LO STATO CHE VERRÀ. Di As'ad'Abdal-RAHMAN Membro del Comitato esecutivo dell Olp, Ministro palestinese per i rifugiati

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1 Da: Limes, Guerra Santa in Terra Santa, N. 2, 2002 LO STATO CHE VERRÀ Di As'ad'Abdal-RAHMAN Membro del Comitato esecutivo dell Olp, Ministro palestinese per i rifugiati Confini, caratteri e collocazione internazionale della Palestina che nascerà sui Territori occupati da Israele dopo la guerra del giugno La definizione palestinese della futura capitale, Gerusalemme Est. Il fondamentale rapporto con gli Usa. EL CORSO DELLA STORIA, DAI TEMPI della Bibbia al dominio romano, greco, persiano e ottomano, il territorio di cui parliamo, un tratto di Terra Santa importante per molti, ha sempre preso il nome di Palestina. Ma in questo breve excursus, non vogliamo soffermarci sul passato, bensì partire da esso per prospettare il futuro, senza diventare prigionieri dell'uno né dell'altro. Alla fine della prima guerra mondiale, gli alleati divisero il mondo arabo in territori sotto mandato, e la Palestina venne assegnata alla Gran Bretagna, che promise l'indipendenza e l'autonomia nazionale quando il suo popolo fosse stato «pronto». Ma poco dopo la lobby ebraica entrò in azione, e con la Dichiarazione di Balfour del 1917, gli inglesi promisero una sede nazionale agli ebrei in Palestina, «senza recare pregiudizio ai diritti delle minoranze esistenti», ovverosia alla maggioranza (più del 95%) degli abitanti: i palestinesi. Ebrei d'ogni parte del mondo cominciarono ad affluire in Palestina, creando colonie e kibbutz, ovvero villaggi agricoli comunitari, e poi insediamenti militari (nabàl). Il governo inglese fece di tutto per assicurare loro una «patria», concedendo terre e autonomia amministrativa. Nonostante proteste, dimostrazioni, scioperi generali e scontri armati, l'insediamento degli ebrei continuò, raggiungendo un picco dopo la seconda guerra mondiale. Ciò nondimeno, nel 1948 gli ebrei possedevano soltanto poco meno del 6% delle terre in Palestina. L'Organizzazione sionista mondiale svolse un ruolo chiave nel rafforzare un'identità «nazionale» ebraica che - abbastanza comprensibilmente - entrò in urto diretto con quella della popolazione locale. La nascita dell'identità palestinese Quando vennero espulsi dalle loro case e dalle loro terre, nel 1948-'49, ai palestinesi non restava altro cui aggrapparsi se non la propria identità collettiva, che si è sempre conservata, anche se assopita, dopo la dispersione nei vari campi profughi, all'interno della Palestina stessa (Cisgiordania e Gaza) o in altre parti del mondo arabo, come nella loro diaspora (in Europa, America, Australia, Nuova Zelanda eccetera). Questa catastrofe (al-nakba) li costrinse a cambiare radicalmente il loro modo di vedere se stessi. Anch'essi avevano bisogno di una propria patria. Nel suo libro Palestinian Identity, il professor Rashid Khalidi enuclea vari fattori che hanno prodotto lo «sviluppo di una moderna coscienza nazionale», che è emersa da molte fonti fra cui le pubblicazioni delle varie fazioni aderenti o meno all'olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina), la prima Intifada del 1988 e la firma degli accordi con Israele a partire dalla Dichiarazione di princìpi di

2 Washington del Quest'ultimo evento ha consolidato la coscienza nazionale, soprattutto dopo il riconoscimento internazionale del presidente dell'olp Yasser Arafat e di altri leader e il loro «ritorno» in Cisgiordania e a Gaza. Gli accordi di Oslo hanno affidato alla dirigenza palestinese il controllo di poco più di tre milioni di abitanti nelle zone amministrate dall'autorità nazionale palestinese (Anp), ma gran parte dei territori, specialmente le campagne, sono rimasti sotto la giurisdizione delle autorità di sicurezza israeliane. Col ritorno di alcuni esiliati, sono emerse nuove istituzioni palestinesi, che si sono fuse con strutture preesistenti, dando vita all'anp, un'organizzazione dotata di un potere di controllo sulle popolazioni della Cisgiordania e di Gaza superiore a quello di qualsiasi altra precedente. Nonostante le sofferenze per la tirannica oppressione israeliana, i palestinesi si sono sforzati in tutti i modi di conservare la propria identità e sono riusciti a creare veri e propri ministeri, dell'istruzione, della Sanità, dei Servizi sociali, primi nuclei del più ampio potere esecutivo costituito in seguito dall'anp. Il fatto compiuto della presenza sionista in Palestina Nel suo libro From Refugees to Citizens at Home, il professor Salman Abu Sitta, attraverso un'ampia serie di documenti inglesi, israeliani e internazionali, ha illustrato con mappe il periodo che va dall'approvazione del Piano di spartizione della Palestina nel quadro della risoluzione 181 del Consiglio di sicurezza dell'orni nel 1947 all'inizio dell'invasione sionista, col Piano Dalet (carta 1) verso la fine di marzo del 1948, quando le forze sioniste cominciarono ad occupare villaggi arabo-israeliani vicini per assicurare la continuità del territorio loro assegnato dal Piano di spartizione e ad espandersi oltre quello sotto il loro controllo. Dall'inizio di aprile dello stesso anno sino alla fine del mandato britannico nel maggio del 1948 (carta 2), i sionisti avviarono un'operazione di conquista della Palestina, cominciando a collegare comunità ebraiche sparse lungo la striscia costiera, Marj bin Amer, fino al Giordano a nord del lago di.tiberiade nella forma di un'ampia N. Duecento città e villaggi vennero occupati e gli abitanti espulsi. Lo Stato di Israele venne proclamato, il 14 maggio 1948, senza confini specificati (fino a oggi), sopra l'll% del territorio palestinese, dopo che gli eserciti arabi cercarono di venire in soccorso dei palestinesi. Tutte le successive espansioni (100%), come dimostra la successione delle mappe di Abu Sitta, furono considerate illegali dai paesi che allora riconobbero Israele di fatto. I «nuovi storici» israeliani, come Benny Morris e Bar Elan, hanno rivelato in questi ultimi anni fatti e dati tratti da documenti ufficiali, sionisti e israeliani, inizialmente segreti, che dimostrano la colonizzazione e l'espulsione della popolazione locale nel 1948 da parte delle forze di Israele. È molto difficile prospettare la fisionomia di un futuro Stato dei palestinesi quando l'opera da essi iniziata., nella speranza di portare a termine la loro missione, viene volutamente distrutta dal governo presieduto da Ariel Sharon, mentre il mondo sta a guardare con indifferenza o passa sopra allo smantellamento delle loro infrastrutture e al martirio del nostro popolo come forma di autodifesa. Molto più semplice è invece stabilire i criteri su cui dovrebbe basarsi la costruzione di uno Stato palestinese, insiti nella storica Dichiarazione di indipendenza annunciata dal presidente Yasser Arafat al Consiglio nazionale dell'olp, «unico e solo rappresentante del popolo palestinese», riunito ad Algeri nel novembre del La decisione di proclamare il nuovo Stato (che dovrà sorgere sulla Striscia di Gaza e in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, in conformità alle risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di sicurezza dell'onu) venne presa a larga maggioranza. George Habbash, leader del Fronte di liberazione della Palestina, all'epoca uno dei capi più importanti dell'opposizione, dichiarò che avrebbe rispettato la volontà della maggioranza, anche se pensava che fosse sbagliata, augurandosi di essere smentito alla lunga dai fatti (qualora il nuovo Stato fosse emerso come conseguenza del riconoscimento delle risoluzioni 242 e 338).

3 La leadership palestinese è sempre stata composta da tutti i partiti politici, le organizzazioni, i movimenti e tutti gli altri membri «indipendenti» del Pnc (il supremo parlamento palestinese in esilio). Questa dichiarazione, concepita, formulata e adottata dalla maggioranza dei leader del movimento palestinese, recita così: «Lo Stato della Palestina è lo Stato di tutti i palestinesi dovunque essi siano, affinchè possano godere di una propria identità nazionale e culturale collettiva, in condizioni di completa eguaglianza di diritti. Al suo interno verranno salvaguardate le loro convinzioni politiche e religiose e la loro dignità umana attraverso un sistema di governo democratico parlamentare, basato sulla libertà di espressione e sulla libera formazione di partiti politici». La natura dello Stato La dichiarazione prosegue affermando che i diritti delle minoranze (politiche e/o etniche) in seno al popolo palestinese saranno rispettati dalla maggioranza, così come le decisioni di quest'ultima dovranno essere rispettate dalle minoranze. Fino a qualche tempo fa, ad esempio, Hamas, il braccio politico della Fratellanza musulmana, era un'organizzazione ancora debole che aveva il sostegno del 30% della popolazione poco prima del 1994, sceso poi all'i 1% ed oggi di nuovo salito ad oltre il 40%, nell'atmosfera della seconda Intifada, mentre la Jihad islamica è nata solo verso la fine degli anni Novanta, molto tempo dopo Hamas, sorta negli anni Ottanta. I dieci movimenti raggruppati sotto l'ombrello dell'olp avevano ottenuto forte seguito nei Territori occupati. E sebbene l'olp si fosse costituita a Gerusalemme nel 1964, prima dell'occupazione israeliana del 1967, alcune di queste organizzazioni avevano le loro radici nei partiti politici arabi e palestinesi del passato. Il governo II governo, secondo la Dichiarazione, si baserà sui princìpi della giustizia sociale, dell'eguaglianza, della parità di diritti tra uomini e donne, senza discriminazioni di razza o religione, colore della pelle o sesso, e su una costituzione che garantisca il dominio della legge e l'indipendenza del potere giudiziario. Già in seguito al ritorno della leadership in Cisgiordania e a Gaza, sono stati costituiti non solo un consiglio legislativo, ma anche vari ministeri, uffici pubblici, servizi sociali, istituzioni scolastiche e sanitarie, alcune delle quali preesistenti. Le organizzazioni, soprattutto non governative, che erano già operanti sotto l'occupazione israeliana, hanno potuto espandersi e cominciare a svolgere un ruolo più importante nella società civile. Le donne I diritti delle donne sono stati considerati fondamentali, non solo nella Dichiarazione, ma anche nella prassi. Subito dopo la creazione dell'anp, le donne hanno ottenuto il diritto di voto, sono state elette nel Consiglio legislativo, occupano posizioni ministeriali e altri incarichi amministrativi di alto livello, e soprattutto possono trasmettere la loro nazionalità ai figli di matrimoni misti, un'opzione non concessa in altri paesi arabi. Nell'Olp in generale, e in ciascuna delle organizzazioni che ne fanno parte, le donne - prima degli accordi di Oslo e della costituzione dell'anp - hanno avuto ruoli chiave, in campo politico, sociale e militare. Sono e rimangono membri di comitati esecutivi, uffici politici e altri settori dei loro movimenti. Hanno partecipato inoltre, insieme agli uomini, alla resistenza militare, politica e culturale. Si sono dimostrate forti ed efficienti, soprattutto durante la prima e la seconda Intifada, svolgendo attività di guida, assistenza, protezione, ma sono state anche le più colpite. Hanno perso mariti, figli, fratelli, sostegni di famiglia; hanno assistito alla demolizione delle loro case; hanno perso la vita ai checkpoint dove non veniva permesso loro di raggiungere ospedali in condizioni di grave malattia o in casi di parti difficili; sono state colpite da bombe e proiettili. Non stupisce pertanto se i palestinesi abbiano non solo dato priorità alle questioni femminili, ma abbiano anche considerato le loro donne come eroine della lotta di liberazione nazionale.

4 La Dichiarazione di indipendenza, nel menzionare i diritti delle donne, ha sottolineato la loro importanza centrale per la politica e la società palestinesi: «Rendiamo speciale omaggio alla coraggiosa donna palestinese, custode della vita e della fiamma perenne del nostro popolo». Il loro ruolo nel futuro del nostro Stato è indiscutibile, ma sarà anche preminente. I confini Nella Dichiarazione viene proclamata la convinzione che le dispute regionali e internazionali possono essere risolte con mezzi pacifici, fatto salvo il diritto naturale del nuovo Stato di difendere la sua integrità territoriale e la sua indipendenza. Ma anche la sua integrità politica, economica e sociale. Nonostante la risoluzione 181 dell'onu del 1947, che sanciva la divisione della Palestina in uno Stato arabo ed uno ebraico, i sionisti continuarono ad attaccare i territori arabo-palestinesi, scacciando oltre 250 mila persone, distruggendo città e villaggi, cambiando il nome di altri e costituendo lo Stato di Israele, cui era stato assegnato il 55% della Palestina dalla risoluzione 181, sul 78,5% del territorio. I palestinesi hanno riconosciuto questo dato di fatto, accettando di costituire il loro Stato solo sul 21,5% del territorio storico della Palestina, per amor di pace. In conformità alla risoluzione 242 dell'onu del 1967, che impone agli israeliani di ritirarsi dai Territori occupati durante la guerra del giugno di quell'anno e alla risoluzione 338 del 1968, i confini del nuovo Stato palestinese correranno lungo quelli esistenti al 4 giugno 1967 fra la Cisgiordania e Israele, il Giordano a est con la Giordania, il deserto del Sinai e Rafah con l'egitto a sud e il Libano meridionale a nord, e Israele a ovest. Questo è il minimo accettabile, giacché la risoluzione non tiene in considerazione gli altri diritti legittimi e inalienabili del popolo palestinese. All'epoca, sorse una disputa circa la traduzione dal testo originale francese per stabilire se l'espressione corretta fosse «territori» o «tenitori occupati». Gli israeliani insistono sulla prima, poiché consente di negoziare sulle linee di divisione in conformità alle loro esigenze di «sicurezza». Gli arabi invece insistono sul ritiro entro i confini antecedenti la guerra dei Sei giorni, ovvero quelli del 4 giugno 1967 con i paesi arabi. Questo, lo ripetiamo, è il minimo che possiamo accettare, tenuto conto che il 21,5% dell'intero territorio è molto meno del 45% previsto dal Piano di spartizione del '47. È bene osservare che non abbiamo menzionato le risoluzioni precedenti e successive del Consiglio di sicurezza, che nel Piano di spartizione fra uno Stato arabo e uno Stato ebraico assegnava a quest'ultimo solo il 55% del territorio storico della Palestina. Il popolo palestinese e i suoi dirigenti hanno fatto concessioni, con «decisioni dolorose», accettando i confini del 4 giugno '67 in conformità alle risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di sicurezza nella storica Dichiarazione di indipendenza e in seguito, negli Accordi di Oslo del 1993, riconoscendo a Israele il possesso del 78,5% del paese, anche se gli ebrei originariamente possedevano in realtà solo meno del 6% delle terre. Ma anche questo sacrificio era troppo poco per le forze politiche e militari israeliane. Nel 1967, esse hanno occupato l'intero territorio palestinese, annettendosi la Cisgiordania e Gaza. Poi hanno cominciato a impiantare colonie, singole e a gruppi, dovunque, tentando di creare uno status quo che pretendevano fosse immodificabile. Il presidente Arafat, nel suo articolo «The Palestinian Vision of Peace», pubblicato sul New York Times del 3 febbraio scorso, ha ripetuto che si tratta di creare «uno Stato indipendente e autosufficiente sui territori occupati nel 1967, che viva con pari dignità accanto a Israele garantendo la pace e la sicurezza ai due popoli». Ciò richiede l'attuazione delle risoluzioni 242 e 338 dell'onu, col riconoscimento palestinese del diritto di Israele ad esistere sul 78,5% del territorio storico della Palestina, con l'intesa che ai palestinesi sarà consentito di vivere in pace sul restante 21,5%, rimasto sotto l'occupazione israeliana dal Nonostante i tentativi di Israele nelle varie fasi del negoziato - a Wye Plantation, a Camp David e a Taba - di ridurre la parte che ci spetta attraverso lo scambio di

5 alcuni territori, la dirigenza palestinese e la maggioranza del nostro popolo restano ferme al principio dello scambio del territorio contro la pace in conformità al diritto internazionale. I rapporti interstatali La Palestina sarà uno Stato arabo, parte integrale e indivisibile del mondo arabo, membro leale della Lega degli Stati arabi, rispettosa dei princìpi delle Nazioni Unite e della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, così come di quelli del Movimento dei non-allineati. Un'importanza centrale rivestono i rapporti con l'area denominata «Bilàd al-sham», termine storicamente usato per designare i tenitori arabi mediterranei che un tempo formavano un'unica entità sotto i successivi domini di Roma e Bisanzio e poi per secoli dell'impero ottomano, quando la Siria meridionale e il Libano erano fuse con il Nord della Palestina, con villaggi che erano e sono ancora misti. Ne consegue che la politica di qualsiasi dirigenza palestinese sarà quella di mantenere ottime relazioni con i nostri diretti vicini arabi - Giordania, Siria, Libano, Egitto -come pure con altri paesi dello stesso ceppo etnico più distanti dai nostri confini, la cui importanza non può essere trascurata. La cooperazione e il coordinamento con essi sarà il principio cardine della nostra politica estera. Sarà infatti molto difficile non intrecciare relazioni con gli arabi basate su legami di parentela, matrimoni misti, interdipendenze economiche e politiche. La fusione fra la Cisgiordania e il regno hascemita di Giordania ha creato i legami più stretti in queste sfere, ed è questo il motivo per il quale il Consiglio nazionale palestinese li ha ripetutamente descritti nelle sue assemblee come «speciali e particolari». Con la Giordania, ad esempio, sarebbe difficile in qualsiasi caso separare i «fratelli gemelli», dopo anni in cui la Cisgiordania è stata parte integrante del regno hascemita, e con poco meno di 3 milioni di cittadini giordani di origine palestinese (di cui circa 1 milione e mezzo registrati come profughi) che vivono sulla sponda orientale. Quanto all'egitto, sono esistiti rapporti fin dall'epoca dell'impero ottomano, con Gaza come porta d'accesso alla Palestina e ad altri paesi arabi. L'Egitto ha governato la Striscia di Gaza fino all'occupazione israeliana nel Se definiamo la Giordania come il polmone attraverso il quale respira la sponda occidentale, l'egitto è l'altro polmone che permette a Gaza di respirare. Migliala di palestinesi hanno studiato in Egitto, sposato egiziani e intrattenuto scambi commerciali con questo paese. Le leggi che governano Gaza sono ancora in parte leggi egiziane e quelle che governano la Cisgiordania sono leggi giordane. Vengono poi i rapporti col Libano e con la Siria, le cui popolazioni (fra le quali vive poco meno di un milione di profughi) hanno avuto, nei secoli, rapporti con la Palestina nel campo del turismo, del commercio e dell'agricoltura, con molti libanesi e siriani proprietari di ampie estensioni in Terra Santa. Ma oltre alla vicinanza geografica, gli arabi, dall'atlantico al Golfo, si considerano una sola «nazione» in virtù dell'unità di lingua, storia, cultura e religione. La Lega degli Stati arabi, con le sue varie istituzioni, rafforza inoltre i legami fra i paesi membri nella sfera politica, economica e sociale. L'occupazione lavorativa di quasi la metà dei palestinesi continuerà a dipendere dai paesi arabi vicini e lontani. Rapporti con Israele Dopo l'instaurazione di una pace completa, non solo con i palestinesi, ma con tutti gli Stati arabi (come ha auspicato il principe 'Abdullah di Arabia Saudita in cambio di un ritiro totale da tutti i territori arabi occupati nel 1967), sarà impossibile non stabilire stretti rapporti con Israele. Persino in questa fase turbolenta, la Cisgiordania e Gaza sono i due secondi mercati più importanti di Israele, che da attualmente lavoro a oltre 200 mila palestinesi e dipende fortemente da questa manodopera. Né possiamo dimenticare il milione di arabi palestinesi, oggi cittadini

6 israeliani, che vivono all'interno della cosiddetta Linea Verde, ovvero dello Stato di Israele. In un clima di pace, questi ultimi potrebbero rappresentare un ulteriore ponte importante per creare più stretti rapporti con Israele. Consolidata la pace, inoltre, ben pochi insediamenti israeliani (che sono in realtà grandi centri urbani) rimarranno in Cisgiordania e i rapporti di buon vicinato saranno di primaria importanza. Fonti attendibili sostengono che tale questione è stata oggetto di una «intesa» fra israeliani e palestinesi nei negoziati di Taba del gennaio 2000, sulla base del principio dello scambio dei tenitori contro la pace. Va inoltre sottolineato che molti autorevoli dirigenti palestinesi e ampi settori della popolazione auspicano che con l'avvento della pace non vi sarà in realtà alcun bisogno di un esercito palestinese, che sarebbe un'impresa costosa, un fardello economico e una fonte «tradizionale» di colpi di Stato come in molti altri paesi del Terzo Mondo e quindi uno svantaggio politico per la Palestina e l'intera regione. È stato inoltre dimostrato che in molti paesi i grandi eserciti e le loro «interferenze» sono la fonte principale di violazione dei diritti umani. Rapporti con gli altri paesi I rapporti tra il futuro Stato palestinese e altri paesi della regione, quali la Turchia e l'iran, sono altrettanto essenziali, dal punto di vista culturale ed economico, di quelli con i paesi arabi e con Israele. I rapporti con l'europa (senza dimenticare il mandato britannico e quello francese in Palestina, Siria e Libano) hanno un ruolo centrale, a causa dei legami storici e attuali basati sulla vicinanza, gli scambi commerciali e culturali e l'attuale riconoscimento entusiastico da parte europea della necessità di uno Stato palestinese indipendente. L'Europa ha mostrato comprensione e ampio sostegno politico ed economico alla causa palestinese di recente, creando un legame speciale con la Palestina di oggi e di domani. Non va dimenticato che il premier britannico Tony Blair ha proclamato la necessità di creare uno Stato palestinese indipendente ed autosufficiente per raggiungere la pace. Lo ha ripetuto in ogni tappa del suo recente viaggio nei paesi arabi. Inoltre, la regione mediterranea in particolare riveste un'estrema importanza in questi settori, e ci sta fornendo un ampio sostegno, altamente apprezzato in questa fase. Dal 1988, vi è stata una «rivoluzione» nei rapporti tra i palestinesi e gli Stati Uniti, iniziata con il Piano di pace di Reagan e del segretario di Stato George Schultz, proseguita poi da George Bush senior che avviò il processo di pace di Madrid, quando l'america è divenuta uno dei due, poi l'unico, sponsor di tale processo che stava molto a cuore anche a Bill Clinton; ed oggi George Bush junior, che ha approvato l'idea di Colin Powell di uno Stato palestinese che viva in pace e nella sicurezza accanto a Israele, ha riacceso la speranza che i rapporti con gli Stati Uniti miglioreranno ulteriormente. Ciò è vero soprattutto dopo la loro recente approvazione della risoluzione 1397 del Consiglio di sicurezza dell'onu, che auspica la nascita della Palestina. La successiva visita nella regione del vicepresidente Dick Cheney, che ha ribadito la necessità dell'instaurazione di uno Stato palestinese e dello scambio dei territori contro la pace, sulla base delle risoluzioni 242 e 338 dell'onu, è un'importante indicazione per il futuro. Né dobbiamo infine dimenticare che in questa fase la via di uscita verso la cessazione della violenza in Palestina è tracciata dal piano di George Tenet (direttore della Cia), mentre la premessa alla soluzione politica è rappresentata dal piano di George Mitchell (ex senatore Usa). Nel bene o nel male (secondo i punti di vista) le chiavi della pace sono ora quasi totalmente nelle mani degli Stati Uniti. L'impegno per la pace II presidente Arafat, a nome del popolo palestinese e dei suoi leader, continua ad affermare il suo impegno per la pace, per l'indipendenza in un clima di piena distensione e di stretta cooperazione con Israele, per la completa sovranità della

7 Palestina, col suo corollario di inalienabili diritti naturali al controllo dello spazio aereo, delle risorse idriche e dei confini palestinesi, per lo sviluppo di un'economia autonoma, basata sulla libertà di circolazione e su liberi scambi commerciali con i paesi vicini. Quest'ultimo diritto sovrano è stato negato da Israele al popolo palestinese per più di un anno e mezzo, confinando dapprima Arafat a Ramallah e blindando poi la Cisgiordania e Gaza. Il presidente dell'anp si è opposto a tutto questo sottolineando che il passo decisivo è quello di togliere prima l'assedio al popolo palestinese che dura da un anno e mezzo. I profughi palestinesi I dirigenti palestinesi insistono su una «giusta soluzione» del problema dei profughi, che dura da 54 anni, in conformità alle risoluzioni 242 e 338, che per molti aspetti sono meno restrittive della risoluzione 194, che sanciva il loro pieno diritto al ritorno, sia che alcuni lo volessero o no. Secondo molte ricerche, il ritorno, anche di tutti i profughi, il cui numero dal 1948 a oggi è cresciuto dagli iniziali 750 mila a circa 5 milioni, non influenzerebbe la demografia di Israele, poiché gli ebrei conserverebbero le loro originarie concentrazioni demografiche. E, fatta eccezione per alcuni kibbutz, le terre possedute dagli arabi palestinesi rimangono vuote. Molti dirigenti politici palestinesi non fanno più un dogma di tale questione, come ha dichiarato lo stesso Arafat nel suo citato articolo sul New York Times: «I palestinesi sono pronti a far cessare il conflitto (...) a negoziare per la loro libertà, per porre fine all'occupazione, per la sicurezza di Israele e per la ricerca di nuove soluzioni al problema dei profughi, nel rispetto delle preoccupazioni demografiche di Israele». Ma il governo di Gerusalemme continua ad attribuire ai palestinesi la responsabilità del mancato raggiungimento della pace, sottolineando il loro rifiuto dell'offerta dell'ex premier Ehud Barak di circa il 97% dei tenitori della Cisgiordania e di Gaza a Camp David! La verità è che questa proposta non è mai stata fatta. Come dimostrano numerosi documenti ed articoli americani, israeliani ed arabi, è stato offerto molto meno, nella migliore delle ipotesi il 74% del territorio, con molte restrizioni specialmente riguardo alle questioni di Gerusalemme, dei profughi e degli insediamenti. Ma i successivi negoziati di Taba, documentati dall'inviato dell'unione Europea per la pace in Medio Oriente Miguel Moratinos (così come da Yossi Beilin e da altri ministri israeliani) dimostrano l'esistenza di una divaricazione crescente fra israeliani e palestinesi. È stato il governo Barak che ha preferito affidare la risoluzione del contenzioso al nuovo governo che sarebbe emerso dalle elezioni, vinte dal falco Ariel Sharon. Il documento Moratinos sostiene che le due parti avevano concordato, nei negoziati di Taba, che in conformità alla risoluzione 242 dell'onu, le frontiere del 4 giugno 1967 sarebbero state la base della trattativa fra israeliani e palestinesi. Entrambe le parti accettarono l'indicazione di Clinton di una sovranità palestinese sui quartieri arabi di Gerusalemme e di una sovranità israeliana su quelli ebraici, favorendo entrambi la creazione di una città aperta, dopo aver assicurato la continuità e la contiguità. Gli israeliani accettarono che Gerusalemme Est (al-quds, secondo il suo nome arabo) sarebbe stata la capitale della Palestina e Yerushalaim (secondo il nome ebraico) o Gerusalemme Ovest lo sarebbe stata di Israele. I palestinesi espressero soltanto la preoccupazione che venisse garantito il diritto di Gerusalemme Est ad essere la capitale della Palestina: intendendo per Gerusalemme Est ciò che rimaneva di essa dopo l'occupazione del 1967 ovvero la Città Vecchia all'interno delle mura, ad eccezione del Muro del Pianto, del quartiere ebraico ed eventualmente di quello armeno, e fuori le mura: via Salah al-din, Shaykh Jarrah, a nord, fino a Shufat, Bayt Hanina (sobborghi di Gerusalemme), Qalandiya, Ramallah, Latrun (zona questa controversa); a est: Ra's al- 'Amud, Abu Dis, 'Azariya (in ebraico, Betania); a nord-est: Anata, 'Issawiya; a sud, la circonvallazione verso Betlemme. Con la raccomandazione informale di porre al-haram al-sharif (luogo sacro per tutti i musulmani del mondo), che la maggioranza degli ebrei insiste a chiamare Spianata del Tempio, sotto la sovranità internazionale, durante un periodo in cui i

8 palestinesi ne sarebbero guardiani e custodi, al termine del quale entrambe le parti avrebbero concordato una nuova soluzione o un'estensione degli accordi raggiunti. Quanto al problema dei profughi, centrale per tutti e due i contendenti, si giunse all'intesa di ricercare una soluzione giusta e globale per creare una «pace equa e duratura». Questo principio fu accettato di comune accordo, nella convinzione che «una giusta soluzione della questione dei profughi» in conformità alla risoluzione 242 dell'orni avrebbe portato necessariamente all'attuazione della risoluzione 194 precedente (con le concessioni già fatte da Yasser Arafat nella dichiarazione sopra menzionata). Quanto agli insediamenti, restava un disaccordo, soprattutto perché i palestinesi non intendevano accettare di vivere in «blocchi» occupati all'80% da «coloni». Entrambe le parti accettarono tuttavia il principio dello scambio di territori. Altri punti in discussione riguardavano i passaggi sicuri, le mappe presentate, ma, come abbiamo già detto, nulla è derivato da questo semiaccordo a causa del rinvio, da parte di Israele, di qualsiasi decisione all'indomani delle elezioni politiche del 2000 che hanno portato al potere Ariel Sharon, il cui governo si è dimostrato il più contrario alla pace di tutta la storia di Israele e ha respinto tutte le formule ragionevoli di compromesso, compresi gli Accordi di Oslo. (traduzione di Mario Baccianini)

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