I sette fattori dell illuminazione

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1 I sette fattori dell illuminazione di Giuliano Giustarini Copyright Giuliano Giustarini. Tutti i diritti riservati. La pratica di meditazione buddhista può essere vista come un processo di trasformazione interiore il cui scopo è quello di liberare la mente dalla sofferenza. Per liberarsi dalla sofferenza è necessario liberarsi da tutti quei fattori che la alimentano, in primo luogo l ignoranza, l attaccamento e l avversione. In questo senso la pratica appare come un salutare disfarsi di un enorme e pesante fardello, un progressivo lasciare andare le cause del dolore, dell ansia, della preoccupazione. Ma questo spogliarsi degli abiti logori della mente si accompagna a un lavoro di coltivazione, un paziente lavoro volto a portare alla luce le qualità più profonde. Queste qualità sono proprie della mente illuminata ma sono, al contempo, a disposizione di tutti, come i raggi del sole sono propri del sole ma illuminano i nostri volti. Il Buddha, per offrire un orientamento alla pratica interiore, elenca i sette fattori dell illuminazione, che possono essere considerati appunto come raggi di luce che conducono alla loro fonte primaria. In essi troviamo delle precise indicazioni, delle qualità distinte, positive, alle quali è possibile fare riferimento nel corso della pratica di risveglio insegnata dal Buddha. Il primo fattore dell illuminazione è la consapevolezza, o presenza mentale. Si tratta - come è stato visto nei precedenti numeri di Occidente Buddhista - della capacità di vedere le cose direttamente, oltre la nebbia delle contaminazioni mentali. Questa capacità intuitiva va esercitata, rafforzata attraverso un tirocinio che, negli insegnamenti buddhisti, si divide in quattro parti, corrispondenti a quattro diverse aree di applicazione della consapevolezza. La prima di queste aree è costituita dal corpo, la seconda dalle sensazioni, la terza dalla mente e la quarta dai contenuti mentali. In altre parole la consapevolezza abbraccia tutto il campo delle esperienze fisiche e mentali. Esse sono viste nella loro natura cangiante e 1

2 insostanziale, e ciò permette al praticante di lavorare sull attaccamento affinché questo venga progressivamente dissolto. Dunque la consapevolezza non è che l atteggiamento inverso rispetto a quello abituale, un vedere opposto al non vedere, una conversione indispensabile alla vita spirituale : non può aver luogo alcun cammino interiore finché ci si ostina a chiudere gli occhi di fronte alla realtà. Cominciando invece ad osservare i fenomeni che si presentano all esperienza, siano essi fisici o mentali, si inizia anche ad assaporare la libertà dal conflitto, dall attaccamento. Grazie alla pratica di consapevolezza emergono gli altri fattori dell illuminazione i quali, a loro volta, nutrono la consapevolezza, mettendo così in moto un circolo virtuoso che si sostituisce, poco a poco, al circolo vizioso dell ignoranza (o incapacità di vedere), dell attaccamento e dell avversione. Il secondo fattore dell illuminazione è l energia. Essa emerge spontaneamente con l esercizio della consapevolezza, ma richiede, forse ancor più di quest ultima, di essere custodita e indirizzata verso la liberazione, anziché dispersa inutilmente. L energia è perciò uno strumento che, per essere efficace, necessita dello sforzo, ossia della determinazione a essere consapevoli, a non indugiare nelle distrazioni. La tendenza della mente a non vedere, di cui si è poc anzi detto, è di ostacolo alla consapevolezza e ostruisce il libero fluire dell energia spirituale. C è bisogno di uno sforzo gentile ma deciso, paziente e al tempo stesso irremovibile, che riconduca la mente alla consapevolezza ogni volta che ci si accorge di essere soggiogati dalle distrazioni. Per chi potesse vivere cento anni indolente e senza energia, meglio un sol giorno di vita iniziato con ferma energia Dhammapada 112 Il terzo fattore è l indagine, cioè l osservazione attenta e meticolosa dei fenomeni. È necessario infatti non accontentarsi degli insegnamenti, ma sperimentarli personalmente, metterli in pratica nella propria vita quotidiana e approfondire così la propria conoscenza. Ciò implica il coraggio di osservare la propria sofferenza, di fare luce anche sul lato oscuro della vita, per quanto questo ci 2

3 spaventi. Un indagine così coraggiosa può condurre, secondo il maestro americano Jack Kornfield, a un risveglio della saggezza: A volte le più grandi verità vengono apprese proprio dove più fitte sono le tenebre, dove ci si dischiude alle pene e alle paure più profonde 1 Oltre che nel coraggio, l indagine trova sostegno nell interesse: è estremamente utile, ai fini di una autentica conoscenza intuitiva, coltivare un atteggiamento di curiosità verso tutti i fenomeni. La mente che indaga, infatti, non è in cerca di risposte o postulati su cui fondare il proprio discernimento; la mente che indaga è semplicemente una mente che si interroga e non smette di interrogarsi. Non accumula conoscenza, piuttosto, conosce momento per momento. Nello zen, la pratica del koan, ovvero l investigazione su domande apparentemente prive di senso logico, ha proprio lo scopo di risvegliare nella mente la qualità dell indagine e di spogliare questa qualità da ogni intralcio di tipo concettuale. Trovarsi a rispondere a domande come Qual è il suono di una mano sola? riporta la mente a uno stato libero dalla proliferazione e perciò pronto a conoscere. La gioia, o estasi, è uno dei fattori della pratica del Dhamma maggiormente sottovalutati. Spesso, infatti, il lavoro interiore è visto come una sorta di stoica sopportazione : è frequente che il praticante tenda a negare gli aspetti piacevoli della vita, ritenendo che un cammino religioso debba essere estraneo alla bellezza e alla gioia. Quando si riconosce che l attaccamento è causa di sofferenza, si può cadere, magari inconsciamente, nell avversione, che è l altra faccia dell attaccamento. Alla consapevolezza e la contemplazione dei fenomeni si sostituisce una diffidenza, più o meno sottile, verso quei fenomeni e quelle esperienze che esercitano su di noi un potere di attrazione. Ma la Via di mezzo insegnata dal Buddha consiste nel non indugiare nelle sensazioni, da una parte, e non fuggirle, dall altra. Esse vanno semplicemente contemplate. E la gioia, ben lungi dall essere un pericolo che attenta alla vita spirituale, è in realtà un fattore di risveglio, una qualità da coltivare e integrare nel contesto della pratica. Essa, come nota efficacemente un monaco occidentale della tradizione thailandese della foresta, Ajahn Tiradhammo, ci rende aperti alla conoscenza diretta e intuitiva dei fenomeni: 1 J. Kornfield, J. Goldstein, Il cuore della saggezza, Roma 1988, Ubaldini Editore, p. 96 3

4 Quando c è la gioia, allora siamo pronti a scoprire nuove cose, ma se abbiamo già deciso che la vita è sofferenza, non saremo più in grado di osservare 2 Kornfield definisce la gioia una leggerezza del cuore, riferendosi al sapore della pratica stessa, allo stato della mente che diviene via via meno appesantita dall attaccamento 3. Con l approfondirsi del lavoro interiore, infatti, è possibile sperimentare una gioia più autentica di quella già nota, una gioia, cioè, che dipende sempre meno da condizioni contingenti. Questa gioia, diversamente dai piaceri effimeri, non teme l attaccamento, perché è la gioia che proviene dal non attaccamento. Il maestro thailandese Ajahn Mahaboowa la chiama la meraviglia del Dhamma. La consapevolezza, l energia, l indagine e la gioia sono quei fattori dell illuminazione che rappresentano lo slancio della pratica meditativa. Attraverso di essi il praticante si tuffa letteralmente nel cosiddetto viaggio spirituale. Ma perché questo viaggio sia effettivamente una ricerca interiore c è bisogno di un equilibrio, della capacità di rimanere saldi nel sentiero del Dhamma. Ciò è possibile grazie agli altri tre fattori del risveglio. Il primo di questi è la concentrazione. Essa permette alla consapevolezza di focalizzarsi sull esperienza del momento presente, impedisce all energia di disperdersi nella distrazione e nella reattività, all indagine di divenire una mera speculazione e alla gioia di tramutarsi in facili entusiasmi. In altre parole essa è raccoglimento delle potenzialità umane ai fini di una radicale trasformazione. Può essere praticata dirigendo la consapevolezza su un particolare oggetto, come la sensazione del respiro, e mantenendo l attenzione su quest oggetto. È chiaro quindi che essa lavora a stretto contatto con la consapevolezza, di cui può dirsi complementare. Il pericolo in agguato, però, è di identificare la concentrazione con la totalità del lavoro interiore. Essa ne è soltanto una parte, se pur importante, e se non viene sapientemente nutrita con gli altri fattori si trasforma in uno sterile esercizio mentale. Attraverso la concentrazione si possono ottenere dei benefici immediati verso i quali può sorgere 2 AA. VV., Seeing the Way, Amaravati 1989, p J. Kornfield, J. Goldstein, Il cuore della saggezza, cit., p. 97 4

5 attaccamento. In questo modo si perde di vista il beneficio ultimo della pratica, la liberazione dalla sofferenza, o Nirvana. Dunque, affinché la concentrazione non sia un impedimento ma un fattore di risveglio, è necessario che non sia isolata dal contesto del cammino di salvezza. Il sesto fattore è la tranquillità, cioè la capacità di riposarsi nella situazione in cui ci si trova, assaporando la pace di cui il momento presente è permeato. Anche questo può essere visto come un segno della conversione alla ricerca di libertà. Infatti, la tranquillità è un aspetto che contrasta con le abitudini e il pensiero diffusi soprattutto nella società industriale. Come evidenzia l insegnante di meditazione Corrado Pensa, la ricerca di una pace interiore è spesso schernita, sottovalutata. È relativamente facile sentirsi apprezzati dalle persone intorno a noi quando si ottengono buoni risultati nel lavoro, come ad esempio una promozione in ufficio. Ma se raccontiamo a qualcuno di una tranquilla passeggiata nel bosco - nota Corrado Pensa - della gioia e delle intuizioni che da questa passeggiata sono scaturite, saremo probabilmente visti come perditempo. Nella società odierna si concepisce il riposo soltanto ai fini di una maggiore efficienza nel lavoro. Così il tempo libero diviene fuga nelle distrazioni, raramente rifugio in se stessi. La pace viene davvero considerata come un valore? Spesso si sottoscrive la necessità di pace nel mondo, si fanno grosse manifestazioni per la pace, dimenticando però che quella pace si fonda sulla pace interiore. La fine delle guerre può derivare solamente dalla fine del conflitto esistenziale. Bisogna aggiungere poi che la tranquillità, o pace interiore, non è un bene secondario alla pace nel mondo, ma è un valore di per se stesso. Un mistico cristiano del XIII secolo, Meister Eckart, sostiene che anche chi uccide lo fa cercando la pace, soltanto che non sa come trovarla 4. La pace è ciò di cui abbiamo bisogno, ma non ce ne accorgiamo e procediamo in direzione opposta 5. La liberazione definitiva dalla sofferenza, secondo tutte le tradizioni sapienziali, è lo scopo ultimo dell esistenza umana. E la tranquillità, nel suo senso più profondo, è una qualità di questa liberazione. 4 Meister Eckart, La via del distacco, Milano 1995, Mondadori, p Analogamente, Socrate afferma che nessuno fa del male volendolo. 5

6 L ultimo dei sette fattori dell illuminazione è l equanimità, cioè la facoltà di rimanere imperturbati anche nella tempesta dei sentimenti e delle sensazioni. Nella mente equanime l esperienza passa e non lascia impronta. Ciò però non equivale a uno stato di indifferenza. Nell equanimità c è una forte sensibilità, ma una sensibilità depurata dall attaccamento e dall avversione, per cui la mente non reagisce ai contenuti dell esperienza, ma li osserva secondo la loro natura impermanente, insoddisfacente e insostanziale. La confusione tra equanimità e indifferenza nasce dal fatto che, in realtà, conosciamo molto poco l equanimità. Abituati a interpretare la vita in termini di reattività, ci riesce difficile concepire una dimensione estranea alla reattività e, al tempo stesso, partecipe della vita. L equanimità non rifiuta affatto le emozioni ma, toccandole senza attaccamento, non vi rimane invischiata. L equanimità rimane l unico punto di appoggio in situazioni di confronto con la vita. La vita ci sfida, la vita ci ferisce, ma ci ferisce mortalmente soltanto se permettiamo che i fatti, le situazioni, i problemi entrino nel nostro cuore e lo chiudano. Un cuore aperto é pieno di equanimità. L equanimità, l equilibrio psicofisico, sono un espressione di salute, un espressione di grande slancio e di grande amore, di grande felicità nella consapevolezza di ciò che é così com é, bello o brutto Ajahn Thanavaro 6 6 Ajahn Thanavaro, Non creare altra sofferenza, Roma 1994, Ubaldini Editore, p