I PRESUPPOSTI DI LICEITÀ DEL TRATTAMENTO MEDICO ALLA LUCE DELLA RECENTE GIURISPRUDENZA CIVILE E PENALE. Francesco Viganò

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1 I PRESUPPOSTI DI LICEITÀ DEL TRATTAMENTO MEDICO ALLA LUCE DELLA RECENTE GIURISPRUDENZA CIVILE E PENALE Francesco Viganò Il problema La drammatica vicenda di Eluana Englaro, così come in precedenza quella di Piergiorgio Welby, hanno posto all ordine del giorno nel nostro paese le problematiche delle decisioni mediche di fine vita, spesso discusse sotto l etichetta generica e fuorviante di eutanasia autentica notte del pensiero in cui tutte le vacche divengono nere, e in cui ogni differenza sembra appiattirsi sotto il peso degli slogan contrapposti. È tuttavia rimasto in ombra non solo nel dibattito mediatico, ma anche nella riflessione degli addetti ai lavori un profilo per così dire pregiudiziale, ancorché meno carico di pathos, che queste due questioni proponevano: quello, cioè, dei principi e delle regole che presiedono al rapporto tra medico e paziente, e degli stessi presupposti di liceità della somministrazione di trattamenti medici al paziente. Si è così data per scontata la normale liceità della somministrazione al paziente di trattamenti di sostegno vitale (la ventilazione assistita nel caso di Welby, l alimentazione e l idratazione artificiale nel caso di Eluana), e ci si è unicamente concentrati sulla domanda se, ed eventualmente a quali condizioni, fosse lecito interrompere questi interventi, provocando così la morte del paziente. Dimenticando, così, che la prima domanda che il giurista dovrebbe porsi concerne la stessa legittimità della somministrazione, e della prosecuzione, del trattamento stesso. Affrontare questo tema non è, d altra parte, compito agevole: da tutti si lamenta ormai il vuoto normativo in materia. In molti luoghi della legislazione ordinaria, che sarebbe qui inutile analiticamente ricapitolare, affiora invero il principio della normale volontarietà dei trattamenti medici; e l art. 32 co. 2 Cost., invariabilmente invocato in questo contesto, ne costituisce un ovvia quanto autorevole conferma. Ma i problemi si affastellano nelle 1

2 regioni di confine, dove l ordinamento non offre risposte univoche. La necessità del consenso informato del paziente, ad esempio, vale anche quando il trattamento sia necessario per la sua sopravvivenza? Ovvero deve in tal caso il trattamento essere considerato legittimo (e magari doveroso) anche a prescindere dalla volontà del paziente, in omaggio alle esigenze si salvaguardia della sua cita? Quali i presupposti di liceità del trattamento praticato ad un paziente incapace di decidere autonomamente, perché bambino, incosciente, malato di mente? E potremmo continuare a lungo. I casi Welby ed Englaro, assieme a vari altri assai meno noti all opinione pubblica, hanno costretto la giurisprudenza italiana (in sede civile e penale) ad affrontare molte delle questioni qui accennate, attraverso letture costituzionalmente orientate degli scarni dati normativi esistenti, spesso illuminate da spunti e suggestioni provenienti dal diritto internazionale e comparato. I risultati, come è naturale che accada rispetto ad ogni interpretazione giudiziale creativa, non sono stati da tutti condivisi, ma lasciano intravedere sullo sfondo un quadro di principi e regole, in larga misura coerente con i risultati cui le giurisprudenze di altri ordinamenti a noi vicini sono pervenuti. In attesa dunque di una disciplina legislativa organica in materia, vale la pena qui tentare di riordinare sistematicamente le regole elaborate a tutt oggi dal diritto vivente, componendo le molteplici ma frammentarie suggestioni provenienti dalla recente giurisprudenza penale e civile in un quadro unitario il più possibile coerente, con il quale lo stesso futuro legislatore sarà chiamato a confrontarsi: per confermarlo, o se del caso correggerlo, entro i margini di manovra consentitigli dai vincoli di tutela dei diritti fondamentali coinvolti. La ricostruzione del quadro delle regole di condotta cui il sanitario deve attenersi nel formare la decisione terapeutica è, d altra parte, indispensabile anche per compiere il passaggio successivo, che concerne la determinazione delle conseguenze sanzionatorie (penali e civili) nel caso di violazione di quelle regole: profilo, quest ultimo, al quale dedicherò qualche breve cenno in chiusura di questo intervento, anche alle luce di un recentissimo pronunciamento delle Sezioni Unite penali. 2

3 Il bisogno di legittimazione di ogni trattamento medico al metro del diritto costituzionale L idea forte che mi pare emergere dalla giurisprudenza recente, civile più ancora che penale, è quello che potremmo indicare mutuando l analoga espressione utilizzata dalla dottrina tedesca come il bisogno di legittimazione di ogni trattamento invasivo del corpo del paziente. La dottrina e la giurisprudenza penalistica tradizionali tendono, invero, ad assumere che il trattamento medico si autolegittimi in forza della sua utilità sociale, e della sua funzionalità a promuovere la salute del paziente, senza necessità di alcuna particolare ragione giustificativa che non sia quella fornita dall art. 32 Cost. (norma che, si afferma, tutelando la salute come diritto individuale e interesse della collettività, non può non riconoscere implicitamente anche la liceità delle condotte necessarie a promuovere la salute medesima). Ma non più che di affermazioni tralatizie si tratta, ormai non più al passo con una mutata sensibilità giuridica che riconosce pacificamente all individuo un diritto fondamentale, in forza dell art. 32 secondo comma Cost., di rifiutare le cure, salve le limitazioni espressamente previste dalla legge. Il corollario di un tale diritto fondamentale non può che essere l illiceità quanto meno di regola di un trattamento praticato contro la volontà dell interessato, anche nel caso in cui risulti conforme alle leges artis, e si sia in concreto rivelato benefico per la salute del paziente. Il che è come dire che il trattamento non si autolegittima affatto, bensì richiede una specifica ragione di legittimazione, di regola rappresentata dalla conforme volontà del paziente. Ancora insufficientemente focalizzata è però la ratio del diritto fondamentale di rifiutare il trattamento di cui all art. 32 co. 2 Cost. Il richiamo usuale al principio di autodeterminazione terapeutica coglie solo una dimensione di tale diritto: l altra dimensione, forse ancora più rilevante, è quella della tutela della sua integrità fisica. Di quell area cioè di inviolabilità che l ordinamento costituzionale erige attorno al corpo della persona, concepito quale recinto affidato alla esclusiva autodeterminazione individuale e protetto da ogni ingerenza, foss anche benintenzionata, dei terzi. 3

4 Il diritto fondamentale all integrità fisica riceve tutela, peraltro, non solo dall art. 32 co. 2 Cost. (sub specie di diritto a non subire interventi non debitamente consentiti nel proprio corpo), ma anche ancor prima dall art. 13 Cost.; ed è più in generale riconducibile al novero dei diritti inviolabili di cui all art. 2 Cost. E la stretta connessione fra trattamenti invasivi del corpo del paziente e il suo diritto all integrità fisica è del resto testimoniata in maniera eloquente dall art. 3 della Carta europea dei diritti dell uomo, il quale riconosce al primo comma il diritto dell individuo alla integrità fisica e psichica, enunciando poi immediatamente, al secondo comma, il diritto al consenso informato del paziente in tutte le procedure sanitarie; diritto quest ultimo concepito evidentemente come corollario del più generale diritto all integrità fisica. Nella misura in cui un dato trattamento interferisca con questo diritto fondamentale, risultando in concreto invasivo del corpo del paziente, esso richiederà dunque una specifica legittimazione già al metro del diritto costituzionale, in assenza della quale esso costituirà una illegittima violazione di un diritto fondamentale del paziente. Ciò non può non valere, si noti, anche per le procedure di alimentazione e idratazione artificiali. Comunque vengano qualificate, si tratta pur sempre di procedure invasive del corpo del paziente, che pongono per ciò stesso in causa il suo diritto all intergità fisica, e che per tale ragione reclamano anch esse una qualche ragione giustificativa per poter essere lecitamente praticate. Del tutto irrilevante, sotto questo profilo, risulta dunque la discussione se di veri trattamenti medici si tratti, ovvero di mere misure di sostegno vitale. Le fonti delle regole di legittimazione del trattamento medico. In particolare: il ruolo della Convenzione di Oviedo Il problema centrale diviene a questo punto quello di individuare le diverse possibili ragioni di legittimazione del trattamento. Mancando ancora una organica disciplina legislativa in proposito, occorrerà in questa ricostruzione far riferimento ai principi sottesi a un insieme eterogeneo di regole sparse nell ordinamento e interferenti in vario modo con la materia dei 4

5 trattamenti sanitari; con un occhio privilegiato, oltre che ovviamente alla Carta costituzionale, alle carte internazionali in materia di diritti umani, dalle quali sono come vedremo subito desumibili preziose indicazioni. Un ruolo particolarmente significativo in proposito è generalmente attribuito dalla dottrina e dalla stessa giurisprudenza alla Convenzione sui diritti dell uomo e la biomedicina, approvata a Oviedo nel Tale Convenzione, pur se elaborata nel quadro istituzionale del Consiglio d Europa, è stata aperta anche alla firma di Paesi terzi, ed aspira così ad essere considerata quale uno strumento universale di tutela dei diritti umani in queste delicate materie. Non del tutto pacifica è, peraltro, la vincolatività per il nostro paese di tale strumento; sì che conviene cogliere l occasione per cercare di fare un po di chiarezza sul punto. L Italia ha, infatti, sottoscritto la Convenzione, e il Parlamento ne ha autorizzato la ratifica a mezzo della legge n. 145/2001, contenente la consueta clausola di piena e intera esecuzione della convenzione stessa nel diritto interno, delegando al tempo stesso il governo ad emanare i decreti che si fossero resi necessari allo scopo. Dal 2001 ad oggi, tuttavia, il governo non ha provveduto al deposito dello strumento di ratifica presso la sede indicata dalla Convenzione, né ha provveduto ad emanare i decreti attuativi entro il termine fissato dalla l. 145 (e successivamente prorogato invano da altri interventi legislativi). Ora, la mancata emanazione dei decreti attuativi non sembra di per sé costituire contrariamente a quanto è stato talvolta affermato in giurisprudenza un ostacolo a riconoscere l immediata operatività di tutte quelle norme della Convenzione che, in quanto self-executing, sono in grado di operare anche in difetto di norme di dettaglio. E tra queste norme rientrano certamente gli artt. 5-8, che, come vedremo, fissano le condizioni generali di legittimazione del trattamento medico. Il problema concerne piuttosto il mancato deposito della ratifica, che secondo l opinione dominante presso la dottrina internazionalistica e della stessa giurisprudenza costituzionale (cfr. ord. 282/1983 e sent. 379/2004) è condizione essenziale non solo affinché lo Stato italiano possa considerarsi obbligato al rispetto di una convenzione sul piano del diritto internazionale, ma anche affinché le norme della convenzione possano ritenersi incorporate 5

6 nel diritto interno in forza della clausola di piena e intera esecuzione contenuta nella legge di autorizzazione alla ratifica. In altre parole, quella clausola che, per l appunto, ha per effetto la trasposizione delle norme convenzionali nell ordinamento interno dello Stato contraente, con il medesimo rango nella gerarchia delle fonti della legge di autorizzazione alla ratifica è pur sempre subordinata alla condizione del deposito della ratifica da parte del governo, che perfeziona il normale iter di adesione dello Stato ai trattati internazionali. Conseguentemente, si deve ritenere che, nonostante la l. 145/2001 la Convenzione di Oviedo non possa considerarsi attualmente in vigore nell ordinamento italiano, né che l ordinamento italiano sul piano del diritto internazionale sia ancora vincolato al suo rispetto. La situazione di limbo in cui versa la Convenzione non ha impedito tuttavia come si è anticipato alla giurisprudenza italiana di attingere a piene mani dalla Convenzione stessa, ogniqualvolta se ne sia presentata la necessità. In particolare la Corte di cassazione, nella fondamentale sentenza del 16 ottobre 2007 sul caso Englaro, ha correttamente riconosciuto il deficit di vincolatività dello strumento, ma ha al tempo stesso enfatizzato il suo ruolo quanto meno di strumento interpretativo del diritto vigente, in forza del generale consenso consolidatosi sul piano internazionale sui principi e sulle regole ivi contenute, nonché in forza dell adesione a quei principi e a quelle regole espresse dal Parlamento italiano nella stessa legge di autorizzazione alla ratifica. Sulla base di queste autorevoli indicazioni metodologiche, nulla osta dunque a che l interprete italiano possa riferimento nella ricostruzione delle regole di legittimazione del trattamento medico alle norme della Convenzione, e in particolare ai suoi artt. 5 e ss., che come subito vedremo disegnano un quadro coerente e organico di principi ormai unanimemente condivisi a livello internazionale i quali vengono così a completare e precisare un quadro di principi già sottesi alla stessa legislazione italiana, ordinaria e costituzionale. Prima regola: il consenso informato del paziente capace 6

7 La regola fondamentale enunciata dall art. 5 della Convenzione è quella secondo cui, in linea generale, l esecuzione di un trattamento medico presuppone il consenso informato espresso dal paziente: il quale si presenta dunque, nel sistema convenzionale, come la fonte normale di legittimazione del trattamento stesso. Su tale regola che abbiamo visto essere enunciata a livello internazionale anche dall art. 3 della Carta europea, e che risulta perfettamente in linea con lo stesso art. 32 co. 2 della Costituzione italiana non vale la pena qui di diffondersi, essendo d altronde espressa in numerose leggi di rango ordinario che disciplinano ipotesi particolari di trattamento, nonché nella norma generale di cui all art. 33 l. 833/1978 ( Gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari ). Né pare opportuno affrontare in questa sede le questioni di dettaglio, pur in certa misura controverse, che attengono all estensione e alle modalità di adempimento dell obbligo informativo che grava sul sanitario. Ciò che più rileva è, piuttosto, evidenziare un corollario spesso non esplicitato. Se il consenso informato del paziente è normale presupposto della liceità del trattamento, laddove tale consenso nella specie non sussista, o addirittura consti un dissenso all esecuzione del trattamento, delle due l una: o si individua un diverso presupposto di liceità del trattamento che ne consenta l esecuzione nonostante l assenza di consenso del paziente, oppure la sua esecuzione risulterà illecita. E l importanza di tale corollario, di intuitivo rilievo pratico in relazione a casi come quello di Piergiorgio Welby, va apprezzata anche in relazione alla disposizione dell art. 5 co. 3 della Convenzione di Oviedo, che esprime il principio del resto pacifico anche per l interprete italiano secondo cui il paziente può in ogni tempo revocare il consenso precedentemente prestato: il che apre, anche in questo caso, il problema di giustificare la prosecuzione del trattamento, allorché il paziente ne chieda l interruzione (revocando così il consenso al trattamento medesimo). Un secondo importante corollario che vale subito la pena di evidenziare è che in tanto è possibile individuare nel consenso informato del paziente il presupposto della liceità del trattamento, in quanto il paziente sia in concreto capace di autodeterminarsi, e dunque di bilanciare i pro e i contra del trattamento in relazione ai propri interessi. 7

8 Ora, mentre fiumi di inchiostro sono stati versati in relazione al problema dell estensione dell obbligo informativo, comparativamente scarsa è stata l attenzione dedicata dalla dottrina e dalla giurisprudenza al tema centrale dell accertamento della capacità del paziente. Non è chiaro, per cominciare se e in che misura il compimento o meno della maggiore età condizioni tale capacità; e dunque, se il consenso di un minorenne ad es. di un diciassettenne possa costituire ragione sufficiente di legittimazione del trattamento, laddove in concreto il minore possieda sufficiente capacità di discernimento per comprendere i pro e i contra del trattamento propostogli, ovvero se sia necessario per il medico acquisire in luogo del consenso del paziente o accanto ad esso il consenso informato dei suoi legali rappresentanti. Né è del tutto chiaro sulla base di quale criteri dovrebbe formularsi il giudizio sulla capacità del paziente, maggiorenne o minorenne che sia; l unico dato certo essendo solo che il difetto di capacità del paziente non possa essere desunto unicamente dall apparente irrazionalità della sua decisione (si pensi al rifiuto di un emotrasfusione per motivi religiosi). Comunque sia, anche qui un dato è certo: in relazione ad un paziente giudicato incapace di determinarsi, il fondamento della liceità del trattamento al quale questi debba essere sottoposta andrà evidentemente ricercato altrove che non nel suo consenso informato, che in questo caso non potrà operare. Seconda regola: il consenso del legale rappresentante del paziente incapace Proprio in relazione a quest ultima eventualità, l art. 6 della Convenzione di Oviedo dispone che il trattamento possa essere legittimamente eseguito su pazienti incapaci di prestare un consenso a) ove il trattamento sia compiuto a beneficio del paziente, e b) il trattamento sia autorizzato dal legale rappresentante del paziente medesimo, il quale dunque avrà il compito di prestare il consenso informato in luogo del paziente stesso. Con riferimento ai minorenni, la norma si astiene dal fissare una soglia generale oltre la quale la capacità sia presunta, o viceversa al di sotto della quale sia presunta l assenza di capacità, limitandosi piuttosto a rinviare alla discrezionalità di ciascuno Stato contraente; ma precisa (co. 3) che l opinione 8

9 del minorenne dovrà comunque essere presa in considerazione come un fattore sempre più importante della decisione in relazione al crescere dell età e della maturità del minorenne stesso. Parallelamente, in relazione al paziente maggiorenne ma infermo di mente, il co. 3 stabilisce che questi dovrà per quanto possibile essere coinvolto nella procedura di autorizzazione. Infine, la norma precisa ancora una volta che l autorizzazione concessa dal legale rappresentante può in ogni momento essere revocata. E agevole rilevare come questa disciplina si inserisca senza alcuna frizione nel quadro delle regole già presenti nel nostro ordinamento, così come interpretate dalla giurisprudenza. Il potere di chi esercita la potestà dei genitori o del tutore di assumere decisioni in relazione ai trattamenti medici cui l incapace debba essere sottoposto si evince, infatti, dagli artt. 357 e 424 c.c., nella parte in cui attribuiscono a tali soggetti funzioni di cura della persona dell incapace. Laddove invece il paziente sia assistito da un amministratore di sostegno al quale sia stato specificamente conferito, in base all art. 405 c.c., il compito di assumere decisioni in materia di cura della salute dell assistito, sarà costui a dover concedere l autorizzazione al trattamento medico. Ma anche qui, il corollario della regola è inequivoco: se l autorizzazione del legale rappresentante è normale condizione di liceità di un trattamento compiuto nei confronti di un soggetto incapace, in assenza di tale autorizzazione o addirittura in presenza di un espresso rifiuto del legale rappresentante a fornire tale autorizzazione il trattamento non potrà essere lecitamente eseguito, a meno che non si reperisca un diverso fondamento di legittimità del trattamento medesimo. E ciò vale, si noti, anche nell ipotesi in cui il legale rappresentante abbia revocato un autorizzazione precedentemente concessa: da quel momento in poi, il trattamento abbisognerà di una nuova condizione di legittimazione, in mancanza della quale esso dovrà essere interrotto. Naturalmente, il legale rappresentante non potrà concedere o negare a proprio arbitrio l autorizzazione al trattamento, ma dovrà attenersi al criterio della salvaguardia dell interesse dell incapace (del suo best interest, secondo l espressione inglese corrente, adottata anche dalla Cassazione nella sua sentenza del 2007 sul caso Englaro). Il punto è pacifico tanto a livello 9

10 internazionale (l Explanatory Report alla Convenzione chiarisce in proposito che contro l eventuale rifiuto del legale rappresentante, contrario agli interessi dell incapace, ad autorizzare il trattamento gli Stati contraenti dovranno apprestare appositi rimedi giurisdizionali), tanto a livello interno, dove è sempre previsto il controllo del giudice tutelare sul retto esercizio dei poteri del legale rappresentante dell incapace, nonché la possibilità per il giudice di assumere gli opportuni provvedimenti in caso di condotta del rappresentante pregiudizievole all incapace (artt. 333, 424 e, con riferimento all amministratore di sostegno, 410 co. 2 c.c.). Il che implica in particolare la possibilità per il giudice di concedere egli stesso l autorizzazione al trattamento, allorché il rifiuto da parte del legale rappresentante rischi di pregiudicare gli interessi del paziente. Il nodo maggiormente problematico concerne però la determinazione del concetto di interesse, o di miglior interesse dell incapace: profilo, questo, sul quale la sentenza 16 ottobre 2007 sul caso Englaro della Cassazione segna davvero un passaggio epocale. Un trattamento indicato come appropriato dalla miglior scienza medica in relazione ad una determinata situazione clinica non corrisponde sempre e necessariamente al miglior interesse dell incapace; né addirittura secondo la Corte è necessariamente nell interesse dell incapace il trattamento che ne garantisca la sopravvivenza. Il concetto di interesse dell incapace è, piuttosto, da interpretarsi in chiave soggettiva, con riferimento ai bisogni reali, ai desideri attuali o precedentemente espressi, nonché al mondo ideale del singolo paziente; e compito del legale rappresentante è quello di calarsi nei panni dell incapace, per formare una decisione in merito al trattamento medico che sia il più possibile espressione della sua personalità, non già della voce della scienza medica. Nel caso poi in cui il paziente incapace sia addirittura privo di coscienza come nel caso dello stato vegetativo permanente l interesse del paziente andrà determinato, secondo la Cassazione, con riferimento alle sue manifestazioni di volontà anticipate (delle quali occorre sempre tener conto, ai sensi dell art. 9 della Convenzione di Oviedo, anche in assenza di una disciplina legislativa ad hoc), ovvero alla sua volontà presunta, ricostruita in base alla sua personalità pregressa: ossia in relazione a ciò che il 10

11 paziente medesimo avrebbe verosimilmente desiderato, secondo un apprezzamento condotto al metro delle sue passate manifestazioni di volontà, ma anche del suo mondo di valori, del suo modo di concepire l esistenza, della sua personale concezione della dignità umana. Un simile approccio spiega come la Corte sia potuta pervenire ad una conclusione apparentemente scioccante, come quella di ammettere in linea di principio che il legale rappresentante possa disporre l interruzione delle misure di sostegno vitale praticate alla figlia. Per quanto l effetto di una simile decisione sia la morte del paziente, essa non dovrà per ciò solo essere automaticamente contraria all interesse dell incapace; ma potrà risultare, all opposto, conforme al suo interesse, laddove emerga una volontà presunta della paziente di non essere mantenuta in vita a oltranza senza alcuna speranza di recuperare in futuro la coscienza. Sulla base di tali principi di diritto, come è noto, la Corte d appello di Milano ha successivamente autorizzato il padre di Eluana a disporre l interruzione dell alimentazione e dell idratazione che tenevano in vita la figlia, avendo per l appunto riconosciuto la fondatezza della valutazione del tutore, secondo cui la prosecuzione del sostegno vitale sarebbe stata contraria al miglior interesse soggettivamente inteso della paziente. In queste condizioni, la prosecuzione del trattamento sarebbe dunque risultata priva di legittimazione. Ergo, il trattamento è stato nel caso di specie lecitamente (e anzi, doverosamente) interrotto: con conseguente irrilevanza penale della condotta dei sanitari che hanno dato seguito alla decisione del padre di Eluana, avallata in via preventiva dalla Corte d appello milanese. Terza regola: il trattamento delle infermità psichiche La Convenzione di Oviedo prevede poi, agli artt. 7 e 8, due regole eccezionali che assicurano la legittimità del trattamento medico nonostante l assenza di consenso informato del paziente o del suo legale rappresentante. La prima di queste regole (art. 7) concerne la situazione del paziente affetto da infermità psichiche, per il quale la legge di ciascuno Stato deve prevedere un apposita procedura assistita dagli indispensabili controlli 11

12 giurisdizionali per la somministrazione dei trattamenti specificamente miranti alla cura della sua infermità psichica. Nell ambito dell ordinamento italiano, la relativa procedura è come è noto disciplinata dagli artt. 33 e ss. l. 833/1978, i quali prevedono per l appunto, nel rispetto dei vincoli costituzionali di cui agli artt. 32 co. 2 e 13 Cost., la possibilità di praticare trattamenti sanitari obbligatori finalizzati alla cura delle infermità psichiche, allorché non sia possibile acquisirne il consenso. Quarta regola: le situazioni di emergenza L art. 8 della Convenzione di Oviedo prevede, infine, la possibilità che il medico intervenga a beneficio della salute del paziente in situazioni di emergenza senza il preventivo consenso del paziente medesimo o del suo legale rappresentante ai sensi degli artt. 5 e 6, allorché tale consenso non possa essere ottenuto. Il che si verifica tipicamente in due situazioni: quando il paziente si trovi, anche solo temporaneamente, in stato di incapacità (perché ad es. incosciente), e un legale rappresentante non sia ancora stato nominato; ovvero quando il legale rappresentante, pur se nominato, non sia reperibile con la tempestività necessaria ad evitare un danno alla salute del paziente. In casi siffatti, dunque, la necessità dell intervento costituirà essa stessa la ragione giustificativa del trattamento. La norma si riferisce, dunque, ai casi che tradizionalmente nell ordinamento italiano sono tradizionalmente considerati coperti dallo stato di necessità di cui all art. 54 c.p. E importante però sottolineare, a scanso di equivoci, che la regola eccezionale di cui all art. 8 della Convenzione di Oviedo non potrà essere utilizzata per scavalcare surrettiziamente le garanzie offerte ai diritti fondamentali del paziente dagli artt. 5 e 6, presupponendo essa l impossibilità di applicare tali regole generali nel caso concreto. Conseguentemente, la norma in questione non potrà essere utilizzata per assicurare una patente di legittimità a trattamenti praticati in presenza di un dissenso da parte del paziente capace, ovvero da parte del legale rappresentante del paziente incapace, in nome della salvaguardia della vita o della salute del paziente medesimo. 12

13 La precisazione non può non valere anche con riferimento all ordinamento italiano, dove si dovrà senz altro respingere ogni tentativo di fondare sullo stato di necessità di cui all art. 54 c.p. la legittimità di eventuali trattamenti di sostegno vitale (o comunque di misure invasive del corpo del paziente come l alimentazione e l idratazione artificiale) nonostante il dissenso espresso dal paziente capace o dal suo legale rappresentante, come rispettivamente nei casi Welby ed Englaro. L esecuzione del trattamento, in simili ipotesi, resterà priva di ogni legittimazione; e l eventuale trattamento già in corso dovrà, del tutto conseguentemente, essere interrotto. La patologia del rapporto medico/paziente: le conseguenze sanzionatorie a carico del medico che violi le regole sopra enunciate Così ricostruito il quadro delle regole fondamentali che disciplinano il rapporto medico-paziente, si tratta ora di comprendere se e in che misura la violazione di tali regole possa dar luogo ad una responsabilità penale o civile a carico del medico. Sul piano del diritto penale, il recentissimo intervento delle Sezioni Unite (Cass. 18 dicembre 2008, in questa Rivista, n. 3/2009, p. 303 ss.) ha affermato con riferimento alla situazione del paziente capace che l esecuzione di un trattamento medico in assenza di un suo previo consenso informato non integra alcuna ipotesi di reato a carico del sanitario, salvo il caso in cui il paziente venga addirittura costretto con la forza a subire il trattamento rifiutato (ipotesi nella quale si configurerebbe evidentemente a carico del medico il delitto di violenza privata di cui all art. 610 c.p.). Le Sezioni Unite riconoscono invero espressamente il principio secondo cui condizione di liceità di ogni trattamento quanto meno nei confronti del paziente capace, che è del resto la sola presa in considerazione dalla sentenza è il suo consenso informato, dedicando anzi varie pagine all illustrazione di tale principio; ma ritengono, forse discutibilmente, che l esecuzione del trattamento in assenza di tale condizione di legittimità risulti penalmente irrilevante. 13

14 La conferma della necessità del consenso informato del paziente (capace) al trattamento anche in quest ultimo arresto è peraltro gravida di conseguenze sul piano della possibile responsabilità civile del sanitario. Se l esecuzione di un trattamento in assenza di consenso informato del paziente e più in generale in assenza delle altre condizioni di legittimità sin qui ricostruite costituisce una lesione del suo diritto fondamentale all integrità fisica di cui agli artt. 2, 13 e 32 co. 2 Cost., allora da tale condotta non potrà che scaturire un obbligo risarcitorio da lesione di un diritto fondamentale, produttivo di un danno non patrimoniale ai sensi dell art c.c. Danno non patrimoniale, peraltro, che dovrà essere tenuto accuratamente distinto dal danno alla salute (o biologico ) così come usualmente inteso dalla giurisprudenza civilistica: trattandosi qui di reagire non già al deterioramento della salute del paziente cagionato dal trattamento, bensì al mero fatto dell illegittima interferenza con la sua integrità fisica, e con la sua libertà di autodeterminazione. Interferenza che sussiste anche nell ipotesi in cui il trattamento abbia in concreto prodotto sul piano strettamente clinico un esito favorevole per la salute del paziente. 14

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