Quante volte la stampa musicale inizia un articolo chiptune con Ricordate Super Mario?. Ormai è un approccio decisamente obsoleto. Matt Simmonds ha rilasciato il suo sophomore Surrender a Febbraio 2011, e per la comunità chiptune, che lo ha sempre considerato una delle personalità chiave del genere, è stato una specie di evento. L album segna in effetti un decisivo balzo in avanti, trasportando l estetica chip music oltre i limiti legati alle strumentazioni usate, e offrendone un immagine nuova rispetto a quella solitamente percepita, raccontata nella nostra disamina: a risaltare non è più la natura 8-bit (che anzi è molto meno evidente) ma uno stile colto e maturo, in grado di chiamare in causa samples classici delle tastiere kraut di Vangelis e Jean Michel Jarre (Villette, La Pluie Tombe Dans Mon Coeur) ma anche l electro più dance-oriented dei Daft Punk (Moonrock), con ricchi apici di matrice big beat (Chip music is dead). Il precedente Decades si rifaceva al materiale che avevo prodotto diverso tempo prima. Surrender invece cerca di portare la chip music oltre la connotazione di musica legata al videogame. Sento che, come scena, abbiamo superato la fase in cui si deve per forza parlare dell hardware, e adesso è arrivato il momento di concentrarci sulla semplice scrittura di canzoni, affrontandole sullo stesso piano degli altri generi. Quella di 4mat è una sorta di rivalsa personale, rivolta a chi si ostina a misurare il genere ancora sulla base degli strumenti usati. Negli altri generi i musicisti non parlano dell hardware o delle tecniche usate, mentre invece gli articoli chip continuano a concentrarsi su quelli, certe volte più che sulla musica. Per questo Surrender è un album denso di consapevolezza stilistica, che non sfigura accanto ai classici ambient-techno dell era Warp. Influenze che Matt ci conferma in pieno: Ascolto tutt ora spesso Aphex Twin (è difficile stargli dietro con tutti i suoi alias!) e Kraftwerk, mentre ho passato i miei anni con Jarre, soprat

28 goto80 Se c è qualcosa esente da limiti, una cosa è certa: non può esistere nella nostra realtà. tutto Equinoxe e Magnetic Fields. 4mat si presenta dunque come il primo coraggioso esempio di chiptuner che vuole svincolarsi da questa definizione ed essere considerato un artista come gli altri. A tal pro, non esita a mettere in discussione quelle regole non scritte che limitano il range di suoni e strumenti utilizzabili. Non sento di avere alcuna limitazione particolare. Oggi uso gli stessi strumenti di alcuni anni fa, ma se non riesco ad ottenere un particolare suono o non riesco a riconoscermi in un certo risultato, non ho alcun problema ad usare un equipaggiamento più moderno per migliorare il tutto. Uno sdoganamento che sta maturando proprio adesso; e a portarlo avanti è quella generazione di ex-adolescenti che aveva contribuito a diffondere il verbo negli anni 90, quando la produzione home-made non offriva tante alternative. A quei tempi era il costo della tecnologia a decidere cosa era a nostra disposizione. Oggi credo non ci sia più alcuna ragione per insistere su certe limitazioni, se non per il semplice gusto di farlo. Paradossalmente, ma non troppo, la spinta propulsiva per la conquista della ribalta parte proprio dagli esponenti storici ; mentre in parallelo la scena chiptune continua a far giovani proseliti, ancora attirati dal fascino legato al game hardware, Nintendo e Gameboy in testa. E la frangia più matura che si sta distaccando dal marasma underground, e ora pretende una maggiore credibilità. La chip music non è morta, ma ad agonizzare sotto i colpi delle nuove uscite è il preconcetto che sia solo un sotto-prodotto culturale, non troppo degno di nota, da etichettare alla voce curiose tendenze adolescenziali. Forse non diventerà mai un fenomeno di ascolto per il grande pubblico (sono gli stessi protagonisti ad escluderlo), ma la linea che lo separa dall idea condivisa di arte musicale si fa sempre più sottile. Anders Carlsson ha cavalcato in prima persona tutte le fasi dell epopea chiptune, esattamente come descritte nel nostro approfondimento, fin dalla demoscene e dai primi anni 90. Ce lo racconta lui stesso: Mi sono lasciato coinvolgere dalla demoscene fin dal 1992, per me è stata un importante ispirazione. Sempre in quel periodo ho iniziato a creare musica, e da allora è stato spontaneo smettere di giocare con gli Amiga e iniziare a usarli per fare musica. Da allora goto80 ha prodotto centinaia di brani (è stato definito il più prolifico degli artisti chip music ) e soprattutto non ha mai smesso di mettersi in gioco con gli stili più disparati, tra classic electronica, acid/rave, drum n bass e pop. Con un tratto distintivo: il voler combinare la propria musica ad elementi visivi, grazie alle collaborazioni con artisti visuali come la pixel-queen Raquel Meyers o l artista glitch (inteso come errore, bug) Rosa Menkman. Il vero chiptuner è orgoglioso di appartenere ad una comunità elitaria innamorata di computer e videogames, fatta di hackers, nerds, hipster, conservatori e ribelli. Passione e nostalgia per l adolescenza si congiungono sotto l eco dei beep, e questi ultimi diventano il mezzo espressivo con cui l artista libera la propria ispirazione, producendo entità non per forza legate alla tecnologia usata. Se usi una chitarra elettrica, è bizzarro chiedere se sia conservatrice o innovativa. E solo uno strumento, la tecnologia ha un valore strettamente simbolico. E in fondo ogni cosa ha una certa componente nostalgica, che rilegge espressioni del passato esaltandone alcune piuttosto che altre. goto80 rivendica dunque il suo status di artista, con una propria visione e uno stile personale. Un carattere che emerge anche nel suo nuovo album Cherry, fresco di uscita, che prova a muoversi più con le atmosfere rispetto al suo passato, proponendo soundtrack da film thriller (Decibel Detective), arpeggi funk (Makedir) o movenze r n b (Dirbird). Prima mi concentravo maggiormente sulle variazioni e sugli elementi imprevedibili. Oggi sto anche esplo

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