Il colore e il lessico dei colori. Aspetti psicofisici, cognitivi e linguistici.

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1 Università degli Studi di Verona FACOLTÀ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE Corso di Laurea Specialistica in Linguistica Tesi di laurea magistrale Il colore e il lessico dei colori. Aspetti psicofisici, cognitivi e linguistici. Relatore: Prof.ssa Gloria Menegaz Candidato: Veronica Valdegamberi Matricola VR Anno Accademico

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3 I do not know what I may appear to the world, but to myself I seem to have been only like a boy playing on the sea-shore, and diverting myself in now and then finding a smoother pebble or a prettier shell than ordinary, whilst the great ocean of truth lay all undiscovered before me. I. Newton 2

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5 INDICE Introduzione 7 I Color Vision 11 1 La luce 15 2 Il sistema visivo umano La struttura dell occhio I neuroni La retina e la teoria tricromatica La teoria dei processi opposti Le vie ottiche centrali Organizzazione dei neuroni lungo le vie ottiche Conclusioni La percezione del colore Cos è il colore Meccanismi della visione a colori Fenomeni visivi di basso livello Fenomeni visivi di alto livello Meccanismi visivi di ordine superiore Colorimetria Spazi colore, modelli colore, sistemi colore

6 4.2 Grandezze radiometriche e fotometriche Efficienza luminosa Color matching functions Il triangolo cromatico Gli spazi colore Gli spazi colorimetrici Gli spazi device-oriented Gli spazi user-oriented I sistemi colore Il sistema Munsell Il Sistema Naturale dei Colori (Natural Colour System) Il sistema OSA-UCS II Color Naming 77 5 Lineamenti di una storia degli studi attraverso due secoli Introduzione Ottocento Novecento Conclusioni Le posizioni universaliste Introduzione Berlin e Kay: Basic color terms: their universality and evolution Critiche al lavoro di Berlin e Kay Il World Color Survey Modifiche alla teoria di Berlin e Kay Gli studi sulla prototipicità di Eleanor Rosch Studi recenti a favore dell universalismo Conclusioni Le posizioni relativiste Introduzione La percezione categorica Lo studio delle lingue berinmo e himba Lo studio sull acquisizione dei termini himba Altre tematiche relative al lessico dei colori Introduzione L acquisizione dei termini di colore nei bambini I modificatori La Lens brunescence hyphothesis Un dodicesimo colore basico? Il caso del russo Il caso dell ungherese

7 8.5.3 Il caso di altre lingue Casi di regressione nei sistemi di colore: un caso italiano Il contatto tra lingue nei lessici di colore Le differenze di genere nell ambito del colore Conclusioni I dizionari di colore Introduzione Il sistema ISCC-NBS Il sistema CNS Il sistema CNM Il modello proposto da Mojsilović Il sistema X Il sistema Hollasch Il sistema Resene Il sistema Crayola Dizionari nati da esperimenti sul web: il sistema CNE Conclusioni Esperimenti nell ambito del lessico dei colori Due esperimenti di color naming a confronto Esperimento di color listing Descrizione obiettivi Metodo Risultati Influenza dei dati personali sul numero di colori forniti Conclusioni Conclusioni 201 Bibliografia 204 5

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9 Introduzione ll colore è un fenomeno che da sempre ha suscitato l interesse e l attenzione di un grande numero di discipline molto eterogenee tra loro, che lo affrontano sotto aspetti e con metodologie diverse. Il colore di una luce o di un corpo non è una proprietà intrinseca di quella luce o di quel corpo, ma è un aspetto che il nostro sistema visivo attribuisce loro: una fiamma non è gialla, una foglia non è verde, ma noi vediamo gialla la fiamma e verde la foglia. Il colore che noi attribuiamo alla luce o agli oggetti è il risultato di un processo complesso che inizia nei nostri occhi per azione di radiazioni di opportuna lunghezza d onda che gli oggetti osservati ci riflettono, successivamente l elaborazione di questa informazione continua nel cervello. La nozione di colore può quindi essere analizzata sotto tre punti di vista: fisico, in riferimento alla radiazione elettromagnetica che colpisce l occhio, psicofisico in riferimento a ciò che l occhio riceve, cognitivo in riferimento alla percezione cromatica che ne deriva. Dal punto di vista fisico non si può dare una definizione alla parola colore: il colore infatti non esiste che per gli occhi. Da questo punto di vista esistono solo le radiazioni che realizzano ciò che si chiama spettro elettromagnetico e il colore rappresenta solamente un punto di questo spettro che è suscettibile di stimolare elettivamente i recettori del nostro occhio. Dal punto di vista psicofisico il colore è quella caratteristica della luce che ci permette, ad esempio, di distinguere l uno dall altro due oggetti con la stessa forma, grandezza e struttura. Dal punto di vista cognitivo, ogni sensazione luminosa può essere caratterizzata da tre variabili, quali tinta, luminosità e saturazione. Una volta percepito il colore, si profila il problema di come comunicare questa sensazione soggettiva. Questa comunicazione può avvenire linguisticamente, attraverso il linguaggio 7

10 umano, oppure si può tentare di formalizzare la nozione di colore in modo da renderla comprensibile anche da parte di un calcolatore. Da questa breve introduzione sono già emerse diverse discipline che studiano il colore: la fisica per tutto ciò che avviene all esterno del sistema visivo; la fisiologia per quanto riguarda il funzionamento dell occhio e la generazione, elaborazione, codifica e trasmissione dei segnali nervosi dalla retina al cervello; le neuroscienze e la psicologia per quanto riguarda l interpretazione dei segnali nervosi e la percezione del colore; la psicofisica per quanto riguarda la relazione tra lo stimolo e la risposta del sistema visivo; l etnolinguistica e la psicolinguistica che studiano l esistenza di un continuum che ogni lingua divide in segmenti diversi, l evoluzione verso sistemi di denominazione sempre più complessi e differenziati; la matematica e l informatica, necessarie per lo sviluppo di modelli formali rappresentativi della visione del colore. Mentre le discipline sopra elencate sono necessarie per comprendere il fenomeno del colore, altre lo studiano o se ne avvalgono, senza però essere necessarie alla sua comprensione. Ad esempio, il colore può avere effetti psicologici non trascurabili, può avere un ruolo nelle convenzioni socio-culturali, per esempio nell abbigliamento e nelle comunicazioni visive, ed è una delle componenti più importanti delle arti figurative, ed in particolare della pittura. In biologia ci si interessa al colore del mondo vivente, in mineralogia al colore del mondo i- norganico dove il colore, ad esempio, è utilizzato come caratteristica distintiva dei minerali. Ancora, fattori genetici possono influire sulla maggiore o minore ricchezza di sensazioni cromatiche percepibili da un soggetto. Un argomento dunque di grande complessità, quello del colore, con implicazioni in tanti diversi campi delle nostre conoscenze e della nostra vita. Per comprendere i molti aspetti del colore dobbiamo quindi compiere un viaggio attraverso molte discipline. Nonostante queste possano sembrare così distanti, uno degli obiettivi di questa tesi è quello di far emergere come le varie idee e le varie metodologie tipiche di queste convergano, traendo beneficio l una dall altra, e mostrare come queste discipline siano indispensabili l una all altra in modo da non rendere possibile la comprensione del fenomeno colore senza una stretta collaborazione tra di esse. L approccio che si è seguito è stato quindi quello della multidisciplinarità. Questa tesi di laurea è organizzata come segue. Nella prima parte si è seguito il percorso che la luce compie fino a diventare percezione cromatica, partendo dal fenomeno fisico di onda che viene recepita dall occhio umano e trasformata ed elaborata da una serie di strutture che la trasmettono fino al cervello, dove si traduce in percezione. In seguito si è fornita un ampia panoramica degli esperimenti psicofisici volti a cercare di formalizzare il concetto altamente soggettivo di colore, che hanno portato alla nascita di spazi colore standard attraverso i quali il colore può essere misurato. Abbiamo quindi presentato la disciplina che si occupa di questo, la colorimetria, mostrando vari sistemi di misurazione esistenti. Non essendo possibile misurare il colore in modo esatto è necessario approssimarne la misurazione; questo è il motivo per cui esistono molti spazi colore, ognuno dei quali 8

11 presenta una serie di pregi e difetti. La seconda parte della tesi riguarda invece la tematica del color naming. Con questo termine ci si riferisce all attribuzione di termini a percezioni cromatiche, ovvero all attribuzione di etichette linguistiche ad esperienze sensoriali soggettive. Le discipline elette che si occupano di questo sono la linguistica e la psicolinguistica, ma anche l antropologia, la psicologia e le scienze sociali trovano applicazione in questo campo. Storicamente, si sono delineate due posizioni filosofiche che presentano punti di vista diversi riguardo al rapporto tra linguaggio e pensiero. Mentre l universalismo sostiene che per dote innata ragioniamo tutti allo stesso modo e che le differenze linguistiche esistenti non intacchino la sostanziale universalità degli esseri umani, il relativismo nega l innatismo delle categorie mentali, sostenendo che la conoscenza si acquisisca attraverso l esperienza. Esperienze diverse porteranno a modi diversi di pensare. Questi due approcci hanno trovato larga applicazione anche in linguistica, e uno dei domini all interno dei quali si è cercata una risposta alla questione è stato quello del lessico cromatico. Si presenteranno poi altre tematiche relative allo studio nell ambito del color naming, prevalentemente con lo scopo di mostrare l ampio respiro e la multidisciplinarità di cui questo gode. La tesi si conclude con una panoramica dei dizionari di colore, volti a discretizzare uno spazio colore utilizzando etichette linguistiche del linguaggio umano. Questi dizionari hanno un duplice scopo, quello di far capire univocamente di che colore si sta parlando e quello di essere intuitivi e facilmente ricordabili. Sono stati infine svolti degli esperimenti dai quali sono emersi interessanti aspetti del lessico dei colori in lingua italiana. 9

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13 Parte I Color Vision 11

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15 It would be possible to describe everything scientifically, but it would make no sense; it would be without meaning, as if you described a Beethoven symphony as a variation of wave pressure. A. Einstein 13

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17 CAPITOLO 1 La luce La luce visibile è la porzione dello spettro elettromagnetico visibile all occhio umano. È energia raggiante costituita da onde elettromagnetiche che, colpendo l occhio umano, determinano la sensazione della visione. Nella fisica moderna la luce viene descritta come composta da pacchetti (quanti) del campo elettromagnetico, chiamati fotoni. La natura dell energia luminosa è la stessa di quella delle altre radiazioni elettromagnetiche tra cui le onde radio, i raggi X e le radiazioni gamma. Tutte le radiazioni elettromagnetiche, compresa quindi la luce, si trasmettono in linea retta alla stessa velocità, circa km al secondo. Le principali grandezze che contraddistinguono un onda sono la lunghezza d onda e l ampiezza (figura 1.1), nonostante ciò in fisica vengono calcolate altre importanti quantità derivate utili a comprendere meglio il comportamento di un onda. Si consideri per semplicità un onda piana, l ampiezza a misura la distanza tra il punto più alto raggiunto dall onda (cresta) e la posizione di equilibrio. L unità di misura dell ampiezza è il metro. La lunghezza d onda, che indicheremo con la lettera λ, è la distanza fra i due punti di ampiezza massima (creste) o minima (ventri) di due onde successive. La lunghezza d onda è anche detta periodo spaziale poiché rappresenta ogni quanto, nello spazio, l onda si ripete. L unità di misura della lunghezza d onda è il metro. Un altra quantità caratteristica dell onda è il periodo temporale T, che rappresenta il tempo necessario ad un onda per completare un oscillazione; la sua unità di misura è il secondo. Analogamente a T, il periodo spaziale λ rappresenta ogni 15

18 Figura 1.1: Un onda piana e le principali grandezze ad essa associate. quanto, nel tempo, l onda si ripete. La frequenza f é il numero di oscillazioni che un onda compie in ogni secondo, ovvero il numero di creste dell onda che passano in un secondo. Periodo e frequenza sono legate dalla relazione: f = 1 T In altre parole, frequenza e periodo sono uno il reciproco dell altro. L unità di misura della frequenza è l hertz, che definisce il numero di volte che un onda oscilla in un secondo. La frequenza è legata alla lunghezza d onda anche dalla seguente relazione: f = c λ Il valore di c rappresenta la velocità con cui l onda si propaga. Nello studio dei fenomeni della visione, in condizioni normali, le onde si muovono alla velocità della luce, quindi c = metri al secondo. Data la lunghezza d onda, una grandezza con lo stesso significato fisico è il numero d onda k, legato a λ dalla seguente relazione: k = 2π λ Un ultima quantità (derivata) importante è la frequenza angolare di un onda ω; questa quantità rappresenta la frequenza in termini di radianti al secondo, ed è legata a frequenza e periodo dalla relazione: ω = 2πf = 2π T La lunghezza d onda di alcuni tipi di radiazioni elettromagnetiche (come ad esempio le onde radio) ha un valore molto elevato tanto da essere espressa, usualmente, in metri o in Km. La lunghezza d onda delle radiazioni luminose, invece, è molto ridotta tanto da essere espressa generalmente in nanometri (nm). Il nanometro corrisponde ad un miliardesimo del metro. Le vibrazioni elet- 16

19 Figura 1.2: Le varie tipologie di onde con relativa lunghezza d onda. Le lunghezze d onda percepite dall occhio umano sono ingrandite per apprezzarne il colore percepito. tromagnetiche conosciute si sviluppano su uno spettro continuo (definito come spettro delle radiazioni elettromagnetiche ) che si estende su un ampia gamma di lunghezze d onda (figura 1.2). Le radiazioni visibili per l occhio umano sono comprese in una fascia molto limitata di tale spettro, con una certa variazione da persona a persona, compresa tra le lunghezze d onda di circa 380 nm avvicinandosi agli ultravioletti e 17

20 di circa 740 nm avvicinandosi agli infrarossi. In figura 1.2 è mostrato l intera gamma delle radiazioni elettromagnetiche, dai raggi cosmici alle onde utilizzate per le trasmissioni di potenza e, in corrispondenza dello spettro delle radiazioni visibili, è stato ingrandito l intervallo in modo da apprezzare meglio il legame tra lunghezza d onda (in questo caso misurata in nanometri) e sensazione cromatica che essa provoca. Il fatto che noi riusciamo a percepire sotto forma di luce soltanto una parte così limitata delle radiazioni elettromagnetiche è dovuto alla particolare natura del nostro occhio. Ad esempio è noto come alcuni animali riescano a percepire le radiazioni infrarosse (lunghezza d onda compresa tra 740 nm ed 1 mm) e quelle ultraviolette (lunghezza d onda compresa tra 380 e 100 nm). Una proprietà molto importante dei nostri occhi è la facoltà di distinguere i diversi colori, la capacità cioè di stabilire un confronto fra onde di differente lunghezza dello spettro visibile. Un colore rappresenta la percezione visiva generata dai segnali nervosi che i fotorecettori della retina mandano al cervello quando assorbono radiazioni elettromagnetiche di determinate lunghezze d onda e intensità. Quando l occhio riceve una radiazione la cui lunghezza d onda è, ad esempio, di circa 470 nm noi diciamo di vedere una luce blu, mentre una radiazione di circa 600 nm corrisponde ad una luce di colore arancione. I vari colori fondamentali corrispondenti alle diverse oscillazioni comprese nei limiti sopra indicati (380 nm e 740 nm) sono ben distinguibili nell arcobaleno e sono indicati nell elenco in tabella 1.1. Va tuttavia precisato che i nomi dei colori che essa riporta sono solamente delle etichette che vengono attribuite agli stimoli visivi una volta che questi vengono interpretati dal cervello. Per questo motivo la corrispondenza tra colore e lunghezza d onda deve essere interpretata come qualcosa di indicativo e non codificato. Colore Lunghezza d onda (λ) violetto blu ciano verde giallo arancione rosso Tabella 1.1: Le lunghezze d onda delle radiazioni corrispondenti ai sette colori dell arcobaleno. Quando le varie oscillazioni corrispondenti alle sopraindicate lunghezze d onda colpiscono contemporaneamente l occhio i loro effetti si integrano dando luogo alla cosiddetta luce bianca. La luce bianca non corrisponde dunque ad una determinata lunghezza d onda ma è prodotta dalla fusione delle varie luci colorate che costituiscono lo spettro visibile. Ciò può essere dimostrato grazie al famoso esperimento del prisma che Isaac Newton [1] fece nel Egli fece 18

21 Figura 1.3: Il prisma di Newton scompone la luce bianca nei colori dell arcobaleno. passare un fascio di raggi solari attraverso un prisma di vetro (figura 1.3), e notò come questo si scomponesse nella gamma dei colori dell arcobaleno, ovvero si scindesse nelle sue componenti, non suscettibili di ulteriori suddivisioni, ma complete ed indivisibili. In questo modo definì la luce come insieme di onde elettromagnetiche con lunghezza d onda compresa tra i limiti suddetti, a ognuna delle quali corrisponde una ben precisa componente cromatica. Dato che l indice di rifrazione non è uguale per tutte le lunghezze d onda ed è tanto più elevato quanto minore è la lunghezza d onda stessa, dalla parte opposta del prisma si vedrà emergere una successione di raggi luminosi il cui colore passa dal violetto al rosso. Newton utilizzò poi un secondo prisma per ricombinare nella luce bianca di partenza tutti i colori che erano stati scissi dal primo spettro. Provò anche a ricombinare solo alcune parti dello spettro, bloccando alcuni colori prodotti dal primo prisma. Combinando le due estremità dello spettro (rosso e violetto) in diverse proporzioni, riuscì ad ottenere un nuovo insieme di colori porpora (purple colors) che spaziavano dal rosso al violetto. Questi colori porpora sono noti come colori non spettrali, in quanto non appaiono nello spettro della luce bianca. 19

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23 CAPITOLO 2 Il sistema visivo umano 2.1 La struttura dell occhio Il sistema visivo degli esseri umani è straordinario per la quantità e la qualità delle informazioni che fornisce sul mondo. Con un rapido sguardo esso è in grado di descrivere ubicazione, dimensioni, forma, colore, consistenza, caratteristiche strutturali degli oggetti, oltre alla loro direzione e velocità nel caso siano in movimento. L occhio è l organo esterno della vista. Nella figura 2.1 è possibile osservarne la struttura. Esso consiste nel bulbo oculare, formato da tre membrane: la sclerotica, la coroide e la retina. La sclerotica è la membrana più esterna, bianca e resistente, di natura fibrosa. Anteriormente essa diventa trasparente e lascia entrare la luce formando la cornea. La coroide è la membrana intermedia; è di colore scuro e in corrispondenza della cornea assume vari colori formando, sulla parte anteriore, un piccolo disco: l iride. Esso, grazie alla contrazione e dilatazione della pupilla, il foro che si trova al suo centro, regola la quantità di luce che entra nell occhio, contribuendo in questo modo alla nitidezza delle immagini. La membrana più interna è la retina, il vero recettore, costituita da cellule nervose in grado di ricevere stimoli luminosi. Dietro l iride si trova il cristallino, una vera e propria lente. Esso proietta le immagini sulla retina, rimpicciolite e capovolte. È in grado di autoregolarsi grazie a un particolare sistema di muscoli 21

24 e legamenti attraverso i quali modifica la curvatura e consente di mettere a fuoco nitidamente oggetti collocati a distanze diverse dall osservatore. Al fine di adattare il potere risolutivo del sistema ottico alla distanza dall oggetto osservato, il cristallino diventa relativamente sottile e tende ad appiattirsi nel caso di visione di oggetti distanti, in caso di visione da vicino invece diventa più spesso e assume una forma più arrotondata. Tra la cornea e l iride e tra l iride e il cristallino si trova l umor acqueo, un liquido acquoso e trasparente che rifornisce di sostanze nutritive queste strutture; nell interno del bulbo oculare si trova un altra sostanza gelatinosa e trasparente, chiamata umor vitreo, il cui compito è quello di eliminare eventuali scorie che potrebbero interferire con la trasmissione della luce. Il cosiddetto punto cieco si riferisce all unico punto sul fondo dell occhio umano, un area di 1,5 mm di diametro circa, in cui non si trovano le cellule nervose preposte alle ricezione della luce (fotorecettori) perché in questo punto gli assoni delle cellule gangliari si uniscono a fascio formando il nervo ottico che invia le informazioni relative alla stimolazione della retina. Questa regione della retina, proprio perché non contiene fotorecettori, non è sensibile alla luce, è una zona senza informazioni e dove l immagine non può essere percepita, motivo per cui viene chiamata anche macchia cieca. Tuttavia il cervello riesce a ricostruirla deducendola da ciò che c è intorno attraverso un processo chiamato filling in (riempimento) e grazie alla visione stereoscopica. 2.2 I neuroni I neuroni sono le cellule base di tutto il sistema nervoso. Sono unità fondamentali tutte simili tra loro, pur potendo differire per dimensioni e forma, che generano e trasmettono impulsi elettrici tra di loro. In figura 2.2 è possibile osservare la struttura del neurone. La parte centrale del neurone è costituita dal corpo cellulare in cui risiedono il nucleo e le altre parti deputate alle principali funzioni cellulari. Dal corpo cellulare si dipartono da un lato molti prolungamenti brevi, detti dendriti, che conferiscono al neurone le proprietà di eccitabilità e conducibilità, dall altro un solo prolungamento lungo, l assone, che nell ultimo tratto si ramifica. I dendriti hanno diramazioni simili ad un albero e attraverso questi il neurone riceve il segnale da neuroni afferenti e lo propaga verso il nucleo della cellula. Al polo opposto ha origine l assone, un ottimo conduttore grazie alla sua composizione chimica, che conduce i segnali verso i dendriti di altri neuroni. La parte finale dell assone è un espansione detta bottone terminale. Attraverso i bottoni terminali un assone può prendere contatto con i dendriti o il corpo cellulare di altri neuroni affinché l impulso nervoso si propaghi lungo un circuito neuronale. I punti di congiunzione tra neuroni, attraverso cui comunicano, sono detti sinapsi. Il funzionamento del neurone è molto semplice: attraverso i dendriti il neurone riceve in ingresso segnali dagli assoni di altri neuroni, se questi segnali di ingres- 22

25 Figura 2.1: Anatomia dell occhio umano. Tratto da [2]. so superano una certa soglia questo si eccita e scarica un potenziale elettrico, detto potenziale d azione, attraverso l assone, che fa da input ad altri neuroni. 2.3 La retina e la teoria tricromatica Nonostante la sua posizione periferica, la retina fa parte del sistema nervoso centrale ed essendo una componente di questo sistema è formata da circuiti nervosi complessi che convertono l attività elettrica graduata dei fotorecettori in potenziali d azione che tramite il nervo ottico viaggiano fino all encefalo. Essa è una sottile membrana nervosa che riveste internamente il globo oculare ed è divisa in tre strati, ognuno dei quali è formato da diversi corpi cellulari; le cellule in ognuno di questi strati ricevono informazioni dallo strato precedente e le trasmettono al successivo in maniera sequenziale ed ordinata. Nella retina sono presenti cinque tipi di neuroni: fotorecettori, cellule bipolari, cellule orizzontali, cellule amacrine e cellule gangliari. Lo Strato Nucleare Esterno (SNE), il più profondo e lontano dal cristallino, contiene i fotorecettori; lo Strato Nu- 23

26 Figura 2.2: Il neurone e la sua struttura. cleare Interno (SNI) contiene le cellule bipolari, orizzontali e amacrine; l ultimo strato, quello più vicino al cristallino, è quello in cui si trovano le cellule gangliari. Gli assoni di tutte le cellule gangliari della retina convergono verso il punto cieco, dove si uniscono per formare il nervo ottico, un cavo che conduce l informazione visiva fino al cervello per la successiva elaborazione. Delle cellule contenute nella retina i fotorecettori sono le uniche ad essere sensibili alla luce. Essi si dividono in coni e bastoncelli; nella retina umana ci sono circa 120 milioni di bastoncelli e 6 milioni di coni. Entrambi questi fotorecettori presentano un segmento esterno che contiene un fotopigmento (pigmento visivo, sensibile alla luce) e un segmento interno che contiene il nucleo della cellula e dà origine alle terminazioni sinaptiche che entrano in contatto con le cellule bipolari e con le cellule orizzontali. La struttura dei due tipi di fotorecettori è visibile in figura 2.3. L assorbimento della luce da parte del pigmento fotosensibile presente nel segmento esterno dei fotorecettori dà inizio ad una serie di eventi a catena che modifica il potenziale di membrana del recettore e quindi la quantità di neurotrasmettitore liberato attraverso le sinapsi che collegano i fotorecettori con le cellule con cui essi entrano in contatto. Quando la luce piena colpisce un fotorecettore, questo subisce una iperpolarizzazione della membrana cellulare, al buio il recettore è in stato di depolarizzazione e libera trasmettitore in continuazione. Questa modalità di funzionamento è necessaria in quanto la successiva elaborazione visiva è una relazione sistematica tra le variazioni del livello di luminosità e l attività dei fotorecettori. La componente proteica del fotopigmento, diversa nei coni e nei bastoncelli, determina la specializzazione funzionale di questi due tipi di recettori. Questi si distinguono per la loro forma (figura 2.3), da cui prendono il nome, per 24

27 Figura 2.3: Rappresentazione dei fotorecettori presenti nella retina: a sinistra la struttura dei bastoncelli (A), a destra quella dei coni (B). Tratto da [2]. il tipo di pigmento visivo che contengono, per la loro distribuzione all interno della retina e per le particolarità delle loro connessioni sinaptiche. Il sistema dei coni e quello dei bastoncelli sono specializzati in aspetti differenti della funzione visiva. Il sistema dei bastoncelli permette la visione periferica e in condizioni di scarsa luminosità, è quindi specializzato nell aspetto della sensibilità a discapito del potere di risoluzione spaziale che è molto basso. Essi rendono possibile quella che si definisce visione scotopica (cioè a livelli di illuminazione bassi). Il sistema dei coni permette la visione dei dettagli e la visione cromatica, è caratterizzato da un potere di risoluzione spaziale alto ma è relativamente insensibile alla luce, di conseguenza è specializzato nell aspetto dell acuità visiva a scapito di quello della sensibilità. La visione mediata dai coni è detta visione fotopica. A livelli di illuminazione elevati la reazione alla luce giunge a saturazione nei bastoncelli, il potenziale di membrana in questi ultimi cioè, raggiunto un certo valore, non varia più in funzione dell illuminazione. Infine si ha la visione mesopica, quella a livelli di luce in presenza dei quali svolgono un ruolo sia i coni che i bastoncelli. Da quanto detto risulta chiaro che la vista è mediata prevalentemente dal sistema dei coni e che la perdita della loro funzionalità ha risultati devastanti. Perdere la funzionalità dei bastoncelli significa avere difficoltà visive solo in condizioni di scarsa illuminazione, perdere la funzionalità dei coni porta a cecità totale. Strutturalmente i due tipi di fotorecettori presentano delle differenze. 25

28 I bastoncelli sono più lunghi e contengono fotopigmento in quantità superiore rispetto ai coni, cosa che permette loro di captare più luce. Inoltre i bastoncelli sono in grado di rispondere ad un singolo fotone, sono dunque più sensibili e hanno una maggiore capacità di amplificazione del segnale luminoso. Per attivare un cono invece servono almeno 100 fotoni. Un fattore cruciale è quello della visione cromatica. Tutti i bastoncelli contengono lo stesso fotopigmento (rodopsina), mentre ogni singolo cono contiene uno dei tre diversi fotopigmenti che complessivamente sono contenuti nei coni. Questi tre diversi tipi di pigmenti fotosensibili (opsine) sono caratterizzati da spettri di assorbimento diversi. I tre tipi di coni si distinguono quindi sulla base della loro diversa sensibilità a tre diverse lunghezze d onda dello spettro di luce visibile (che corrispondono all incirca ai colori blu, verde, rosso) e possono rispondere solo nei termini del tipo di impulsi a cui sono specificamente deputati. La mescolanza in proporzioni opportune degli impulsi provenienti dai coni dei tre tipi suddetti porterebbe alla percezione dei colori di tutti gli altri tipi. Questo modello è definito tricromatico. La teoria tricromatica viene chiamata anche teoria di Young-Helmholtz [3, 4], dal nome dei due studiosi che la scoprirono nel corso dell 800. Si dovette a- spettare però circa un secolo per averne la conferma sperimentale grazie alle rilevazioni rese possibili da sofisticate tecniche di microspettrofotometria. Data una lunghezza d onda, tutti i bastoncelli sono ugualmente sensibili a quella lunghezza d onda e quindi consentono solo una visione priva di colori. Variando la lunghezza d onda, la sensibilità dei bastoncelli varia. Ogni cono invece, ha una sua curva di risposta al variare della lunghezza d onda e la combinazione delle tre diverse curve garantisce la copertura di uno spettro luminoso che va da 380 nm a 740 nm circa (lo spettro visivo). I coni del blu, cioè quelli la cui massima sensibilità è per il colore blu (coni S, da short-wavelength sensitive cone) sono più sensibili a lunghezze d onda corte, i coni del verde, sensibili principalmente al colore verde (coni M, da middle-wavelength sensitive cone) sono sensibili a lunghezze d onda intermedie e i coni del rosso, sensibili principalmente alla gamma dei rossi (coni L, da long-wavelength sensitive cone) a lunghezze d onda più elevate. La diversa sensibilità dei coni alle diverse lunghezze d onda è rappresentata in figura 2.4. Sul totale dei coni la distribuzione tra i tre tipi è circa del 60% per i coni L, 30% per i coni M e 10% per i coni S. L attività di ciascuno di questi tre gruppi di coni genera i segnali retinici che in ultima analisi danno origine alla sensazione visiva del colore. La distribuzione di coni e bastoncelli sull intera superficie della retina varia notevolmente. I coni sono gli unici fotorecettori presenti nella fovea (figura 2.5), una fossetta con diametro intorno ai 1-2 mm su cui vengono proiettate le immagini del punto di fissazione nel campo visivo. Questo è il motivo per cui l acuità visiva in questa zona raggiunge il suo massimo. Man mano che ci si allontana da essa il numero dei bastoncelli aumenta. Anche se i coni sono presenti anche all esterno della fovea, la loro minore densità in questa zona, come 26

29 Figura 2.4: Grafico rappresentante la sensibilità dei tre tipi di coni alle diverse lunghezze d onda della luce. pure la minore densità delle cellule gangliari con le quali essi sono legati, spiega il perché della diminuzione di acuità visiva in funzione dell eccentricità. Nelle parti più periferiche quindi non vengono distinti né la forma né il colore degli oggetti, ma quando un oggetto entra nel campo visivo dell occhio, i bastoncelli determinano il movimento istintivo della testa e dell occhio stesso al fine di portare l immagine nella zona centrale della retina, dove si ha la massima capacità di vedere. Al contrario, l assenza dei bastoncelli dalla fovea e la loro presenza massiccia all esterno di essa spiegano perché la soglia per la percezione di uno stimolo luminoso è molto più bassa all esterno della regione della visione centrale. Si riesce a vedere più facilmente un oggetto dai contorni incerti se si evita di guardarlo direttamente, di fissarlo, in modo che esso possa rimanere alla periferia del campo visivo. Un altra differenza tra i due tipi di fotorecettori è il loro grado di convergenza su altri tipi di cellule presenti nella retina. Il sistema dei coni presenta una convergenza bassa, nel centro della fovea è facile che un singolo cono contragga sinapsi con una sola cellula bipolare che a sua volta contrae sinapsi con una sola cellula gangliare. Il sistema dei bastoncelli invece ha una convergenza decisamente alta: molti di essi contraggono sinapsi con una sola cellula bipolare e molte cellule bipolari che ricevono segnali nervosi dai bastoncelli convergono sulla medesima cellula gangliare. Anche se l alta convergenza rende il sistema dei bastoncelli un buon rivelatore di luce, essa provoca allo stesso tempo una diminuzione del potere di risoluzione spaziale, dato che la fonte di un segnale trasmesso potrebbe trovarsi in un punto qualsiasi della retina. Per il motivo op- 27

30 Figura 2.5: Distribuzione di coni e bastoncelli nella retina umana. posto, la bassa convergenza del sistema dei coni è ciò che rende loro la massima acuità visiva. Infine, sono diversi i percorsi attraverso i quali le informazioni trasportate dai due tipi di fotorecettori giungono alle cellule gangliari per essere trasmesse alle strutture visive centrali. Nonostante i rispettivi percorsi siano diversi, le informazioni convogliano sulle stesse cellule gangliari. Queste cellule vennero distinte per la prima volta da Kuffler [5], che studiò la retina dei gatti, in cellule a centro on e cellule a centro off, la cui importanza venne successivamente ulteriormente dimostrata in [6]. Kuffler scoprì che ciascuna cellula gangliare risponde alla stimolazione di una piccola e circoscritta area circolare della retina che delimita il campo recettivo della cellula. I due tipi di cellule scoperte sono presenti in numero pressoché uguale e i loro campi recettivi (insieme dei recettori la cui attività può influenzare l attività del neurone stesso) presentano distribuzioni che si sovrappongono: ogni punto della superficie della retina (quindi ogni parte dello spazio visivo) viene analizzato da molte cellule gangliari di entrambi i tipi. La loro attività comunica tipi diversi di informazioni alle strutture visive centrali; strategia utilizzata per venire a capo della ricchezza di informazioni che la scena visiva contiene. Dirigendo un fascio di luce sul centro del campo recettivo di una cellula gangliare a centro on si registra un improvviso rapido aumento della sua attività elettrica; se si fa lo stesso con una cellula gangliare a centro off la frequenza di scarica degli impulsi diminuisce e la cellula risponde con una scarica di potenziali d azione quando si spegne la luce. Le informazioni sull aumento o la diminuzione del grado di luminosità vengono comunicate al cervello in modo indipendente da questi due tipi di cellule gangliari della retina, che comunicano quindi tipi differenti di informazioni alle strutture visive centrali. Le cellule gangliari sono sensibili alle differenze tra il livello di luce che cade sul centro del loro campo recettivo e il livello di luce che cade sulla periferia del cam- 28

31 po; sono sensibili quindi ai contrasti di luminosità. Esse rispondono in modo più deciso a uno stimolo luminoso puntiforme indirizzato sul centro del campo recettivo o sulla sua periferia, piuttosto che a livelli assoluti di luce (illuminazione uniforme). Ciò che è più importante nel segnale inviato dalla retina al cervello non è tanto il livello di illuminazione di fondo, quanto le caratteristiche salienti dello stimolo visivo, in particolare il suo contrasto con l ambiente circostante. L esistenza di due canali distinti per la trasmissione al cervello delle informazioni relative alla luminosità significa che le variazioni di intensità della luce vengono sempre comunicate da un processo eccitatorio anziché da diminuzioni di attività che, scendendo al di sotto di una soglia di riposo, si incaricherebbero di segnalare una diminuzione del grado di luminosità. Tutto ciò è rappresentato in figura 2.6. Figura 2.6: Risposta delle cellule gangliari a centro on e a centro off alla stimolazione di zone diverse del loro campo recettivo. Lo stimolo luminoso è rappresentato con il colore giallo. 2.4 La teoria dei processi opposti Oggi è generalmente accettato un modello della visione dei colori basato su due stadi, che concorrono entrambi alla determinazione finale del colore percepito: il primo stadio, definito dalla teoria tricromatica (vi sono tre tipi di coni, dalla cui azione combinata dipende la determinazione del colore in base alla lunghezza d onda della radiazione incidente); il secondo stadio, definito dalla teoria dei processi opposti (la visione di un colore dipende dall azione combinata di due canali cromatici, costituiti ciascuno da una coppia di colori complementari antagonisti, più un canale dedicato alla luminosità). 29

32 La teoria del fisiologo tedesco Ewald Hering ( ) sulla visione del colore postula l esistenza di tre coppie opponenti di colori: bianco e nero, rosso e verde, giallo e blu [7, 8]. Questi sei colori sono detti primari psicologici. Hering sosteneva che i recettori retinici erano sì tre (come sostenuto da Helmholtz), ma che ciascuno di essi inviava segnali corrispondenti a coppie di colori antagonisti anziché a singoli colori. Si trattava quindi di tre meccanismi bipolari. Gli studi di Hering indicano che le suddette coppie di sensazioni cromatiche sembrano essere in mutuo antagonismo fra loro da un punto di vista percettivo e che l aggiunta di due tipi di luci in antagonismo tende ad eliminare la percezione cromatica e a produrre la sensazione di bianco, come se gli stati percettivi indotti dai due colori che formano la coppia fossero di segno differente. Se un recettore relativo alla coppia giallo-blu viene stimolato, il messaggio che invierà corrisponderà al giallo, se invece inibito, al blu, e così per le altre coppie. Questa teoria prende il nome di teoria dei processi opposti (o teoria delle coppie di colori antagonisti ) e nacque per spiegare alcuni fenomeni che riguardano la visione del colore, come quelli del contrasto e delle immagini consecutive, che paiono suggerire che per ogni colore esista un colore complementare e che i colori di ogni coppia siano organizzati in modo antagonistico, che non potevano essere spiegate alla luce della teoria di Young-Helmoltz. Questa teoria postula la presenza di tre canali percettivi ad un livello di elaborazione successiva rispetto ai coni (figura 2.7): un canale specializzato nella visione alternativa del giallo e del blu. Quando l eccitazione combinata dei tre tipi di coni produce la visione del blu in una certa zona, è inibita in quella stessa zona la visione del giallo, e viceversa; un canale specializzato nella visione alternativa del rosso e del verde. Quando l eccitazione combinata dei tre tipi di coni produce la visione del rosso in una certa zona, è inibita in quella stessa zona la visione del verde e viceversa; un canale specializzato nella visione della componente di bianco o di nero. Questo canale non è basato su meccanismi antagonisti, come i due precedenti, ma sul presupposto di una uguale stimolazione dei tre tipi di coni: a stimolazioni di bassa intensità corrispondono grigi molto scuri; a stimolazioni della massima intensità corrisponde la visione del bianco. Dopo decenni di roventi dibattiti tra le due fazioni, si arrivò a capire che le due teorie erano entrambe valide, ma andavano applicate a due stadi successivi di elaborazione. Infatti i recettori retinici sarebbero sì sensibili a tre colori (e non coppie), ma i segnali in uscita dai coni vengono organizzati in tre canali separati che codificano le differenze tra bianco e nero, rosso e verde, giallo e blu. A livello cerebrale, in pratica, si ritrovano meccanismi sensibili alle tre coppie di colore previste da Hering. 30

33 Figura 2.7: Illustrazione schematica della teoria dei processi opposti. 2.5 Le vie ottiche centrali Le vie ottiche sono essenzialmente i canali attraverso i quali l immagine registrata dall occhio viene trasmessa al cervello. Con il termine corteccia visiva si intende quell area della corteccia cerebrale deputata esclusivamente all elaborazione delle informazioni sensoriali provenienti dalla retina. In corrispondenza di ciascuna stazione della via ottica principale si trovano singoli neuroni specificamente preposti al compito di estrarre dagli stimoli i diversi tipi di informazioni visive per poi codificare tutte le informazioni ricavate. Man mano che si procede nella via della visione le cellule rispondono a stimoli sempre più complessi. Per comprendere come sono organizzate le vie ottiche è necessario conoscere alcuni concetti sul funzionamento del campo visivo (figura 2.8), cioè quella parte di spazio che ciascun occhio riesce a vedere restando immobile in una determinata posizione. Le informazioni sul mondo esterno arrivano ad entrambi gli occhi con un elevato grado di sovrapposizione. Ci si può render conto di ciò se si prova a chiudere un occhio, ed in tal caso ci si accorge che l ampiezza della visione nel rimanente occhio è limitata principalmente dalla presenza del naso. Immaginiamo di dividere ciascuna retina e corrispondente campo visivo con una linea verticale e una orizzontale che si intersecano al centro della fovea, formando quattro quadranti. La linea verticale divide la retina nel settore nasale (vicino al naso) e in quello temporale (vicino alla tempia), mentre la linea orizzontale la divide in settore superiore e inferiore. Per quanto riguarda lo spazio visivo, due linee corrispondenti, una orizzontale e una verticale, si intersecano in corrispondenza del punto di fissazione e definiscono i quadranti del campo visivo. Il passaggio della luce attraverso gli elementi ottici fa sì che le immagini degli oggetti che si trovano nel campo visivo risultino capovolte e presentino un inversione destra/sinistra sulla superficie della retina. Quindi, nell occhio destro, la retina nasale vede la metà destra del mondo e la retina temporale vede la metà sinistra, per l occhio sinistro vale il contrario. Per entrambi gli occhi la parte 31

34 superiore vede gli oggetti situati nella parte inferiore del campo visivo e viceversa. Bisogna inoltre notare che la retina nasale destra e la retina temporale sinistra vedono praticamente la stessa cosa: tracciando una linea immaginaria a partenza dal naso, esse vedrebbero solamente ciò che si trova a destra della linea. Questa parte del campo visivo è chiamata emicampo destro. Analogamente l emicampo sinistro è la parte del campo visivo vista dalla retina temporale destra e la retina nasale sinistra. Così ogni cosa che vediamo è divisa in una metà destra e in una metà sinistra. Ciascun occhio riceve l informazione da entrambi gli emicampi. In questo modo ogni oggetto osservato viene visto da entrambi gli occhi (e questo è fondamentale per il senso di profondità) ma le immagini cadono sulla retina nasale di uno e sulla retina temporale dell altro. La parte più interna del sistema visivo nasce dagli assoni delle cellule gangliari che escono dalla retina passando per una regione circolare detto disco ottico, dove si uniscono a fascio formando il nervo ottico. In uscita dalla retina i due nervi ottici, unendosi, formano una struttura ad X (chiasma) disposta sopra un importante ghiandola del cervello chiamata ipofisi. All interno del chiasma, parte delle fibre dei nervi ottici si incrociano tra loro: le fibre provenienti dalla parte nasale di ogni nervo ottico passano cioè dal lato opposto, mentre le fibre provenienti dalla parte temporale di ogni nervo ottico rimangono dallo stesso lato. In questo modo ciascun braccio della X chiasmatica è formato dalle fibre temporali di un lato e dalle fibre nasali del lato opposto. La parte posteriore di ogni braccio del chiasma viene chiamata tratto ottico (sinistro e destro) e al suo interno le fibre nervose mantengono la stessa disposizione del chiasma. I tratti ottici terminano a livello di zone del cervello chiamati corpi genicolati laterali; da qui partono le radiazioni visive, ultima parte delle vie ottiche, costituite dalle fibre nervose che si separano a ventaglio e, percorrendo tutto il cervello, arrivano alla corteccia visiva primaria, la parte di cervello localizzata in sede occipitale, cioè a livello della nuca, cui vengono inviate tutti i vari dettagli registrati dalla retina ottenendo così una visione d insieme complessiva. La corteccia visiva primaria è divisa in una metà destra e in una metà sinistra; ciascuna metà è poi ulteriormente suddivisa in una parte inferiore e in una superiore dalla scissura calcarina. Il percorso appena descritto è visibile in figura 2.9. Esistono poi le aree associative visive, direttamente connesse con la corteccia visiva primaria che aggiungono informazioni su un determinato oggetto. In mancanza di queste aree tutto ciò che noi vediamo rimarrebbe semplicemente un immagine priva di senso che non saremmo assolutamente in grado di capire e di mettere in relazione con le altre parti della scena visiva. 32

35 Figura 2.8: Proiezione dei campi visivi sulla retina sinistra e sulla retina destra. A) Proiezione di un immagine sulla superficie della retina. B) I quadranti di ciascuna retina e il loro rapporto con l organizzazione dei campi visivi monoculari e binoculari, come si osservano dalla superficie posteriore degli occhi. C) La proiezione del campo visivo binoculare sulle due retine e il suo rapporto con l incrociarsi delle fibre nel chiasma ottico. 2.6 Organizzazione dei neuroni lungo le vie ottiche Le cellule gangliari della retina proiettano in modo ordinato sul corpo genicolato laterale secondo una rappresentazione topologicamente organizzata in relazione alla retina, ovvero al campo visivo: informazioni provenienti da regioni adiacenti nella retina proiettano su regioni adiacenti del corpo genicolato laterale. I neuroni di quest ultimo, a propria volta, conservano questa organizzazione topografica anche nelle loro proiezioni alla corteccia visiva primaria. Le strutture visive centrali, pertanto, rivelano una rappresentazione ordinata dello spazio vi- 33

36 Figura 2.9: Le vie ottiche centrali viste da una sezione del cervello. sivo. In precedenza avevamo visto che una prima divisione delle cellule gangliari può essere effettata in base alla modalità di risposta agli stimoli luminosi. Esistono infatti cellule a centro on e a centro off. Questa non è l unica cosa che le differenzia. In realtà esistono diverse popolazioni funzionalmente distinte di cellule gangliari, e ognuna di queste popolazioni si divide a sua volta nei sottotipi a centro on e a centro off. Una distinzione importante è quella tra cellule gangliari M e cellule gangliari P, le prime hanno corpi cellulari più voluminosi e hanno un campo recettivo più grande; inoltre i loro assoni hanno una più elevata velocità di conduzione degli impulsi nervosi. Alla presentazione di stimoli visivi le cellule M rispondono con un attività transitoria mentre le cellule P rispondono in maniera prolungata, inoltre queste ultime sono in grado di trasmettere informazioni riguardo ai colori in quanto il centro e la periferia del loro campo recettivo vengono attivati da classi diverse di coni (da quelle sensibili al rosso, blu e verde). Nelle cellule M invece sia il centro che la periferia non fanno distinzioni tra i tipi di coni dai quali ricevono stimoli e vengono attivati da tutti i tipi di coni indifferentemente. Le cellule M e P terminano in strati diversi del nucleo genicolato laterale: le prime terminano negli strati magnocellulari, le seconde negli strati parvocellulari, da cui prendono i loro nomi. Le informazioni visive comunicate dalla corrente parvocellulare sono cruciali per la visione a elevata risoluzione e per l analisi dettagliata della forma, dimensioni e colori degli oggetti; la corrente magnocellulare comunica informazioni essenziali per analizzare il movimento 34

37 degli oggetti nello spazio. Una particolarità della corteccia visiva primaria è la modalità in cui i neuroni sono raggruppati lungo il suo spessore. Si tratta di un organizzazione colonnare; a medesime colonne equivalgono neuroni che presentano analoghe modalità di risposta agli stimoli. Nonostante essi rispondano a stimoli provenienti da entrambi gli occhi, agli estremi di questo insieme sono presenti neuroni che rispondono quasi esclusivamente a segnali che provengono dall occhio sinistro o viceversa da quello destro; mentre nella parte centrale troviamo neuroni che rispondono in ugual modo ai segnali provenienti da entrambi gli occhi. Anche le risposte ad altre caratteristiche degli stimoli (es. colore, direzione del movimento) sono distribuite in strutture che si ripetono in modo regolare e che sono sistematicamente legate l una all altra. La quantità di area della corteccia visiva primaria dedicata ad ogni singola area della superficie sensoriale non è uniforme, ma riflette la densità dei recettori e delle fibre sensoriali presenti nella regione periferica. Pertanto la rappresentazione della fovea è sproporzionatamente grande, occupando la maggior parte dello spazio. Ciascuna cellula della corteccia visiva primaria risponde in massimo grado ad una gamma ristretta di tipi di orientamento spaziale degli stimoli presentati (l orientamento preferito della cellula). Quindi tutti i tipi di orientamento spaziale presenti nella scena visiva sono codificati nell attività di popolazioni distinte di neuroni caratterizzati da specifiche preferenze di orientamento spaziale. Inoltre, all interno di una classe di neuroni con determinate preferenze si distinguono alcuni sottotipi che presentano sottili differenze gli uni dagli altri. In confronto alle cellule gangliari della retina, i neuroni dei livelli superiori della via ottica diventano progressivamente più selettivi in fatto di modalità di stimolazione che occorrono per indurne l attivazione. Ad esempio i campi recettivi di alcune cellule, chiamate cellule semplici, sono composti da zone a risposta on e zone a risposta off, le une separate spazialmente dalle altre. Altri neuroni, le cellule complesse, presentano una commistione di risposte on e off in tutto il campo recettivo. Le cellule ipercomplesse sono sensibili a stimoli molto complessi come ad esempio alla lunghezza di una barra luminosa che venga spostata attraverso il loro campo recettivo; la frequenza delle risposte di questi neuroni diminuisce quando la lunghezza della barra luminosa supera un determinato limite. Un altra caratteristica che differenzia le risposte dei neuroni della corteccia visiva primaria rispetto a quelle dei neuroni di precedenti stazioni di elaborazione della via ottica è il fatto che si tratta di risposte binoculari. Infatti il nucleo genicolato laterale riceve assoni da entrambi gli occhi, ma al suo interno questi terminano in strati separati, per cui i singoli neuroni vengono attivati dai segnali che provengono dall occhio sinistro o da quello destro e non da entrambi. Oltrepassato questo punto della via ottica i segnali provenienti dai due occhi vengono integrati a livello delle cellule. Il fatto che a livello della corteccia visiva primaria si verifichi una integrazione delle informazioni provenienti dai due occhi costituisce il fondamento della visione stereoscopica, cioè uno degli indizi 35

38 Figura 2.10: Le risposte di cellule gangliari ad opponenza cromatica semplice ed opponenza cromatica complessa. Le frecce rappresentano colore e locazione dello stimolo luminoso. più importanti per la percezione della profondità. Le cellule vengono attivate in massimo grado da stimoli che cadono su parti non corrispondenti delle due retine (cosa che avviene in quanto i due occhi vedono la realtà da due angolazioni leggermente diverse, e quindi gli oggetti che si trovano davanti o dietro il piano di fissazione proiettano a punti non corrispondenti delle due retine). Alcuni neuroni si attivano in risposta alle disparità tra le immagini dei punti che si trovano oltre il piano di fissazione, altri in risposta a quelle che si trovano davanti ad esso. Anche riguardo alla percezione cromatica il sistema visivo dei primati è caratterizzato da neuroni che rispondono a stimoli sempre più complessi man mano che si prosegue lungo le vie ottiche. Ciò avviene per qualsiasi altro tipo di percezione visiva; ad esempio, nel caso della forma, nelle prime stazioni della via ottica si trovano neuroni che rispondono a particolari orientamenti; proseguendo troviamo neuroni che rispondono a orientamento e lunghezza, fino ad arrivare alle ultime stazioni dove i neuroni rispondono a forme complesse come le facce umane. Secondo la teoria tricromatica, la percezione del colore inizia dalla retina con i tre tipi diversi di coni. I neuroni che rispondono allo stimolo più semplice deputati alla percezione del colore si trovano nel corpo genicolato laterale. Questi neuroni sono caratterizzati da centro recettivo concentrico ad opponenza cromatica semplice. L eccitazione del neurone avviene se il centro del campo recettivo viene colpito da un colore, mentre si ha un inibizione della risposta 36

39 quando la periferia del campo recettivo risulta colpita dal colore opposto (rossoverde, giallo-blu). A livello della corteccia visiva primaria troviamo neuroni con risposte più complesse. Questi neuroni sono caratterizzati da campi recettivi ad opponenza cromatica doppia. Un neurone di questo tipo viene eccitato ad esempio da una luce rossa al centro e da una luce verde alla periferia, e viene inibito da una luce rossa alla periferia e da una luce verde al centro. Questi due tipi di cellule gangliari sono mostrati in figura Un ultimo esempio di neuroni che rispondono a stimoli luminosi riguardanti il colore sono i neuroni complessi ad opponenza doppia che hanno le stesse proprietà delle cellule semplici ad opponenza cromatica doppia ma sono indipendenti dalla localizzazione del contrasto di colore a livello del campo visivo, ovvero non sono caratterizzati da campi recettivi concentrici e rispondono in caso di contrasto cromatico. 2.7 Conclusioni Una volta che il cervello ha ricevuto le informazioni relative allo stimolo visivo entra in gioco il livello linguistico. In questa fase il cervello interpreta dal punto di vista semantico gli stimoli ricevuti e assegna loro delle etichette linguistiche. Il linguaggio ha quindi un ruolo decisamente importante in quanto ci permette di comunicare informazioni relative al colore e di rendere condivisibile un esperienza del tutto soggettiva. La percezione dei colori e la relativa terminologia cromatica sono strettamente connesse tra loro, e non solo legate sequenzialmente. Nella seconda parte della tesi, dedicata al lessico cromatico, si approfondirà questo argomento. Mentre la percezione del colore sembrerebbe essere comune a tutti gli esseri umani, il modo in cui questi esprimono linguisticamente il colore mostra molte differenze. In riferimento al funzionamento del sistema visivo umano affrontato in questo capitolo e per ulteriori approfondimenti si veda [2, 9, 10]. 37

40 38

41 CAPITOLO 3 La percezione del colore 3.1 Cos è il colore Non tutti gli esseri viventi dotati di un sistema visivo vedono il mondo allo stesso modo. Esso infatti appare in tinte diverse agli occhi di creature diverse. Per questo motivo la domanda Di che colore è/sono...? non ha alcun senso. Gli oggetti non sono colorati, il colore è un esperienza del tutto soggettiva che dipende da due elementi: la luce che gli oggetti riflettono e le proprietà del sistema visivo di chi guarda. Tuttavia, normalmente il colore non è considerato un oggetto della percezione, ma piuttosto una caratteristica degli oggetti presenti nel nostro mondo fenomenico, si presenta cioè come oggettuale. Il colore viene visto sulla superficie degli oggetti, ma appare come il colore di tutto l oggetto, come una caratteristica del materiale di cui esso è costituito. Una delle prime funzioni del colore è quindi quella di rivelare il tipo di materiale di cui è fatto un oggetto. Ciò concorda con il fatto che normalmente le condizioni di illuminazione e di ombra non vengono colte esplicitamente, poiché sono caratteristiche variabili rispetto alla costituzione degli oggetti. La luce viene vista come qualcosa di contingente, del tutto irrilevante rispetto a ciò che interessa maggiormente, ovvero gli oggetti nella loro concretezza e stabilità. Le caratteristiche inerenti agli oggetti non risultano influenzate dal fatto che la luce sia tanta o poca, più o meno cromatica. Nonostante ciò, fino a poco più di tre secoli fa si era convinti che il colore fosse una indissolubile proprietà degli oggetti. Fu Newton [1] a dedurre che 39

42 la luce bianca non fosse pura ma composta di colori diversi. Per essere più chiari, non dobbiamo pensare che i raggi luminosi siano di per sé colorati; il colore è invece legato alla capacità di certe radiazioni di produrre certe risposte nel nostro sistema nervoso. Quando la luce del sole (luce bianca) illumina un oggetto, si danno tre casi: 1. Tutto lo spettro viene riflesso; l oggetto appare bianco. 2. Tutto lo spettro viene assorbito; l oggetto appare nero. 3. Una parte dello spettro viene assorbita e l altra riflessa, e l oggetto appare del colore della luce riflessa. Ciò che viene assorbito non raggiunge l occhio e quindi non può essere percepito. 3.2 Meccanismi della visione a colori La percezione del colore può essere influenzata da un grande numero di fattori; le caratteristiche spaziali e temporali di uno stimolo, le dimensioni, l illuminazione e la geometria giocano un ruolo fondamentale nella percezione del colore. Nel seguito di questo capitolo verranno presentati alcuni fenomeni di basso ed alto livello della visione [11]. I fenomeni di basso livello sono caratterizzati da un comportamento abbastanza semplice e possono essere facilmente modellati. D altro canto i fenomeni di alto livello sono molto più complessi e si è ancora molto lontani dalla loro comprensione, tuttavia vanno tenuti in considerazione nella progettazione di test psicofisici. I meccanismi di ordine superiore, sono ancora più complessi, non ancora modellati formalmente e non vi è nemmeno consenso nella comunità scientifica sul loro ruolo e funzionamento. Questi meccanismi riguardano il modo in cui il cervello processa l informazione cromatica proveniente dall occhio attraverso i canali opposti Fenomeni visivi di basso livello La legge di Weber-Fechner La legge di Weber-Fechner fu uno tra i primi tentativi di descrivere la relazione tra la portata fisica di uno stimolo e la percezione umana dell intensità di tale stimolo. La relazione tra uno stimolo e la percezione che si ha dello stesso è stata studiata inizialmente da Weber ( ) [12], e fu in seguito elaborata sotto forma di modello teorico da Fechner ( ) [13]. La scoperta della relazione esistente tra stimolo e percezione venne fatta da Weber grazie ad un esperimento nel quale veniva chiesto ad alcune persone se riuscissero a notare la differenza tra due stimoli (in questo caso dei pesi). Il risultato fu che la più piccola differenza percepita (just noticeable difference, JND) era all incirca proporzionale all intensità dello stimolo. Ad esempio, se una persona riusciva correttamente a notare come un peso di 110 g fosse più pesante di un peso di 100 g, allora essa avrebbe notato anche la differenza tra 40

43 1100 g e 1000 g. In pratica Weber, scopri che se L rappresenta l intensità iniziale di uno stimolo e L rappresenta il minimo incremento dell intensità dello stimolo necessario a percepire una differenza, allora risulta che il rapporto tra L e L rimane costante, formalmente: L L = Costante Le ricerche condotte su tutte le modalità sensoriali (tatto, udito, vista e così via) hanno dimostrato la validità di questa legge ad un livello di approssimazione decisamente soddisfacente, salvo che per i valori estremi delle scale di intensità. Nel caso del sistema visivo umano, ad esempio, essa è valida per quanto riguarda la percezione del colore o della luminosità. Per verificarla basta svolgere un semplice esperimento psicofisico in cui viene mostrato ad un osservatore uno stimolo come quello indicato in figura 3.1, sulla sinistra. Figura 3.1: Sulla sinistra lo stimolo osservato dai soggetti, sulla destra la curva risultante dall esperimento. Lo schermo è composto da uno sfondo uniforme di intensità L ed un piccolo cerchio grigio di intensità L + L. Per ogni valore di L dello sfondo, viene misurata il minimo incremento necessario a distinguere il cerchio (L/ L). La curva risultante è mostrata in figura 3.1 sulla destra. Si può notare che per gran parte dei valori di L questa risulti costante, in accordo alla legge di Weber- Fechner. Questo significa che un incremento dell 1-3% sullo stimolo luminoso del cerchietto, è sufficiente per essere percepito se l illuminazione dello sfondo ha medi valori. In caso di sfondo molto scuro o molto chiaro (estremi del grafico), ciò non è più vero. Ciò non contraddice la legge che rimane semplicemente una buona approssimazione di un fenomeno psicofisico. Formulando questa legge, Fechner apriva un capitolo di notevole rilievo della scienza moderna, quello della psicofisica, che avrebbe poi dato luogo ad un numero altissimo di applicazioni. 41

44 Funzioni di sensibilità al contrasto Il modo in cui uno stimolo colorato appare ai nostri occhi dipende dalla sua frequenza spaziale e temporale. I tre canali opposti hanno differenti risoluzioni spaziali. Le caratteristiche del sistema visivo umano dal punto di vista spaziale e temporale sono definite dalle Contrast Sensivity Functions (CSF). Le CSF sono misurate presentando ad un osservatore uno stimolo che varia in modo sinusoidale nel tempo o nello spazio (figura 3.2). Figura 3.2: In questa immagine il contrasto varia verticalmente, la frequenza spaziale varia orizzontalmente. Si osservi come per frequenze medie è necessario meno contrasto per osservare le sbarre. Far variare la frequenza temporale dello stesso stimolo significa ad esempio mostrare alternativamente una barretta bianca e una nera con un certo intervallo di tempo. In questo modo il contrasto del target viene variato e si determina quando l osservatore nota la differenza. Il contrasto è normalmente definito dalla seguente relazione: C = L max L min L max + L min Il contrasto è quindi uguale alla differenza tra l intensità massima dello stimolo e l intensità minima dello stimolo diviso la somma delle due intensità. I principali risultati di questo esperimento sono riassunti nei due grafici in figura 3.3. Osservando i grafici, la prima conclusione alla quale si giunge è che i tre canali opposti hanno sensibilità differenti: si noti la frequenza minore per il canale yellow-blue rispetto a quello red-green dovuta al basso numero di coni S 42

45 nella retina, mentre la CSF relativa alla luminanza è molto più alta rispetto alle due CSF cromatiche. Questo denota una maggiore sensibilità a piccoli cambiamenti nel contrasto di luminosità rispetto al contrasto cromatico. L andamento della sensibilità alla variazione di frequenza spaziale o temporale rimane più o meno lo stesso. La seconda importante conclusione è che la sensibilità al contrasto è massima per le medie frequenze, mentre tende a zero per altre frequenze, ovvero dove l occhio umano non riesce più a distinguere i dettagli. Figura 3.3: CSF per il contrasto cromatico e di luminanza. spaziali, a destra CSF temporali. A sinistra CSF Mescolanza cromatica additiva I colori che non corrispondono a luce di una singola lunghezza d onda possono essere ottenuti solo mescolandone insieme due o più. La mescolanza di luci è diversa da quella operata dal pittore che mescola pigmenti, cioè sostanze colorate; nel primo caso parliamo di mescolanza additiva (figura 3.5, sinistra) e nel secondo di mescolanza sottrattiva (figura 3.5, destra). Si tratta di due meccanismi con cui si forma il colore. La differenza è quella tra la percezione di colori come risultato di luci provenienti direttamente da una sorgente luminosa e la percezione di colori come risultato di luci riflesse da superfici interposte tra una sorgente ed i nostri occhi. Pur dando luogo alla stessa sensazione, la natura dei due processi è profondamente diversa. La prima è un fenomeno biologico, la seconda invece ha cause esclusivamente fisiche. La mescolanza sottrattiva verrà presa in esame nel prossimo capitolo sulla colorimetria, non essendo un meccanismo psicologico e percettivo come invece è la mescolanza addittiva. Il fatto che luci di differente lunghezza d onda, le quali, viste singolarmente, ci appaiono ciascuna colorata in modo diverso, generino, sommate insieme, la visione del bianco, è un fenomeno che viene definito mescolanza additiva. In questo caso si producono effetti di luce sovrapponendo fasci luminosi provenienti da diverse sorgenti monocromatiche. Le luci delle sorgenti luminose nei 43

46 colori primari vengono mescolati per produrre il colore desiderato. In condizioni di osservazione fissate, una qualunque miscela di due o più radiazioni elettromagnetiche nell intervallo visibile corrisponde sempre ad uno stesso colore. Ciò permette di identificare qualsiasi colore percepito in funzione delle sole componenti fisiche che danno come esito percettivo quel determinato colore. La mescolanza additiva può avvenire per media spaziale o temporale. Nella mescolanza additiva per media spaziale l effetto è prodotto dalla sovrapposizione di luci su una stessa porzione di spazio; piccoli punti colorati non distinguibili dall occhio, vengono mescolati addittivamente da esso. Nell esempio in figura 3.4 l alternarsi di giallo e blu, ad un certo punto, non viene più riconosciuto dall occhio umano, che percepisce il colore grigio (essendo questi due colori complementari). Allo stesso modo dei piccoli punti rossi stampati su carta bianca, visti da sufficiente distanza, causano la percezione del colore rosa. Il rosa è, in questo caso, un colore prodotto dalla mescolanza additiva in media spaziale del bianco e del rosso. Nella mescolanza additiva in media temporale diversi stimoli di colore colpiscono l occhio non contemporaneamente ma in rapida successione. Quando il ritmo del loro alternarsi è sufficientemente elevato, i recettori della retina non sono più in grado di discriminare tra due sensazioni successive, che vengono quindi fuse nella percezione di un unico colore-somma. Figura 3.4: Mescolanza additiva in media spaziale. Si noti come due colori complementari, il giallo e il blu, diano origine ad un immagine grigia. Meccanismi di adattamento La definizione propria di adattamento dice che un sistema sensoriale varia il suo stato di sensibilità in funzione della stimolazione cui è soggetto. L adattamento è un fenomeno che si sviluppa nel tempo, riguarda cioè caratteristiche temporali della percezione visiva. Quando l organo di senso è stimolato a lungo e ad un alto livello di intensità, la sua sensibilità diminuisce, la stessa stimolazione quindi provoca un effetto minore e per avere lo stesso effetto ci vuole una stimolazione più intensa. Al 44

47 Figura 3.5: Nella figura di sinistra è rappresentato lo schema classico della sintesi additiva. È l effetto che si ottiene sovrapponendo tra loro tre raggi luminosi: uno verde, uno rosso ed uno blu. Al centro, dove i tre raggi si sovrappongono, appare il bianco. Il tipo di mescolanza additiva mostrata è detto spaziale, perché l effetto è prodotto dalla sovrapposizione di luci su una stessa porzione di spazio. Nella figura di destra lo schema classico della sintesi sottrattiva che verrà trattata in seguito. contrario, quando l organo è poco stimolato la sua sensibilità aumenta e anche uno stimolo debole provoca una forte risposta sensoriale. Detto questo risulta chiaro il perché passando da un ambiente scuro a uno molto luminoso rimaniamo abbagliati: l occhio è abituato ad un livello basso di stimolazione, è troppo sensibile per stimoli così intensi e si satura facilmente. Si parla in questo caso di light adaptation. Ritornando in un ambiente buio non ci si vede quasi più, perché la sensibilità dell occhio è troppo bassa e la stimolazione ambientale non riesce a provocare una risposta sufficiente. In questo caso si tratta di dark adaptation. La principale differenza tra light adaptation e dark adaptation è il tempo che richiedono per essere completate. La prima è molto più veloce richiedendo meno di un minuto, la seconda richiede circa mezzora. L ultimo tipo di adattamento è il chromatic adaptation, che è causato da simili meccanismi fisiologici. Ad esempio, se si fissa un colore saturo per un pò di tempo e poi si sposta lo sguardo su un foglio bianco, si vedrà una debole immagine di un colore diverso, all incirca del colore complementare a quello fissato. Queste immagini consecutive vengono dette negative proprio perché sono del colore complementare a quello osservato in precedenza (figura 3.6). L esposizione anche brevissima a una luce molto intensa genera invece un immagine dello stesso colore, che viene detta positiva. Ci si riferisce a questi episodi con il nome di fenomeno delle immagini consecutive (afterimages) Fenomeni visivi di alto livello Costanza cromatica La costanza cromatica è un fenomeno per cui il colore percepito di un oggetto tende a rimanere costante nonostante la composizione spettrale della luce che lo illumina cambi, ovvero cambino le condizioni di illuminazione, e di conseguenza 45

48 Figura 3.6: Adattamento cromatico. Fissare il punto bianco nella bandiera per 30 secondi. In seguito fissare il punto nero nel riquadro bianco a destra. A causa del fenomeno dell adattamento cromatico, nel quadrato bianco apparirà una immagine uguale a quella del riquadro a destra ma in cui i colori originali sono sostituiti dai rispettivi colori complementari. Apparirà quindi la bandiera americana. anche la composizione spettrale della luce che l oggetto riflette. Ciò permette di identificare oggetti in molteplici diverse condizioni di illuminazione. Questo fenomeno è mediato da meccanismi che operano a livelli diversi del sistema visivo, tra cui i meccanismi dell adattamento cromatico (chromatic adaptation) e della memoria del colore (color memory), ed è basato sullo sfruttamento inconsapevole di parecchi indizi. Il meccanismo del color memory è legato al fatto che noi sappiamo qual è il normale colore degli oggetti o quali sono i colori prototipici degli oggetti riconoscibili, la nostra percezione del colore è quindi influenzata da ciò che sappiamo degli oggetti. Tuttavia la costanza cromatica tende a verificarsi puntualmente anche con oggetti non familiari del cui vero colore non possiamo avere idea. La costanza cromatica è prevalentemente un fenomeno relazionale. Le cose che vediamo non sono isolate, ma circondate da altri oggetti. Fra lo spettro della luce riflessa da un oggetto e lo spettro della luce riflessa dal suo sfondo esiste una certa relazione che chiamiamo rapporto spettrale. Quando l illuminazione cambia i singoli spettri riflessi cambiano a loro volta, ma il rapporto spettrale tra loro rimane invariato. I due oggetti riflettono lunghezze d onda in percentuale diversa, ma al variare dell illuminazione il contrasto locale, inteso come rapporto spettrale, resta invariato. Inoltre occorre precisare che la costanza di colore è mediata tanto da questo contrasto locale che dal contrasto globale, ovvero dalle informazioni provenienti dall intera scena. Questo sistema della costanza cromatica tuttavia a volte fallisce: il meccanismo si è evoluto per compensare le variazioni naturali nella composizione spettrale della luce solare, non delle luci artificiali. In figura 3.7 si osserva un esempio di costanza cromatica. Se nella prima figura si osserva la maglietta della donna, questa ci appare chiaramente gialla. Nell immagine centrale possiamo osservare l immagine originale non filtrata e la nostra 46

49 risposta viene confermata. L immagine a destra rappresenta l immagine originale con solamente la maglietta filtrata (ovvero come ci appariva nella figura a sinistra), la maglietta ci appare ora verde. A causa della costanza cromatica abbiamo correttamente visto la maglietta gialla anche se la sensazione che i nostri fotorecettori hanno registrato era quella del verde. Figura 3.7: Un esempio del fenomeno della costanza cromatica. Contrasto cromatico simultaneo Al fine di spiegare questo fenomeno è necessario ribadire il concetto di colore complementare. I colori complementari sono quelli che mescolati assieme danno un colore acromatico. Ogni colore, assieme al suo complementare, dà origine a una miscela perfettamente proporzionata dei tre colori primari, che al nostro occhio appare bianca. Il contrasto cromatico è un fenomeno secondo il quale ogni colore acquista percettivamente una componente complementare al colore adiacente, uno sfondo chiaro ci farà apparire lo stimolo più scuro di quanto sia in realtà, uno sfondo rosso ci farà apparire lo stimolo più verde e così via. Come risultato due colori complementari diventano più saturi, due colori non complementari assumono una tinta leggermente diversa. Ciò che accade è che si percepisce lo stesso colore in modo differente in dipendenza dai colori che lo circondano. Ad esempio lo stesso colore appare più luminoso se posto su uno sfondo scuro e meno luminoso se posto su uno sfondo chiaro. Ciò è evidente nell esempio mostrato in figura 3.8. Il contrasto di colore consiste in un esaltazione della differenza tra il colore di due superfici adiacenti, ma non rappresenta l unico modo in cui colori vicini possono interagire tra loro. In alcuni casi due superfici adiacenti si influenzano nel modo opposto: la differenza tra loro diminuisce anziché aumentare. Questo fenomeno, opposto rispetto al contrasto cromatico, prende il nome di assimilazione cromatica. 47

50 Figura 3.8: Esempio di contrasto cromatico simultaneo. I due quadratini interni appaiono di colori differenti pur essendo fisicamente dello stesso colore Meccanismi visivi di ordine superiore C è accordo generale sul fatto che le informazioni cromatiche vengano processate da meccanismi gerarchici: al primo stadio i segnali provenienti dai tre tipi di coni, ognuno con il suo fotopigmento, vengono linearmente combinati per formare i tre canali opposti al secondo livello. La natura interattiva di questo secondo stadio è ampiamente accettata e supportata da diversi esperimenti psicofisici. A partire da quel livello, il comportamento del sistema visivo umano per quanto riguarda il trattamento delle informazioni cromatiche è molto discusso e lontano dall essere compreso e spiegato in modo soddisfacente. Stiamo parlando dei meccanismi visivi di ordine superiore (higher order color mechanisms), ovvero di quei meccanismi che vanno oltre quelli di secondo livello [14]. La percezione della distribuzione spaziale del colore è stata studiata per cercare di capire il grande numero di meccanismi che questo tipo di esperienza implica. Osservando una scena colorata infatti vengono coinvolti una moltitudine di meccanismi che operano ad un livello post-recettorale (cognitivo). Ad esempio, anche se il contrasto rispetto all immediato background ha una larga influenza sul modo in cui il colore ci appare, questo non è sufficiente a spiegare come il colore di un oggetto venga percepito in condizioni di visione più naturali. È stata infatti notata l influenza di elementi cromatici remoti sulla percezione dei colori e si è scoperto un effetto di induzione indipendente dalla distanza. Gli effetti del contesto cromatico sono molto diversi dai cambiamenti nel modo in cui i colori appaiono dovuti al contrasto cromatico immediato. L effetto di induzione cromatica prodotto da background cromatici distanti dipende dal contrasto, mentre il suo effetto sarebbe minimo quando non c è contrasto cromatico tra il test e il contorno immediato. L importanza della variazione all interno dello stimolo ai fini della determinazione del modo in cui questo appare è stata sottolineata da molti studi recenti. Oltre a quest ultimo sono stati osservati un grande numero di fenomeni, ma la maggior parte di essi sono difficili da capire e da modellare. Forse questo accade perché non siamo in grado di determinare quali sono le componenti basiche del 48

51 sistema visivo umano e le loro caratteristiche. Il sistema visivo umano si avvale di un numero di attributi nei compiti visivi di ogni giorno, come la configurazione spaziale, la profondità, il colore e la luminanza. 49

52 50

53 CAPITOLO 4 Colorimetria Nelle pagine precedenti abbiamo analizzato una serie di fenomeni riguardanti la percezione del colore. A questo punto è opportuno chiedersi come sia possibile comunicare il colore. Gli esseri umani non hanno memoria per esso: per ricordarci un colore lo dobbiamo sempre associare ad un oggetto, seppure in modo inconsapevole. Come è possibile quindi comunicare il colore in maniera univoca se la percezione è del tutto soggetta a parametri instabili e soggettivi? Un colore può innanzitutto essere rappresentato da tre numeri e questo deriva dalla fisiologia del sistema visivo umano. La luce visibile è infatti convertita in tre segnali ed inviata al cervello; ognuno dei differenti segnali corrisponde ad uno dei tre tipi di coni. Ogni luce colorata può essere rappresentata dalla sua distribuzione spettrale, che mostra la potenza in funzione della lunghezza d onda, questa viene successivamente convertita nei tre valori di risposta dei coni L, M e S. Da ciò derivano due importanti principi: Tricromaticità: qualsiasi spettro (che rappresenta un colore) può essere ridotto a tre valori senza alcuna perdita di informazione rispetto al sistema visivo. Metamerismo: tutti gli spettri che creano la stessa risposta tricromatica sono indistinguibili. Il principio della tricromaticità non dice che L, M e S sono gli unici valori con cui si può descrivere un colore, ma semplicemente che esistono terne di numeri che descrivono un colore. 51

54 Per riuscire a dare una risposta alla necessità di rendere oggettivo il colore è nata la colorimetria, una disciplina che si occupa di standardizzare la misurazione del colore attraverso lo studio dei modelli di colore [10, 15, 16]. Il suo obiettivo è quello di associare uno o più parametri al determinato colore per renderlo misurabile in modo significativo, espressivo, consistente e riproducibile. Il problema principale che questa scienza si propone di risolvere è quello di cercare una corrispondenza tra una grandezza fisica misurabile ed oggettiva (fotoni percepiti dall occhio) e una grandezza psicologica soggettiva e non fisicamente osservabile (la sensazione che percepiamo); questa operazione è detta specificazione del colore. A questo proposito si sono mossi organismi internazionali quali la Commission Internationale de l Éclairage (CIE) e l Optical Society of America (OSA). Ci sono certe differenze nel giudizio del colore da parte dei singoli osservatori, e proprio uno dei primi scopi della CIE fu quello di stabilire uguaglianze di colori che possono essere accettabili per un osservatore medio, standard. Parleremo di ciò in seguito. I colori si differenziano l uno dall altro sulla base di tre caratteristiche distinte: 1. Tinta (hue): è quello che nel linguaggio comune si chiama semplicemente colore, si riferisce a quella qualità che permette di distinguere il verde dal rosso, dal giallo, dal blu e così via. Si chiamano cromatici i colori che possiedono una tinta, e acromatici quelli che non la possiedono (bianco, nero e grigio). Una tinta non è un colore ma una famiglia di colori. Quando si cita una tinta, ad esempio rosso, non si intende parlare di un particolare colore rosso ma dell intera famiglia dei rossi. 2. Chiarezza/Brillanza (lightness/brightness): questi due attributi si riferiscono a quanto il colore è chiaro o scuro, e sono legati alla quantità di luce riflessa fisicamente dalla superficie. La brillanza (brightness) è l attributo di una sensazione visiva secondo il quale uno stimolo visivo appare più o meno intenso, o emettere più o meno luce. Essa è quindi legata alla quantità di luce riflessa da un oggetto, dipende dalla sorgente luminosa. La chiarezza o luminosità (lightness) è l attributo di una sensazione visiva secondo il quale uno stimolo visivo appare più o meno intenso, o emettere più o meno luce in proporzione a quella emessa da un area similmente illuminata percepita come bianca. Essa è quindi la percentuale di luce riflessa da un oggetto. Si tratta cioè della brillanza relativa. Un quadrato grigio su un pezzo di carta bianca, visto dentro una casa, ha una certa brillanza. Alla luce del sole esso avrà una brillanza maggiore. La chiarezza invece, giudicata in relazione a quella del bianco della carta, rimarrà costante. Quindi la brillanza dipende dal colore e dalla luce che illumina l oggetto, mentre la chiarezza non ha legami quest ultimo aspetto. In realtà i due termini vengono spesso confusi perché non esiste una nomenclatura italiana standardizzata, ciò è tuttavia in corso di definizione. 52

55 3. Saturazione (saturation): è chiamata anche purezza in quanto si riferisce a quanto il colore è puro (intenso, vivido) o pallido. Tecnicamente esprime la quantità della componente cromatica rispetto a quella bianca, cioè la concentrazione della componente cromatica. Ad esempio, il rosa e il rosso hanno la stessa tinta, ma il rosa è meno saturo (più impuro) del rosso perché è più vicino al bianco. Nel rosso la componente cromatica predomina sul bianco, nel rosa avviene il contrario. Lo stesso avviene per celeste e blu. La purezza varia da valori prossimi allo 0% nel caso di tinte pastello, fino al 100%, massima purezza della tinta cromatica. Sarebbe auspicabile un accordo nazionale per definire in modo non ambiguo una terminologia in lingua italiana riguardante i colori. Tuttavia il compito è particolarmente difficile in quanto non sembra esserci un autorità in grado di fare proposte che possano essere ampiamente accettate. La conseguenza è che il ricercatore scientifico deve necessariamente ricorrere alla terminologia internazionale in inglese. 4.1 Spazi colore, modelli colore, sistemi colore Ogni radiazione elettromagnetica che entra nell occhio può essere classificata mediante una terna di numeri che rappresentano le attivazioni dei tre tipi di coni. Queste terne di numeri sono efficacemente rappresentate da punti (vettori) in uno spazio tridimensionale, noto come spazio del tristimolo. Una proprietà tridimensionale importante, e forse la più conosciuta, è la posizione di un punto nello spazio: per specificarla possiamo utilizzare un insieme di tre variabili ed un sistema di coordinate. Le tre variabili utilizzate per descrivere la posizione di uno stesso punto possono essere differenti, dipende tutto dal sistema di riferimento e dal significato dei tre valori che utilizziamo. Ad esempio in figura 4.1, osserviamo come lo stesso punto P possa essere identificato da coordinate diverse. Esso può ad esempio essere descritto da [x, y, z] oppure da [φ, ρ, z]. Uno spazio colore, o modello colore, dunque, nasce dalla definizione di un sistema tridimensionale di coordinate colore che, in quanto tali, possono assumere una rappresentazione spaziale. In questo senso, ogni singolo colore assumerà nello spazio una diversa posizione, che lo distinguerà da tutti gli altri. Le coordinate colore possono essere associate a varie componenti costitutive del colore in esame: per lo spazio RGB, ad esempio, la terna di coordinate [1, 0, 1] rappresenterà un colore composto da una unità di R, zero di G e una di B. Essendo lo spazio RGB definito come la composizione dei tre colori fondamentali nella sintesi additiva, cioè R=red=rosso, G=green=verde e B=blue=blu, il colore RGB=[1, 0, 1] sarà un viola. Come nel caso del punto P, uno stesso colore può essere anche descritto da una diversa terna, i cui elementi avranno chiaramente un diverso significato. Ad esempio, esistono spazi le cui coordinate non corrispondono a colori fondamentali ma ad attributi quali la chiarezza 53

56 Figura 4.1: Un punto nello spazio e due possibili terne di coordinate che lo identificano. (lightness), la saturazione (saturation) e la tinta (hue). Così è, in effetti, per lo spazio HLS, in cui per esempio, lo stesso viola RGB=[1, 0, 1] avrà coordinate HLS=[300, 1, 1]. Un modello colore è una rappresentazione matematica astratta che descrive come i colori possano essere rappresentati come insiemi di numeri (tipicamente 3), detti componenti del colore. Quando un modello è associato ad una descrizione precisa di come interpretare le componenti otteniamo uno spazio colore. All interno dello spazio dei colori il sottoinsieme dei colori rappresentabili con un certo modello di colore costituisce a sua volta una regione di colori più limitata che è detta gamma o gamut. La distinzione tra modello colore, spazio colore e sistema colore è labile, facciamo quindi un esempio per spiegarla meglio, prendendo il modello colore RGB che descriveremo meglio in seguito. Abbiamo appena detto che questo modello definisce un colore come una mescolanza additiva di rosso (R), verde (G) e blu (B). Dati quindi i valori [0.3, 0.7, 0.1] il colore risultante sarà creato aggiungendo 0.3 di rosso, 0.7 di verde, e 0.1 di blu. Intuitivamente questo non è sufficiente per definire un colore perché rimane da specificare cosa voglia dire 0.3 di rosso e cosa voglia dire rosso, ovvero bisogna assegnare un interpretazione alle tre componenti del colore. Questa interpretazione rende il modello uno spazio. Un sistema di colori invece rappresenta un colore con una terna di numeri senza che questi abbiano nessun legame con alcun sistema di interpretazione del colore. È quindi equivalente a prendere tutti i colori, ordinarli e numerarli in qualche modo: le componenti colore non possono quindi essere interpretate semanticamente facendo riferimento ad attributi del colore. L operazione principale da svolgere quando si crea un sistema colore è quindi quella di ordinare i colori 54

57 secondo un qualche criterio, per poterli poi associare a dei valori. In questo capitolo verranno presentati tre sistemi di colori cosiddetti percettivi, molto noti e usati in tutto il mondo: il sistema Munsell, il Sistema Naturale dei Colori e il Sistema OSA-UCS. Il termine spazio colore tende ad essere utilizzato anche per identificare un modello colore visto che identificare uno spazio colore identifica immediatamente anche il modello colore associato. Da questo momento utilizzeremo il termine spazio colore sia per identificare uno spazio che un modello. In letteratura esistono un centinaio di spazi colore comunemente utilizzati ed esistono molti modi di classificarli, le principali proprietà degli spazi colore sono le seguenti: Device-oriented: La rappresentazione del colore dipende dal dispositivo utilizzato. Questi spazi colore sono limitati dal gamut, o gamma dei colori che un particolare dispositivo è in grado di riprodurre. Per fare un esempio i vecchi televisori o monitor non erano in grado di riprodurre tutti i colori. Esempi sono RGB, srgb, CMY, CMYZ. User-oriented: Questi modelli colore enfatizzano le nozioni di colore intuitive di luminosità, tinta e saturazione. Esempi di questi modelli colore sono HSV, HSI e HSL. Colorimetrici: Gli spazi colore colorimetrici sono basati sui principi della tricromaticità e sono utilizzati da dispositivi che misurano e riportano i valori del colore direttamente, sono quindi basati su misurazioni del colore. Permettono di predire se due colori appaiono in modo identico in condizioni di osservazione date. Un esempio di modello colorimetrico è il CIE XYZ, esempi di modelli colore percettivamente uniformi sono il CIELAB ed il CIELUV. Gli spazi colore percettivi correlano i valori cromatici alle risposte umane. In pratica richiedono che colori simili, che quindi hanno simile risposta dal sistema visivo umano, abbiano valori cromatici (le tre coordinate) simili. 4.2 Grandezze radiometriche e fotometriche Molti concetti della teoria del colore non possono essere pienamente compresi senza una chiara definizione di alcune unità di misura radiometriche e fotometriche. Le unità di misura radiometriche sono relative alla radiazione elettromagnetica, ovvero la luce. Ad ogni grandezza radiometrica corrisponde una grandezza fotometrica che è la rispettiva grandezza radiometrica valutata secondo la risposta del sistema visivo umano; le prime quindi sono grandezze fisiche ed osservabili, le seconde psicofisiche. Le grandezze fotometriche sono delle misure definite a partire dalle grandezze radiometriche mediante pesatura con la curva di risposta spettrale dell occhio umano. Vengono impiegate al posto delle grandezze radiometriche in quanto queste ultime non sono direttamente utilizzabili in scienza del colore, mentre le grandezze fotometriche quantificano 55

58 l emissione luminosa in termini della risposta del sistema visivo umano, il quale presenta sensibilità non uniforme alle diverse lunghezze d onda. A parità di energia di due onde cioè, il nostro sistema visivo risulta essere più sensibile ad onde di particolari zone dello spettro della luce visibile. Le principali grandezze radiometriche e le corrispettive grandezze fotometriche sono riportate sono: Energia radiante (radiant energy): è l energia trasportata da un qualunque campo di radiazione elettromagnetica. L unità di misura è il joule. La corrispondente unità fotometrica è l energia luminosa (luminous energy) la cui unità di misura è il lumens secondo. Flusso radiante (radiant flux): è l energia radiante nell unità di tempo, ovvero quanta energia radiante arriva ogni secondo. È considerata la grandezza radiometrica fondamentale, sulla base della quale sono definite tutte le grandezze successive. La sua unità di misura è il watt. La corrispondente unità fotometrica è il flusso luminoso (luminous flux) ovvero la quantità di energia luminosa emessa da una determinata sorgente nell unità di tempo; la sua unità di misura è il lumens. Radianza (radiance): Energia totale emessa da una sorgente di luce, è misurata in watt per steradian per metro quadrato. La corrispettiva unità di misura fotometrica è la luminanza che esprime la quantità di energia percepita da un osservatore. La luminanza (luminance) è quindi una parte della radianza di una sorgente di luce e viene misurata in candele per metro quadrato. 4.3 Efficienza luminosa Quando la luce entra nell occhio ed arriva alla retina, l energia viene assorbita dai fotopigmenti di coni e bastoncelli. La sensibilità luminosa, come discusso in precedenza, è soggettiva e varia se si cambia la lunghezza d onda della radiazione luminosa. Per misurare come variano le risposte dell occhio al variare della lunghezza d onda bisogna trovare una procedura per determinare quando due luci monocromatiche di differente colore hanno la stessa luminanza. Per dare una risposta a questo problema, Crawford condusse nel 1949 un esperimento nel quale proiettò su di uno schermo in un campo bipartito (figura 4.2), due luci monocromatiche in condizioni di bassa illuminazione [17]. La prima luce fu detta luce primaria, la seconda luce di test. Il test consisteva nel variare l intensità luminosa della sorgente primaria in modo da risultare indistinguibile dalla luce di test al fine di determinare la sensibilità dei bastoncelli al variare della lunghezza d onda. Una volta ottenuto il match vennero misurate le radianze delle due luci e venne calcolata l efficienza luminosa (o sensibilità luminosa) che indica quanta porzione della radiazione emessa viene utilizzata (percepita) dal sistema visivo umano. 56

59 BIPARTITE FIELD PRIMARY LIGHT TEST LIGHT Figura 4.2: Lo schermo bipartito utilizzato negli esperimenti di Crawford. Si noti che il fatto di lavorare in condizioni di bassa illuminazione non consente ai soggetti di distinguere i colori delle due luci e ci dà una buona approssimazione della sensibilità dei bastoncelli allo stimolo luminoso. I valori registrati al variare della lunghezza d onda dello stimolo di test permisero di tracciare la curva scotopica V (λ). L andamento della curva mostra come la radiazione luminosa a cui il nostro occhio è più sensibile durante la visione notturna si trova a circa 505 nm, in corrispondenza del blu. Una seconda importante curva è la curva fotopica V (λ). Per poter tracciare questa curva è stato compiuto un esperimento analogo a quello appena presentato, questa volta però in condizioni di elevata illuminazione, eccitando in questo modo il sistema dei coni. L andamento della curva mostra come la radiazione luminosa a cui il nostro occhio è più sensibile durante la visione diurna si trovi a circa 555 nm, in corrispondenza del colore giallo. La curva fotopica e la curva scotopica sono riportate in figura 4.3. Tramite le due curve V (λ) e V (λ) vengono definite le grandezze fotometriche. Ad esempio, una volta calcolata l energia radiante di una sorgente, V (λ) viene impiegata per calcolare l energia luminosa. Si noti anche come al di fuori dello spettro del visibile, le due funzioni valgano sempre zero, ciò sta a significare che tutta l energia radiante di una sorgente che trasmette non viene percepita dal nostro occhio, in pratica ci dice che non potremo mai vedere un onda radio o una radiazione ultravioletta o un raggio X. Queste curve però non devono essere considerate come perfettamente accurate, sono semplicemente rappresentazioni della sensibilità dell occhio umano e sono considerate come punto di partenza per ogni esperimento psicofisico riguardante la scienza del colore. Sono uno standard della CIE. 57

60 Figura 4.3: La curva scotopica e la curva fotopica rappresentano la sensibilità di bastoncelli e coni alle diverse lunghezze d onda, rendendo possibile la relazione tra grandezze fotometriche e radiometriche. 4.4 Color matching functions Come si è accennato all inizio di questo capitolo, la CIE, fin dagli inizi del 1900, si rese conto di dover formalizzare alcuni standard sul colore e realizzò una serie di esperimenti e di studi che portarono alla creazione di spazi colore matematici in grado di descrivere in modo oggettivo, ovvero indipendente dal particolare dispositivo usato, tutti i colori visibili all occhio umano. Per far ciò si servì delle curve fotopiche e scotopiche in modo da legare la percezione del colore a fenomeni fisici. Il metodo di lavoro adottato dalla CIE fu quello degli esperimenti di color matching. L esperimento di color matching e le color matching functions calcolate a partire da questo esperimento sono alla base di tutti gli spazi colore percettivi esistenti in letteratura e della teoria tricromatica. L obiettivo era quello di calcolare l analogo di V (λ) e V (λ) separatamente per tre stimoli colore predefiniti, R, G, B. In pratica, data una luce monocromatica a lunghezza d onda λ, si voleva capire la quantità percepita dei tre stimoli R, G e B. Prima di spiegare l esperimento è necessario introdurre le leggi di Grassmann [18] che stabiliscono importanti proprietà empiriche degli stimoli colore. Se A, B, C e D sono distinti stimoli colore, e se il simbolo = indica uguaglianza visiva, le leggi stabiliscono che: a) Se lo stimolo colore A è identico allo stimolo colore B, allora lo stimolo colore B è identico allo stimolo colore A. Questa è la legge della simmetria. b) Se A è identico a B e B è identico a C, allora A è identico a C. Questa è la legge della transitività. 58

61 c) Se A è identico a B, ka è identico a kb, dove k è una costante arbitraria che cambia il potere radiante dello stimolo colore mantenendo invariata la sua distribuzione spaziale relativa. Questa è la legge della proporzionalità. d) Se A, B, C, D sono quattro stimoli colore e se due delle tre seguenti uguaglianze è vera (A è identico a B, C è identico a D e (A + C) è identico a (B + D)), allora (A + D) è identico a (B + C), dove (A + C) (B + D) (A + D) (B + C) denotano rispettivamente mescolanze addittive di A e C, B e D, A e D, e B e C. Questa è la legge dell additività. Assumendo che le tre leggi di Grassmann valgano, e che quindi ogni colore possa essere riprodotto attraverso un mix di luci rossa, verde e blu, inizialmente (1931) gli esperti della CIE [19] definirono i seguenti tre colori primari da utilizzare nei loro esperimenti: R (rosso a 700 nm), G (verde a 546,1 nm), B (blu a 435,8 nm). Successivamente, ad un campione di soggetti con capacità visive normali, venne chiesto di osservare uno schermo su cui venivano proiettati due semicerchi affiancati in modo da dare luogo ad un unico cerchio. Su un semicerchio veniva proiettata una luce monocromatica pura, sull altro semicerchio veniva proiettata una combinazione di luci R, G, B. Ciascun osservatore poteva aggiustare le Figura 4.4: L esperimento di color matching. Il soggetto osserva un campo bipartito e aggiusta le intensità delle tre luci primarie per far coincidere la somma delle tre luci con la luce test. (A) Vista dall alto dell esperimento. (B) Lo schermo bipartito utilizzato per la presentazione dello stimolo al soggetto. intensità delle tre luci primarie per far coincidere la somma di queste tre con la luce test e, quando riteneva che i due semicerchi avessero lo stesso colore, premeva un pulsante. Con questo procedimento, la CIE ricavò una serie di associazioni tra lunghezza d onda monocromatica e combinazione di quei primari scelti (R, G, B) per ogni lunghezza d onda dello spettro visibile e per ogni osservatore del campione. Facendo una media tra tutti i dati ricavati dall esperimento, gli scienziati della CIE elaborarono le prime tre CMF (Color Matching Functions, o funzioni di riferimento) denominate r(λ), ḡ(λ), b(λ) che sono rappresentate nel grafico in 59

62 figura 4.5. Questo grafico ci dice, fissata una lunghezza d onda qualsiasi all interno dello spettro visibile, con quale percentuale di R, G, B si ottiene un colore uguale a quello monocromatico caratterizzato dalla lunghezza d onda fissata. Valori negativi stanno ad indicare che la luce di quel particolare primario va rimossa dal mix proiettato sul secondo semicerchio e va aggiunta alla luce monocromatica proiettata sul primo. Figura 4.5: Color matching functions. L utilizzo di queste prime funzioni venne quasi subito abbandonato a causa della loro scarsa propensione a farsi manipolare matematicamente. Questa loro caratteristica negativa è dovuta, tra le altre cose, anche al fatto che esse possono assumere valori negativi. La CIE decise così di ripetere l esperimento di color matching in modo diverso. In primo luogo invece di usare i tre colori primari reali R, G, B descritti sopra, definì tre primari immaginari, che chiamò X, Y e Z. Per comprendere meglio come questi tre primari immaginari siano stati creati introduciamo il triangolo cromatico [20]. 4.5 Il triangolo cromatico Immaginiamo che le tre luci R, G, B occupino gli angoli di un triangolo equilatero e che si irradino verso l interno, in tutta l area del triangolo stesso. Si presuppone che agli angoli del triangolo la quantità della particolare luce colorata sia il 100% e che man mano che ci si allontana dall angolo la luce diventi uniformemente più debole, in modo che quando raggiunge un punto qualsiasi del lato opposto la sua intensità sia zero. Al centro del triangolo tutte e tre le luci, avendo percorso uguale distanza, sono presenti in uguale quantità. In figura 4.6, le tre luci colorate sono indicate dai rispettivi nomi (verde, blu e rosso). Al punto rosso la luce rossa è al 100%, al punto C, sulla linea blu-verde, non c è più rosso come in qualsiasi punto lungo questa linea. Lo stesso vale per le luci degli altri due angoli. Se l intensità delle tre luci è scelta opportunamente, 60

63 l effetto dei colori combinati al punto O, al centro del triangolo, sarà il bianco. Se partiamo dal punto Y, dove non c è traccia di blu, e ci spostiamo attraverso il triangolo, vediamo che appena iniziamo a spostarci, veniamo a trovarci sotto l influenza di quantità crescenti di luce blu che si diluisce sempre di più con gli altri due primari. Continuando ad aggiungere blu si arriva fino a quello più carico che si trova nell angolo relativo del triangolo. La stessa cosa avviene per le altre parti del triangolo. I colori lungo i lati del triangolo sono meno saturi dei colori simili dello spettro, Figura 4.6: Rappresentazione del triangolo cromatico. ovvero dei colori spettrali. Non è possibile in alcun modo ottenere, ad esempio, i blu-verdi puri dello spettro con nessuna miscela delle luci blu e verde. Se lo vogliamo ottenere dovremo invece diluire il colore spettrale con una certa quantità di luce rossa. Dal punto di vista matematico, ciò equivale a sottrarre rosso dalla miscela delle luci blu e verde, ovvero aggiungere una quantità negativa di rosso alla miscela. Il punto chiave è che all interno del triangolo RGB i colori vengono creati per sintesi additiva a partire dalle tre luci monocromatiche R, G e B e non è possibile con tale paradigma sottrarre un colore. Questo fatto è ben visibile osservando i valori negativi che la color matching function r(λ) ha in corrispondenza dei blu-verdi. Nella figura 4.7 si può notare che, per ottenere un punto in cui il valore del rosso sia negativo, dobbiamo andare oltre la linea blu-verde, proseguendo fuori dal triangolo. Il colore spettrale viene quindi sistemato nel punto C. Estendendo questa esperienza a tutti i colori spettrali è possibile ottenere un esatta uguaglianza solo tra i tre primari rosso, verde, blu e il rosso, verde e blu che si trovano agli angoli del triangolo. Tutti gli altri colori spettrali cadono al di fuori di esso ed avranno bisogno di un aggiunta negativa del terzo colore primario per essere riportati nella direzione del centro del triangolo fino a prendere posto sui lati. Unendo tutti i punti fuori dal triangolo nei quali si trovano i colori spettrali, otteniamo la curva dei colori spettrali, mostrata in figura

64 Figura 4.7: Rappresentazione, all interno del triangolo cromatico, di esempi di quantità di rosso necessari ad ottenere un determinato colore. Si noti come in alcuni casi sia necessario aggiungere una quantità negativa del colore. Figura 4.8: Il triangolo cromatico e la curva dei colori spettrali. All interno di questo triangolo è possibile trovare tutte le tinte che possono essere percepite dall occhio umano, ma non è ancora possibile ottenere la saturazione necessaria per riprodurre tutti i colori spettrali poiché cadono al di fuori del campo dei tre primari scelti. Se si usano i primari reali questa difficoltà di trovare alcuni colori fuori dal cerchio è inevitabile, non essendo questi colori ottenibili con miscele positive dei colori primari. Il sistema CIE così ha adottato tre primari di riferimento che sono concettualmente teorici, in quanto si suppone che abbiano una saturazione maggiore rispetto ai colori spettrali e conseguentemente si trovino al di là del luogo spettrale. Si evita così l uso di valori negativi. Questi tre primari teorici, irreali, come a volte vengono chiamati, non sono riproducibili in realtà e vengono chiamati stimoli. Dobbiamo pensare a questi tre stimoli come a entità matematiche basate su colori reali modificati per mezzo dell applicazione di formule. Essi vengono chiamati X, Y, Z, e sono stati scelti per poter includere tutti i colori 62

65 spettrali. Tutti i colori spettrali cadono entro il triangolo che si ottiene congiungendo questi tre colori primari irreali ipersaturi, e in questo modo non serve più usare valori negativi. Nella pratica è necessario però usare colori reali, quindi questi tre stimoli sono definiti per mezzo delle tre luci spettrali. Una volta ottenuto un paragone con i colori reali, il risultato può essere trasformato in termini di X, Y, Z. A questo punto quello che otteniamo non è un triangolo equilatero, cosa che sarebbe auspicabile per rendere più semplici i calcoli, ma una volta definiti gli stimoli X, Y, Z è possibile situare tali punti agli angoli di un triangolo equilatero. I valori di questi tre stimoli possono così essere usati per i calcoli esattamente come prima si usavano il rosso, il verde e il blu. Qualsiasi colore si trova su un punto che ha determinati valori positivi rispetto ai tre stimoli X, Y, Z. Siccome la somma delle coordinate in un triangolo equilatero è uguale a 1, è sufficiente stabilire il valore di due sole coordinate per dedurre per differenza il valore della terza. Così si è trasformato questo triangolo in un triangolo rettangolo, in cui si ha la possibilità di riferirsi soltanto a due stimoli primari X e Y. Quando i valori tristimoli X, Y e Z vengono riferiti come coordinate di cromaticità, vengono indicati dalle lettere minuscole x, y e z che rappresentano le proporzioni relative dei tre stimoli primari necessarie per definire un colore. La forma del triangolo a cui si arriva, mostrata in figura 4.9, viene chiamata diagramma cromatico CIE. Y G R Z B X Figura 4.9: Il triangolo cromatico calcolato a partire dai tre colori primari teorici X, Y, Z. Si noti come ora anche i colori non spettrali cadano all interno del triangolo. 63

66 Essendo il colore tridimensionale, manca un terzo fattore da prendere in considerazione affinché esso sia completamente definito. La tinta e la saturazione di un colore sono completamente definite dalle coordinate cromatiche, che indicano in quale punto del triangolo cada il colore, ma resta da specificare la luminanza. Si trova utile uguagliare il valore di Y al fattore di luminanza. A questo punto i valori tristimolo danno una descrizione completa del colore. Per descrivere in maniera univoca il colore nel sistema CIE dobbiamo fornire i valori dei tre tristimoli, oppure esprimere la sua posizione nel triangolo fornendo le sue coordinate cromatiche e il fattore di luminanza. Il risultato dell introduzione dei tre nuovi coefficienti tristimolo X,Y e Z furono le tabelle di Guild [21] e Wright [22] del 1931 che originarono le CMF x(λ), ȳ(λ), z(λ) relative all Osservatore Standard a 2. Il cambio di coordinate è stato scelto in modo che tutti i colori visibili all uomo, ovvero il suo gamut, sia totalmente riproducibile tramite valori positivi delle color matching functions. I risultati che la CIE raggiunse nella creazione di questo spazio furono i seguenti: Le nuove color matching functions sono ovunque maggiori uguali a zero. Nel 1931 tutti i calcoli venivano fatti a mano e questa specifica fu utile per semplificare i calcoli. Visto che tutta l informazione sulla luminanza fu posta in Y, ȳ(λ) risultò uguale alla curva fotopica V (λ). Anche questo risultato servì per semplificare i calcoli. Il bianco ad energia costante risulta essere in corrispondenza di x = ȳ = z = 1/3. Il gamut di tutti i colori spettrali giace nel triangolo di vertici [1 0], [0 0], [0 1]. Dal momento che le CMF del 1931 e le loro varianti avevano una serie di limiti che si manifestavano in condizioni di visione particolari, nel 1964 la CIE fece un ulteriore esperimento di corrispondenza colori utilizzando un insieme leggermente diverso di primari, chiamati ancora X, Y e Z [23]. Questa volta però vennero modificate le condizioni di visione delle persone del campione allargandone il campo ottico a 10. Inoltre si eseguirono gli esperimenti utilizzando particolari accorgimenti tecnici e correzioni al fine di evitare distorsioni visive. Vennero così create le CMF x(λ), ȳ(λ), z(λ) relative all Osservatore Standard a Gli spazi colore Gli spazi colorimetrici Lo spazio CIE XYZ Nello studio della percezione del colore, uno dei primi spazi colore definiti matematicamente fu il CIE XYZ (1931). Questo spazio colore nacque da una 64

67 serie di esperimenti psicologici compiuti negli anni 20 da Wright [22] e Guild [21]. I risultati ottenuti furono combinati nella specificazione dello spazio XYZ, che presenta caratteristiche matematiche più semplici (figura 4.10) a differenza dello spazio RGB (basato sulle color matching functions r(λ), ḡ(λ), b(λ)). Un altro importante miglioramento ottenuto utilizzando X, Y e Z anziché R, G e B è stato quello di poter rappresentare nello spazio tutti i colori percepibili dall occhio umano utilizzando solo valori positivi, quindi tutti i colori spettrali. Qualsiasi metodo per associare i valori di tristimolo ad un colore è chiamato Figura 4.10: Lo spazio XYZ (centro) corrisponde ad un semplice cambiamento di coordinate a partire dallo spazio RGB (sinistra). A destra il diagramma di cromaticità x, y. modello colore. Il CIE XYZ, ad esempio, è uno spazio colore che utilizza direttamente questi tre valori. Altri spazi utilizzano trasformazioni di questi tre valori. La cromaticità di un colore fu specificata da due parametri derivati x ed y, due dei tre valori normalizzati che sono funzioni dei tre valori di tristimolo. x = X X + Y + Z y = Y X + Y + Z z = Z X + Y + Z La figura 4.11 mostra il diagramma di cromaticità che illustra alcune importanti proprietà dello spazio colore CIE XYZ. Il diagramma di cromaticità è una proiezione dello spazio sulle coordinate x ed y e specifica come l occhio umano percepisca la luce di un dato spettro. Le caratteristiche di questo diagramma di cromaticità sono le seguenti: Il diagramma rappresenta tutte le cromaticità visibili dall occhio di un osservatore standard. Le cromaticità sono mostrate tramite colori e questo diagramma rappresenta il gamut della visione umana. Il limite del gamut è chiamato locus spettrale e corrisponde alle luci monocromatiche le cui lunghezze d onda sono mostrate in nanometri. I colori meno saturi appaiono nell interno della figura, il bianco si trova per convenzione al centro. 65

68 Figura 4.11: Il diagramma di cromaticità dello spazio CIE XYZ. Tutte le cromaticità visibili corrispondono a valori non negativi di x, y e z ( e quindi a valori non negativi di X, Y e Z). Presi due punti sul diagramma di cromaticità, ovvero prese due cromaticità (due colori), tutti i colori che possono essere formati mescolando queste due cromaticità giacciono sulla linea che congiunge i due punti. Tutti i colori che possono essere formati mescolando tre colori giacciono nel triangolo avente come vertici i tre colori dati. Una distanza sul diagramma di cromaticità x,y non corrisponde in generale al grado di differenza percepita tra due colori. Per ottenere tale proprietà sono stati proposti gli spazi percettivamente uniformi, di cui si parlerà in seguito. Lo spazio CIELAB Nella costruzione del triangolo XYZ rimase un problema: a causa delle particolari caratteristiche dell occhio, uguali distanze euclidee in aree diverse del triangolo non rappresentano uguali differenze percettive. Questo significa che lo spazio colore XYZ, così come quello RGB, non è percettivamente uniforme. MacAdam compì degli studi che lo portarono a definire quelle che sono oggi conosciute come le ellissi di MacAdam [24]. Le ellissi rappresentano regioni nel diagramma di cromaticità x, y all interno delle quali l occhio umano non riesce a percepire alcuna differenza di colore. Gli stimoli in quelle regioni sono quindi percettivamente costanti. Come si vede in figura 4.12, le ellissi hanno 66

69 aree molto differenti, ciò significa che in alcune aree dello spazio colore, ad esempio nella zona del verde, sia necessario percorrere grandi distanze prima che venga percepito un cambiamento nella tonalità, mentre in altre zone, ad esempio nella zona del rosso, venga percepito un cambiamento di tonalità ad uno spostamento minimo nello spazio. Per ovviare all inconveniente si attuò un ulteriore trasformazione del triangolo, Figura 4.12: Le ellissi di MacAdam. deformandolo ancora una volta in modo che alcune aree venissero selettivamente ampliate. Nel triangolo risultante, chiamato triangolo di cromaticità uniforme, le distanze uguali rappresentano più fedelmente ciò che l occhio percepisce come uguali mutamenti di tinta e saturazione. Non esiste comunque una esatta relazione tra la differenza visiva del colore e la distanza nel triangolo di cromaticità uniforme. Lo spazio colore CIELAB fu introdotto per cercare di risolvere questo problema. Le tre coordinate del CIELAB rappresentano la luminosità del colore ( L = 0 indica il nero, L = 100 indica il bianco) e la posizione tra gli assi rosso-verde (a ) e giallo-blu (b ) e la sua caratteristica principale è quella di essere percettivamente uniforme. Cambiamenti uniformi nelle componenti dello spazio colore L a b corrispondono a cambiamenti uniformi del colore percepito, in modo da approssimare le differenze percepite tra due colori come la distanza euclidea tra le tre componenti. 67

70 4.6.2 Gli spazi device-oriented Lo spazio srgb Il modello colore RGB è un modello di tipo additivo che si basa sui tre colori rosso, verde e blu, dalle cui iniziali deriva il suo nome. Ciò si rifà alla stessa struttura e funzione dei fotorecettori presenti nella retina dell occhio. Per definire lo spazio srgb (standard RGB) [25] è necessario definire le esatte cromaticità di rosso verde e blu e del bianco di riferimento. Visto che la base di tutti gli spazi colore è lo spazio colore CIE XYZ, lo spazio srgb definisce queste quantità utilizzando i valori di cromaticità x, y e z. Ad esempio, questa è la scelta operata per le tre primarie: Cromaticità R G B x y z Una volta definiti R, G e B in funzione di x, y e z, si può facilmente calcolare il gamut dello spazio, ovvero i colori che lo spazio può rappresentare. Questo modello tridimensionale viene rappresentato da un cubo (figura 4.13) i cui tre assi corrispondono alle tre componenti con cui si identifica un determinato colore. In questo spazio, un punto qualsiasi rappresenta il colore che si ottiene da tanto rosso, verde e blu quanto valgono rispettivamente le sue coordinate. Ad ogni angolo del cubo corrisponde, per così dire, un colore puro. La diagonale evidenziata nel disegno, con uguali quantità di ciascun fondamentale, rappresenta i livelli di grigio, che va dal nero [0, 0, 0] al bianco [255, 255, 255]. Talvolta si usa la scala da 0 a 255, altre volte la scala da 0 a 1. Per lo spazio srgb avremo soltanto valori positivi per ognuna delle tre coordinate. È lo spazio colore tipicamente usato in ambito informatico ed è caratterizzato da una semplice rappresentazione binaria che si avvale di un byte di informazione per ognuna delle tre componenti srgb. Ognuna di queste componenti può assumere un valore che va da 0 a 255, esistono dunque 256 valori possibili per ognuna di esse, per un totale di colori visualizzabili nel caso di un display capace di una rappresentazione a 24 bit. Si può facilmente intuire che da nessuna luce (0R+0G+0B) si ottiene il nero, mentre dalla piena luce (255R+255G+255B) si ottiene il bianco. Lo spazio CMY(Z) Anche questo spazio viene rappresentato come un cubo. La differenza rispetto allo spazio srgb consiste nell usare come colori fondamentali i complementari di RGB, ovvero ciano (C), magenta (M) e giallo (Y) ed una sintesi di tipo sottrattivo anziché di tipo additivo. Mescolanza sottrattiva è una definizione in parte impropria, in quanto il termine mescolanza indica il mettere insieme, mentre l aggettivo sottrattiva 68

71 Figura 4.13: Rappresentazione spaziale dello spazio srgb. indica sottrarre, separare. In realtà si riferisce alla mescolanza di pigmenti, i quali agiscono sulle radiazioni elettromagnetiche in modo sottrattivo, come avviene in un filtro. La colorazione degli oggetti comporta meccanismi sottrattivi, in quanto si basa sulla loro capacità di assorbire componenti cromatiche della luce. Il colore è dato dalle componenti che non sono state assorbite. Il punto di partenza della sintesi sottrattiva è la luce bianca: poiché questa contiene tutti i colori, per ottenere il colore voluto occorre eliminare i restanti assorbendoli. In questo processo la luce riemessa è minore di quella che cade sul corpo. Quindi da un insieme di radiazioni ne vengono arrestate o ridotte di intensità alcune, come avverrebbe con un filtro. Ad esempio, mescolando giallo e blu, il pittore otterrà come risultato il verde. La luce, che contiene tutte le lunghezze d onda, colpisce il pigmento giallo e quello blu. Il primo riflette le onde corrispondenti al giallo, arancio e verde e assorbe tutte le altre, il secondo riflette quelle corrispondenti al blu, verde e viola e assorbe tutte le altre. Mescolandoli, ognuno dei due continuerà ad assorbire (cioè a sottrarre, da qui il nome) le stesse lunghezze d onda di prima. Il blu verrà assorbito dalla componente gialla e il giallo da quella blu. Le uniche componenti che continueranno ad essere riflesse sono quelle del verde, dato che sono le uniche che entrambi riflettevano, comuni a entrambi. Tornando allo spazio CMY, i colori sono quindi specificati da ciò che viene sottratto dalla luce bianca, piuttosto che da cosa viene aggiunto all oscurità. Le coordinate [0, 0, 0] identificano quindi il bianco mentre le coordinate [1, 1, 1] identificano il nero. È lo spazio usato dai dispositivi di stampa. Una variante è lo spazio CMYK, dove K rappresenta il nero che viene aggiunto in questo nuovo modello in base alla constatazione che il nero ottenuto depositando i tre tipi di inchiostro ciano, magenta e giallo fornisce abitualmente una resa molto bassa. 69

72 4.6.3 Gli spazi user-oriented Lo spazio HSV Lo spazio colore HSV, o HSL è una diversa rappresentazione di un punto nello spazio colore RGB. In pratica è semplicemente una trasformazione dello spazio che fa corrispondere un punto [R, G, B] ad un punto [H, S, V]. Il gamut è lo stesso dello spazio colore RGB su cui poggia. Questo spazio parte dal metodo usato dagli artisti per definire i colori, un pigmento puro può essere reso più tenue aggiungendo del bianco e più scuro aggiungendo del nero. Infatti non è facile ottenere un colore che si desidera mescolando tra loro le quantità giuste di rosso, verde e blu (come nel caso dello spazio RGB). Permette quindi di specificare un colore in maniera abbastanza naturale, non essendo legato ad alcun dispositivo hardware di rappresentazione. Si avvale di tre valori caratteristici, di cui due lineari ed uno angolare. Una delle rappresentazioni spaziali di questo spazio colore è il cono (figura 4.14). L asse verticale della piramide, V (value) in HSV o L (lightness) in HSL, porta le informazioni relative alla luminosità del colore (tendenza al bianco o al nero) e varia da 0 per il nero a 1 per il bianco ed i colori luminosi. H (hue), la tinta, è la coordinata angolare. Registra la rotazione attorno all asse verticale in senso antiorario, necessaria per selezionare la tinta desiderata. Zero gradi corrispondono al rosso, 120 gradi al verde e 240 gradi al blu. La coordinata S (saturation) corrisponde alla saturazione, i colori desaturi assumono un valore S uguale a 0, i colori massimamente saturi (puri) assumono un valore di 1. Figura 4.14: Rappresentazione spaziale dello spazio HSV. 4.7 I sistemi colore I sistemi di ordinazione del colore si dividono in tre gruppi principali [10]. Quelli presentati in questa sede sono quelli che si basano sui principi della percezione del colore e sono talvolta chiamati per questo motivo color appearance systems o 70

73 sistemi percettivi. In essi uguali differenze in ogni regione dello spazio corrispondono a uguali differenze percettive. I sistemi di colore degli altri due gruppi si basano sui principi della mescolanza addittiva e della mistura di coloranti Il sistema Munsell Questo sistema [26] pone alla sua base il concetto di uguali differenze tra colori contigui. Nel caso dei grigi, vennero messi in fila ordinata tutti i tipi di grigi a disposizione in modo che la differenza percepita tra un determinato grigio e quello che lo precede fosse uguale a quella percepita tra quello stesso grigio e quello seguente. In questo modo i grigi nella scala creata sono spaziati da differenze uguali tra loro. Essendo Munsell un sostenitore del sistema metrico decimale, divise la scala dei colori acromatici dal nero al bianco in dieci gradini. Egli pose il nero all inizio di questa scala (valore 0) in modo tale che i grigi più chiari assumessero via via valori maggiori fino al bianco (valore10). In questo modo si può identificare un particolare grigio in base al numero dei gradini unitari che lo separano dal nero, ma non si dice nulla su come quel grigio appaia. La grandezza che varia lungo questa scala dei grigi è la lightness (scala chiaroscuro), e la sua misura è stata chiamata value. Un procedimento analogo a questo è stato poi utilizzato da Munsell per numerare tutte le tonalità cromatiche contenute nel cerchio dei colori. Nell intero cerchio individuò 100 colori tutti equidistanziati dal punto di vista percettivo uno dall altro. Qui però era più difficile, trattandosi di un cerchio, individuare un punto di partenza (che è anche punto di arrivo). Individuò così cinque colori di un certo rilievo, in modo da definire per interpolazione gli altri cinque necessari per arrivare a dieci. Scelse il rosso come inizio della sequenza, poiché risulta essere il colore che spicca maggiormente per le sue qualità cromatiche. Divise quindi il cerchio in dieci parti, creando quindi cinque archi principali (0-10, 20-30, 40-50, 60-70, 80-90) che si alternano con i cinque archi secondari (10-20, 30-40, 50-60, 70-80, 90-0). Al primo arco viene attribuito il colore rosso, e il colore in posizione 5 (5R), cioè al centro dell arco, rappresenterà il rosso più rosso. Si trattava a questo punto di assegnare un colore agli altri 4 archi principali: al terzo attribuì il giallo, al quinto il verde, al settimo il blu, al nono il porpora. Questa grandezza si chiama hue. Munsell non prestò molta attenzione ai nomi utilizzati dato che secondo lui la cosa più importante per identificare una tonalità senza ambiguità era localizzarla in una precisa posizione del cerchio; tutte le tinte sono infatti identificate da un numero. L ultima cosa da fare era organizzare e numerare i colori appartenenti ad una stessa tinta. Prendendo tutti i colori di superficie che si possono raccogliere, isolò dei mazzetti di colori di uguale tinta che dovevano successivamente essere ordinati. Operò poi un altra cernita all interno di ogni mazzetto, per individuare quei colori che apparivano della stessa chiarezza di un particolare grigio della scala acromatica. In questo modo, per ognuno dei dieci livelli della scala bianco- 71

74 nero, si avrà un certo numero di colori appartenenti ad una stessa tinta. Tra questi venne scelto quel particolare colore che si differenziava dal corrispettivo grigio in maniera uguale a quanto questo si differenziava dai due grigi immediatamente vicini. Estrasse quindi dal mazzetto altri colori in modo da formare una sequenza equispaziata che, partendo dal grigio, si dirigesse verso colori sempre meno grigi, cioè più colorati. Ciò che contava era la posizione di ciascun colore nella relativa scala. Munsell chiamò chroma la variabile che caratterizzava questa scala. Partendo dallo zero (colore acromatico) essa assume valori più alti per colori sempre più lontani dal grigio. Le tre grandezze individuate (value, hue e chroma) sono indipendenti e caratterizzano uno spazio tridimensionale nel quale la scala dei grigi costituisce un asse verticale. Intorno ad esso si dispongono le diverse tonalità secondo il cerchio cromatico, e per ogni livello di chiarezza valori crescenti di croma si allontanano dall asse verso l esterno. Idealmente si andrebbe a formare un cilindro (qualora per ogni livello di chiarezza il numero di gradini di croma fosse uguale per tutte le tonalità), ma essendoci delle restrizioni naturali la forma concreta dello spazio occupato dal sistema Munsell è un albero irregolare, detto albero di Munsell (figura 4.15). Il sistema Munsell non prevede che ogni colore formi con quelli adiacenti salti percettivamente uguali in tutte le direzioni dello spazio, ma soltanto in alcune. Figura 4.15: Rappresentazione spaziale del sistema Munsell Il Sistema Naturale dei Colori (Natural Colour System) Questo sistema [27, 28] è stato pubblicato dall Istituto Scandinavo dei Colori di Stoccolma. Esso si basa sul modo in cui i colori vengono percepiti e sulle tre 72

75 paia di colori opposti (bianco-nero, rosso-verde, giallo-blu) proposti da Hering. Tutti i colori che possiamo immaginare sono descrivibili mediante questo sistema attraverso una notazione NCS precisa e il concetto che ne sta alla base è quello di somiglianza. Se chiediamo a dei soggetti di ordinare, senza specificare secondo quale criterio, un insieme di tante carte colorate di diversa tonalità, il compito verrà svolto arrivando ad una disposizione che gli stessi soggetti riterranno alla fine immodificabile. Tutti gli esseri umani ordineranno quelle carte allo stesso modo, seguendo il criterio di mettere vicini colori che si somigliano. Il criterio seguito da questo sistema è basato sulle caratteristiche dei colori così come appaiono (somiglianza percettiva), e non sull equispazialità, caratteristica fondamentale ad esempio nel sistema Munsell. Il cerchio dell NCS viene diviso in quattro parti separate dai colori unici o puri (psychologically unique hues, rosso, giallo, verde, blu), chiamati in questo modo in quanto non assomigliano a nessun altro e non appaiono contaminati da sfumature di nessun altro colore (caratteristica di purezza soggettiva) [29]. I colori compresi tra due tinte uniche somigliano a entrambe in maniera più o meno accentuata, tale somiglianza si manifesta anche osservando il colore da solo. Ciò è possibile perché i colori unici sono prototipici, cioè connaturati al nostro sistema visivo, indipendenti dalla nostra esperienza [30]. Le tinte miste, ovvero quelle non uniche, non assomigliano mai a più di due tinte uniche diverse, in particolare quelle che limitano l intervallo entro il quale si trovano. Gli intervalli compresi tra due tinte uniche vengono chiamati scale bipolari, in quanto i colori compresi in questi intervalli possono variare la loro somiglianza con i due estremi in modo che ad un aumento da un lato corrisponda sempre una diminuzione dall altro. Si può quindi dividere il cerchio in due parti: da una parte troviamo tutti i colori rossastri e dall altra tutti i verdastri. Un colore non può appartenere contemporaneamente ai due semicerchi perché non può somigliare a entrambi questi colori: questa proprietà è definita opposizione o incompatibilità. Il cerchio può essere diviso ulteriormente in altre due parti, da una parte troviamo i colori giallastri, dall altra i colori bluastri. Anche in questo caso si applica la stessa proprietà di opposizione. Per rappresentare queste caratteristiche il cerchio viene diviso in quattro quadranti uguali in modo che due tinte percettivamente opposte si trovino agli estremi di un diametro, e le altre due si trovino agli estremi di un altro diametro perpendicolare rispetto al primo. Ciò è facilmente comprensibile osservando la figura 4.16 (in alto a sinistra). In questo sistema la notazione quantitativa numerica esprime la caratteristica visibile del colore in termini della sua somiglianza con una o due delle tinte uniche. Un colore giallo-verde che sembra per metà simile al giallo e per metà al verde, viene definito 50%G e 50%Y (G50Y ). Se un altro giallo-verde somiglia al giallo al 70%, la somiglianza con il verde risulterà essere del 30%, in modo che il totale sia sempre del 100%. In questo modo sarà sufficiente un solo valore per esprimere entrambi i gradi (in questo caso G70Y, ovvero colore verdino somigliante al giallo per il 70%). Per i colori unici sarà sufficiente la notazione 73

76 Figura 4.16: In alto a sinistra il cerchio NCS. A destra il triangolo delle sfumature di una stessa tinta. Nel vertice superiore (W, white) si trova il bianco perfetto, nel vertice inferiore (S, schwarz) si trova il nero perfetto e nell altro vertice (C) la nuance di massima cromaticità per quella determinata tinta. All interno del triangolo si trovano tutti i colori che assomigliano in grado diverso ai tre colori estremi, nelle proporzioni indicate dai numeri a lato. In basso, solido dei colori del sistema NCS: se si dispongono tutti i triangoli delle diverse tonalità intorno al comune asse dei grigi, si viene a formare un solido regolare a forma di doppio cono. Immagini tratte dal sito G, Y, R, B; in quanto la somiglianza con i relativi colori è del 100%, non assomigliando a nessun altra tinta. Va ricordato che la quantificazione numerica usata da questo sistema esprime diversità qualitative fra colori, ovvero somiglianze percettive, e non quantitative in senso fisico. Quello che si misura è una qualità percettiva. Nel caso della scala bipolare bianco-nero, in cui il bianco ha valore 0 e il nero ha valore 100, i valori crescenti nella notazione indicano la somiglianza con il nero. I colori nell intervallo vengono numerati in funzione della loro somiglianza con i due estremi. In modo analogo a quanto visto finora è possibile ordinare tutti colori disponibili di una certa tonalità (detti nuances, o sfumature) in modo da mettere vicini colori che si somigliano. L ordinamento che ne risulterà sarà bidimensionale, distendendosi su un piano con una forma triangolare (figura 4.16, in alto a de- 74

77 Figura 4.17: Un esempio di notazione NCS. stra). Verso i vertici del triangolo i colori assomigliano sempre di più al bianco da un lato, al nero da un altro e al colore massimamente carico dal terzo. Si creano così tre scale bipolari che costituiscono i lati del triangolo: una scala è compresa tra la nuance massimamente carica (cromatica) della tinta in questione e il bianco, una seconda tra la stessa e il nero, una terza tra il nero e il bianco. Qualsiasi colore situato lungo una di queste scale bipolari si collocherà in una particolare posizione in funzione della sua somiglianza con gli estremi, e quindi verrà identificato da una notazione numerica che esprimerà tali somiglianze con lo stesso criterio percentuale e complementare visto precedentemente. Tutte e tre le scale conterranno valori che variano in somiglianza con un estremo da 0% a 100%. Per questo motivo il triangolo equilatero è quello più adatto, in quanto le scale sono rappresentate da segmenti uguali. Mettendo a confronto tutti i triangoli (per ogni colore) possiamo isolare all interno di ognuno colori di uguale bianchezza, nerezza e cromaticità. Per ognuna di queste caratterizzazioni, le linee sono parallele tra di loro e opposte al vertice cui mostrano la somiglianza in oggetto. Quindi qualsiasi nuance manifesta qualche somiglianza con ciascuno dei tre vertici, i tre valori che esprimono tale somiglianza assommano sempre a 100%. Una nuance viene quindi identificata da una terna di numeri, notazione che allo stesso tempo rende anche l aspetto percettivo del colore, esprimendone le caratteristiche essenziali, cioè quanto appare cromatico, bianco e nero. Come si sarà notato, in questo sistema non si fa riferimento alla saturazione, sebbene questa sia facilmente individuabile nel triangolo. La linea di massima saturazione (bianchezza uguale a zero) è quella che unisce il nero con il massimo di cromaticità. La minima saturazione si ha lungo la scala dei grigi, dove la cromaticità è zero. Per rappresentare tutti i possibili colori di superficie si dispongono tutti i triangoli delle diverse tonalità intorno al comune asse dei grigi, e si viene così a formare un solido a forma di doppio cono, visibile in figura 4.16, in basso. Due esempi concreti di notazione NCS sono forniti per la bandiera svedese in figura Si veda anche la figura Il sistema OSA-UCS L OSA-UCS [31] è un sistema sviluppato dalla Committee on Uniform Color Scales della Optical Society of America tra il 1947 e il 1974 che contiene un insieme basico di di 424 campioni di colore organizzati in tre dimensioni. I campioni di colore sono sistemati in una forma romboedrica regolare (figura 4.19) 75

78 Figura 4.18: I colori della bandiera svedese sono stati ufficialmente stabiliti in NCS 0580-Y10R per il giallo e NCS 4055-R95B per il blu. nella quale ogni colore è circondato da dodici colori vicini, tutti percettivamente equidistanti dal colore considerato. Le coordinate utilizzate sono L (lightness), j (asse giallo-blu) e g (asse rosso-verde). Questo sistema ha il vantaggio di organizzare i colori nello spazio in modo percettivamente equo, il suo principale inconveniente è tuttavia quello di non estendersi a regioni molto sature. Questo sistema è disponibile in forma di atlante, il quale contiene dei tasselli colorati che rappresentano, quando osservati con illuminazione diurna (D 65 ) e su uno sfondo grigio medio, i colori del sistema OSA come specificati dalle coordinate CIE 1964 [23]. Figura 4.19: Rappresentazione spaziale del sistema OSA-UCS. 76

79 Parte II Color Naming 77

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81 If one says red (the name of a color) and there are fifty people listening, it can be expected that there will be fifty reds in their minds. And one can be sure that all these reds will be very different. J. Albers 79

82 80

83 CAPITOLO 5 Lineamenti di una storia degli studi attraverso due secoli 5.1 Introduzione Il problema della denominazione del colore nei suoi vari aspetti ha costituito e costituisce ancora oggi un campo di osservazione privilegiato per linguisti, psicologi e antropologi. Già nel corso dell Ottocento ci si iniziò ad interessare e a dedicare allo studio dei termini di colore. In questo capitolo si accennerà per sommi capi, data la vastità della relativa bibliografia, alla storia dei vari tipi di approccio alla terminologia cromatica a partire dal diciannovesimo secolo fino a giungere al 1969, con il lavoro di Berlin e Kay [32]. Questa scelta è stata dettata dal fatto che il loro lavoro è ancora oggi considerato il più importante e decisivo in questo campo, e verrà quindi analizzato in modo separato e più dettagliato. Gli stessi Berlin e Kay fecero un operazione simile nel loro testo, delineando la storia degli studi condotti prima di loro, operazione utile per rendere giustizia alla ricerca precedente, ma anche per collocare il loro studio in una prospettiva storica. 5.2 Ottocento Nella seconda metà dell Ottocento il movimento scientifico evoluzionista cercò, nella terminologia cromatica in generale e nei nomi dei colori dei testi omerici 81

84 in particolare, un appoggio e una conferma alla teoria che sosteneva. L umanità preistorica, completamente cieca al colore e sensibile solo alla luce, avrebbe lentamente sviluppato il senso cromatico che si sarebbe via via affinato nel corso del processo evolutivo. Si contrapponevano a queste posizioni, che chiamiamo evoluzionistiche, le posizioni culturalistiche. In questo stesso periodo, divenne di conoscenza comune tra gli studiosi il fatto che i principali nomi di colore nelle diverse lingue non erano perfettamente traducibili da una lingua ad un altra. Per alcuni questa era una prova dell esistenza di differenze percettive a base biologica tra i diversi gruppi di esseri umani. Il primo lavoro sullo sviluppo del senso cromatico di cui si ha traccia è quello di William Gladstone [33], studioso di Omero. Proprio studiando questa figura, egli si rese conto dell apparente mancanza di termini di colore astratti nei suoi scritti. Riscontrò anche delle incertezze e inconsistenze nell applicazione e nell uso di questi termini che lo portarono a sostenere che i greci del tempo di Omero non avessero una chiara nozione del termine colore e non avessero ancora sviluppato pienamente una capacità di percepire i colori. Queste persone possedevano a suo avviso abilità meno affinate rispetto all uomo moderno, pur distinguendo tra gradi di luminosità, cioè tra chiaro e scuro, oltre ad avere un lessico poco sviluppato privo di termini veramente astratti e di termini specifici per le lunghezze d onda corte corrispondenti al verde e al blu. Lazarus Geiger [34], in modo analogo, sostenne che la sensibilità dell uomo al colore non fosse stata così fine fin dall inizio della sua storia, ma che esistessero un affinamento e uno sviluppo continuo nella capacità umana di percepire i colori. Fu quindi il primo a sostenere l esistenza di una sequenza universale nell acquisizione dei colori basici. Basandosi sulle sue dettagliate analisi di vari testi scritti antichi, egli ipotizzava un periodo iniziale di vaga sensibilità al colore nella storia dell umanità caratterizzato da una capacità di ricognizione indifferenziata del colore, cui sarebbe poi seguita la possibilità di percepire grado a grado alcuni colori. L uomo avrebbe acquisito consapevolezza riguardo ai colori nell ordine in cui questi compaiono nello spettro, a partire dalla lunghezza d onda più lunga. Propose sei periodi nello sviluppo della terminologia dei colori: 1. vago concetto di qualcosa di colorato, non ci sono distinzioni di colore; 2. distinzione di nero e rosso; 3. aggiunta del giallo (che include al suo interno il verde); 4. aggiunta del bianco; 5. aggiunta del verde; 6. aggiunta del blu. Una dura critica alle posizioni di Geiger e Gladstone arrivò da parte di Grant Allen [35]. Egli sosteneva che la scarsità di termini di colori nelle lingue 82

85 primitive non indicava affatto un mancato sviluppo nelle capacità percettive. Le lingue che mancano di termini primari astratti infatti si avvalgono in cambio di numerose denominazioni secondarie concrete, come termini derivanti da nomi di oggetti. Una delle ragioni che spiegano la mancanza di termini astratti sarebbe la diversità dei colori degli oggetti e della natura circostanti dei popoli primitivi rispetto a quelli moderni. Riguardo all applicazione vaga e imprecisa dei termini di nomi da parte di Omero mostrò, portando degli esempi, che anche uno scrittore moderno può mostrare tale vaghezza, magari proprio per scelta, pur avendo un senso del colore ben sviluppato. I termini di colore, a suo avviso, sono sempre vaghi. Il motivo della mancanza di nomi di colore astratti nei popoli antichi poteva essere che gli oggetti a cui erano interessati (gli oggetti della natura) erano di tinte talmente varie che nomi di colori astratti sarebbero stati troppo vaghi per descriverli. L uomo primitivo aveva, nonostante ciò, una capacità percettiva per i colori molto affinata e proprio per questo motivo si avvaleva di un ampio numero di nomi di colori concreti che noi chiameremmo ora secondari. Alla fine dell Ottocento si era diffusa la consapevolezza che le terminologie cromatiche nelle varie lingue fossero diverse e si ammetteva l esistenza di un numero di termini primari più ridotto nelle fasi arcaiche delle lingue europee e dei popoli primitivi contemporanei rispetto alle lingue europee moderne. Inoltre si riconosceva, seppur in modo ancora vago, l esistenza di una sequenza di sviluppo precisa, secondo la quale comparirebbero per primi i termini relativi alla luminosità e poi quelli relativi alla tonalità (in primo luogo il rosso). Si riteneva tuttavia che la discussione sarebbe rimasta aperta fino a che non si fosse compresa la connessione tra sviluppo della terminologia e sviluppo fisiologico delle capacità percettive e la loro possibile indipendenza l uno dall altro. Il primo a capirlo fu un oftamolgista tedesco, Hugo Magnus [36], il quale sosteneva la tesi evoluzionistica di Geiger e riteneva che si era avuto uno sviluppo progressivo dell organo della vista così come degli altri organi di senso in generale. Ci sarebbe quindi stata un epoca in cui l uomo non distingueva che il bianco e il nero, cioè la luce dall oscurità. Pian piano la sensibilità cromatica si sarebbe perfezionata permettendo di percepire i vari colori secondo l ordine rosso, arancione, giallo, verde, blu, viola. L imperfezione del senso cromatico era dovuta alla struttura ancora primitiva della retina. Successivamente [37] egli realizzò che terminologie di colore che aumentano in complessità nel tempo non riflettono necessariamente cambiamenti nell abilità di discriminare colori. Geiger poteva quindi aver ragione riguardo all evoluzione filologica-linguistica, ma non riguardo alla presunta evoluzione fisiologica. Magnus decise così di trattare i due aspetti separatamente attraverso uno studio crossculturale che avrebbe permesso di determinare se e fino a che punto la presenza o l assenza della percezione cromatica dovesse risultare nella presenza o nell assenza di una analoga espressione linguistica. Egli condusse questo studio inviando dieci campioni di colore standardizzati rappresentanti punti focali del bianco, nero, rosso, verde, giallo, blu, marrone, viola, arancione e grigio (gli 11 colori basici ad eccezione del rosa) a missionari, ufficiali e altre persone 83

86 in molte parti del mondo, accompagnati da istruzioni dettagliate in inglese e tedesco. Queste istruzioni contenevano un esplicita avvertenza che includeva una chiara distinzione tra aspetto fisiologico e filologico del problema e spiegava che il fatto che una lingua non distinguesse lessicalmente tra due colori non implicava necessariamente che i parlanti di quella lingua non li distinguessero percettivamente. Ricevette questionari compilati su 25 lingue africane, 15 lingue asiatiche, 3 lingue australiane, 15 lingue nordamericane, una lingua sudamericana e 2 lingue europee. I risultati a cui arrivò dicono che l abilità di percepire il colore non è meno sviluppata nei popoli primitivi, ma semplicemente che questi hanno un lessico cromatico limitato. Riscontrò tuttavia ampie differenze tra i vari popoli analizzati. Due dati che lo impressionarono particolarmente furono l elaborazione di nomi di colori secondari in aree di alto interesse culturale e una più facile identificazione lessicale dei colori di lunghezza d onda lunghe (rosso) rispetto a quelle di lunghezze d onda medie e corte dove spesso mancava una precisa differenziazione (blu e verde). Questi due colori erano quasi sempre designati da uno stesso nome (neutralizzazione lessicale). Altra cosa che lo colpì fu la scoperta che l arancione (alta lunghezza d onda) fosse spesso incluso nel rosso o nel giallo. Questo dato lo avrebbe dovuto costringere a rivedere la sua ipotesi secondo la quale i colori appartenenti alle alte lunghezze d onda fossero maggiormente codificati nel linguaggio, ma preferì giustificarlo adducendo che il colore arancione è un colore di transizione tra rosso e giallo e che molte tribù presentano problemi riguardo ai colori di transizione, problemi dovuti ad un insufficiente pratica. Una sua ipotesi era anche quella dell emergere del giallo sempre prima del verde, ma anche questa venne smentita dai dati. Magnus concluse il suo studio con un elenco di 10 punti: 1. Tutti i popoli primitivi analizzati possiedono un senso del colore che in genere è uguale a quello dei popoli più civilizzati. 2. La percezione del colore e la sua codifica nella lingua non coincidono. In mancanza della seconda non si può postulare la mancanza della prima. 3. La percezione e l identificazione del colore sono particolarmente sproporzionati in molti popoli primitivi nei quali una percezione ben sviluppata è spesso accompagnata da una terminologia molto ridotta. 4. In caso di terminologia inadeguata, molto spesso essa mostra una forma regolare. 5. Espressioni linguistiche per colori d onda lunga sono sempre molto meglio definiti rispetto a quelli di onda corta. 6. L espressione per il colore rosso è quella più chiaramente sviluppata, poi seguono quelle per giallo, verde e blu. 7. Confusione tra espressioni linguistiche avviene di solito tra colori vicini nello spettro. Vengono unificati linguisticamente colori vicini nello spettro. 84

87 8. I colori che vengono unificati più spesso sono verde e blu. 9. La terminologia può essere ridotta al punto che tutti i colori d onda lunga vengono riuniti sotto l espressione rosso e i tutti i colori d onda corta sotto l espressione nero o scuro. 10. Anche nelle terminologie più sviluppate accade che i colori d onda corta siano uniti nel concetto linguistico di buio o indefinito. Il lavoro di Magnus rimane comunque, nonostante qualche debolezza, quello più importante e comprensivo del suo tempo. Le caratteristiche della terminologia cromatica, successivamente, non vengono più messe in rapporto con una eventuale insufficienza fisiologica nella percezione, bensì con l importanza maggiore accordata alla luminosità rispetto alla tonalità; di ciò parleremo nel seguito. Abbiamo parlato della terminologia cromatica greca; per quanto riguarda invece il lessico dei colori in latino, esso è stato studiato prevalentemente da Andrè [38]. 5.3 Novecento All inizio del ventesimo secolo la questione dell evoluzione del senso del colore nell uomo venne riaperta da Rivers [39, 40] che offrì una revisione della relativa letteratura. Egli studiò il problema del rapporto tra percezione e denominazione dei colori e della loro evoluzione con ricerche sul campo, soprattutto con una spedizione etnografica compiuta tra il 1898 e il 1900 a Torres Straits in Nuova Guinea. Una valutazione oggettiva di questo problema poteva essere raggiunta solo attraverso lo sviluppo di metodi sperimentali moderni. I suoi studi lo portarono a identificare la presenza di vari stadi nell acquisizione della terminologia cromatica, corrispondenti a stadi di sviluppo culturale. In contrasto con le posizioni di Magnus e Allen, Rivers riaprì la possibilità che i popoli primitivi percepissero i colori in maniera diversa ritenendo che quando la confusione tra verde e blu si manifesta a livello lessicale, si manifesta anche a livello percettivo. Questa minore sensibilità per il verde e blu e conseguente confusione terminologica era secondo lui dovuta ad una forte pigmentazione della retina che assorbirebbe la luce alle lunghezze d onda corte. La denominazione, secondo questo punto di vista, sarebbe subordinata alla percezione. Il lavoro di Rivers fu l ultimo tentativo di discutere l evoluzione della nomenclatura del colore prima di quello di Berlin e Kay, che si colloca circa 70 anni più tardi. In generale, tutti gli studi sui nomi di colore e sull arbitrarietà o meno con cui le lingue segmentano e codificano il continuum del colore, si collocano nella più generale problematica del rapporto tra lingua e pensiero. Riguardo a questo rapporto si oppongono storicamente due posizioni filosofiche, universalismo e relativismo. Il primo sostiene che, per dote innata, gli esseri umani ragionino tutti allo stesso modo. Le evidenti differenze che si riscontrano nella realtà non 85

88 intaccano in alcun modo la sostanziale universalità degli essere umani. Il relativismo invece sostiene che la conoscenza venga acquisita attraverso l esperienza, e di conseguenza se l esperienza è diversa, anche il modo di pensare lo sarà a sua volta. Mentre nel diciannovesimo e nella prima parte del ventesimo secolo i ricercatori vedevano le differenze nei lessici delle lingue in una prospettiva evoluzionistica, nella seconda metà del ventesimo secolo si iniziò ad opporsi a spiegazioni di questo tipo e ad indirizzarsi verso la relatività culturale e linguistica. Nel campo della linguistica, le due visioni si tradussero nelle due teorie linguistiche descritte nel seguito. Relativismo linguistico. Le lingue modellano il modo di conoscere e concettualizzare il mondo, le operazioni cognitive sono dipendenti dalla lingua usata. Chi conosce linguisticamente il mondo in un certo modo, ne sarà influenzato di conseguenza. Questa teoria è conosciuta come ipotesi di Sapir-Whorf. L origine dell ipotesi di Sapir-Whorf può essere fatta risalire al lavoro di Franz Boas sulle lingue amerindie [41]. Di origine tedesca, trasferitosi negli Stati Uniti venne a contatto con queste lingue, appartenenti a famiglie linguistiche completamente diverse, e si chiese se le differenze culturali e le differenze nello stile di vita si riflettessero nella lingua parlata. Il lavoro di Boas fu continuato da Sapir [42], uno dei suoi studenti più brillanti e da Benjamin Lee Whorf [43], a sua volta allievo di Sapir, ai quali si deve il delinearsi di questa teoria. Ecco alcune loro citazioni che ci illustrano i punti chiave della loro visione: È un illusione immaginare che uno si adatti alla realtà senza l uso della lingua e che la lingua sia meramente un mezzo incidentale per risolvere specifici problemi di comunicazione. Il fatto è che il mondo reale è in larga misura costruito sulle abitudini linguistiche del gruppo. Nessuna lingua è sufficientemente simile a un altra per essere considerata rappresentante della stessa realtà sociale. I mondi in cui vivono società diverse sono mondi distinti, non meramente lo stesso mondo con attaccate diverse etichette. Sapir [42]. Il principio della relatività linguistica [...] vuol dire, in termini informali, che gli utenti di grammatiche marcatamente diverse vengono indirizzati dalle loro grammatiche verso tipi diversi di osservazioni e valutazioni diverse di atti di osservazione esternamente simili, e dunque non sono equivalenti come osservatori ma devono arrivare a interpretazioni diverse del mondo. Whorf [43]. Noi sezioniamo la natura secondo le linee tracciate dalla nostra lingua madre. Le categorie e le tipologie che isoliamo dal mondo dei fenomeni non sono evidenti e individuabili per qualsiasi osservatore; al contrario, il mondo si presenta come un flusso caleidoscopico di impressioni che devono essere organizzate dalla nostra mente; e questo 86

89 significa soprattutto dal sistema linguistico della nostra mente. Noi ritagliamo la natura, la organizziamo in concetti, le diamo i significati che le diamo, in gran parte perché ci siamo accordati per organizzarla in questo modo; un accordo, il nostro, che vale nella comunità linguistica cui apparteniamo e che è codificato dalle forme della nostra lingua. L accordo è ovviamente implicito e tacito, ma i suoi termini sono assolutamente obbligatori; non abbiamo nessuna possibilità di parlare se non accettando l organizzazione e la classificazione dei dati che esso decreta. Whorf [43]. Questo punto di vista guadagnò l egemonia nei campi dell etnologia e della linguistica negli Stati Uniti, egemonia che venne mantenuta per diversi anni e si diffuse in diversi altri luoghi. Solo alla fine del ventesimo secolo si diffusero l universalismo e il nativismo chomskiani. La versione forte del relativismo è comunque difficile da sostenere, poiché è fuori discussione che esistano degli universali condivisi. Oggi prevale una versione debole di questa ipotesi, secondo la quale solo alcune categorie mentali più generali e astratte sono innate, mentre la forma effettiva con cui sono realizzate è il risultato dell esperienza. Per quanto riguarda il lessico dei colori, che era solitamente l esempio principe presentato a sostegno di questa tesi nonostante la scarsità di prove, secondo questa teoria la suddivisione linguistica dello spettro avviene in maniera arbitraria sia per quanto riguarda il numero di colori nelle diverse lingue che per la posizione dei confini tra i colori. Inoltre non esiste relazione biunivoca tra le parole e una zona particolare dello spettro e alle tre dimensioni del colore possono essere attribuiti valori differenti a seconda dei sistemi lessicali. Il mondo viene quindi percepito e concepito in modo diverso da comunità linguistiche diverse ed esisterebbe un rapporto di causalità tra la struttura cognitiva dei membri della stessa comunità linguistica e la loro lingua, un condizionamento linguistico della percezione e della conoscenza della realtà. Universalismo linguistico. Tutte le lingue hanno a che fare con la stessa realtà, pensiero e comportamento sono indipendenti dalla lingua usata. Anche in questo caso dobbiamo riconoscere delle versioni deboli, le quali riconoscono certamente l esistenza di differenze tra lingue, tuttavia ritengono che queste non intacchino il concetto di universalismo, il quale si riferisce alla presenza di strutture universali che accomunano tutte le lingue. Lenneberg e i suoi collaboratori [44 47] cercarono di interpretare le categorie cromatiche come manifestazioni di una Weltanschauung (esperienza, modo di vedere il mondo), ovvero come determinate culturalmente e quindi secondo una visione relativista. Si assumeva quindi che il colore fosse una esperienza universale e che ogni cultura avesse una propria categorizzazione e classificazione di questa esperienza. Ipotizzavano che una categoria percettiva con una frequenza d occorrenza alta avesse un valore maggiore e che le categorie più facilmente denominate, 87

90 ovvero le più frequenti e codificate con nomi di lunghezza inferiore, occupassero i gradini più alti nella gerarchia cognitiva. A questo scopo condussero degli esperimenti sulla ricognizione dei colori in rapporto alla loro maggiore o minore codificabilità, valutata secondo i diversi gradi di precisione nel nominare e la lunghezza o il numero delle parole utilizzate. I risultati dimostravano che tra le due variabili esiste una correlazione significativa. La codificabilità è definita come misura dell efficienza con la quale un colore può essere codificato in una lingua data e viene messa in relazione con la memoria; è quindi legata ad un comportamento non linguistico misurato attraverso l accuratezza della ricognizione. Sotto certe condizioni la memoria del colore è influenzata dalle abitudini di denominazione. Un colore che ha un nome inequivocabile in una lingua ha migliori possibilità di essere riconosciuto correttamente rispetto ad un colore meno facilmente denominabile. La precisione della denominazione sembra essere massima nei punti focali e diminuisce allontanandosi da questi. A questi studi di Lenneberg e collaboratori si ispirano alcune ricerche sul lessico dei colori in soggetti bilingui, come [48]. Sembra infatti che parlanti bilingui strutturino lo spazio colore nella loro lingua madre in modo diverso dai monolingui. Nel caso del bilinguismo si assiste ad un fenomeno di interferenza semantica, si ha cioè un mutamento di significato dei termini sotto l influsso di una seconda lingua. Ervin elaborò un metodo di predizione della terminologia cromatica dei bilingui. Vengono determinate quattro situazioni di conflitto: 1. Un termine per un referente è di alta probabilità in una lingua e non lo è nell altra; 2. Esiste una differenza nelle zone non focali nel caso di due categorie simili; 3. In una lingua vengono utilizzate due categorie per coprire una sola categoria dell altra; 4. In una lingua si usino tre categorie per coprirne due dell altra. Le ricerche sulla relazione tra attività cognitive e linguaggio sono state continuate da E. Rosch Heider e dai suoi collaboratori [49 53] che si sono concentrati sulla rilevanza dei colori focali rispetto a quelli non focali, e sul ruolo della rilevanza percettiva e cognitiva di certe aree dello spazio del colore nello sviluppo e nel mantenimento dei significati fondamentali universali dei nomi di colore: sono infatti i colori focali quelli che il bambino impara a denominare per primi. Il dominio del colore sarebbe strutturato in categorie semantiche non arbitrarie che si manifestano attorno a prototipi naturali percettivamente rilevanti. Sulla base di alcuni esperimenti sulla formazione dei concetti e sulla maniera in cui si imparano le categorie cromatiche conclusero, in opposizione a Lenneberg [47], che i fattori percettivi e cognitivi (rilevanza e memorizzabilità di certe aree dello spazio colore) possono influenzare la formazione delle categorie linguistiche. Si parlerà ulteriormente degli studi di E. Rosch Heider nel capitolo successivo, poiché si collocano temporalmente in anni posteriori allo studio di Berlin e Kay 88

91 [32]. Discostandosi dal relativismo culturale, Van Wijk [54] fu in qualche modo un precursore di Berlin e Kay che tentò di formulare una teoria transculturale dei termini di colore. Egli propose che le differenze tra le strutture dei lessici cromatici nelle diverse lingue fossero basate sulla relativa importanza che ha, nella percezione del colore, la dimensione della luminosità rispetto alla dimensione della tonalità, importanza che dipende dalla posizione geografica delle comunità linguistiche. Le società vicino all equatore, dove l intensità media di luce è più alta, avrebbero lessici che si focalizzano sulla dimensione di luminosità, mentre le società vicino ai poli si focalizzano prevalentemente sulla tinta (influsso della latitudine sulla percezione e denominazione dei colori). Secondo questa ipotesi quindi la percezione della luce (e di conseguenza del colore) è condizionata originariamente dalle proprietà della luce. Il punto principale che sfuggì a Van Wijk e che attirò le critiche di Berlin e Kay è che la luminosità è una dimensione di contrasto (la principale) presente in tutti i sistemi linguistici di colore. Quando il sistema colore introduce il contrasto di tonalità, il contrasto di luminosità non perde importanza ma semplicemente il sistema diventa più complesso. Secondo la versione più raffinata di Berlin e Kay, che aggiunge la variabile dello sviluppo tecnologico-culturale, i termini per la luminosità sono i primi ad apparire in ogni lingua e a questi si aggiungono i termini di colore basici quando le comunità rispettive diventano tecnologicamente e culturalmente più complesse. Ad un analisi empirica, risulta che un numero alto di culture relativamente semplici si trova ai tropici, mentre un numero alto di culture complesse si trova in aree temperate. La conferma di ciò sarebbe che culture primitive in aree temperate (per esempio, Nord America) tendono ad avere terminologie cromatiche relativamente semplici dominate dalla luminosità, mentre culture complesse in aree tropicali (per esempio, Indonesia) tendono ad avere terminologie cromatiche complesse dominate dalla tonalità. Quindi una versione più corretta della teoria di Van Wijk potrebbe prevedere che i sistemi tropicali siano dominati dalla luminosità e che i sistemi temperati siano dominati da luminosità + tinta. 5.4 Conclusioni Come è evidente, nelle loro versioni più estremiste e rigide, entrambe queste posizioni filosofiche e linguistiche sono incapaci di spiegare in modo soddisfacente quanto è riscontrabile empiricamente, e cioè da parte dell universalismo le indubbie differenze culturali e linguistiche, e da parte del relativismo gli indubbi universali condivisi. D altra parte, non è difficile riconoscere come le versioni deboli di entrambe queste posizioni sostengano nella sostanza la stessa idea, pur evidenziandone e mettendone in luce aspetti diversi. L universalismo mette in luce gli universali facilmente identificabili tra le diverse lingue, minimizzando le altrettanto evidenti differenze; il relativismo fa esattamente l opposto. Questo potrebbe avvenire in parte perché queste sono le idee di fondo da cui gli studiosi delle due teorie sono stati guidati nei loro studi. Uscendo però da una 89

92 visione dualista, non è difficile avere un immagine che unisca le due posizioni pacificamente e le trasformi in un unica visione. 90

93 CAPITOLO 6 Le posizioni universaliste 6.1 Introduzione Sullo sfondo del relativismo linguistico si staglia il lavoro di Berlin e Kay del 1969 [32], che arriva a conclusioni in netto contrasto con questa visione. Da allora in poi questo studio costituirà la pietra miliare all interno di questo ambito di ricerca. Esso scatenò una fortissima ondata di interesse per l argomento, e ciò provocò un moltiplicarsi di ricerche le quali miravano ad indagare la validità o meno della teoria dei due studiosi. In questo capitolo vedremo quindi nel dettaglio questo studio, seguito dalle critiche che ha ricevuto e dalle modifiche che gli stessi autori ne hanno successivamente apportato. Si concluderà con una presentazione degli studi più recenti che portano prove a favore della visione universalista. 6.2 Berlin e Kay: Basic color terms: their universality and evolution Questo studio sostiene che nel dominio del lessico dei colori esistano degli universali semantici che sembrano essere correlati allo sviluppo storico di tutte le lingue in un modo da poter essere definito evolutivo. Come già visto la dottrina prevalente in quel periodo tra linguisti e antropologi, soprattutto negli Stati Uniti, era quella della relatività linguistica, dottrina secondo cui ogni lingua è semanticamente arbitraria. Secondo questo punto di 91

94 vista, la ricerca di universali semantici è inutile e infruttuosa dato che ogni lingua segmenta il continuum del colore arbitrariamente e in maniera indipendente rispetto alle altre lingue. Berlin e Kay sostengono che, nonostante diverse lingue codifichino nel loro linguaggio diversi numeri di categorie di colore basici e lo facciano in modo diverso, esista un inventario universale di esattamente undici colori basici, da cui ogni lingua trae i suoi nomi di colore, il cui numero sarà compreso tra due e undici. Questi termini, nelle diverse lingue, si riferiscono però alle stesse aree dello spazio colore. Gli autori identificano queste undici categorie nei colori: White, black, green, yellow, blue, brown, purple, pink, red, orange, grey. Chiaramente, qualora una lingua abbia meno termini di colore, ogni termine dovrà denotare una gamma più ampia di colori, ovvero una porzione più ampia dello spazio colore. La seconda scoperta cui arrivano è che ci sono strette limitazioni riguardo a quali siano le categorie che una lingua codificherà e all ordine con cui lo farà, che non è casuale. Le restrizioni di tipo distribuzionale di nomi di colori sono le seguenti: 1. Tutte le lingue contengono termini per il bianco e il nero. 2. Se una lingua possiede tre termini, allora conterrà un termine per il rosso. 3. Se una lingua possiede quattro termini, allora conterrà un termine per il verde o per il giallo (non entrambi). 4. Se una lingua contiene cinque termini, allora conterrà termini sia per il verde che per il giallo. 5. Se una lingua contiene sei termini, allora conterrà un termine per il blu. 6. Se una lingua contiene sette termini, allora conterrà un termine per il marrone. 7. Se una lingua contiene otto o più termini, allora conterrà un termine per il viola, rosa, arancione, grigio o qualche combinazione di questi. Questi fatti distribuzionali sono rappresentati nella tabella 6.1, in cui ogni riga corrisponde ad una tipologia di lessico di colori basici. Solo le 22 combinazioni mostrate in tabella si riscontrano nelle lingue del mondo, su un totale di combinazioni possibili. Si tratta all incirca dell 1%. I 22 tipi mostrati in tabella 6.1 sono correlati tra loro in quanto generati da una semplice regola che viene sintetizzata in figura 6.1, dove la seconda rappresentazione mostra un ulteriore affinamento. Date due categorie distinte (a, b), l espressione a < b significa che a è presente in qualsiasi lingua in cui è presente b e anche in qualche lingua in cui b non è presente (secondo il concetto di implicazione utilizzato in logica). Questo non rappresenta solo una dichiarazione di distribuzione per le lingue, ma anche un ordine cronologico che le lingue seguono nel codificare le categorie di 92

95 No. of basic Perceptual categories encoded in the basic color terms color Type terms white black red green yellow blue brown pink purple orange grey Tabella 6.1: Le 22 tipologie che effettivamente si riscontrano nella realtà linguistica dei lessici di colori basici. Figura 6.1: La gerarchia implicazionale di Berlin e Kay [32]. Sotto, una sua rappresentazione diacronica. colore interpretato dunque come una sequenza di 7 stadi evolutivi. Non rappresenta quindi solo lo stato sincronico delle lingue, le quali, in un dato momento storico, apparterranno ad un preciso stadio (anche se ci sono casi di transizione), ma rappresenta anche l ordine cronologico in cui queste codificano le categorie fondamentali di colore, rappresenta quindi il loro sviluppo diacronico. La classe [verde, giallo] corrisponde al terzo e quarto stadio piuttosto che ad uno stadio singolo (ciò è evidente nella seconda rappresentazione in figura 6.1). Riassumendo, due sono le scoperte più importanti: I nomi dei colori basici di tutte le lingue sembrano essere tratti da un insieme di 11 categorie percettivamente universali. Queste categorie vengono codificate nella storia di ogni singola lingua secondo un ordine fisso. 93

96 Sembrerebbe non esserci prova del fatto che differenze nella complessità del lessico di colori basici tra due lingue rifletta differenze percettive tra i parlanti delle stesse due lingue. La ricerca sperimentale venne condotta su venti lingue 1, geneticamente diverse tra loro. Gli autori usarono 329 stimoli colore standardizzati forniti dalla Munsell Color Company; 9 di questi tasselli erano acromatici, gli altri 320 di tinte equamente spaziate e con 8 livelli di luminosità, tutti alla massima saturazione. I dati vennero raccolti in due momenti. In un primo momento venne stimolata la produzione dei nomi dei colori basici, successivamente venne chiesto ad ogni soggetto di collocare sia il punto focale che i confini di ognuno dei termini utilizzati. Ogni lingua ha un numero molto ampio di espressioni che utilizza per descrivere le sensazioni di colore. Alcuni esempi in inglese sono: scarlet, blue-green, blond, bluish, lemon-colored, salmon-colored ecc. Queste espressioni però vennero escluse dal novero dei nomi di colore basici, concetto che tuttavia non è del tutto chiaro. Proprio per questo motivo i due autori propongono 8 caratteristiche, 4 primarie e 4 secondarie, che devono essere soddisfatte da un nome di colore affinché questo possa essere considerato un nome di colore basico. Nel caso in cui le prime 4 non siano sufficienti per stabilire i termini basici di colore (bcts, basic color terms) di una lingua, occorrerà ricorrere agli ultimi Il termine è monolessematico, cioè, il suo significato non è deducibile a partire da quello delle parti di cui è composto (come in bluish). 2. Il suo significato non è incluso in quello di nessun altro nome di colore (come in scarlet, che è incluso in red). 3. La sua applicazione non deve essere ristretta ad una classe di oggetti (come in blond, che si applica solo al colore dei capelli). 4. Dev essere psicologicamente saliente per i parlanti di quella lingua. Indizi che spingono a diagnosticare questa salienza possono essere molti, ad esempio la tendenza a nominarlo all inizio di una lista di nomi di colori stimolata, una certa stabilità tra parlanti e in varie situazioni d uso, l occorrenza nell idioletto di tutti i parlanti di quella lingua. 5. La distribuzione morfologica deve essere simile a quella degli altri termini basici (es. in inglese esistono i termini greenish e bluish ma non aguaish e chartreusish). 6. Non deve essere anche il nome di un oggetto che ha quel colore come caratteristico (es. gold, silver, ash). Questo criterio escluderebbe anche 1 Le lingue esaminate erano arabo (Libano), bulgaro (Bulgaria), catalano (Spagna), cantonese (Cina), mandarino (Cina), inglese (USA), ebraico (Israele), ungherese (Ungheria), ibibio (Nigeria), indonesiano (Indonesia), giapponese (Giappone), coreano (Corea), pomo (California), spagnolo (Messico), swahili (Africa orientale), tagalog (Filippine), thai (Tailandia), tzeltal (Messico del sud), urdu (India), vietnamita (Vietnam). 94

97 orange, qualora esso fosse stato ancora in dubbio dopo aver analizzato i primi 4 criteri (ma non è così). 7. Non deve essere un prestito recente da altre lingue. 8. Non deve essere morfologicamente complesso. Il quarto criterio è stato più volte messo in discussione in quanto, a differenza degli altri, non è un criterio linguistico, e il concetto di salienza psicologica non sembra essere chiaro e univoco, né misurabile in modo inequivocabile e scientifico. Dopo aver stimolato verbalmente l elenco totale dei nomi di colore basici per ogni soggetto, gli stessi vennero mappati sempre dal soggetto. Lo scopo era di scoprire l area totale coperta da una categoria basica, e determinare i punti focali o i membri prototipici per ognuna di esse. Dopo aver mappato tutte le lingue, Berlin e Kay unirono tutti i risultati riguardo ai punti focali di tutti i termini di tutte le lingue. I risultati di questa comparazione mostrano che i punti focali delle categorie sono simili tra le varie lingue analizzate e che la categorizzazione dei colori non è quindi casuale. Questo smentirebbe la teoria relativista. Un altro aspetto sollevato da questo studio e un ulteriore prova a favore dell universalità della categorizzazione è data dal fatto che la locazione dei punti focali varia leggermente di più tra parlanti della stessa lingua di quanto non vari tra parlanti di lingue diverse. A causa di un difetto dello studio, il quale prendeva in esame nella maggior parte dei casi solo un soggetto per ogni lingua, confronti intralinguisitici furono possibili solo per la lingua tzeltal, unica lingua analizzata in un numero più ampio di soggetti. Venne fatto un confronto interlinguistico tra i punti focali di alcuni colori nei soggetti giapponesi, coreani e cinesi (un soggetto per ognuna di queste lingue) e gli stessi punti focali nei vari parlanti della lingua Tzeltal. Le distanze interlinguistiche tra punti focali vengono puntualmente superate da quelle intralinguistiche registrate nei diversi parlanti della lingua Tzeltal. La variabilità intraculturale è almeno uguale a quella interculturale, in ogni modo non è maggiore ad essa. Ci sono quindi notevoli differenze individuali tra parlanti della stessa lingua. A questo proposito si veda anche [55]. In generale, nonostante ciò, la localizzazione dei vari punti focali risultò essere molto attendibile, cosa che non può dirsi per i confini tra categorie che risultarono molto instabili, anche in uno stesso soggetto. Ciò risulta evidente anche dalla facilità con cui i soggetti individuarono i punti focali, in contrasto con le difficoltà che incontrarono nello stabilire i confini tra categorie. I soggetti hanno lunghe esitazioni nello svolgere questo compito, chiedono chiarificazioni e istruzioni più precise, esprimono a parole il fatto di trovare difficile il compito. È possibile che, a livello cerebrale, le procedure primarie di immagazzinamento della realtà fisica dei colori riguardino dei punti delle superfici, piuttosto che volumi estesi. Processi secondari invece si potrebbero occupare dell estensione 95

98 a punti del solido che non sono inclusi nel punto focale. Entrando più nel dettaglio, la seconda scoperta riguarda l esistenza di una sequenza fissa di stadi evolutivi nell acquisizione dei nomi di colore basici. Ogni lingua deve passare attraverso questa sequenza man mano che il suo lessico dei colori basici si espande. Dopo essere arrivati a questa conclusione gli autori ampliarono le lingue prese in esame dalle 20 iniziali, analizzate sperimentalmente, e aggiunsero 78 lingue sui cui sistemi di colore raccolsero dati e informazioni in modo indiretto, avvalendosi di materiale tratto da fonti pubblicate e comunicazioni personali con linguisti ed etnografi che possedevano conoscenze specifiche delle lingue in questione. I gradi di precisione per ogni lingua erano quindi diversi. La regola vista precedentemente riguardo all ordine di acquisizione dei termini di colori vale, oltre che per le 20 lingue iniziali, anche per quelle aggiunte successivamente. Se una lingua codifica delle categorie di uno stadio, allora codificherà anche le categorie appartenenti agli stadi precedenti. Gli stadi precedenti costituiranno quindi gli stadi precedenti di sviluppo di ogni specifica lingua, e l acquisizione o perdita di un termine da parte di una lingua seguirà l ordine dettato dalla regola. In realtà la perdita di termini, intendendo con ciò la perdita vera e propria e non la sostituzione con un nuovo termine, avviene molto raramente. In ogni momento una lingua apparterrà ad uno solo dei 7 stadi ed avrà superato nella sua storia gli stadi precedenti. La distribuzione delle lingue del campione rispetto agli stadi proposti era di 9 lingue appartenenti allo stadio I, 21 appartenenti allo stadio II, 8 appartenenti allo stadio III a e 9 al III b, 18 appartenenti allo stadio IV, 8 allo stadio V, 5 allo stadio VI e 20 allo stadio VII. L emergere delle categorie verde e giallo segna due separati stadi di sviluppo, e solitamente il giallo emerge prima del verde. Lo stadio III vede la comparsa di una di queste due categorie, mentre lo stadio IV vede l emergere di quella di queste due categorie che non è apparsa nello stadio III. Nel campione preso in esame si trovano lingue che possiedono uno di questi due termini ma non l altro. Ciò contrasta con l ipotesi che i due termini appaiano simultaneamente. Analizzando il primo e l ultimo stadio, Berlin e Kay [32] notarono che non vi era alcuna lingua in cui mancasse uno dei due termini previsti dal primo stadio (bianco/tinte chiare, nero/tinte scure), ovvero che non esistono sistemi ad un solo termine. Similarmente, per l ultimo stadio c è una forte tendenza per una lingua che possiede uno di questi termini a possedere anche tutti gli altri. Sembra esserci anche una correlazione tra complessità culturale/livello di sviluppo tecnologico e complessità del lessico dei colori. Tutte le lingue di popoli europei e asiatici industrializzati si trovano allo stadio VII, mentre tutte le lingue che si trovano agli stadi I, II e III sono parlate da persone che appartengono a popolazioni esigue e con limitata tecnologia, situate in regioni isolate. Non è però possibile specificare meglio questa correlazione fino a che i concetti di livello di sviluppo tecnologico e grado di complessità culturale non saranno meglio capiti e misurati. Il vocabolario totale di lingue parlate 96

99 da popoli poco sviluppati tende a essere più ridotto rispetto a quello di lingue parlate da popoli più avanzati. L incremento dei termini di colore basici potrebbe essere parte di un aumento generale nel lessico della lingua, in risposta ad un ambiente culturale più ricco di informazioni riguardo alle quali il parlante ha bisogno di esprimersi e comunicare. Man mano che si procede negli stadi di evoluzione dei termini di colore basici, le categorie precedenti riducono la loro portata perché nuove categorie vengono introdotte e occupano parte dello spazio occupato prima da quelle precedenti. Quando una lingua arriva allo stadio VII, c è una rapida espansione all intero insieme dei colori basici. In questo stadio vengono raggruppate le lingue che possiedono da 8 a 11 termini. Riassumendo, si possono riconoscere sette stadi nell evoluzione dei termini di colore basici: Stadio I: black, white Stadio II: black, white, red Stadio IIIa: black, white, red, green [che si estende nei blu] Stadio IIIb: black, white, red, yellow Stadio IV: black, white, red, green, yellow Stadio V: black, white, red, green, yellow, blue Stadio VI: black, white, red, green, yellow, blue, brown Stadio VII black, white, red, green, yellow, blue, brown, purple, pink, orange, grey [in questo stadio possiamo trovare otto, nove, dieci o undici termini] Berlin e Kay portano degli esempi concreti di lingue che appartengono ad ognuno degli stadi che hanno delineato. Nel caso di lingue allo stadio I, suggeriscono che talvolta possano trovarsi termini per indicare altri colori, ma che questi siano estremamente specializzati e usati in contesti molto ristretti, ad esempio per riferirsi ad una determinata sostanza o oggetto. L appartenenza dei colori a due sole categorie è regolata dal grado di luminosità del colore specifico (quelli più chiari appartengono alla categoria bianco, quelli più scuri alla categoria nero ). Lo Stadio III viene distinto in III a qualora si affermi per primo il termine verde, III b nel caso si affermi per primo il termine giallo. Nel caso della lingua Tzeltal, allo stadio IV, gli autori sostengono fosse in corso un passaggio allo stadio successivo proprio nel momento in cui svolsero la loro indagine, e che quindi quello fosse un periodo di transizione. L indizio che li fa propendere per questa ipotesi è il fatto che 31 su 40 soggetti analizzati indicano il punto focale del termine per verde precisamente nell area dello spettro in 97

100 cui viene collocato in inglese. Il blu veniva riconosciuto come distinto. Per tutti i parlanti di questa lingua era chiaro che il termine per verde includeva al suo interno due centri percettivi distinti e importanti, verde e blu. Forse il contatto con parlanti di lingua spagnola negli ultimi 400 anni aveva accentuato questo aspetto che stava per emergere. Lo stadio VII è rappresentato da venti delle 98 lingue del campione. Nella maggioranza dei casi le lingue che appartengono a questo stadio possiedono tutti gli 11 termini di colore basici. Oltre a esserci lingue che ne possiedono di meno, ci sono casi di lingue che possiedono più termini basici per uno stesso colore, ad esempio in ungherese ci sono due termini basici per rosso. In modo simile il russo possiede due termini per blu : sinij (blu) e goluboj (azzurro), e ciò avviene per molte altre lingue slave. Gli autori sostengono però che lo status di goluboj non sia chiaro, in quanto sembra essere meno saliente e meno ben compreso dai bambini russi rispetto agli altri termini di colore basici del russo. Ipotizzano quindi che il termine goluboj sia un termine secondario e che sinij contenga al suo interno due categorie secondo lo schema illustrato in figura 6.2. Figura 6.2: Termini russi sinij e goluboj. Il secondo potrebbe essere un termine secondario il cui significato è contenuto nella categoria linguistica sinij. Berlin e Kay riconoscono l esistenza di alcune eccezioni e casi problematici. Alcuni di questi problemi si riferiscono a casi in cui non risultava chiaro quali termini dovessero essere classificati come basici. Per esempio, il soggetto catalano considerava negre, nero, come una specie di gris, grigio, pur distinguendo black e grey in inglese. Ciò indica che negre potrebbe non essere un termine basico, e in questo modo il catalano mancherebbe di un termine basico per nero, violando in questo modo la gerarchia. Un altro problema riguardava il cantonese, che possiede termini per bianco, nero, rosso, verde, giallo, blu, rosa e grigio, ma a cui manca un termine per marrone, contravvenendo ancora alla gerarchia. In questo caso gli autori suggerirono che i termini per rosa e grigio fossero stati recentemente introdotti nella lingua e che non fossero termini basici. Altre lingue sono problematiche in riferimento alla gerarchia in quanto mancano di un termine basico che avrebbero dovuto possedere, oppure perchè acquisirono un termine prima di aver raggiunto lo stadio che lo prevedeva. Nei capitoli successivi parleremo di alcuni studi, tra cui [56 59], condotti su alcune di queste lingue che sembrano contenere un dodicesimo termine di colore basico come il russo e l ungherese, creando un problema all interno di questa 98

101 teoria. Dato che solo una parte esigua delle lingue del campione presentava dei problemi, Berlin e Kay non modificarono la loro teoria ma le considerarono delle eccezioni. Nella linguistica storica, la ricostruzione linguistica interna è un procedimento comune. Gli autori si avvalgono di questa metodologia per affermare la loro teoria evoluzionista dell acquisizione dei termini di colore basici. I presupposti da cui partono sono due: I termini di colori che appaiono come prestiti sono probabilmente più recenti dei termini nativi. I termini di colori che sono analizzabili sono probabilmente più recenti di termini non analizzabili. In particolare, i termini vengono considerati analizzabili se: contengono affissi derivazionali; contengono più di una radice; contengono affissi o radici analizzabili; contengono elementi con il significato colore, colorato, color di... ecc; contengono il nome (o sono anche il nome) di oggetti che sono tipicamente di quel colore. Se la teoria evoluzionista è corretta, i termini adottati negli stadi più avanzati dovrebbero essere più recenti di quelli adottati negli stadi più primitivi. Questa teoria viene corroborata quando i principi di ricostruzione interna sono applicati ai dati raccolti. Ad esempio, in molti casi di lingue allo stadio II, il nome per rosso deriva dal nome per sangue (ad esempio negli aborigeni del Queensland [39]), mentre i termini bianco e nero non presentano una tale origine. Nella conclusione gli autori azzardano un parallelo tra lo sviluppo del lessico dei colori e lo sviluppo della fonologia. Gli stadi di sviluppo del lessico dei colori sembrano ai loro occhi essere paralleli a quelli della teoria dello sviluppo fonologico proposta da Jakobson e Halle [60]. Sia il suono che il colore, d altra parte, sono fenomeni d onda, l energia totale corrisponde nel suono alla sonorità e nel colore alla luminosità, la frequenza corrisponde nel suono al timbro e nel colore alla tinta, la purezza dell onda corrisponde alla musicalità o compattezza nel suono e alla saturazione nel colore. Come nel caso del colore, la fonologia inizia con due categorie e non con una, come descritto dal labial stage di Jakobson e Halle. Ad esempio in /pa/ troviamo una occlusiva, che esprime la massima limitazione nell emettere energia, e una vocale aperta che rappresenta la massima emissione di energia di cui l apparato vocale umano sia capace. Si nota un parallelo con le categorie nero (minima luminosità) e bianco (massima luminosità). Nel secondo stadio si aggiunge la dimensione della frequenza. Nella fonologia, dopo un primo stadio in 99

102 cui esiste solo un attributo, quello della sonorità, si introduce un altro attributo, il timbro, e si stabilisce così la prima opposizione (/p/ e /t/). Nel campo del colore si introduce la tinta, con l arrivo del rosso. Dopo i primi due stadi, il parallelo risulta essere meno perfetto. In entrambi i domini si assiste comunque ad una scissione delle categorie esistenti. Un problema che gli autori lasciano aperto nella conclusione è quello dell ordine di acquisizione dei termini di colore basici chiedendosi quale sia la spiegazione di quell ordine preciso. Le conclusioni dei due autori riguardano solo il problema della crescita numerica del lessico, ma non viene fornita alcuna spiegazione fisiologica della rilevanza apparentemente maggiore degli undici stimoli di colore particolari. Inoltre non viene spiegato l ordine nel quale i punti focali verrebbero codificati universalmente nei lessici. 6.3 Critiche al lavoro di Berlin e Kay Questo testo, come già accennato, ha avuto l effetto di una vera e propria rivoluzione negli studi sulla denominazione dei colori. Molte sono state anche le critiche rivolte a questo studio e al metodo utilizzato per condurlo, che si sono concentrate sulla dubbia qualità dei dati empirici usati. Di seguito si cercherà dapprima di sintetizzare i punti chiave delle critiche mosse nei loro confronti, esaminando poi più nel dettaglio le critiche di Collier [61], che critica il metodo utilizzato da Berlin e Kay [32], pur arrivando poi alle stesse conclusioni universaliste, e di Lucy [62]. Molte delle fonti secondarie utilizzate sono del secolo precedente anche in casi in cui ne sarebbero esistite di più recenti. Per alcune lingue gli autori hanno usato molti informatori (ad esempio per lo Tzeltal), mentre per la maggior parte solo uno, non si poteva quindi essere certi che i risultati riflettessero la lingua nel suo insieme o semplicemente l idioletto di quel determinato parlante. Gli informatori provenivano principalmente dall area di San Francisco ed erano bilingui, i risultati potevano essere quindi soggetti all influenza della lingua inglese. Ciò senza considerare più nello specifico il rapporto tra rappresentazione del colore e bilinguismo. Gli intervistatori, per la maggior parte, non erano parlanti delle lingue studiate. Per un inchiesta lessicale vennero utilizzati campioni colorati artificiali: ciò può essere considerato un metodo poco attendibile e potrebbe invalidare i risultati. Si trovano classificazioni confuse delle lingue e trascrizioni fonetiche errate o erratamente ricopiate da altre fonti. 100

103 Viene criticato anche il criterio di inclusione delle lingue nel campione. Le lingue esaminate tenderebbero a coincidere con determinate aree geografiche e famiglie linguistiche. Un ulteriore problema è quello che si riscontra nell applicare i criteri da loro proposti a lingue particolari, poiché i cambiamenti nelle lingue sono sempre graduali e quindi ci sono molti casi di transizione. In casi di transizione solitamente si riscontra ampia variazione tra parlanti, cosa che complica ulteriormente la questione di quali siano i nomi di colore basici di quella lingua. La nozione e la definizione di termini di colore basici non offrono caratteristiche linguistiche abbastanza stabili, tali da permettere di opporli nettamente ai termini definiti secondari. I quattro criteri per definire i nomi di colore basici non sono sempre chiari nella loro applicazione; e la rilevanza psicologica non è una caratteristica così facilmente e inequivocabilmente osservabile. I termini di base, definiti in base a questi criteri, sembrano approssimazioni ad una terminologia tecnica piuttosto che segmenti di una lingua naturale. L elenco di questi termini sembra peraltro fondarsi sul modello dell uso angloamericano e sulla sua pretesa corrispondenza a qualche struttura immanente. Quello che va ribadito inoltre è la difficoltà che nasce dall applicazione di questi criteri a casi particolari. Abitualmente però questi casi riguardavano un singolo termine o una singola area dello spazio colore, indicando che quell area stava subendo un cambiamento. Un problema riguarda il primo criterio che prevede la non predicibilità del significato di un termine di colore a partire dal significato delle sue parti. Si è notato che in molte lingue oceaniche e australiane, molti di quelli che vengono considerati termini di colore basici sono infatti forme duplicate la cui radice denota oggetti che notoriamente mostrano il colore corrispondente. La distinzione tra colori basici e gli altri è inevitabilmente un fatto interno ad una lingua data in una cultura data. Cercare se una lingua esprime o meno un determinato colore non porta quindi ad un analisi interna a quella lingua. George A. Collier [63] revisionò questo lavoro mettendo in luce il fatto che c era una forte associazione tra regioni degli stimoli proposti con alti livelli di saturazione e il raggruppamento delle risposte. Il fatto che i punti focali corrispondessero in tutte le lingue analizzate spinse Berlin e Kay a ritenere le categorie universali. Collier mise in discussione che questo fatto fosse prova della loro universalità, e ritenne invece che si trattasse di un artefatto della procedura sperimentale adottata, di un difetto nell organizzazione del materiale da loro utilizzato. Il materiale adottato dai due studiosi includeva colori per ogni combinazione di 101

104 tinta e chiarezza, ma con una saturazione che risultava sempre massimizzata. Gli stimoli infatti variavano sistematicamente in tinta e chiarezza, ma in modo irregolare per quanto riguardava la saturazione, producendo così zone con saturazione molto più alta rispetto ad altre. Osservando i risultati da loro ottenuti Collier notò che le regioni in cui venivano localizzati i punti focali delle categorie cromatiche corrispondevano quasi perfettamente a colori stimolo in cui la saturazione era estremamente alta. Questi venivano però selezionati per la loro salienza visiva, e diventa difficile separare i risultati da questo elemento viziato. Per questo motivo Collier decise di replicare questa procedura con un array in cui la saturazione fosse tenuta costante, eliminando così regioni con saturazione molto alta. I risultati, ci anticipa, potrebbero comunque confermare l esistenza di tali universali. Per replicare l esperimento realizzò due diversi grafici di colore, uno sostanzialmente identico a quello di Berlin e Kay [32] e l altro che incorporava le modifiche previste da Collier per quanto riguarda i livelli di saturazione. La procedura originale venne ripetuta su 24 soggetti di lingue diverse (questo campione presenta però le stesse problematiche di quello di Berlin e Kay, trattandosi di soggetti bilingui trovati nella zona di San Francisco). In entrambi i casi le risposte furono conformi a quelle di Berlin e Kay. Questo ulteriore test indicò che ci sono alcune regioni di tinta, all interno di quell insieme di colori per i quali si può ottenere alta saturazione, che sono predisposte ad essere i punti focali dei termini di colore basici. Venne quindi provato che i nomi di colore sono associati ai colori con alta saturazione. Nel 1976 [61] pubblicò i risultati di questa sua replica dell esperimento in cui venne controllata la saturazione negli stimoli usati. Ciò lo portò ai medesimi risultati ottenuti da Berlin e Kay. Lucy [62] ritiene che nella ricerca sui termini di colore sia sempre mancata una seria analisi linguistica. Per quanto riguarda la caratterizzazione delle categorie linguistiche, Berlin e Kay utilizzarono una nozione di significato troppo limitata, confinata ad aspetti denotativi e decontestualizzati. Essi si avvalsero infatti di campioni colorati e cercarono di sviluppare una semantica primariamente in termini della capacità dei soggetti di etichettare tali referenti ignorando quindi aspetti contestuali e strutturali del significato, come la gamma referenziale caratteristica di un termine (il suo uso tipico in una varietà di contesti diversi) e il suo potenziale distributivo formale (la sua posizione contrastiva e combinatoria all interno delle categorie disponibili nella lingua). L uso referenziale ordinario, di tutti i giorni, di questi termini non venne affatto considerato, né venne considerato il loro status grammaticale all interno della lingua. Come rappresentativo dei contesti di tutti i giorni, questo insieme di campioni colorati era quindi molto ristretto e limitato e addirittura, in un certo senso, dettava in anticipo i possibili significati che i termini potevano assumere dato che i campioni non ne includevano altri possibili oltre alle dimensioni di tinta e chiarezza, escludendo altre possibili componenti non cromatiche. L insieme degli stimoli era allo stesso tempo molto complesso: i compiti di 102

105 nominare gli stimoli obbligavano i soggetti a fare microconfronti e dare giudizi raramente riscontrabili nella vita quotidiana. Sembra quasi che lo scopo sia quello di ottenere accuratezza nell attribuire nomi piuttosto che intelleggibilità. Lucy porta, come esempio positivo di analisi linguistica, seppur ancora imperfetto, uno studio di Conklin [64] sulle categorie di colore Hanunóo (Filippine). Conklin preparò degli stimoli artificiali che includevano dei fogli e delle stoffe dipinti, registrando anche, nelle risposte dei soggetti, delle descrizioni di oggetti specifici di ciò che circonda l uomo, siano essi elementi naturali o artificiali. Questo rese possibile scoprire i referenti tipici di questi termini senza pregiudizi. Facendo utilizzare i termini in modo effettivo in un compito diverso rispetto a quello di attaccare delle etichette agli stimoli, il loro valore referenziale tipico venne preso in considerazione. Le parole non esistono solamente per fornire un elenco di etichette, ma soprattutto per motivi comunicativi, ed è a quest ultima funzione che ci dobbiamo riferire se vogliamo comprendere la loro semantica. Le strutture linguistiche sono costruite allo scopo di servire funzioni comunicative e codificheranno formalmente quegli aspetti dell esperienza che sono massimamente utili per la comunicazione, mentre ignoreranno quelli di scarsa utilità. Conklin scoprì che i quattro termini (nero, bianco, rosso, verde chiaro) che aveva classificato per l Hanunóo non si riferivano solo ad attributi puramente cromatici, ma avevano legami con l ambiente esterno, avevano cioè altri valori referenziali. Alla fine classificò i quattro termini secondo i seguenti livelli di distinzione: chiaro/scuro, umido/secco, indelebile/sbiadito, sostenendo che quella che sembrava confusione riguardo al colore, nel sistema di questa lingua, derivava in realtà da una conoscenza inadeguata da parte sua della struttura interna del sistema stesso. Una conoscenza adeguata però non verrà mai ottenuta restringendo gli stimoli a tasselli colorati e il compito ad una fredda attribuzione di etichette. Oltre al problema referenziale, Berlin e Kay sbagliarono anche nel non analizzare il ruolo sintattico dei termini. Parlarono solo, in qualche senso, di ruolo sintattico nell enunciare i criteri che definiscono un termine basico. Quindi, secondo Lucy, piuttosto che usare l analisi formale come una procedura per scoprire come funziona la lingua, essa venne usata solamente per giustificare quello che era già stato deciso a priori su base intuitiva. Quello che Berlin e Kay hanno fatto, è stato di estrarre un insieme di oggetti lessicali dalla grammatica, primariamente sulla base della loro capacità di riferirsi ad un insieme fisso di stimoli artificiali. Anche Conklin è andato in questa direzione, ma almeno ha iniziato chiedendosi quali erano le regolarità interne al sistema e sulla base di esse ha definito il suo insieme di quattro termini. Lucy [62] propone la tabella 6.2 che mostra la potenziale distribuzione per alcuni aggettivi inglesi che si riferiscono a qualità visive, e che viene qui inserita per rendere più concrete le sue critiche. Ciò ci permette di osservare come questi aggettivi riferiti al colore siano molto eterogenei, sia nella loro similarità 103

106 con altri aggettivi, sia in termini di sottogruppi interni. Queste differenze nel potenziale contribuiscono e allo stesso tempo derivano dai significati dei termini stessi. Guardando la tabella 6.2, ad esempio, ci si può chiedere il perché della mancanza di forme in -ing nei gruppi F e G: mentre gli aggettivi degli altri gruppi presentano la possibilità di creare forme in -ing, questa possibilità non esiste per gli aggettivi dei gruppi F e G. Oppure, qual è il motivo della mancanza di forme in -en in tutti i gruppi da E a J? C è sicuramente qualche differenza nel significato lessicale che motiva il trattamento differenziato. Perché i termini del gruppo B non sono considerati nomi di colori? Oltre a queste, sorgono molte altre domande, ma il punto non è la mancanza di risposte a queste domande, dato che in molti casi è possibile farlo. Il punto è che tutti gli approcci ai termini di colore mancano di una seria analisi comprensiva della dimensione grammaticale di queste forme, manca un intero livello di analisi, manca l attenzione alla struttura e alla distribuzione che i termini di colore occupano nella lingua. In questo modo si perdono degli importanti aspetti del significato di queste forme. Lucy dice, riferendosi alla letteratura relativa a questo dominio, che non serve avere alcuna conoscenza di lingue o di linguistica per leggere questa letteratura, né per condurre una ricerca all interno di questa tradizione. Gli articoli che studiano i termini di colore nelle varie lingue non parlano mai di quelle lingue, non c è alcuna investigazione sulla lingua e nemmeno sul valore strutturale dei termini studiati. Ci si limita invece a estrarre dalla lingua i termini che interessano (nella fattispecie, termini di colore) che sembrano non fare parte di un sistema linguistico, ma essere elementi isolati e autonomi. Il secondo punto riguarda il confronto crosslinguistico tra categorie, ed è ancora più problematico in quanto è proprio in sistemi diversi dal nostro che dovremmo stare alla larga dalle intuizioni e che l affidamento a metodi formali è indispensabile. Quello che abitualmente accade è che la nostra concezione del colore limiti la nostra comprensione. Si guardano e analizzano le lingue del mondo attraverso le lenti delle nostre categorie, in particolare si raggruppano i lessici delle varie lingue sulla base di quanto essi corrispondono al nostro. Questo tipo di approccio preclude anche la possibilità di stabilire se un sistema di colore esista effettivamente in una data lingua come dominio ben definito e saliente. Conklin descrisse le sue difficoltà nello stimolare la produzione di termini nei soggetti. Chiedeva loro come ti appare questo?, e quando i soggetti rispondevano, chiedeva loro di evitare i tipi di termine che non gli interessavano, ad esempio i termini di forma. Ma, considerando pure che tutti i termini che vengano in mente ai soggetti riguardino solo attributi cromatici, potrebbe trattarsi di termini complessi, quindi lo sperimentatore non terrà in considerazione termini che riterrà essere non basici e prenderà come buone solo le risposte che incontreranno questi requisiti. Evidentemente lo sperimentatore sta cercando delle forme come quelle della sua lingua e della sua cultura, tutto ciò che si allontana da questo non verrà preso in considerazione. I nostri modelli grammaticali saranno lo standard sulla base dei quali si identificheranno forme di colore appropriate. Questa procedura può portarci a dire quanto il sistema 104

107 A hard harden hardening rough roughen roughening bright brighten brightening B light lightish lighten lightening dark darkish darken darkening C black blackish blacken blackening dark black white whitish whiten whitening light white D red reddish redden reddening dark/light red E yellow yellowish yellowing dark/light yellow brown brownish browning dark/light brown tan tannish tanning dark/light tan grey greyish greying dark/light grey green greenish greening dark/light green blue bluish bluing dark/light blue F pink pinkish dark/light pink orange orangish dark/light orange purple purplish dark/light purple blond blondish dark/light blond G maroon dark/light maroon silver dark/light silver beige dark/light beige aqua dark/light aqua crimson dark/light crimson scarlet dark/light scarlet violet dark/light violet H dry drying clear clearing glossy glossing shiny shining I pale palish J vivid brilliant luminous ruddy Tabella 6.2: Potenziale distributivo di alcuni aggettivi inglesi (riferiti a qualità visive). Tratto da [62]. 105

108 dei colori di quella lingua è vicino e assomiglia al nostro, ma non come quel sistema è in generale, considerato isolatamente. Detto questo, ciò che meraviglia maggiormente è che, nonostante l utilizzo di metodologie così inquinate, vengano alla luce ancora così tante differenze tra sistemi. Hickerson [65] studiò la terminologia dei colori nella lingua Zuni (U.S.A.) e scoprì che essa possedeva due tipi di termini che si riferivano al colore: termini astratti derivanti da verbi, e termini specifici derivanti da sostantivi. Mentre questi ultimi sono forme nominali che si riferiscono a colori intrinsechi, specifici di una sostanza o di un oggetto, i primi derivano da verbi i quali si riferivano a processi di cambiamento, di divenire. I due tipi di termini quindi riflettevano due tipologie di esperienze diverse tra loro. Allo stesso tempo i significati culturali e sistemici dei termini Zuni sono completamente diversi dai nostri e, anche qualora ci fossero delle sovrapposizioni tra le loro categorie e le nostre, il valore del significato resterebbe diverso. In generale, i concetti di colore possono essere espressi da verbi, sostantivi, aggettivi, particelle libere e altro, e sebbene solitamente siano trattati come aggettivi nelle lingue che hanno questa categoria, ciò non deve essere affatto considerato universale. Inoltre, non tutte le forme rilevanti devono necessariamente cadere all interno della stessa categoria formale in una stessa lingua. In conclusione, Lucy sostiene che le conclusioni universaliste a cui arrivarono Berlin e Kay siano costruite all interno della metodologia e della concettualizzazione della lingua che vengono utilizzate in questa ricerca. Lucy parla di universalismo radicale, riferendosi al fatto che se si parte convinti di sapere quale sia la realtà, si scoprirà esattamente quello che si pensava di scoprire, perché la metodologia usata la presupporrà in ogni suo punto. Le scoperte universaliste sono già impacchettate all interno delle assunzioni del metodo di ricerca. Allo stesso modo, Lucy critica il relativismo radicale, ovvero quello che porterà certamente a scoprire che le lingue sono realtà completamente diverse e inintelleggibili tra loro. Ciò perché la metodologia di ricerca utilizzata presuppone che ogni fatto formale corrisponda a una differenza nella realtà. 6.4 Il World Color Survey Un sondaggio molto ampio dei sistemi di colore nelle lingue del mondo ha prodotto ampi dati di alta qualità che permisero di ottenere un quadro molto più completo dei sistemi di termini di colore di tutto il mondo. Il World Color Survey (WCS) è un sondaggio sui sistemi di termini di colore di 110 lingue minori realizzato da Cook, Kay, Regier [66, 67] grazie ai finanziamenti della National Science Foundation (NSF) e altri enti. È un progetto di ricerca nato nel 1976, ideato per validare, invalidare, espandere ed eventualmente modificare le principali scoperte di Berlin e Kay [32], il cui studio era limitato nel numero e nella tipologia di lingue esaminate. Si trattava infatti di lingue scritte di paesi industrializzati, ed era difficile accettare la loro generaliz- 106

109 zazione, a partire da questo tipo di lingue, a tutte le lingue del mondo. A questo fine, il WCS raccolse dati in loco sui nomi di colori in 110 lingue non scritte di comunità non industrializzate, parlate su piccola scala. Lo studio di Berlin e Kay può in effetti essere considerato un progetto pilota che ha poi ispirato questo studio su più ampia scala. Alla fine degli anni 70 grazie alla collaborazione del SIL (Summer Institute of Linguistics), che contava una buona rete di linguisti-missionari in giro per il mondo, vennero raccolti in situ dati sui sistemi di colori di parlanti di 110 lingue non scritte rappresentati ben 45 diverse famiglie linguistiche. Per ogni lingua si raccolsero dati da una media di 24 parlanti tra uomini e donne, possibilmente monolingui. Ai soggetti veniva chiesto di dare un nome a 330 tasselli colorati prodotti dalla Munsell Color Company, mostrati in ordine costante e casuale, e successivamente di indicare il migliore esempio (o i migliori esempi) per ognuno dei termini basici che era stato utilizzato dallo stesso soggetto. Lo scopo era di ottenere nomi, confini di categorie e migliori esempi dei termini di colore basici in ogni lingua (i termini di colore basici erano definiti come il più piccolo insieme di parole semplici con le quali il parlante può nominare qualsiasi colore). La metodologia utilizzava prevalentemente coincideva con quella utilizzata da Berlin e Kay. Nel 1980 circa la fase di raccolta dati era terminata e questi vennero analizzati. A partire dal 2000 si è deciso di rendere disponibili questi dati attraverso un archivio online 2. I file che si trovano in questo archivio riportano tutti i risultati che questo studio ha dato, comprese le istruzioni originali che vennero fornite a coloro che avevano svolto l indagine sul campo. Parleremo ancora di WCS, poiché i dati che ha raccolto sono stati utilizzati ed analizzati per alcuni degli studi più recenti che presenteremo nelle prossime pagine. In particolare in [67] si presentano i risultati ottenuti grazie a questi dati. 6.5 Modifiche alla teoria di Berlin e Kay In seguito Kay, da solo o in collaborazione con altri, ha proposto varie revisioni della teoria originale di Berlin e Kay [32]. Per larga parte questi studi hanno confermato le scoperte originali dei due, tuttavia sono state fatte importanti modifiche alla gerarchia da loro creata (per esempio [68, 69]) in modo da accomodare alcuni tipi di lingue che non erano attestate nel loro studio originale o che erano trattate come eccezioni e ne sono state studiate le basi fisiologiche. Nel 1975 Kay [68], partendo dalla teoria elaborata precedentemente insieme a Berlin e con l ausilio di nuovi dati, rianalizzò la sequenza temporale della codifica dei punti focali e ne diede un interpretazione che spiegava non solo il meccanismo di codifica dei nuovi punti focali, ma anche l interazione tra punti focali e non focali

110 Per quanto riguarda la revisione della sequenza, egli ritenne che al primo stadio si trattasse non di sistemi a due termini in contrasto di luminosità (bianco e nero), ma di sistemi che oppongono tonalità scure e fredde da una parte e tonalità luminose e calde dall altra. Il punto focale blu sembrerebbe poter essere codificato prima o simultaneamente con il punto focale verde. Nello stadio III della sequenza, l elemento operativo non sarebbe quindi verde o blu ma la categoria grue. Questa categoria può essere codificata prima o dopo la categoria giallo, ma non si scinde mai in verde e blu e non viene codificata mediante due termini fondamentali se non dopo la codifica del punto focale giallo. In questa versione rosso emerge da bianco e non in parte da bianco e in parte da nero, come nella versione precedente. In figura 6.3 viene mostrata la sequenza riadattata. Kay elenca le seguenti predizioni sulla variazione dei Figura 6.3: Riadattamento della sequenza temporale di acquisizione dei termini basici, ad opera di Kay [68]. termini basici dal punto di vista sincronico: Se tutti i parlanti di una lingua sono, per quanto riguarda i termini di colore basici, ad un dato stadio n, i termini secondari più salienti saranno quelli che diventeranno basici agli stadi n+1, n+2 ecc; I gradi relativi di rilevanza dei termini secondari seguono l ordine della sequenza evolutiva; In una comunità con cambiamenti in atto del lessico cromatico fondamentale, non tutti i parlanti sono allo stesso stadio, ma ogni parlante sarà classificabile rispetto ad un suo stadio; In una comunità di questo tipo tutti gli stadi presenti saranno contigui nella sequenza; Le difficoltà di classificazione dei parlanti rispetto allo stadio riguarderanno solo stadi adiacenti della sequenza; I termini di colore basici aggiunti in stadi successivi sono presenti come termini secondari ai parlanti in stadi precedenti; Lo stadio di un parlante è correlato con vari fattori dipendenti dal contesto sociale e anche dall età (i più giovani hanno sistemi di termini di colore basici più avanzati rispetto ai parlanti più anziani); 108

111 Successivamente Kay, in collaborazione con McDaniel [70], fornì un ulteriore revisione della teoria iniziale. Essi forniscono un modello formale per descrivere la semantica del colore e l evoluzione dei sistemi di colore. Questo modello utilizza il formalismo della fuzzy set theory per descrivere la struttura e le relazioni tra categorie all interno del dominio dei colori. La fuzzy set theory si è sviluppata a partire da modifiche apportate ai concetti della standard set theory. La differenza di base tra le due è che nell ultima l appartenenza ad una categoria è definita in modo rigoroso (un elemento appartiene o non appartiene ad un dato insieme), mentre la fuzzy set theory riconosce ai membri diversi gradi di appartenenza ad un insieme. Si assegna quindi ai membri un valore da 0 a 1, il quale esprime il grado di appartenenza ad un dato insieme. L inadeguatezza di un un trattamento di questi membri come discreti (non continui) è evidente nel caso di espressioni quali yellow-green, le quali non sono evidentemente contradditorie e hanno invece significati abbastanza chiari. Un oggetto di colore giallo-verde è di colore giallo per un certo grado e di colore verde per un certo grado. Quello che questa teoria permette ad un elemento è di appartenere ad una categoria ad un certo grado, consentendogli allo stesso tempo di appartenere anche ad altre categorie. Le funzioni di appartenenza risultano quindi essere continue. Il contributo più importante del modello è il fatto di fornire un collegamento tra la fisiologia della percezione del colore e le categorie semantiche universali di colore. Gli universali semantici vengono considerati come derivati da proprietà del sistema visivo e come inerenti alla percezione umana del colore. La percezione del colore sarebbe, in tutti i popoli, il risultato di processi neurofisiologici comuni, che costituiscono la base dei modelli universali dei significati dei termini basici di colore. Gli universali semantici avrebbero dunque una base biologica e sarebbe la percezione a determinare la lingua (l esatto opposto di ciò che sostiene il relativismo). Il modello spiega anche perché alcune categorie, come grue, abbiano punti focali multipli (colori giudicati come migliori esempi di una categoria), cosa che prima non si riusciva a spiegare in modo soddisfacente. Berlin e Kay ritenevano erratamente che ogni categoria fosse associata ad un solo focus. In questa sede viene messo in discussione anche il fatto che i termini di colore con punti focali simili riflettano le stesse categorie basiche universali, anche quando i termini hanno estensioni molto diverse. Un modello adeguato, secondo Kay e McDaniel dovrebbe tenere in considerazione le estensioni dei termini, oltre che i loro punti focali. Il modello fornisce una nuova prospettiva sulla natura delle categorie di colore basiche. Diversamente da quanto assunto da Berlin e Kay, ovvero che tutte le 11 categorie basiche avessero uguale valore, Kay e McDaniel sostengono che non tutte le categorie siano dello stesso tipo, ma che ne esistono di tre diverse tipologie: Categorie primarie: sono costituite dai primari di Hering, cioè nero, 109

112 bianco, rosso, giallo, verde, blu; Categorie composite: sono costituite dall unione di due o più primari di Hering. Es. luce-caldo (bianco o rosso o giallo), scuro-freddo (nero o verde o blu), caldo (rosso o giallo), freddo (grue verde o blu); Categorie derivate: sono costituite dalle mescolanze dei sei primari di Hering. Es. marrone (nero+giallo), viola (rosso+blu), rosa (rosso+bianco), arancione (rosso+giallo), grigio (bianco+nero). In tutto, le categorie di colore fondamentali sono quindici. Inoltre gli autori sostengono che non esista un limite massimo di categorie basiche codificabili in una lingua, e che il fatto che nessuna lingua conosciuta ad oggi possieda più di undici termini basici sia un fatto esclusivamente accidentale. Con l evolversi delle lingue, alcuni colore che attualmente non sono basici lo diventeranno. Inoltre, in ogni momento, lo stesso termine può essere basico per alcuni parlanti e non esserlo per altri. Se lo status di un termine come termine basico può variare nel tempo e in parlanti diversi, è importante sviluppare un metodo accurato per identificare se un termine è o non è basico in un dato momento per un dato parlante. Propongono quindi una procedura per distinguere tra termini basici e non basici. Questa si basa sull identificazione di funzioni di appartenenza; ogni categoria si avvale di una funzione diversa, in base alle sue caratteristiche. Infine, la sequenza evolutiva viene reinterpretata e vista non più come una semplice codifica successiva di singoli punti focali, ma come una progressiva differenziazione della categorie di colore fondamentali previamente esistenti, partendo da un basso numero di categorie ampie, le quali restringono la loro estensione denotativa man mano che nella lingua vengono introdotti nuovi termini di colore (figura 6.4). Lo spazio colore viene quindi rinegoziato ad ogni nuovo termine introdotto. Successivamente Kay, in collaborazione con Kempton [71], ha ripreso una versione attenuata dell ipotesi relativista. In esperimenti condotti su soggetti parlanti inglese e tarahumara (una lingua parlata nel Messico del Nord) sono state poste in correlazione due variabili: la variabile cognitiva (distanza soggettiva tra i colori, i giudizi soggettivi sulla loro somiglianza e diversità) e la variabile linguistica (le possibilità di distinzione cromatica offerte dalle due lingue). L obiettivo era di capire se le differenze strutturali tra sistemi linguistici sono accompagnate da differenze cognitive nei parlanti nativi di due lingue diverse. Per verificarlo, Kay e Kempton condussero due esperimenti con la tecnica della presentazione di stimoli in triadi. In entrambi gli esperimenti i soggetti dovevano individuare quale tra i tre stimoli era maggiormente diverso rispetto agli altri due. Queste triadi coinvolgevano un confine linguistico presente in inglese (green-blue), ma non presente in tarahumara, lingua nella quale esiste un unico termine che significa verde o blu, siyóname. Come sottolineano gli autori, la maggiorparte delle lingue che hanno il termine grue, e non termini separati per verde e blu, contengono comunque espressioni come grue like the sky o grue 110

113 Figura 6.4: Sequenza evolutiva dello sviluppo dei termini di colore. Tratto da [70]. like the leaves, che dimostrano che i concetti blu e verde sono presenti anche se non vengono espressi separatamente a livello terminologico. Queste categorie quindi sono presenti cognitivamente per i parlanti di tutte le lingue, indipendentemente dal fatto di essere codificate linguisticamente. Nel primo esperimento, che conferma l ipotesi relativista, i tre stimoli vengono mostrati contemporaneamente. Essendo molto simili tra loro, è difficile per i soggetti esprimere un giudizio. Secondo Kay e Kempton, a livello cognitivo, il soggetto ricorre alle etichette linguistiche per discriminare tra i diversi stimoli. Questa strategia prende il nome di name strategy, e non è disponibile per i parlanti tarahumara, i quali non hanno due etichette linguistiche diverse per gli stimoli presentati. Questa strategia, inoltre, opera fuori dalla consapevolezza del soggetto, e non può essere tenuta sotto controllo. Il secondo esperimento nacque proprio dall esigenza di designare un esperimento in cui la name strategy non potesse essere usata, e per verificare se in questo caso l effetto linguistico scomparisse. Gli stimoli erano gli stessi usati nel primo esperimento, ma non venivano mostrati contemporaneamente. Essi venivano mostrati a coppie. Nel mostrare la coppia A e B, lo sperimentatore faceva notare come il tassello A fosse più verde di B. Nel mostrare la coppia B e C faceva notare come C fosse più blu di B. Dopo ciò, si chiedeva al soggetto quale differenza fosse maggiore: quella tra i primi due tasselli mostrati, o tra gli ultimi due. I soggetti potevano continuare ad osservare le coppie a loro piacere, ma non i tre tasselli insieme. In questo modo si bloccava il ricorso alla strategia di cui abbiamo parlato, e in questo secondo esperimento infatti l effetto del confine di categoria lessicale osservato nel primo non si verificò. I risultati sembrano quindi confermare che le differenze linguistiche influen- 111

114 zano le differenze cognitive. L ipotesi della name strategy sostenuta dai due autori non concorda con una forma radicale di determinismo linguistico, in cui la struttura della lingua impone le sue categorie come le uniche nelle quali possiamo esperire il mondo. La versione relativista accettata qui è una versione attenuata, secondo la quale le lingue differiscono semanticamente, ma non senza limiti. Bornstein [72, 73] studiò i fattori fisiologici del sistema visivo che sottostanno alle differenze tra le terminologie cromatiche in rapporto anche alla loro distribuzione geografica. Osservò i sistemi di denominazione dei colori di circa 150 comunità in diverse parti del mondo, constatando che con il maggior approssimarsi delle comunità all equatore i nomi di colore applicati alle lunghezze d onda corte si identificano più frequentemente l uno con l altro o addirittura con il nero. Questo fenomeno, chiamato identità semantica, consiste nell applicazione di un termine di colore primario a due o più categorie rilevanti. I tipi di identità più frequenti sarebbero: verde=blu, blu=nero, verde=blu=nero. Bornstein opera con termini di colore primari, ovvero i termini più vecchi, più inclusivi e più facilmente nominati dai soggetti nei test di riconoscimento. I nomi secondari sono quelli apparsi più tardi, i derivati, le combinazioni di termini primari, le loro qualificazioni specifiche rispetto alla luminosità o alla saturazione ed i nomi di oggetti. Secondo Bornstein, i sistemi di denominazione dei colori primari in varie parti del mondo riflettono le differenze nella quantità di pigmentazione intraoculare delle popolazioni, differenze attribuibili ad un adattamento all ambiente locale. La sensibilità ridotta alle lunghezze d onda corte, soprattutto nella zona blu-verde, sembra essere frequente nelle popolazioni con una maggiore pigmentazione, quelle vicine all equatore. Il meccanismo che contribuirebbe dunque al crollo dei sistemi di denominazione dei colori è organico. La biologia del sistema visivo quindi precondizionerebbe la denominazione dei colori. A livello primario dei sistemi di denominazione, le categorie biologiche della tonalità eserciterebbero un controllo sulle categorie lessicali del colore. Con l utilizzo dei dati del WCS, Kay e Maffi [74] produssero una nuova classificazione dei sistemi di termini di colore che modificò la gerarchia originale di Berlin e Kay in modo considerevole, pur continuando a mostrare che i sistemi attestati sono solo un piccolo sottoinsieme di quelli logicamente possibili. Kay e colleghi [67] notarono l esistenza di sei colori fondamentali (bianco, nero, giallo, blu, rosso e verde) e che l ordine di apparizione dei termini di colore basici che non includono nella loro denotazione uno di questi colori è meno prevedibile. La loro classificazione dei sistemi fu fatta considerando solo termini la cui denominazione includeva almeno uno dei colori fondamentali. Poi questa veniva semplicemente aumentata con una lista di quali altri termini basici esistevano nella lingua. Tuttavia, Kay Berlin e Merrifield [69] notarono che mentre i termini viola e marrone potevano essere osservati in lingue che non avevano termini separati per verde e blu, contrariamente alla gerarchia di Berlin e Kay, i termini per arancione e rosa non apparivano normalmente prima che la lingua non avesse termini separati per verde e blu. Kay [68] aveva già notato che il termine 112

115 grigio a volte appariva nelle lingue anche quando queste non avevano ancora sviluppato termini per alcuni colori che secondo la gerarchia di Berlin e Kay dovevano essere lessicalizzati prima del grigio. La conclusione generale che possiamo trarre da queste scoperte è che l ordine in cui questi termini emergono in una lingua non sembra essere del tutto prevedibile, anche se appare esserci una tendenza generale. Un altra differenza tra il lavoro di Berlin e Kay e quello di Kay e Maffi [74] è che, mentre i primi hanno classificato i termini solo in base alla locazione dei loro prototipi, i secondi hanno prestato attenzione all intera gamma denotativa dei termini. Classificarono infatti i termini in base a quali colori fondamentali questi contenevano, piuttosto che solo in termini di quali colori fondamentali corrispondevano al prototipo del termine, cosicché per esempio due termini che avevano entrambi prototipi rossi sarebbero stati classificati differentemente se uno veniva usato anche per nominare una gamma che includeva il giallo, mentre l altro no. Berlin e Kay, avendo notato l esistenza di lingue con due soli termini basici, assunsero che questi sistemi dividessero lo spazio colore in colori chiari e scuri, pur non investigando la questione in modo sperimentale. Tuttavia, nello studio della lingua melanesiana Dani, parlata in Papua Nuova Guinea, Heider e Olivier [52] scoprirono che i due termini dividevano lo spazio in modo che un termine (mola) denotasse colori chiari ma anche tinte gialle e rosse di media chiarezza, mentre l altro (mili) denotava i colori scuri ma anche tinte blu e verdi di media chiarezza. Le loro denotazioni risultavano quindi complementari, coprendo l intero spazio colore. Ulteriori ricerche hanno dimostrato che tutte le lingue con due termini, estremamente rare, appartengono o a questo tipo che divide lo spazio in una categoria bianco-rosso-giallo e una nero-blu-verde, o al tipo che semplicemente divide tra chiaro e scuro, come sostenuto originariamente da Berlin e Kay. Inizialmente si credeva che in entrambi questi sistemi un termine avesse il suo prototipo nel bianco e l altro nel nero, ma Kay e colleghi [67] notarono che non era sempre così e che questi termini compositi potevano avere il loro focus in corrispondenza di un altro dei colori fondamentali, per esempio una categoria bianco-giallo-rosso può avere il suo prototipo in corrispondenza del rosso piuttosto che del bianco. Nell esperimento di Berlin e Kay [32], molti tasselli colorati vennero lasciati senza nome, e ciò portò a pensare che in alcune lingue (ad esempio il cinese mandarino) alcuni colori non potessero essere espressi con nessun termine di colore. Ciò contrastava con lingue come l inglese, per le quali la maggior parte dei parlanti erano in grado di specificare un termine di colore basico per ogni campione presentato, sebbene anche in inglese fosse difficile scegliere un nome per alcuni campioni che si trovavano vicino ai confini di denotazione di due o più termini basici. Sembra tuttavia che queste situazioni fossero un prodotto del modo in cui alcuni linguisti che compivano gli studi stimolavano le risposte, e che invece in quasi nessuna lingua esistano aree dello spazio colore che non possono essere indicate con un nome basico. 113

116 Kay e colleghi [67] mapparono le aree dello spazio colore che potevano essere nominate da ogni termine. Mostrarono che se molti parlanti della stessa lingua venivano intervistati, e che se solo quei tasselli di colore che tutti gli informanti ritenevano poter essere chiamate con un nome venivano mappati su un array di Munsell, allora ci sarebbero tipicamente stati grandi intervalli tra le aree denotate da ogni termine. Ciò in quanto non tutti i parlanti erano d accordo su quale parola dovesse essere usata per nominare i membri più marginali di ogni categoria di colore. Tuttavia, se il criterio per considerare un colore come interno alla denotazione di un termine viene ridotto al 30% di accordo tra parlanti, gli intervalli tra i termini di colore nello spazio colore scompaiono per la maggior parte. MacLaury [75] notò ancora come l ampiezza dei confini di un termine tracciata da un parlante dipenda dal tipo di istruzioni che vengono lui date. Mentre in un primo momento gli informanti solitamente includono solo un numero abbastanza basso di tasselli all interno della denotazione di un termine, se viene loro chiesto se esiste qualche altro tassello che potrebbe essere chiamato con quel nome, essi sono molto propensi ad aggiungerne diversi altri. Quindi sembra che tutti i termini di colore basici di una lingua, insieme, coprano l intera gamma di colori possibili, ma siccome alcuni colori sono solo esempi marginali di termini basici, i parlanti potrebbero essere riluttanti nell includerli nella denotazione di un termine. Kay e Maffi [74] non trovarono nessuna lingua nel WCS che lasciasse alcune regioni dello spazio colore innominate, sebbene per alcune di esse l attribuzione di nomi fosse molto inconsistente tra parlanti e sebbene sia possibile che in alcuni di questi casi i termini per alcune parti dello spazio non soddisfino i criteri di Berlin e Kay per lo status dei termini basici. Riconoscono però riconoscono l esistenza di una lingua, Yélî Dnye (Papua Nuova Guinea), documentata da Levinson [76], che costituisce il primo esempio ben documentato di lingua che lascia innominate alcune parti dello spazio colore e a cui manca un insieme di termini basici che lo suddividano. Per essere più chiari, questa lingua ha solo tre termini di colore basici (kpêdekpêde nero, kpaapikpaapi bianco e mtyemtye/taataa rosso ), la cui denotazione però, a differenza di altre lingue simili, non si estende fino ad includere l intero spazio colore, così che ampie aree di esso restano senza nomi capaci di esprimerle linguisticamente. Levinson precisa però che è possibile formare delle espressioni per descrivere altri colori. Questa lingua viene considerata un eccezione da Kay e Maffi, che ritengono che praticamente tutte le lingue suddividano lo spazio colore in modo che esista un termine per nominare qualsiasi colore; quest ultimo caso costituisce a loro avviso la regola. Levinson allo stesso tempo sostiene che queste eccezioni siano molto più diffuse di quanto non venga riconosciuto da Kay e Maffi. Kay e Maffi specificano quali tipologie di sistemi lessicali di colore siano attestati nel WCS. Propongono che le lingue evolvano da uno stadio in cui dividono in due soli termini lo spazio colore, aggiungendo gradualmente più termini 114

117 senza mai perderne e quindi suddividendo progressivamente l area dello spazio colore nominata da ognuno dei termini, fino a che tutti i colori fondamentali siano chiamati con un termine separato. L 83% delle lingue del WCS si posizionano a loro avviso in un qualche punto presente lungo la traiettoria presente in figura 6.5. Questa traiettoria, che prende quindi la forma di una sequenza evolutiva, sem- Figura 6.5: La traiettoria evolutiva di Kay e Maffi [74]. bra ignorare le lingue che dividono semplicemente tra colori chiari e scuri lo spazio colore, senza raggruppare il rosso e il giallo con il bianco da una parte, e il verde e il blu con il nero dall altra. La motivazione di ciò potrebbe essere che questi termini non vengano considerati veri e propri termini di colore, dato che la distinzione chiaro/scuro potrebbe essere considerata esterna al dominio del colore. Le lingue in cui ogni colore fondamentale viene espresso con un termine separato si trovano in fondo al diagramma, le lingue che si trovano a stadi intermedi si trovano lungo la traiettoria, appartenendo ad uno dei 5 stadi previsti oppure trovandosi in un periodo di transizione tra due stadi successivi. In quest ultimo caso, si verifica tipicamente disaccordo tra parlanti riguardo a quanti termini basici la lingua possieda, di solito perché i parlanti più anziani non useranno i termini entrati recentemente nel linguaggio. In questi casi una lingua dovrebbe essere classificata come appartenente ad uno stadio per alcuni parlanti che non usano questi termini recenti, e ad uno stadio successivo per quei parlanti che li utilizzano. Delle 91 lingue collocate da Kay e Maffi lungo questa traiettoria, 18 vennero considerate transizionali tra due stadi. Gli autori riconoscono che non tutte le lingue sembrano seguire la traiettoria indicata sopra, almeno non per tutta la lunghezza del loro sviluppo. Per questo motivo spiegano alcune diramazioni possibili che le lingue possono intraprendere, seguendo in questo caso cammini diversi rispetto alla norma. Ne prendiamo uno a titolo esemplificativo. Abitualmente, una volta raggiunto il secondo stadio, le lingue guadagnano un termine extra, in modo che il termine che esprime nero-verde-blu venga rimpiazzato da due termini, uno per nero e uno per verde-blu. Tuttavia sembra che 115

118 alcune lingue invece dividano il termine per rosso e giallo in due termini distinti, lasciando il termine nero-verde-blu ancora intatto. A questo punto, una lingua può prendere due strade. Una di queste prevede la divisione del termine composito nero-verde-blu in un termine per nero e uno per verde-blu. In questo modo la lingua rientrerà nella traiettoria con un sistema a cinque termini. L altra prevede che il termine composito venga diviso in modo diverso, cioè producendo un termine per nero-blu e uno per verde. Successivamente si dividerà il termine nero-blu in due termini distinti, rientrando nella traiettoria principale. In conclusione, alcune lingue del WCS sembrano non rispettare la teoria di Kay e Maffi rappresentata in figura 6.5. Ad esempio, alcune lingue sembrano aver saltato degli stadi intermedi previsti. In questi casi è possibile che questo fenomeno sia dovuto a cambiamenti molto rapidi nelle società in cui queste lingue sono parlate, dato che, in generale, appare esserci un correlazione tra il livello di sviluppo tecnologico in una comunità e il numero di termini di colore presenti nella lingua stessa. Quindi se il livello di sviluppo incrementa in modo molto veloce, è possibile che si verifichi un rapido incremento nel numero dei termini; ciò può causare il salto di uno degli stadi della teoria. 6.6 Gli studi sulla prototipicità di Eleanor Rosch Gli studi di Rosch (alcuni pubblicati con il suo nome precedente Heider) si concentrano soprattutto sullo studio delle proprietà che si attribuiscono ai termini di colore basici, in particolare la prototipicità. Rosch ha fatto dei colori focali universali il punto di forza maggiore della sua spiegazione dell ipotesi universalista. La funzione centrale di un termine di colore è chiaramente quello di identificare una serie di colori, così che il termine possa servire a distinguere questi colori da quelli che quella parola non denota. Tuttavia, i termini di colore non denotano solamente una serie uniforme di colori; alcuni colori sono membri della categoria corrispondente a quel termine ad un grado maggiore rispetto ad altri. Tipicamente, per ogni termine di colore ci sarà un singolo colore che i parlanti di quella lingua considereranno essere il migliore esempio di quel termine, e questo colore viene definito colore prototipico. Spostandoci dal prototipo, i colori diventeranno man mano esempi sempre meno buoni di quella categoria, diventando sempre più dissimili dal prototipo. Ad un certo livello di dissimilarità dal prototipo, troveremo colori per i quali sarà difficile determinare se appartengano alla categoria in questione o se siano fuori dai suoi confini. Per questi colori non è chiaro se il termine possa essere usato per denotarli. Questa parte dello spazio colore è conosciuta come category s fuzzy boundary, dove i limiti tra categorie non risultano chiari [77]. C è un importante inconsistenza riguardo a dove le persone posizionino i limiti di una categoria di colore; infatti se a diverse persone che parlano una stessa lingua chiediamo di tracciare i confini di un termine di colore in un insieme 116

119 di tasselli colorati, essi con buona probabilità posizioneranno i confini in punti diversi. Inoltre, se alla stessa persona viene chiesto di ripetere il compito una seconda volta, è molto improbabile che posizionerà il confine esattamente nello stesso punto in cui lo aveva posizionato la prima volta. Ciò significa che anche nello stesso parlante esiste inconsistenza riguardo ai confini di categoria. L esistenza della proprietà della prototipicità è chiaramente dimostrata anche da espressioni quali a good red, sort of red, slightly red, nessuna delle quali avrebbe senso qualora tutti i colori rossi fosse ugualmente buoni esempi del termine rosso [70]. I termini di colore sembrano quindi essere uno dei migliori esempi che si possono portare per spiegare questa proprietà, che comunque può essere applicata anche ad altri aspetti del linguaggio. Heider ha inoltre condotto alcuni esperimenti psicologici che hanno dimostrato lo status psicologico speciale degli unique hues, sono conosciuti con questo nome quei colori che si trovano nei punti dello spazio colore (unique hue points) corrispondenti ai migliori esempi (prototipi) dei termini di colore inglesi red, yellow, green, blue (i colori cromatici primari, secondo la teoria di Hering) e che solitamente ricoprono lo stesso ruolo anche nelle altre lingue. Essi non sono equidistanti nello spazio colore concettuale. Heider [49] si chiese se i colori che erano stati consistentemente scelti come prototipi delle categorie di colori nello studio di Berlin e Kay fossero più salienti rispetto agli altri colori. Mostrò ai bambini di tre anni delle file di tasselli colorati con gli stessi livelli di chiarezza e saturazione, chiedendo loro di prenderne alcuni. Notò in questo modo che i colori prototipici venivano scelti molto più frequentemente di quanto ci si sarebbe aspettati se la scelta fosse stata casuale, e ciò la portò a credere che quei colori fossero più salienti perché attraevano maggiormente l attenzione dei bambini. In un ulteriore esperimento, ai bambini vennero mostrati dei tasselli colorati, una alla volta, e veniva poi chiesto loro di trovare il tassello osservato all interno dell insieme di tutti i tasselli. Ancora una volta i bambini indicavano il tassello corretto più frequentemente quando il colore da trovare era prototipico. Anche questa è un ulteriore prova delle proprietà speciali di questi colori. Heider [50] si chiese se alcuni effetti che mettono in luce lo status speciale dei colori prototipici possano essere dovuti al loro status di prototipi delle categorie linguistiche ed essere quindi dei prodotti della terminologia cromatica, piuttosto che essere una causa delle restrizioni tipologiche sui sistemi di termini di colore. Cercò di capirlo svolgendo degli esperimenti che testavano la memoria del colore su parlanti monolingui della lingua Dani, la quale possiede solo due termini di colore (un problema di questo approccio è che il Dani ha solo due termini basici, ma ha anche dei termini non basici i quali potrebbero interferire con i risultati degli esperimenti. Tuttavia probabilmente nessuna lingua ha veramente due soli termini di colore, quindi nessuna lingua può approssimare una lingua con un sistema a due termini più di quanto possa fare il Dani). Ad ogni soggetto veniva mostrato un tassello che veniva rimosso dopo 5 secondi. Dopo un intervallo di 30 secondi veniva chiesto di sceglierlo da un array di tasselli di Munsell. Analogamente agli esperimenti precedenti, i soggetti erano più accurati nella 117

120 scelta del colore corretto quando si trattava di un colore prototipico. I risultati ottenuti sono quindi simili a quelli ottenuti nello studio precedente con bambini americani, e ciò confermerebbe il fatto che questi colori siano più facili da ricordare per tutti, indipendentemente dalla lingua che si parla. Sempre in questo lavoro, Heider si chiese se i parlanti Dani avrebbero trovato più facile imparare nomi di colori prototipici piuttosto che di altri colori. Condusse un esperimento in cui veniva loro insegnato ad associare dei nomi a 16 tasselli colorati, metà dei quali corrispondevano ai prototipi degli otto colori cromatici, l altra metà corrispondeva a parti dello spazio colore che generalmente non forma prototipi di termini di colore. Lo sperimentatore dava un nome ad ogni tassello, e chiedeva al soggetto di ripeterlo. Poi i tasselli venivano presentati al soggetto in un ordine casuale ed egli li doveva nominare. In caso di produzione di un nome errato, gli veniva ripetuto quello corretto. I soggetti vennero testati in questo modo per cinque volte al giorno fino a quando non avessero acquisito tutti i termini correttamente. Il numero medio di errori era significativamente più alto per colori non prototipici rispetto che per quelli prototipici; è quindi più facile imparare questi ultimi. Heider suggerì che questo mostra che i coloriprototipo vengono mantenuti più facilmente nella memoria a lungo termine, motivo per cui vanno a formare i prototipi dei termini di colore. Negli studi Heider considerò i prototipi dei colori rosso, giallo, verde, blu, viola, arancione, marrone e rosa, ma suggerì che i prototipi corrispondenti alle unique hues vengono ricordati meglio e più facilmente rispetto agli altri; ciò suggerisce che il loro status speciale sia dovuto all influenza della neurofisiologia della visione cromatica. Rosch [78] investigò sull abilità umana di acquisire categorie di colore artificiali. In alcune di esse i colori prototipo erano centrali, in altre essi erano più periferici oppure non ne contenevano affatto. Per evitare interferenze da parte di altri termini di colore, Rosch svolse questo esperimento ancora una volta con parlanti monolingui Dani. Notò che anche in questo caso i soggetti imparavano con meno errori categorie in cui i prototipi erano centrali, mentre il maggior numero di errori lo si aveva con categorie che non ne contenevano. I casi intermedi erano quelli in cui i prototipi erano periferici. Ancora, venivano fatti meno errori nell acquisizione quando i colori prototipo corrispondevano a unique hues. 6.7 Studi recenti a favore dell universalismo Gli studi condotti per portare conferme alla teoria originale di Berlin e Kay, così come quelli condotti per smentirla, sono vasti e numerosissimi. Nell impossibilità di presentarli tutti, nel seguito se ne presenteranno alcuni. Tra essi si presentano studi condotti dallo stesso Kay in tempi più recenti, allo scopo di rettificare la teoria iniziale. In uno studio sulle differenze nelle strutture semantiche e percettive tra parlanti inglesi e cinesi [79], vennero comparati i giudizi di similarità tra gli otto 118

121 colori cromatici basici tra questi due gruppi di parlanti usando come stimoli sia i nomi di colori stessi che campioni di colore (si veda figura 6.6). I soggetti erano parlanti madrelingua cinesi mandarini e madrelingua inglesi. In questo studio ogni partecipante completò quattro compiti: due compiti prevedevano la presentazione di coppie di campioni colorati o di termini di colore, negli altri due gli stimoli colore (campioni o termini) venivano presentati in triadi. In tutti e quattro i test, ai soggetti veniva chiesto di esprimere dei giudizi di similarità. Nei compiti a triade, ai soggetti venivano presentate tutte le 56 combinazioni triadiche possibili di termini di colore o di campioni colorati, con l istruzione di scegliere il colore (termine di colore o campione) più diverso dagli altri due. Nei compiti di comparazione a coppie, ai soggetti venivano presentate tutte le 28 coppie possibili di termini di colore o di campioni colorati, con l istruzione di dare un giudizio di similarità tra di essi su una scala da 1 (più diversi) a 7 (più simili). Figura 6.6: Gli stimoli usati in questo esperimento. A sinistra i termini di colore in inglese, a destra i caratteri cinesi e al centro le coordinate OSA dei campioni di colori focali. Si noti come i caratteri cinesi terminino con una sorta di suffisso che li identifica come termini di colore. Tratto da [79]. Le scoperte maggiori di questo studio indicano che persone che parlano lingue diverse classificano gli otto colori basici e i relativi termini in modo simile sebbene ci siano delle variazioni individuali significanti all interno di ogni lingua. I partecipanti di lingua inglese e quelli cinesi giudicano la similarità tra colori in modi molto simili. Non fa molta differenza se siano i nomi di colore o dei campioni di colore ad essere usati come stimoli, o se, per raccogliere i dati, si utilizzino triadi o coppie in cui i diversi colori vengono presentati. Non fa 119

122 una grande differenza se i dati vengono raccolti su soggetti femminili o maschili. Ci sono però delle differenze individuali misurabili e significanti, il cui totale è maggiore alla somma degli altri tre tipi di variazione presi in considerazione. Gli autori credono alla teoria di Berlin e Kay e in loro favore dicono che: Le lingue possono avere o non avere sviluppato un lessico dei colori elaborato, estensivo e sistematico. Alcuni studi infatti descrivono lingue che non lo possiedono, come la lingua Yélî Dnye studiata da Levinson [76]. Non tutte le parti dello spazio colore hanno le stesse probabilità di ricevere dei nomi. Non tutte le parti dello spazio colore hanno bisogno di ricevere dei nomi con le quali venire indicate, anche in lingue che hanno una terminologia dei colori completa. Per esempio, i colori saturi potrebbero avere più bisogno di essere nominati rispetto ai colori non saturi. Lo spazio colore, insomma, non viene suddiviso secondo un criterio matematico di divisione in categorie mutualmente esclusive ed esaustive. Kay e Maffi [74] propongono la Emergence Hypothesis, che sostiene appunto che non tutte le lingue possiedano un copertura lessicale completa dello spazio colore e che alcune aree più salienti vengano assegnate ad un nome con maggiori probabilità rispetto alle aree meno salienti. È più produttivo focalizzarsi sui punti focali che sui confini tra colori. I punti focali sono molto più facili da quantificare rispetto ai confini in quanto metodologicamente è più facile misurare e quantificare un singolo punto in un sistema di coordinate. Le differenze individuali stanno ricevendo attenzione sempre crescente nel campo della visione, e in futuro diventeranno un area di ricerca sempre più importante. Stiamo parlando in questo caso di variazioni inter- e intra-individuali, che sono considerate normali e che ci si deve aspettare. Tuttavia i motivi di queste variazioni restano ancora incerti, anche se giacciono probabilmente a livello della fisiologia del sistema visivo. Questo studio smentisce la motivazione proposta da Furbee e colleghi [80] ovvero che queste variazioni dipendano dal colore degli occhi. Si dovrebbe considerare che tutti i dati hanno una larga componente di errori derivanti da una varietà di effetti casuali. Questo significa anche che nessuna teoria sarà mai in grado di rendere conto di tutti i dati. Bisogna focalizzare lo studio sulla stima, ovvero la quantificazione e la misurazione, delle dimensioni o dell ammontare degli effetti piuttosto che assumere una posizione polare o chiedersi se ci sia un effetto. Ciò significa non assumere posizioni totalitarie del tipo tutto o niente, ma misurare accuratamente gli effetti dei fenomeni che si sta tentando di spiegare. Kay e Regier [81] presentano dei test statistici condotti su un corpo di dati sui lessici di colore di lingue industrializzate e non molto ampio, e mostrano 120

123 che esistono forti tendenze universali sia nelle prime che nelle seconde. Uno dei principali problemi sollevati dagli oppositori dell ipotesi universalista è infatti la mancanza di test oggettivi volti a confermare l ipotesi stessa. Tra i tanti difetti che si contestavano a Berlin e Kay, c era il fatto che quasi tutte le lingue da loro analizzate sperimentalmente fossero lingue scritte di società industrializzate, e quindi non era lecito generalizzare da quelle ad altri tipi di lingue. I risultati raggiunti avrebbero insomma lasciato aperta la possibilità che la denominazione di colori fosse simile prevalentemente tra quelle lingue legate le une alle altre da un processo globale di industrializzazione. Proprio per questo motivo, Kay, Cook e Regier [66] avevano condotto il World Color Survey raccogliendo dati su lingue non scritte di paesi non industrializzati. La prova più pesante contro l ipotesi universalista è che ci sono lingue che sembrano non aderire ai modelli universali proposti. Interessante è il fatto che queste lingue sono tendenzialmente lingue non scritte parlate in società non industrializzate, e ciò è coerente con l idea che le similarità potrebbero essere limitate nella loro portata cross-linguistica. La maggior parte di queste lingue hanno un termine unico (grue) per esprimere i termini di colore verde e blu. Altre si avvalgono di termini di colore che riflettono concetti extracromatici, come ad esempio aridità e freschezza. Queste differenze nei lessici del colore sono a volte correlate a differenze negli aspetti cognitivi legati al colore, e ciò ha portato a ritenere che le categorie linguistiche possano essere costruzioni arbitrarie delle specifiche lingue, legate tra loro solo da principi molto generici. I due autori hanno affrontato la questione delle tendenze universali nel dominio del lessico dei colori ponendosi e cercando di rispondere a due domande: 1. I termini di colore di diverse lingue nel WCS si raggruppano insieme nello spazio colore ad un grado maggiore rispetto al caso? 2. I termini di colore del WCS, tutti derivanti da lingue non scritte di paesi non industrializzati, cadono vicino ai termini di colore delle lingue scritte di paesi industrializzati? I due insiemi di dati si somigliano più di quanto ci si aspetterebbe se fosse dovuto al caso? C era quindi un confronto interno ai dati WCS, e un confronto tra quei dati e quelli raccolti nello studio di Berlin e Kay [32]. Per quanto riguarda il primo punto, si rappresentarono i termini di colore come punti nello spazio colore, utilizzando lo spazio CIELAB (era necessario uno spazio in cui fosse possibile calcolare le distanze psicologiche), e poi si analizzò quanto questi punti si raggruppassero nello spazio. Ogni termine di colore T venne rappresentato in ogni lingua L dal suo centroide nello spazio. Per farlo, per prima cosa si localizzava nello spazio il centroide di ogni parlante che usava il termine T nella lingua L tra i campioni chiamati T da quello stesso soggetto. Successivamente veniva fatta una media dei centroidi del termine in generale. Alla fine il centroide ottenuto veniva ricondotto allo stimolo che più gli si avvici- 121

124 nava. Una volta ottenuti questi punti nello spazio per tutti i termini di colore per tutte le lingue, venne testato se questi punti fossero più raggruppati (vicini) tra le varie lingue di quanto ci si potesse aspettare se ciò fosse dovuto al caso, attraverso un test di Monte Carlo. Questo test richiede una misura del raggruppamento reale dei termini e poi un indicazione di quanto ci si aspetterebbe che i termini si raggrupperebbero in modo casuale. Calcolarono la distanza tra i termini nei dati del WCS, equivalente alla distanza nello spazio tra le rappresentazioni dei loro punti. Per farlo utilizzarono D, ovvero la misura di dispersione dei termini. Bassi valori di D indicano raggruppamento, cioè che si ha poca dispersione. Per determinare D nel caso in cui questa fosse casuale, crearono un insieme di dati casuale (attraverso simulazione al computer) e misurano D anche in questo insieme. Per essere certi che questi dati ipotetici rispettassero i principi naturali di categorizzazione interna delle lingue, partirono dai dati del WCS e li fecero ruotare, fecero ruotare cioè ogni termine centroide per ogni lingua nel piano a*b* (tinta) in modo casuale, lo stesso per tutti i termini interni ad una lingua, ma in modo casuale diverso per lingue diverse. Questo processo crea un insieme di dati ipotetici che preserva le strutture interne alle lingue, mentre rende casuale la struttura cross-linguistica. I risultati mostrano che il valore di D nei dati WCS è ben sotto il livello più basso di D nell insieme dati ipotetico; mostrano quindi che nel WCS il raggruppamento è molto più alto di quanto ci si aspetterebbe per caso. Per rispondere alla seconda domanda usarono un altro test di Monte Carlo in cui vennero creati 1000 insiemi di dati ipotetici a partire dai dati WCS usando la tecnica precedente. In questo caso non si misurava la dispersione al interno di un unico dataset, bensì le distanze tra i due insiemi di dati che portavano a una misura S della separazione tra i dati del WCS e quelli di Berlin e Kay. Per ogni termine di colore c in ogni lingua l dei dati WCS, trovarono il più vicino termine c in ogni lingua l nel dataset di Berlin e Kay e sommarono queste distanze per ottenere S. Ciò li portò a concludere che i dati WCS sono significativamente più vicini ai dati di Berlin e Kay di quelli del dataset ipotetico; il valore S nei dati WCS è molto più basso del limite più basso riscontrato nella distribuzione ipotetica. Ripeterono poi lo stesso test eliminando dal set di Berlin e Kay i dati delle poche lingue non scritte di società non industrializzate (Ibibio, Pomo e Tzeltal) e lo fecero rigirare. Ottennero in questo modo gli stessi risultati qualitativi. Questo risultato indica una similarità nel lessico dei colori tra le lingue di società industrializzate e non. Entrando nel dettaglio dei nomi di colori e facendo un confronto tra l inglese e le lingue del WCS si nota come i termini inglesi blue, green, purple e brown abbiano picchi molto vicini (tra inglese e lingue WCS). I termini inglesi yellow, orange, pink e red hanno picchi che si trovano nelle vicinanze dei picchi nel WCS. Nei dati WCS c è un picco anche tra i termini inglesi green e blue, dovuto al fatto che quasi tutte queste lingue hanno il termine cosiddetto grue per esprimere entrambi questi colori. Pink e orange mancano nella maggioranza di queste lingue che includono il rosa nel rosso e arancione nel giallo. 122

125 La conclusione a cui giungono è che, nonostante le lingue varino molto per numero di termini di colore basici che possiedono e possono variare molto nella locazione dei confini tra termini, alcuni punti privilegiati nello spazio colore sono ancorati nei vari sistemi di lessico dei colori delle varie lingue del mondo. Ci sono quindi chiare tendenze statistiche cross-linguistiche per le categorie di termini di colore a raggrupparsi insieme in questi punti privilegiati. Questi punti privilegiati sono simili per le lingue non scritte di società non industrializzate e per le lingue scritte di società industrializzate, inoltre tendono a giacere in corrispondenza o vicino a quei colori chiamati in inglese red, yellow, green, blue, purple, brown, orange, pink, black, white, grey. In Kay e Regier [82] vengono presentati in modo estensivo i dati raccolti sulla lingua berinmo studiata da Roberson e colleghi [83], una lingua parlata in almeno due villaggi (Bitara e Kagiru) della Papua Nuova Guinea. L inglese e il berinmo hanno due sistemi di colore molto diversi. Come abbiamo già accennato, le differenze tra i confini delle categorie cromatiche probabilmente causano, o sono comunque correlate, a differenze in memoria, acquisizione e discriminazione tra colori. Gli autori cercano però di smentire l ipotesi relativista sostenuta da Roberson e colleghi sulla base di questo loro studio che affronteremo nel prossimo capitolo dedicato alle ipotesi relativiste, ed in particolare cercano di smentire l ipotesi secondo cui l unico vincolo universale sarebbe il raggruppamento per similarità. Questo vincolo si basa sul fatto che non esiste nessuna lingua che possiede una categoria che includa due aree dello spazio colore (es. giallo e blu) ma che escluda un area tra esse (es. verde). Non esiste alcuna catena associativa di similarità che può connettere il giallo con il blu senza passare attraverso il verde. Il raggruppamento quindi segue sempre principi di similarità (così come sono definiti dalla discriminazione percettiva) e l unico parametro libero appare essere la localizzazione dei confini tra categorie. Roberson e colleghi sostengono che, se i parlanti del berinmo sembrano raggruppare insieme aree contigue dello spazio colore, cosa che avviene in tutte le lingue investigate, non ci sono però prove del fatto che queste sezioni corrispondano ad un insieme limitato di categorie di colore basiche universali. L effettiva localizzazione delle categorie nello spazio colore è un parametro libero, stabilito esclusivamente da una convenzione linguistica. Kay e Regier vogliono invece dimostrare che anche la lingua berinmo segue un modello molto specifico e ampiamente distribuito e che a loro avviso la localizzazione dei confini tra categorie segue ed è guidata da forze universali. Per dimostrarlo, partono dal presupposto che, qualora i ragionamenti di Roberson e colleghi fossero corretti, non dovrebbero esserci locazioni privilegiate per i confini tra categorie, le quali si sarebbero potuti trovare in molte altre posizioni. L unico vincolo da loro imposto è infatti il raggruppamento per similarità, ma la localizzazione delle categorie sarebbe libera. A questo scopo Kay e Regier propongono i dati effettivi della lingua berinmo e 19 varianti ipotetiche, che vengono ottenute ruotando i dati originali. Questo passaggio è evidente nella figura 6.7, dove in a possiamo vedere rappresentata la divisione reale in categorie 123

126 linguistiche della lingua berinmo nello spazio colore, mentre in b e c osserviamo due divisioni dello spazio non reali, ottenute ruotando i dati originali. In questo modo otteniamo evidentemente un insieme di lingue ipotetiche basate a. b. c. Figura 6.7: Berinmo a) non ruotato, b) ruotato di 4 colonne, c) ruotato di 8 colonne. sul berinmo nelle quali il principio del raggruppamento per similarità resta invariato rispetto all originale. Inoltre viene mantenuta anche la forma delle categorie e la loro posizione una relativamente all altra. L unica cosa che varia è la locazione delle categorie all interno dello spazio colore, nel rispetto dell ipotesi di Roberson e colleghi che lo consideravano un parametro libero. Se la locazione dei confini ha qualcosa di universale, la loro posizione originale dovrebbe essere più simile alla posizione dei confini che troviamo nelle altre lingue, altrimenti nelle altre lingue dovremmo trovare casi di posizioni ruotate rispetto all originale berinmo (più precisamente, la posizione originale non dovrebbe essere privilegiata rispetto a quelle ruotate). Gli autori comparano i confini delle categorie nella versione reale e in quelle ipotetiche del berinmo con quelli delle altre 110 lingue presenti nel WCS, creando delle mappe dei confini per ognuna di queste lingue. Il risultato è che il berinmo è più simile alle altre lingue quando non ruotato anziché quando ruotato, quindi obbedisce a dei vincoli universali ben più forti del semplice raggruppamento per similarità. Maggiore è il grado di rotazione rispetto all originale, minore è la corrispondenza con i confini delle lingue del WCS, come si vede in figura 6.8. Per dare più forza a questa loro conclusione, analizzano i confini di categoria anche in un altra lingua studiata da Roberson e colleghi [84], la lingua himba (che ha anch essa cinque termini di colore basici, come il berinmo). Con lo stesso criterio quindi gli autori confrontarono inizialmente il berinmo con le 110 lingue analizzate nel WCS, poi con la lingua himba, e infine con otto lingue scelte dal WCS che, come il berinmo, possiedono cinque termini di colore. Dal confronto tra i sistemi di termini di colore di berinmo e himba, Kay e Regier 124

127 Figura 6.8: Corrispondenza dei confini media con dati WCS di varie versioni ruotate del Berinmo (0=nessuna rotazione). notarono molte similarità; ciò li portò quindi agli stessi risultati. Successivamente, confrontarono il berinmo e le altre otto lingue con sistemi di cinque colori basici selezionate dal WCS (sette delle quali appartengono a sette diverse famiglie linguistiche, mentre l ottava è una lingua isolata), come si vede nella figura 6.9. Tutte queste lingue mostrano delle similarità tra di loro e con il berinmo, indipendentemente dalla loro appartenenza genetica e geografica. 6.8 Conclusioni Pur a distanza di quarant anni, ancora oggi lo studio di Berlin e Kay si trova nella bibliografia di tutti gli studi che si occupano del lessico dei colori. Sicuramente va loro riconosciuta la grande innovazione rispetto alle idee che circolavano in quel periodo e l ondata di interesse che hanno suscitato dietro di sé. Nonostante ciò, riconoscendo al loro studio tutti i meriti che gli spettano, va anche detto che spesso è stato sopravvalutato e ha avuto un influsso negativo sugli studi successivi. È stato sopravvalutato in quanto non si possono nascondere i numerosi errori compiuti e i difetti di cui abbiamo già detto. Riguardo all influsso negativo sugli studi successivi, va detto che, essendo considerato il lavoro più importante, la pietra miliare del settore, quasi nessuno si è mai (per così dire) permesso di uscire dagli schemi e i confini che esso aveva tracciato. Questo ha fatto sì che alcuni studi successivi si siano limitati a tentare di riprodurre quello di Berlin e Kay, anzichè sperimentare altre vie e 125

128 Figura 6.9: Risposte dei parlanti berinmo e dei parlanti di otto lingue tratte dal WCS, tutte con sistemi di cinque termini basici. La percentuale tra parentesi indica la percentuale di corrispondenza con il berinmo. altri metodi per investigare all interno di questo dominio. A titolo esemplificativo di questo influsso negativo, si può accennare all esclusione dei termini definiti non basici dal novero dei termini presi in esame. Ciò consegue direttamente dalla metodologia di Berlin e Kay, i quali avevano stabilito una serie di criteri molto rigorosi che i termini dovevano rispettare per essere considerati basici. Tutto ciò che non soddisfava questi criteri, veniva considerato non basico e quindi escluso dai dati. Va detto che loro erano alla ricerca di prove che dimostrassero la loro ipotesi universalista: cercavano quindi elementi che accomunassero le lingue (in riferimento al dominio del colore) e non elementi che le differenziassero. Detto questo, saremmo legittimati a credere che le scoperte a cui sono giunti nascano proprio dai presupposti dai quali partivano, i quali erano già delineati in quella direzione. Questa è infatti l opinione di alcuni studiosi, tra cui Lucy [62]. Se infatti Berlin e Kay volevano dimostrare quei processi comuni tra lingue nell attribuire nomi ai colori, non ha senso utilizzare lo stesso metodo quando si vuole indagare sulle differenze, che innegabilmente esistono, nei domini di colore dato che sono proprio i termini non basici a e- semplificare maggiormente le differenze tra lingue in questo dominio. Probabilmente c è un altro aspetto ancora più importante da tenere in considerazione. Negli studi di color naming va evitato in qualsiasi modo il pre- 126

129 condizionamento sulla base delle proprie categorie cromatiche, che nel nostro caso potremmo identificare nelle categorie (linguistiche) del mondo occidentale. Molte lingue lontane da quelle parlate nei paesi più sviluppati hanno dei sistemi di denominazione cromatica totalmente diversi dal nostro che classificano il colore sulla base di dimensioni completamente diverse dalle nostre. Per comprenderle, sarà necessario uno sforzo particolare che ci permetta di allargare i nostri orizzonti. Ancora, molti studi recenti si preoccupano di stabilire l esistenza o meno di un dodicesimo colore basico in alcune lingue. Tuttavia si è stati spesso riluttanti a riconoscere l esistenza di più di undici termini basici, anche laddove ci fossero prove molto evidenti. Ciò in quanto lo studio di Berlin e Kay aveva stabilito in undici il numero massimo di termini basici di colore che si possono trovare nelle lingue. Tuttavia, successivamente, fu lo stesso Kay [70] a rettificare questa loro dichiarazione, sostenendo invece che non esista alcun motivo per cui 11 debba essere il numero massimo di termini basici codificabili. Le lingue sono vive ed evolvono naturalmente, e termini che oggi non lo sono potranno divenire basici in futuro. Un altro aspetto da sottolineare è dettato dai rischi che si corrono nel condurre un esperimento di produzione linguistica in cui vengono posti dei vincoli per il parlante. Uno dei punti cruciali in esperimenti di questo tipo è quello di fare ricorso alle intuizioni che i parlanti nativi hanno riguardo alla propria madrelingua e per fare ciò le persone hanno bisogno di esprimersi liberamente. L imposizione di vincoli rende il processo non più intuitivo ma ragionato, in quanto il soggetto deve filtrare le sue intuizioni sulla base delle richieste specifiche dell esaminatore. Se il soggetto filtra la propria lingua, allora il prodotto che ne risulta non è la lingua reale, ma per così dire un prodotto lavorato, il quale ha solitamente caratteristiche diverse da quelle del prodotto di origine. L esistenza di questo processo è dimostrata dalle numerose difficoltà che i soggetti incontrano posti di fronte a compiti di questo tipo. Tipicamente essi mostrano grandi incertezze e chiedono continue delucidazioni. Ciò è contrario all enorme naturalezza con cui ognuno di noi parla la propria lingua. 127

130 128

131 CAPITOLO 7 Le posizioni relativiste 7.1 Introduzione La dottrina del relativismo linguistico deve essere compresa storicamente come una reazione all attitudine denigratoria nei confronti di lingue non scritte, attitudine diffusa dalle visioni evoluzionistiche, prevalenti durante il diciannovesimo secolo in ambito antropologico. Secondo il relativismo linguistico le persone organizzano a livello cognitivo e dividono il continuum del colore in modo diverso, sulla base di come la loro lingua suddivida questo continuum in categorie linguistiche. Il punto principale è quindi che il linguaggio influenza l organizzazione cognitiva: il fatto di esprimere diversamente i colori comporta una diversa percezione del colore, che non è quindi considerata universale e uguale per tutti, ma dipendente dalla determinata lingua parlata. A questo proposito, ad esempio, Uusküla [85] studiò la distribuzione dei termini di colore in cinque lingue, due lingue indoeuropee (russo e inglese), e tre lingue uraliche (estone, finlandese e ungherese), e cercò di stabilire i migliori esempi (punti focali) per ogni termine basico in ognuna di queste lingue. L autrice si rifece alla classica definizione di punto focale, definito come quell area dello spazio colore che è più esemplificativa del nome di colore basico in ogni lingua. Individuò quindi i punti focali sulla base della frequenza con cui un nome veniva attribuito ad uno stimolo colore. Scoprì che sia la distribuzione, sia i migliori esempi variavano molto tra queste 129

132 lingue, sia per le lingue imparentate che per quelle che non lo erano. I migliori esempi di colore e i punti focali non coincidevano in lingue diverse, nemmeno in quelle appartenenti ad una stessa famiglia linguistica come il finlandese e l estone, nei quali i prototipi di alcuni colori che sono indicati quasi con lo stesso nome (es. punainen e punane, che significano entrambi rosso) non corrispondevano l uno all altro. Questo fenomeno viene visto come specifico e relativo ad una determinata lingua e cultura, evidenziando quindi una visione relativista. Un influenza importante nella formazione del lessico dei colori viene riconosciuta anche alla cultura. Anche l universalismo le assegna un ruolo cruciale, la gerarchia descritta da Berlin e Kay infatti dovrebbe evolvere anche sulla base della necessità di una lingua di esprimere i colori in modo più dettagliato. I bisogni comunicativi riguardo al colore variano in modo molto ampio da cultura a cultura e sembra esserci un rapporto di tipo implicazionale tra la complessità culturale e tecnologica di una società e la complessità della terminologia cromatica di cui quella società dispone. Molte lingue del mondo, soprattutto occidentale, possiedono undici categorie linguistiche di colore. Queste potrebbero essere un ottimo insieme per i loro bisogni comunicativi, data la vasta gamma di colori disponibili nel loro ambiente. L utilità di un nome nel distinguere tra oggetti individuali di un insieme è attenuata dal contesto: nel caso in cui, ad esempio, tutti i funghi siano arancioni, il termine arancione è meno utile. Dall altra parte, molte culture tradizionali dispongono di meno di undici categorie, ognuna delle quali contiene un ampia gamma di esemplari e si estende a colori molto desaturi, con basso accordo inter-individuale sulla locazione dei migliori esempi. Senza l intera gamma di stimoli saturi che può essere riprodotta artificialmente, le comunità tradizionali potrebbero non aver bisogno di distinzioni categoriche più fini, che sono richieste quando una varietà più ampia di questi stimoli è disponibile. Mancherebbe, in questi casi, la motivazione a rendere più dettagliato il lessico dei colori. Sono quindi le circostanze ecologiche e culturali ad incrementare la divergenza delle categorie di colore in queste comunità. L industrializzazione può sicuramente incoraggiare l introduzione di nuovi termini e categorie, ai fini di incrementare sia il potere comunicativo, sia la discriminabilità. Esiste quindi un principio di economicità: è controproduttivo che un sistema sia più comunicativo di quanto serve ai suoi bisogni, e solo qualora se ne riscontri la necessità, un sistema introdurrà dei nuovi termini. Al di là del dominio della terminologia dei colori, la relatività linguistica è stata proposta in altri ambiti cognitivi. Ad esempio Gumperz e Levinson [86] scoprirono che variazioni nei sistemi numerici adottati conducevano a differenze nel ragionamento numerico, ma anche nei domini di materiale e forma [87], tempo [88] e altri sono state tratte conclusioni relativiste; si è cioè concluso che il modo in cui questi domini sono organizzati cognitivamente è influenzato dalle lingue che li codificano in modi diversi. 130

133 7.2 La percezione categorica La percezione categorica (categorical perception, CP) si rivela quando stimoli che stanno a cavallo tra due categorie vengono percepiti come più distinti rispetto a stimoli interni ad una categoria, distanziati tra loro in modo uguale rispetto ai primi nello spazio colore percettivo utilizzato. Siccome i confini tra categorie, secondo l ipotesi relativista, variano da lingua a lingua, i parlanti di lingue diverse apprendono il colore in modo diverso; queste differenze linguistiche sembrano quindi effettivamente causare differenze cognitive. Recentemente, Özgen [89] ha delineato la sua posizione relativista andando oltre i soliti schemi e concentrandosi proprio sulla percezione categorica. Ecco la domanda che Özgen si pone: Languages differ in the parts of the color spectrum for which they have names. For example, some languages have a single name to mean both blue and green [...]. If you spoke such a language, what would happen when you look at the rainbow? Would you still see a blue band, a green band, and so on? Or instead would you see bands of hues that correspond to the categories mapped out by your own language? Özgen [89]. Roberson e colleghi [83] hanno proposto che i punti focali universali non giochino un ruolo centrale nell attribuzione di nomi ai colori. La loro ipotesi è che le categorie cromatiche sono determinate nei loro confini direttamente dalle singole lingue, e l unico vincolo che esse devono rispettare è quello del raggruppamento per similarità, secondo il quale colori simili tenderanno a ricevere lo stesso nome. Il fatto di aver studiato lingue di comunità non industrializzate è ritenuto molto importante da loro, i quali ritengono che proprio per non averlo fatto Berlin e Kay [32] ottennero dei risultati molto limitati. Prima di descrivere gli studi che sembrano giustificare la posizione relativista analizziamo quindi il concetto di percezione categorica che viene rappresentato nell immagine (figura 7.1). La figura mostra quattro colori separati l uno dall altro da intervalli uguali nello spazio colore (distanza d), rappresentati dalle doppie frecce. Due di questi colori (B1 e B2) sono esempi di blu, mentre gli altri due (G1 e G2) sono esempi di verde. La linea tratteggiata verticale indica il confine tra le due categorie cromatiche. Nonostante gli intervalli tra i colori siano uguali, numerosi studi hanno dimostrato come sia più difficile discriminare tra B1 e B2 o tra G1 e G2 piuttosto che tra due elementi appartenenti uno ad una ed uno all altra categoria. La distanza percettiva Pd, diversa dalla distanza d, è quindi maggiore in quest ultimo caso, rispetto alle coppie che appartengono alla stessa categoria. P d B1,B2 P d B2,G2 > o P d G1,G2 131

134 Figura 7.1: Quattro stimoli colore appartenenti a due categorie diverse divise da una linea tratteggiata che rappresenta il confine tra le due. I due stimoli a sinistra appartengono alla categoria B (blu), quelli a destra alla categoria G (verde). Se l ipotesi relativista fosse esatta, la percezione categorica dovrebbe essere funzione della lingua del parlante. Diversi ricercatori hanno studiato questo fenomeno sia sul campo che in laboratorio per testare questa predizione, proponendo discriminazioni tra confini di categorie esistenti in una lingua presa in esame ma non nell altra. Si può indagare questo fatto attraverso un compito di ricerca visiva, in cui si mostra ai partecipanti uno stimolo colore, chiamato target, e poi un insieme di stimoli di colori diversi (distrattori). Il compito consiste nell indicare in questo insieme di distrattori gli stimoli uguali al target. Ad esempio, nel caso in cui il target sia blu e i distrattori verdi o viceversa, gli inglesi sono più veloci nello svolgere il compito rispetto agli africani. Ciò perché blu e verde sono due categorie distinte in inglese, ma appartengono ad una sola categoria (grue) nella maggior parte delle lingue africane. Al medesimo risultato si è giunti analizzando i dati provenienti da soggetti turchi e inglesi: i turchi erano più veloci nel discriminare tra stimoli blu e azzurri, che in turco, così come in russo, costituiscono due categorie linguistiche diverse, rispetto agli inglesi. I parlanti della lingua nella quale il target e i distrattori appartengono a categorie diverse sono più veloci nel discriminare rispetto a quelli che non possiedono questa distinzione nella loro lingua. Le categorie linguistiche quindi influenzano la velocità in un compito di discriminazione tra stimoli. A questo punto verrebbe naturale dire che la natura categorica della percezione del colore non è innata ma viene acquisita, eppure la ricerca condotta sulla percezione cromatica nei neonati sembra smentire questa affermazione rivelando risultati contraddittori. Alcuni studi hanno messo in luce la possibilità che i neonati percepiscano in modo categorico il colore, pur non avendo ancora sviluppato nessuna abilità linguistica. Allo stesso tempo altri studi hanno 132

135 portato a pensare il contrario. Forse gli effetti della percezione categorica nella discrimazione del colore vengono effettivamente acquisiti molto presto, non solo attraverso il linguaggio ma anche attraverso la percezione continua di categorie cromatiche comuni che circondano i bambini sin dalla nascita (giocattoli, abiti ecc.). È possibile che parlanti di lingue diverse vedano i colori in modi diversi solo se è possibile che ci sia un reale cambiamento nella percezione del colore a bassi livelli (primi stadi) del processo visivo. Se non è possibile che la percezione cambi, non è possibile che essa vari tra culture e lingue. La domanda da farsi quindi è: la percezione del colore negli adulti è identica a quella dei neonati, o questa può subire delle modifiche? Una buona prova del fatto che la percezione può essere effettivamente modificata è quella che viene chiamata apprendimento percettivo (perceptual learning), che si riferisce ai miglioramenti che si possono ottenere mediante pratica ripetuta, in una determinata abilità percettiva. Attraverso la pratica, le persone possono migliorare le loro performance in qualsiasi abilità percettiva e ciò è dovuto al fatto che il cervello è un organo plastico ed adattivo, in continuo cambiamento sulla base delle richieste dell ambiente. Questo è specialmente vero e al suo massimo livello durante l infanzia, ma continua anche durante l età adulta. È improbabile che la percezione del colore faccia eccezione e sia un rigido meccanismo che rimane invariato. 7.3 Lo studio delle lingue berinmo e himba Gli studi più importanti e citati a favore del relativismo sono quelli condotti da Roberson e colleghi che hanno preso in esame due lingue non scritte di paesi non industrializzati: berinmo e himba. Li analizzeremo in queste pagine. In [83, 90] vengono presentati una serie di esperimenti con i quali gli autori tentarono di replicare i dati ottenuti da Rosch Heider [52] nel suo classico studio sulla lingua dani con uno studio sulla lingua berinmo, un altra lingua melanesiana parlata nella parte nordest della Papua Nuova Guinea, confrontata con la lingua inglese. I risultati di Heider erano stati interpretati a supporto dell esistenza di categorie universali di colore e quindi confermavano, secondo l autrice stessa, la teoria di Berlin e Kay. La scelta del berinmo fu dettata dal fatto che, nonostante questa lingua si trovi ad uno stadio evolutivo più avanzato (possiede cinque termini di colore, contro i due del dani) il suo lessico dei colori è sufficientemente limitato e il colore, come attributo relativo agli oggetti della natura, è di scarsa salienza all interno di quella cultura. Venne pertanto ritenuta adatta a replicare lo studio sul dani. Tuttavia, in questo studio Roberson e colleghi arrivarono a conclusioni diverse, opposte a quelle di Heider. Innanzitutto essi sostengono che non esista una buona corrispondenza tra le categorie cromatiche dell inglese e quelle del berinmo. Questa lingua possiede cinque categorie linguistiche (figura 7.2), identificate con i termini wap (bianco e tutti i colori pallidi, termine usato anche per denotare una persona europea o bianca), wor (colore delle foglie che stanno per cadere da un albero, co- 133

136 pre una gamma di colori giallo/arancione/marrone e khaki), nol (verde/giallo, verde/blu/viola), mehi (rosso, indica il colore del frutto di una palma rossa) e kel (nero, si riferisce a qualsiasi cosa bruciata, significa anche sporco). Quindi, ad esempio, il berinmo non distingue tra blu e verde, ma possiede un confine di categoria che in inglese non esiste, quello tra wor e nol. Gli autori studiarono le risposte dei due gruppi riguardo ad un confine di categoria presente solo nella lingua berinmo (quello appena descritto), e uno presente solo nella lingua inglese (quello tra blue e green). Se l effetto categorico è determinato da proprietà universali del sistema visivo, entrambe le popolazioni dovrebbero mostrare gli stessi modelli di risposta. Se invece l effetto categorico è ristretto a confini linguistici, i due gruppi dovrebbero mostrare risposte marcatamente diverse tra i due confini di categoria proposti. In effetti fu proprio così, i soggetti inglesi discriminavano meglio tra stimoli appartenenti a categorie diverse in inglese, mostrando un vantaggio nella discriminazione delle categorie blue-green, ma non presentavano lo stesso vantaggio per le categorie wor-nol del berinmo. L esatto opposto si verificò nei parlanti berinmo, che mostrarono un vantaggio per le proprie categorie linguistiche, ma non per quelle appartenenti alla lingua inglese. Secondo gli autori, la percezione categorica quindi esiste, ma solo per i parlanti della lingua che formalizza questa distinzione. Il secondo passo tentato fu quello di insegnare la distinzione blue-green ai soggetti berinmo e quella wor-nol a quelli inglesi. Se le categorie si formano attorno a linee naturali imperfette nello spazio colore percettivo, dovrebbe essere relativamente facile imparare le categorie appartenenti ad un altra lingua. Per entrambi i gruppi questo ulteriore compito risultò complesso. Anche questo dimostrerebbe una base linguistica per la categorizzazione del colore. Sulla base di una varietà di compiti diversi a cui i soggetti vennero sottoposti, Roberson e colleghi arrivarono a concludere che la percezione e la categorizzazione del colore hanno una base linguistica in quanto rispecchiano e sono dipendenti dalla specifica lingua in esame, piuttosto che rispecchiare degli universali percettivi. Roberson, Davidoff, Davies e Shapiro [91] replicarono ed estesero le scoperte precedenti fornendo un ulteriore modo per esaminare la relatività linguistica. Se esiste un modello regolare di evoluzione nella terminologia linguistica, allora ci si dovrebbe aspettare che due lingue allo stesso stadio evolutivo abbiano simili rappresentazioni cognitive del colore, pur essendo parlate in ambienti completamente diversi. Decisero così di studiare una lingua che si trovasse allo stesso stadio evolutivo del berinmo: la lingua himba. Stavolta quindi confrontarono due lingue con lo stesso numero di termini di colore, cinque, ma i cui parlanti vivono in ambiente completamente diversi. La lingua himba è parlata in in Namibia del nord, Africa. Questo popolo è seminomade e abita regioni molto aride, la sua dieta visiva è costituita da aperto deserto, cespugli e montagne, un ambiente completamente diverso rispetto a quello dei parlanti berinmo, che vivono nella profonda ombra di foreste e boschi. Le comunità dei villaggi hanno una base permanente alla quale tornano nella breve stagione delle piogge, ma durante la stagione secca si muovono attorno ad 134

137 Figura 7.2: Distribuzione media dei termini di colore basici nei parlanti berinmo per i 160 tasselli dell array di Munsell. I numeri nel grafico indicano il numero di soggetti (su un totale di 25) che scelsero un particolare tassello come miglior esempio della categoria. Tratto da [83]. una serie di accampamenti temporanei per trovare erba e acqua per il bestiame. L area ha poche risorse naturali, quindi le case, gli abiti, gli strumenti e gli artefatti sono costruiti con prodotti ricavati dal bestiame stesso. L himba è un dialetto della lingua herero, ma a causa di un lungo isolamento culturale negli ultimi cento anni sono nate delle profonde differenze culturali e linguistiche con l herero, la cui cultura si è negli ultimi anni aperta alla cultura occidentale, come dimostrano i prestiti dall inglese grine (da green) e pinge (da pink) che l himba non usa. Il popolo himba ha una forte identità culturale tradizionale, ha mantenuto le sue tradizioni nel tempo e limita al minimo i contatti con le altre culture. Per un buon numero di soggetti esaminati, lo sperimentatore costituiva la prima persona bianca mai vista. Non essendo presente nel WCS, gli autori innanzitutto identificarono i cinque termini basici himba (figura 7.3) nei termini serandu (all incirca corrispondente a rosso, arancione e rosa), dumbu (all incirca corrispondente a beige, giallo; indica anche una persona bianca), zoozu (tutti i colori scuri e nero), vapa (tutti i colori chiari e bianco) e burou, recentemente preso in prestito dall Afrikaans attraverso l herero (all incirca corrispondente a verde, blu e viola) e notarono l uso ampio di termini secondari normalmente usati per descrivere il colore della pelle degli animali. Le scelte dei migliori esempi erano molto diverse, ma questa 135

138 mancanza di accordo tra parlanti venne riscontrata anche tra parlanti berinmo, dani e in molte altre lingue di paesi non industrializzati. Una cosa interessante che venne notata fin dall inizio fu la minor consistenza nelle risposte date dai parlanti himba rispetto ai parlanti berinmo. Potrebbero avere contribuito a questo uso meno omogeneo dei termini tre fattori: 1. Il tipo di vita dei parlanti himba li vede vivere su ampi territori e ciò implica poca attività cooperativa, ciò contrasta con i parlanti berinmo che vivono cacciando in comunità e svolgendo attività di gruppo, formando dei gruppi sociali ben uniti. Potrebbero essere diversi quindi sia le opportunità che il bisogno di comunicare. 2. L economia himba è centrata sul bestiame, ciò potrebbe aver sviluppato un ricco vocabolario di termini secondari che sono usati di frequente, ma con poco consenso. 3. Mentre i parlanti berinmo sembrano essere attratti dalla sfida di fornire delle descrizioni per ogni colore ed ogni oggetto intorno a loro, i parlanti himba appaiono più reticenti e pensierosi e lasciano più frequentemente gli stimoli innominati. Svolgendo numerosi esperimenti su questi parlanti, simili a quelli condotti nello studio precedente sul berinmo, gli autori arrivarono ancora una volta a concludere che parlanti di lingue diverse codificano, ricordano e discriminano stimoli in modi diversi. Per esempio, si analizzò in questo caso la percezione categorica su tre confini linguistici: i due confini appartenenti alla lingua inglese e berinmo utilizzati anche nello studio precedente (blue-green e wor-nol), e uno della lingua himba (dumbu-burou). I dati raccolti dalla lingua himba diedero gli stessi risultati dei dati raccolti precedentemente sulla lingua berinmo. Nonostante le somiglianze tra le categorie linguistiche di colore tra queste due lingue, sembrano tuttavia esistere degli effetti linguistici specifici. I soggetti himba mostrarono vantaggi nella percezione categorica solo per le proprie categorie linguistiche e non per quelle berinmo né per quelle inglesi. Gli autori si posero due domande. La prima, quantitativa, è: quanto devono essere diversi due insiemi di termini prima che si abbiano delle conseguenze cognitive di queste differenze per i loro parlanti? Secondo i risultati ottenuti in questo studio, differenze piccole nella posizione dei confini tra categorie sono sufficienti per portare a differenze cognitive osservabili. La seconda, qualitativa, è: le categorie devono essere definite dai migliori esempi oppure dalla loro intera ampiezza? Quando ci si chiede se due categorie in due lingue sono identiche, dovrebbe essere considerata l intero insieme di esemplari, piuttosto che solo il centro della categoria. I confini delle categorie sono ritenuti altrettanto salienti quanto i loro centri. Un approccio alternativo potrebbe rispondere a queste domande concentrandosi sulle similarità tra le varie lingue nei sistemi lessicali di colore piuttosto che sulle 136

139 differenze. Le somiglianze potrebbero a loro volta far rifiutare la visione relativista, specialmente perché queste somiglianze spesso si estendono a moltissime lingue del mondo che si trovano in parti del mondo completamente diverse. Gli autori precisano tuttavia che questi sistemi di codifica dei colori potrebbero non essere così simili come potrebbe sembrare ad una prima analisi, e ciò per due motivi. Primo, la similarità tra himba e berinmo per gli stimoli saturi non si estende agli stimoli a bassa saturazione, per i quali risultano meno simili tra loro di quanto ognuno dei due non sia con l inglese. Sia l inglese che l himba usano un alto numero di termini secondari per nominare questi stimoli, mentre il berinmo estende prontamente i termini basici anche per essi. L affidarsi all attribuzione di nomi a soli stimoli saturi, in passato, potrebbe aver portato a sovrastimare la similarità tra sistemi di colore. Secondo, per semplicità solo i termini basici vengono considerati e utilizzati. Ma quando si lascia libertà ai soggetti nella scelta dei nomi senza imporre vincoli e si analizzano i termini non basici le differenze aumentano in modo non trascurabile. 7.4 Lo studio sull acquisizione dei termini himba In seguito Roberson e colleghi [93] proposero tre ipotesi per cercare di dare una spiegazione ai risultati ottenuti nei loro studi precedenti. La prima ipotesi dice che tutti gli adulti potrebbero avere un insieme universale di categorie cognitive che potrebbe essere determinato in modo innato e indipendente dai termini usati per descriverle. Nonostante ciò, gli adulti potrebbero sempre reclutare un sistema di nomi specifico ad una cultura, anche quando danno dei giudizi percettivi sui colori, in modo che due oggetti chiamati con lo stesso nome verrebbero sempre giudicati più simili di due oggetti chiamati con due nomi diversi. Tuttavia questa opzione sembra improbabile agli autori che non credono in un sistema di categorizzazione universale. La seconda alternativa dice che tutti gli umani potrebbero essere nati con un insieme universale di categorie cognitive che poi vengono distorte nel corso dell acquisizione dell insieme appropriato di categorie nella propria lingua. Queste distorsioni potrebbero aver vita se le categorie di colore acquisite attraverso la lingua fossero mentalmente rappresentate da prototipi e queste rappresentazioni si comportassero come dei magneti percettivi distorcendo lo spazio colore percepito. In questo caso si potrebbe parlare di acquisizione come perdita, gli umani perderebbero l insieme universale a favore di un insieme specifico alla loro lingua. L ultima possibile spiegazione è quella secondo la quale non esiste un singolo insieme di categorie che sia universale e indipendente da lingua e cultura e secondo la quale tutte le divisioni del continuum di colore percepito devono essere acquisite. In un caso del genere, gli individui che non hanno ancora acquisito l insieme di categorie appropriato alla propria cultura e lingua potrebbero 137

140 Figura 7.3: Distribuzione dei termini di colore in himba e scelte dei migliori esempi per l array di 160 stimoli comparata alla distribuzione dei termini dell inglese per lo stesso array. Come nella figura precedente, i numeri rappresentano il numero dei soggetti che hanno scelto un esemplare come migliore esempio di una categoria. Tratto da [92]. raggruppare i colori secondo qualche principio come ad esempio quello di similarità, ma fallirebbero nel categorizzare secondo le linee dell insieme universale proposto. Questa questione venne esaminata rivolgendosi ad un altra fonte di prove: l acquisizione dei termini di colore nei bambini. Le stime sull età in cui i bambini acquisiscono un lessico minimo dei colori sono scese drasticamente dai 7-8 ai 2-3 anni. Nonostante ciò, un uso competente di questi termini si riscontra relativamente tardi, soprattutto se comparato con termini relativi ad altri domini. Lo stesso vale per bambini di lingua inglese, per i quali l insieme di termini basici da acquisire sarebbe esattamente quello che si ritiene essere universale e presente in ogni individuo in maniera innata, prima che venga acquisita la terminologia relativa alla propria lingua. Bornstein [94] riteneva, all interno di una cornice 138

141 universalista in cui esiste un insieme universale fisso e innato di categorie di colore, che fosse ancora più difficile acquisire questi termini per bambini che stavano imparando una lingua in cui l insieme universale doveva essere sovrascritto da un nuovo insieme, anche se questo comprendeva un numero di termini inferiore. I bambini potrebbero dover assimilare le loro categorie universali in un nuovo insieme di categorie linguistiche basate su un altra dimensione, come ad esempio la chiarezza nel caso della lingua dani [52]. L acquisizione di un insieme di categorie diverso da quello che si presume essere innato e universale potrebbe mostrare un modello di sviluppo diverso da quello dei bambini di lingua inglese, i quali avrebbero un lavoro più facile da svolgere dovendo solamente attribuire delle etichette linguistiche alle categorie cognitive che già possiedono. Roberson e colleghi [93] esaminarono sistematicamente comprensione, memoria, e assegnazione di nomi a stimoli colore su due gruppi di bambini, uno inglese e l altro himba. Tra gli scopi dello studio c era anche quello di capire se l acquisizione dei termini di colore potesse o meno differire in parlanti di lingue diverse. La conoscenza e la memoria di termini di colore da parte di tutti questi bambini venne testata per un periodo di tre anni, ad intervalli regolari di sei mesi. Ai bambini veniva chiesto di svolgere quattro tipi di test. Il primo era un compito di produzione di un elenco di nomi di colori ( dimmi tutti i colori che conosci ), il secondo un compito di attribuzione di nomi a colori ( che colore è questo? ), il terzo un compito di comprensione di termini di colore ( ne vedi uno rosso? ), infine l ultimo era un compito di memoria/riconoscimento. Nonostante considerevoli differenze ambientali, linguistiche ed educative tra i due gruppi, le teorie universaliste della categorizzazione del colore predicono che entrambi i gruppi di bambini avranno la stessa organizzazione cognitiva iniziale dello spazio colore (undici categorie) e che questa organizzazione cognitiva rimarrà per entrambi i gruppi di bambini, nonostante la sovrapposizione di insieme diversi di categorie linguistiche [78, 94]. A partire dai dati raccolti, Roberson e colleghi [92] presentano tre argomenti principali contrari alla posizione universalista. Il primo riguarda gli errori compiuti dai bambini nei compiti di riconoscimento. Anche la ricerca precedente con gli adulti [83] si era avvalsa degli errori di memoria come il principale dato per confermare la relatività linguistica, anche se quella procedura è stata criticata in [95] in cui si sostiene che gli errori specifici ad una lingua potrebbero semplicemente derivare dal fatto che il soggetto utilizzi un codice verbale per ricordarsi i colori, non contraddicendo necessariamente la teoria universalista. Questi argomenti non possono essere applicati però a bambini che non conoscono ancora alcun termine di colore. In entrambi i gruppi, questi bambini mostravano dei modelli di errori di memoria molto simili tra loro, ma nessuno di questi due modelli ricordava quello che deriva dalle categorie basiche dell inglese. Entrambi i modelli di errore si basavano sulla distanza percettiva piuttosto che su un insieme particolare di categorie predeterminate, e non c era alcun vantaggio di 139

142 memoria per termini che erano focali nelle due lingue. Questo supporta l idea che le undici categorie basiche dell inglese non siano universali cognitivi. Tuttavia il fatto che un grande numero di lingue del mondo abbiano lo stesso numero di categorie cromatiche (undici) ha portato a pensare che sia la combinazione ottimale per la discriminabilità e l economia cognitiva per il riconoscimento e la rappresentazione di un ampio numero di colori. Il fatto che possa essere la combinazione ottimale, non implica però che sia innata. Dopo un momento iniziale di appoggio sulle similarità percettive, osservabile nei bambini che ancora non conoscevano termini di colore, divenne evidente un vantaggio e una performance migliore per l insieme di colori focali appropriato alla propria lingua non appena i bambini acquisirono i relativi termini. La conoscenza anche di un solo termine di colore sembrava far già cambiare l organizzazione cognitiva, e, da quel punto in avanti si riscontravano differenze dipendenti dalla lingua tra i due gruppi; questa influenza linguistica nei compiti di memoria incrementava inoltre con l età. Una volta che la conoscenza è acquisita, essa sembra ristrutturare l organizzazione cognitiva del colore. Questa rapida divergenza nell organizzazione cognitiva del colore per i due gruppi suggerisce che le categorie cognitive di colore siano acquisite anziché innate. Riassumendo, un continuum del colore inizialmente guidato percettivamente, appare essere progressivamente organizzato in insiemi appropriati ad ogni lingua e cultura. Il secondo punto riguarda la possibile esistenza di un ordine predicibile in cui i termini di colore vengono acquisiti. Anche se questo si rivelava diverso a seconda della misura usata e mostrava grandi variazioni individuali, in nessun modo venne riconosciuto il modello predetto dalla teoria universalista secondo il quale i colori primari (rosso, blu, verde e giallo) vengono acquisiti per primi. Nel corso dello studio longitudinale, nessuna delle due popolazioni mostrò un ordine fisso e predicibile di acquisizione, e ciò supporta altre scoperte precedenti. Il terzo punto riguarda il ruolo particolare dei colori focali. Come abbiamo visto, il vantaggio per i colori focali incrementò per tutta la durata dello studio. Quindi l importanza che Rosch [78] assegna alla focalità nello stabilire le categorie sembrerebbe essere ribadita dai presenti dati, anche se va sottolineato che, secondo gli autori, la focalità non è universale ma language-dependent. Nonostante le similarità nella traiettoria di acquisizione dei termini tra le due popolazioni, i bambini inglesi acquisirono i loro primi termini di colore prima dei bambini himba. Per i bambini inglesi questo fatto non meraviglia, dato che questi sono semplicemente i colori che sono insegnati fin dalla più tenera età e che più presto sono disponibili nei loro ambienti di gioco. La maggiore esposizione ad oggetti colorati e la salienza culturale del colore, maggiore nelle società occidentali, potrebbero contribuire ad una comprensione maggiore del colore dal punto di vista concettuale come una dimensione separabile. Per i bambini himba la focalità è determinata sulla base dell accordo negli adulti nel dare nomi. Ognuno dei cinque termini basici dell himba contiene un numero ampio di esemplari e si estende a colori molto desaturi e con poco accordo tra 140

143 gli adulti su dove si localizzino i migliori esempi delle categorie. I bambini himba non incontrano presentazioni costanti di colori altamente saturi, attraverso stampe, immagini video o altro. Nel loro ambiente vedono solo colori naturali, per i cui nomi gli adulti spesso non si trovano in accordo. Inoltre, i bambini himba potrebbero essere svantaggiati per il fatto di dover sovrascrivere un insieme di categorie linguistiche, quello appropriato alla loro lingua, sopra a quello di categorie cognitive universali fornitogli alla nascita. I bambini quindi dovrebbero esser più veloci nell imparare quei colori che tutti gli adulti chiamano con lo stesso nome, da qui i risultati più accurati per i colori focali. In effetti, senza quell ampia gamma di stimoli saturi che possono essere prodotti artificialmente, le comunità tradizionali potrebbero non aver bisogno di distinzioni categoriche più fini, richieste invece quando una varietà più ampia è disponibile, e così potrebbe mancare la motivazione a rendere più dettagliato il lessico dei colori. L acquisizione dei termini di colore apparì essere genuinamente lenta, difficoltosa e produttrice di molti errori in entrambe le culture. 141

144 142

145 CAPITOLO 8 Altre tematiche relative al lessico dei colori 8.1 Introduzione Finora ci si è limitati a presentare gli aspetti più classici storicamente affrontati negli studi inerenti al dominio del lessico dei colori. In realtà esistono molti altri aspetti, più specifici, che sono stati studiati con lo scopo di ottenerne una comprensione maggiore. In questo capitolo ne verranno presentati alcuni, con l obiettivo di dare un idea della vastità della ricerca che può essere condotta all interno di questo ambito. 8.2 L acquisizione dei termini di colore nei bambini Nello sviluppo del bambino l acquisizione dei termini di colore avviene tardi, tanto da aver convinto in passato alcuni studiosi che i bambini fossero ciechi al colore perché non erano in grado di applicare loro nomi adeguati ad un età relativamente tarda. Se all inizio del ventesimo secolo le stime di Binet e Simon riguardo all età in cui il bambino disponeva di un lessico di colori minimo (4 termini) si aggiravano attorno ai 7-8 anni [96], nel tempo questa si è abbassata, scendendo gradualmente fino ad arrivare ai 2-3 anni di oggi [97, 98]: questo è un evidente effetto 143

146 Figura 8.1: Rappresentazione degli stimoli presentati nell esperimento di Delk e Fillenbaum [99]. del processo di industrializzazione. La maggior esposizione al colore, tipica delle culture occidentali, predispone ad un lessico cromatico più ampio. La relazione semantica tra colore e termini di colore sembra molto difficile da affrontare da parte dei bambini, sia nell acquisizione di un lessico di colori iniziale che nel successivo corso di sviluppo. C è un ampio contrasto tra il periodo protratto di sviluppo per arrivare ad un uso dei termini di colore appropriato da una parte, e la facilità con cui i bambini acquisiscono termini relativi ad altri domini (es. forma, dimensione) ai quali sono frequentemente esposti. All età di 2, 3 anni i bambini utilizzano in modo corretto mediamente 3 termini di colore, il loro lessico relativo ai colori è quindi molto poco produttivo. Questo è particolarmente sorprendente dato che a tre anni i bambini hanno solitamente tutti gli strumenti necessari per usare i termini di colore in modo corretto, essendo il loro sviluppo linguistico a quell età già a buon punto. Due sono le ipotesi proposte per dare una spiegazione a questo fatto. Una possibile ipotesi è che il legame potrebbe essere difficile da stabilire perché il colore non è saliente per il bambino (salience argument). In questa prospettiva il colore è visto come un attributo periferico nel lessico in fase di sviluppo. Un altra ipotesi è che le difficoltà con i termini di colore nascano a causa della struttura concettuale del dominio dei colori. In questo caso le difficoltà sarebbero determinate soprattutto dalle proprietà semantiche dei termini di colore, come la vaghezza e il fatto, che segue da questa vaghezza, di non essere organizzati in modo gerarchico. Altri domini, gerarchicamente organizzati, sono caratterizzati da categorie che hanno un sopraordinato unico e immediato. In generale, il colore è difficile perché è una parte inerente degli oggetti e quindi il nome del colore verrà necessariamente dopo il nome dell oggetto. Un prerequisito per dare nomi ai colori quindi sarebbe una conoscenza appropriata dei colori degli oggetti. In un esperimento del 1965, Delk e Fillenbaum [99] tagliarono delle forme di vari oggetti (una mela, un cuore, un fungo e una campana) da uno stesso pezzo di cartoncino colorato di colore arancione, come è evidente nella figura 8.1. Quando veniva chiesto loro il colore del cartoncino, i soggetti rispondevano con il colore memoria (memory color) associato alla forma specifica. Ciò ci fa capire che il nome del colore a livello cognitivo è meno importante del nome del colore degli oggetti. La spiegazione linguistica è una variante del salience argument e sostiene che 144

147 l acquisizione dei nomi di oggetti sia semplicemente più importante per i bambini rispetto all acquisizione dei nomi di colori. Come conseguenza, le proprietà che sono più pertinenti al dare nomi agli oggetti, come la forma, assumono una salienza maggiore per il bambino di quanto non faccia il colore. Quando non hanno a disposizione etichette per gli oggetti, i bambini tendono a classificarli in base al colore; se però hanno delle etichette a disposizione li classificano in base a categorie diverse dal colore. La spiegazione semantica e quella della salienza sono molto diverse tra loro, e i due approcci sono molto diversi: categorie con proprietà semantiche simili possono tuttavia differire in salienza, e categorie con salienza simili possono avere proprietà semantiche molto diverse. Finora non ci sono prove sufficienti per trarre delle conclusioni. In linea di principio, tutti i termini di colore dovrebbero essere equamente soggetti a ritardo in relazione a termini di controllo di altro tipo. Ci sono però chiare indicazioni che spingono a credere che i termini di colore formino un insieme non omogeneo, e che quindi possano esistere delle differenze nelle tempistiche con cui alcuni termini vengano acquisiti rispetto ad altri. Berlin e Kay [32] ritenevano che esistessero colori focali più codificabili e più facili da ricordare rispetto ai colori non focali. Data questa non-omogeneità delle categorie di colore, non dovremmo sorprenderci qualora dovessimo scoprire che i termini di colore e i processi relativi alla loro acquisizione non fossero omogenei. Braisby e Dockrell [100] condussero un esperimento in una scuola di Londra per investigare sistematicamente la produzione di termini di colore e per confrontarla con la produzione di termini di altro genere, scegliendo per il confronto i termini di animali. I soggetti erano bambini divisi in due gruppi in base all età (primo gruppo di età media di 3 anni e 5 mesi - secondo gruppo di età media di 5 anni e 3 mesi) e testati su un periodo di quattro settimane, e i termini erano categorizzati come ad alta o bassa frequenza per ognuno dei due domini. Nel caso del dominio degli animali, gli stimoli erano costituiti da disegni monocromatici; per quanto riguarda i colori, gli stimoli consistevano in pezze colorate che erano state scelte come migliori esempi dei colori che rappresentavano. I risultati non supportarono la spiegazione linguistica o della salienza, in quanto i termini di colore non provocarono, in generale, un risultato peggiore rispetto ai nomi di altro tipo. Il modello di risposta per i due domini fu praticamente identico nel caso di termini ad alta frequenza. L attribuzione di nomi al colore fu peggiore solo nel caso di termini a bassa frequenza. Il problema perciò non riguardava in generale tutti i termini di colore, né riguardava in generale tutti i termini a bassa frequenza ed esisteva una intrinseca difficoltà in questo senso. Qualsiasi spiegazione dell apparente ritardo nel dare nomi ai colori doveva essere riferito alle particolari proprietà dei termini di colore a bassa frequenza. Per quanto riguarda i termini di animali a bassa frequenza i bambini, trovandosi in difficoltà, rispondevano non so, mentre per i termini di colore rispondevano con un termine di colore errato. Si notò ancora come l attribuire nomi di animali tra un test e l altro migliorasse in modo più marcato rispetto ai termini 145

148 di colore. In realtà però, per i termini ad alta frequenza, il miglioramento era maggiore per i termini di colore che per i termini di animali. Per tutti i tipi di nome il secondo gruppo faceva meno errori del primo, l età quindi gioca un ruolo importante. L analisi dei tipi di errori compiuti dai bambini può essere una buona fonte di prove e può essere usata per sviluppare un modello del processo di attribuzione di nomi da parte dei bambini. Per questo motivo tutti gli errori compiuti vennero classificati in due tipologie: errori generali ed errori dipendenti da diverse proprietà semantiche dei due domini analizzati. Gli errori generali includevano errori fonetici (due termini che condividono il fonema iniziale o finale), errori assurdi (es. a bumpy ), errori like a (es. like a dinosaur ), circumlocuzioni (un commento riguardo all oggetto che però non viene nominato, es. una cosa grossa e larga ), combinazioni (es. fish horse o blue green ). Gli errori fonetici costituivano il 10% del totale, mentre gli altri tipi di errori generali insieme costituivano circa il 3%. Gli errori dipendenti da proprietà semantiche del dominio degli animali riguardavano ad esempio stretta somiglianza fisica, simile habitat (es. animali che vivono in acqua), simile mezzo di locomozione (es. animali che nuotano, animali che volano). Gli errori nascevano anche sulla base del rapporto sopraordinato/subordinato tra i due termini (richiesto e prodotto). Gli errori dipendenti da proprietà semantiche del dominio dei colori erano classificati in base alla similarità dei colori a cui ci si riferiva mediante un termine di colore errato. Si classificavano in: molto plausibile, plausibile e implausibile. Nel dominio degli animali gli errori specifici risultavano più coerenti, avevano cioè similarità su una o più dimensioni con il target. In questo dominio i bambini sono più disposti ad ammettere di non sapere, offrendo delle alternative plausibili in base a complessi principi di similarità. Nel dominio dei colori invece nel 43% dei casi non esisteva nessun tipo di relazione con il target. I bambini, in questo caso, mostrano la loro sensibilità alla vaghezza dei confini tra colori, offrendo molti errori non plausibili. Secondo gli autori una spiegazione di tipo semantico è molto più fruttuosa e permette di rispondere ai quesiti che i risultati di questo esperimento pongono. Perché i termini di colore a bassa frequenza ottengono un risultato molto più povero rispetto alla controparte dei nomi di animali? La risposta a questa domanda è che i due domini possiedono dei confini strutturati in maniera completamente diversa. I termini di colore formano un continuum e tendono a sovrapporsi, in questo modo i loro confini si mescolano e diventano indistinti. Sono organizzati secondo un modello prototipo + struttura circostante. I nomi di animali invece hanno delle designazioni più rigide, vengono classificati sulla base del loro possedere o meno alcune proprietà. Non possono possedere queste proprietà solo in parte, le possiedono o non le possiedono. Le persone non considerano nessuna categoria di animali come esempio di un altra categoria di animali. In contrasto con questo concetto, i termini di colore sono necessariamente vaghi così come i loro confini, non chiari, variabili, e possono rientrare in più categorie contem- 146

149 poraneamente. Nel caso dei nomi di animali si ha sempre una risposta certa riguardo all appartenza o meno ad una certa categoria. I confini sono chiari e non ci sono sovrapposizioni; ciò porta alla conseguenza che ogni esempio di questi termini cadrà in una e solo una categoria. La seconda domanda è perché i modelli di risposta tra i due domini siano così diversi (risposte errate nel dominio di colore, non so nel caso degli animali). In questo caso la risposta è che i termini di questi due domini possiedono tipi diversi di criteri semantici di applicazione. Si considera che i termini di tipo naturale (come i nomi di animali) obbediscano all ipotesi di Putnam [101] sulla Divisione del Lavoro Linguistico, che in breve sostiene che esistano delle persone, all interno di una comunità linguistica, che sono considerate degli arbitri riguardo a dei sottoinsiemi del linguaggio (linguaggi tecnici). Ricorrendo a questa comunità scientifica la persona normale ritiene di poter risolvere un dubbio sorto riguardo ad un certo termine. Il singolo parlante può non conoscerli personalmente e può non conoscere i criteri precisi per l applicazione e l uso di questi termini; nel dubbio ricorrerà a questa comunità di esperti. Come conseguenza, una risposta del tipo non so è semanticamente appropriata per questo tipo di termini, in quanto riflette semplicemente la mancanza di informazioni da parte del parlante. La semantica dei termini di colore è invece diversa. I colori sono osservativi, si può definire il colore di qualcosa semplicemente osservandola, diversamente dai nomi di tipo naturale. Proprio per questo motivo, i criteri per l applicazione dei termini di colore sono necessariamente disponibili a tutti, e non ad una ristretta comunità di esperti. Qualsiasi parlante dovrebbe, in linea di principio, essere in grado di determinare se si può applicare un determinato nome di colore. Una risposta del tipo non so, in questo caso, non indicherebbe una mancanza di informazioni, bensì un ammissione di indeterminatezza. Rispondere in quel modo potrebbe essere meno semanticamente appropriato rispetto al generare un nome di colore errato. La spiegazione semantica sembra essere consistente con i dati raccolti in questo studio. L effetto frequenza sembra derivare da due fattori: Non avendo i colori confini netti, per un dato colore esistono spesso almeno due alternative plausibili. Se c è più di un candidato, si crea un conflitto con la pragmatica dell attribuzione di nomi, che presuppone ci sia un unico termine appropriato. Per questo motivo le asimmetrie tra termini candidati si risolvono nella preferenza per un nome che di solito è quello di più alta frequenza. La differenza semantica tra i due domini offre una spiegazione alle differenze negli errori commessi. La spiegazione semantica predice anche che le difficoltà sorgano soprattutto per esempi che si trovano ai confini tra le categorie cromatiche, e non con esempi centrali alle categorie stesse. 147

150 8.3 I modificatori La maggioranza degli studi nel dominio del lessico dei colori si è ristretta sui termini di colore basici, cercando di isolare il più piccolo insieme di espressioni linguisticamente semplici di una lingua con cui i parlanti potevano nominare qualsiasi colore, escludendo quelli non basici. I risultati universalisti a cui si è giunti potrebbero essere il frutto di queste limitazioni e potrebbero aver oscurato importanti differenze culturali. Le etichette lessicali che descrivono al meglio le categorie cromatiche di una lingua e cultura potrebbero non essere necessariamente quelle ritenute basiche. Nell esaminare questi termini prima ignorati potrebbero quindi emergere delle differenze, laddove ad un semplice esame dei termini basici erano state riscontrate delle somiglianze, anche perché l influenza della cultura si fa sentire maggiormente su questi termini rispetto ai termini basici più astratti e più universali. Non è quindi da escludere che queste restrizioni imposte abbiano prodotto un apparenza di universalità maggiore rispetto a quella che effettivamente esiste, e ciò è possibile se nella vita di ogni giorno le persone ricorrono a caratteristiche linguistiche che negli studi sono state isolate ed ignorate. Ogni lingua ha immense risorse per denotare sensazioni di colore. Per prima cosa, ogni lingua può creare in modo produttivo espressioni complesse che descrivono il colore di un oggetto indicando la sua similarità con un altro tipo di oggetto che notoriamente presenta quel colore. In secondo luogo, molte lingue possiedono termini che denotano il colore di una classe di oggetti molto ristretta. In terzo luogo, molte lingue si avvalgono di processi morfologici e sintattici che creano termini di colore complessi a partire da termini di colore semplici, come ad esempio blu-verde o in inglese yellowish. Infine alcune lingue possiedono molti termini linguisticamente semplici che denotano sottotipi o sfumature di colori denotati da altri termini semplici, come ad esempio i molti termini che esprimono specifiche sfumature del colore generico rosso come magenta, cremisi, Borgogna ecc. Alcuni di questi termini non basici vengono talvolta associati in modo metaforico, all interno di alcune culture, a entità e credenze morali, emotive, soprannaturali e ad altre entità non fisiche. I modificatori, quelle parole utilizzate come aggettivi per modificare un termine di colore, costituiscono una di queste risorse che le lingue hanno a disposizione per creare nuovi termini. Tipicamente i modificatori si riferiscono alla saturazione o chiarezza (es. chiaro, brillante, vivo ), ma possono riferirsi anche ad altre dimensioni (es. sporco, fluorescente ). In [102] viene presentato uno studio nel quale si investiga lo sviluppo dell abilità nel discriminare e nominare colori che variano in saturazione e chiarezza per una stessa tinta e di esplorare come l età influisca sulla percezione e l interpretazione dei modificatori. L abilità di percepire e discriminare i colori si stabilisce durante l infanzia, infatti i bambini possono distinguere differenze di colore già nelle prime settimane di vita; tuttavia abbiamo visto il ritardo con il quale i essi sviluppano la capaci- 148

151 tà di usare in modo corretto i nomi di colori. Di conseguenza, i bambini più piccoli possono avere delle difficoltà nell utilizzare modificatori accurati quando descrivono variazioni lievi di saturazione ed intensità. Sulla scia della teoria di Berlin e Kay [32] relativa all ordine di acquisizione dei termini di colore basici, questo studio mira ad investigare l esistenza di un ordine di sviluppo simile nell acquisizione dei modificatori attraverso l età. Per questo esperimento venne utilizzato lo spazio colore HSV suddividendo i piani saturazione-chiarezza di tre tinte (rosso, verde, blu) in sei regioni e prendendo come stimoli i centri di ogni regione. Il lessico fornito riguardante il colore consisteva nei modificatori che corrispondevano ad ogni regione del piano del colore nel sistema ISCC-NBS che presenteremo nel prossimo capitolo. Essi erano vivid, bright, strong, dull, pale, dark. I partecipanti vennero suddivisi in tre gruppi in base all età: 8-11 anni, anni, anni (gruppo di riferimento). La procedura sperimentale consisteva nella presentazione degli stimoli in triadi su di uno schermo a colori calibrato. I sei stimoli derivanti da ognuno dei tre colori fondamentali dava origine complessivamente a sessanta triadi. Tutte le triadi vennero mostrate a tutti i soggetti e per ognuna di esse veniva chiesto loro di indicare lo stimolo che ritenevano più diverso rispetto agli altri due. Poi, per la stessa triade, si chiedeva di scegliere l aggettivo (modificatore di colore) che descriveva meglio il modo in cui lo stimolo scelto tra i tre differiva dagli altri due. Gli obiettivi erano due: Determinare se ognuno dei tre gruppi poteva discriminare percettivamente tra i sei stimoli; Investigare differenze nell interpretazione semantica dei modificatori di colore attraverso le varie età prese in esame. Per quanto riguarda il primo di questi due punti, gli autori calcolarono le distanze percettive tra i vari stimoli. Dallo spazio percettivo creato con i risultati si arrivò a concludere che tutti e tre i gruppi discriminavano percettivamente l insieme degli stimoli in sei diverse categorie. Il primo gruppo (8-11 anni) utilizzò in questo esperimento solo tre modificatori dei sei proposti per nominare gli stimoli: bright, dark e strong. Il primo venne usato per stimoli con elevata chiarezza, il secondo per stimoli con bassa chiarezza, il terzo per stimolo con media chiarezza. A questa età la chiarezza quindi è la sola dimensione usata nell esprimere verbalmente differenze tra tonalità di colore e la dimensione della saturazione non ha alcuna influenza nella scelta del modificatore per la risposta. Il secondo gruppo (12-15 anni) mostra l emergere della dimensione della saturazione. I modificatori pale e dull comparivano nel lessico di questo gruppo anche se l uso di dull non risultava ancora ben sedimentato e acquisito. Il terzo gruppo (19-24 anni) è quello in cui la dimensione della saturazione assume l importanza maggiore. Essa, dopo essere emersa nel gruppo intermedio, acquista crescente importanza nel tempo. Si nota in questo gruppo l emergere del modificatore vivid, ma ancora non c è accordo sull uso di dull. In conclusione, l età non influenza l abilità di discriminare tra diverse tonalità 149

152 o sfumature di una stessa tinta. Pur in assenza di un lessico ricco per nominare tutte le regioni dei piani della tonalità di colore, i primi due gruppi possono classificare sei stimoli in modo simile al gruppo di controllo adulto. Gli autori propongono quindi un ordine di sviluppo nell acquisizione dei termini modificatori in funzione dell età. Secondo questa proposta i termini bright, strong e dark vengono acquisiti al livello della scuola elementare, pale al livello delle scuole medie, e vivid solo a livello universitario. Il termine dull non ottiene consenso nemmeno a livello adulto. Alvarado e Jameson [103] conducono un esperimento spontaneo sull uso dei modificatori in inglese e vietnamita, applicando a questi termini il metodo della mappatura di termini nello spazio colore di solito usato con i termini basici, e facendo poi un confronto crossculturale. Questo studio mette in luce delle somiglianze e delle differenze crossculturali che gli studi limitati ai termini basici non riescono a cogliere. Dato che l esistenza di tendenze universali per i termini basici è già stata scoperta, sembra ragionevole cercare questi universali in condizioni che si avvicinano maggiormente all uso naturale del linguaggio. I soggetti di questo studio si avvalgono dei modificatori per descrivere proprietà degli stimoli che non vengono catturate dalle prime tre dimensioni del colore. Ci sono infatti dimensioni di questa esperienza soggettiva che vanno oltre quella classificazione, e il grado che questa esperienza riveste in una cultura può influenzare il numero dei modificatori che la lingua parlata ha a disposizione. I soggetti, tutti reclutati negli Stati Uniti, erano divisi in tre gruppi: monolingui inglesi, monolingui vietnamiti, bilingui inglesi e vietnamiti testati in lingua vietnamita (gruppo di confronto). Nessun vincolo o restrizione veniva imposto sul tipo di nomi da utilizzare nel dare nomi agli stimoli, tratti dallo spazio colore OSA. I risultati mostrarono subito delle importanti differenze tra i tre gruppi. I parlanti inglesi e quelli vietnamiti si avvalsero di strategie diverse nell attribuire nomi ai colori e usarono in generale modificatori diversi. Gli inglesi disponevano in generale di una maggior varietà di termini, e facevano un uso maggiore di termini composti da una sola parola (single-word color terms), specialmente di quei termini che si riferiscono ad oggetti o contesti precisi, come olive e lilac (che, come fanno gli autori, chiameremo object glosses). Nonostante questo uso di termini monolessemici, gli inglesi mostrarono un lessico di modificatori più ampio, e allo stesso tempo le loro scelte riguardo ai modificatori erano diverse rispetto a quelle dei vietnamiti. I vietnamiti mostrarono un uso maggiore di termini composti (multiparola), termini con modificatori e termini di colore combinati con object glosses. Ricorrevano in misura minore a termini semplici, monolessemici, sia basici che non basici, e usavano meno object glosses monolessemici e altamente specifici dell inglese e più object glosses con modificatori o come modificatori. Ciò indica minor affidamento a termini di colore astratti. Quando il parlante ha meno termini monolessemici a disposizione, lo spazio colore privo di nomi è più ampio e sono necessari modificatori e nomi composti per differenziare oggetti al suo interno. Questo potrebbe essere il motivo del più ampio uso di modificatori nei vietnamiti, usati per nominare aree dello spazio 150

153 colore più estese. Minore è il numero di termini monolessemici, maggiore sarà il numero di modificatori necessari. Ancora, i vietnamiti erano gli unici ad usare la ripetizione di termini di colore (es. yellow yellow). Il caso dei bilingui è interessante. Essi mostravano un comportamento a metà tra quello degli inglesi e quello dei vietnamiti, anche se più vicino a quello inglese, mostrando varietà ridotte sia di modificatori che di termini monolessemici. Ciò è probabilmente dovuto ad una loro fluttuante fluenza nella lingua nativa mentre l acquisizione dell inglese è in corso. Questo mette anche in mostra le difficoltà nel condurre studi crossculturali usando popolazioni di immigranti bilingui, come avvenne nello studio di Berlin e Kay. Gli autori notarono come le object glosses altamente specifiche e i modificatori cadano in disuso prima dei termini basici. I bilingui infatti mostravano maggiori somiglianze con il gruppo degli inglesi che con quello dei vietnamiti. Quando gli stessi modificatori erano usati da tutti e tre i gruppi, la frequenza di uso per i bilingui cadeva generalmente a metà tra la frequenza degli inglesi e quella dei vietnamiti. Il gruppo dei bilingui utilizzò dei modificatori che non vennero usati da nessuno degli altri due gruppi. Tutti e tre i gruppi ottennero maggior consenso per termini semplici costituiti da una sola parola, mentre i livelli più bassi di accordo vennero ottenuti nel caso di modificatori e nomi composti. 8.4 La Lens brunescence hyphothesis Alcune lingue possiedono termini separati per blu e verde, mentre altre hanno un solo termine composto che include al suo interno sia la denotazione del verde che del blu. Solitamente questa categoria viene chiamata per semplicità grue, o, in italiano, blerde. Lindsey e Brown [104] propongono una possibile spiegazione dell esistenza e della distribuzione geografica di queste categorie che includono la denotazione del blu in un termine che include anche il verde e in alcuni casi lo includono in un termine che esprime i colori scuri come nero (in questi casi un unico termine esprime la categoria verde-blu-nero). Secondo questa teoria da loro proposta, che prende il nome di lens brunescence hypothesis (LBH), i termini grue deriverebbero dall esposizione ad alti livelli di radiazioni UV-B dalla luce del sole che porterebbero ad un ingiallimento accelerato delle lenti degli occhi e ad una conseguente distorsione dello spazio colore percettivo, con le lunghezze d onda corte che vengono filtrate sproporzionatamente, così che il blu appare come verdognolo (o un colore più scuro tendente al nero in casi estremi) e viene quindi chiamato con il suo nome. In supporto a questa loro tesi Lindsey e Brown dimostrano che la proporzione delle lingue che presentano questi termini è predicibile sulla base della quantità di radiazioni UV-B provenienti dalla luce solare e che colpiscono le zone della superficie terrestre in cui queste lingue sono parlate. Dimostrano anche che soggetti di lingua inglese esposti a stimoli che simulano il risultato di questo ingiallimento della lente estendano il termine verde al punto da fargli includere 151

154 anche il blu. Questa teoria è abbastanza controversa almeno per due motivi: Ci sono prove che dimostrano che l ingiallimento della lente potrebbe non influenzare la percezione del colore nel lungo termine. Ci sono prove che dimostrano che le lingue in cui manca il termine per blu tendono ad essere parlate in società con basso livello di sviluppo tecnologico, e spesso queste società si trovano nei tropici, dove i raggi in questione sono più forti. Questa ipotesi fa una predizione riguardo a quali siano i colori che dovrebbero essere scelti come migliori esempi dei termini per grue. Se questi sono semplicemente termini per verde estesi al blu a causa di una distorsione percettiva, allora dovrebbe esserci un singolo picco nella distribuzione dei migliori esempi e questo dovrebbe cadere da qualche parte tra verde e blu. Se invece non si trattasse di una distorsione percettiva, ma solo di una semplice astrazione su verde e blu, i migliori esempi dovrebbero giacere in corrispondenza del verde o del blu (o di entrambi).sebbene Lindsey e Brown sembrano intuire che il secondo caso sia quello riscontrato maggiormente nella realtà, non sembrano temere che questo possa mettere in dubbio la loro ipotesi nel caso in cui ciò venisse dimostrato empiricamente. Regier e Kay [105] vogliono verificare meglio questa ipotesi, e per farlo si avvalgono del World Color Survey. Si focalizzano su quei parlanti che diedero lo stesso nome (grue) a tasselli che spaziavano dal verde al blu, esaminando poi le scelte dei migliori esempi da loro effettuate. La distribuzione che ne conseguiva suggeriva che i termini per grue tendevano a non essere distorsioni percettive del verde, ma piuttosto astrazioni genuine su verde, blu e nero. Questi risultati contraddicono quelli di Lindsey e Brown. In risposta a questa critica, Lindsey e Brown [106] presentano un ulteriore analisi dei dati WCS. Questa conferma che le scelte dei migliori esempi di grue tendono ad avere dei picchi in corrispondenza dei punti focali del verde e del blu ed è contrario alla loro ipotesi. Tuttavia Lindsey e Brown sostengono che rimanga aperta la possibilità che ci sia un sottoinsieme di parlanti le cui scelte dei migliori esempi si posizionino tra i punti focali universali del blu e del verde. Questo sarebbe conforme alla loro ipotesi. Sono necessari altri studi che approfondiscano maggiormente questo problema. 8.5 Un dodicesimo colore basico? Il caso del russo Lingue diverse dividono linguisticamente lo spazio colore in modo diverso, ad esempio il lessico dei colori in inglese e russo suddivide lo spettro in modo diverso. A differenza dell inglese, il russo fa una distinzione obbligatoria tra blu chiaro (goluboj ) e blu scuro (sinij ). Ciò venne notato dagli stessi Berlin e Kay 152

155 [32], i quali sostennero che lo status di goluboj non fosse chiaro e che si trattasse probabilmente di un termine secondario e non basico. Winawer e colleghi [56] si chiesero se questa differenza linguistica portasse a differenze nel modo in cui le persone che parlano una lingua piuttosto che un altra discriminano tra colori. Goluboj sembra essere meno saliente rispetto a sinij, ma per alcuni parlanti sembra che questo termine nomini una gamma di colori disgiunta, almeno in alcuni contesti, da sinij, prova del fatto che entrambi dovrebbero essere considerati basici. I due termini russi tendono ad essere acquisiti presto dai bambini russi e condividono molte proprietà di uso e comportamento con altri termini basici. Non esiste una singola parola generica per blu in russo. Figura 8.2: Esempio di schema proposto ai soggetti dell esperimento. L esperimento per questo studio venne condotto su due gruppi, uno composto di soggetti di lingua inglese e l altro di lingua russa, a cui si chiedeva di svolgere un semplice e oggettivo compito percettivo. Ai soggetti venivano simultaneamente mostrati tre quadrati colorati organizzati in una triade (si veda figura 8.2) e veniva loro chiesto di dire, quanto più velocemente ed accuratamente possibile, quale dei due quadrati in basso era percettivamente identico al quadrato in alto. I vantaggi di questo tipo di esperimento sono che si tratta di un compito oggettivo e non ambiguo, ciò per evitare che i soggetti si affidassero solo sulla rappresentazione linguistica, cosa che può avvenire nel caso in cui ci si trovi di fronte ad un compito ambiguo che richiede un giudizio soggettivo. Se la rappresentazione linguistica si usa solo per dare giudizi soggettivi in compiti ambigui, allora gli effetti del linguaggio non dovrebbero mostrarsi in un compito di questo tipo, in cui esiste una risposta chiara e corretta. Un secondo vantaggio consiste nel fatto che i tre stimoli rimanevano simultaneamente sullo schermo fino a che la risposta non viene data, limitando quindi al massimo la richiesta di memoria. 153

156 Infine, gli autori si avvalsero della misurazione implicita del tempo di risposta, considerato un sottile aspetto del comportamento che i soggetti generalmente non modulano in modo consapevole. Essendo le risposte di questo esperimento sempre chiare e non ambigue, è difficile che il soggetto decida di impiegare più tempo in una risposta rispetto ad un altra. L aspetto da ricordare è che questo esperimento testa i parlanti inglesi e russi in un compito di discriminazione tra colori su un confine che esiste in russo ma non in inglese. Vennero utilizzati stimoli che si estendevano sulla gamma del sinij/goluboj russi. In alcune prove il distracter apparteneva alla stessa categoria russa del match (ad es. erano entrambi goluboj o entrambi sinij ). In questi casi parliamo di within-category trials. In altre il match e il distracter appartenevano a categorie russe diverse (uno era goluboj e l altro sinij ), si parla in questo caso di cross-category trials. Per i parlanti inglesi, tutti i colori mostrati appartenevano alla stessa categoria, blue. Se gli effetti linguistici sulla discriminazione tra colori sono specifici delle categorie codificate nella lingua del parlante, allora i parlanti russi dovrebbero discriminare più velocemente nelle cross-category trials rispetto alle within-category trials. Per i parlanti inglesi non dovrebbe riscontrarsi alcuna differenza. Inoltre, se i processi linguistici giocano un ruolo attivo in linea nei compiti percettivi, allora un compito verbale svolto simultaneamente dovrebbe diminuire il vantaggio per i parlanti russi, ma lo stesso non dovrebbe accadere nel caso di un compito non linguistico. Per valutare questa possibilità, i soggetti vennero testati in tre condizioni: Visione normale, senza interferenze di alcun tipo. Condizione di interferenza linguistica. Il soggetto, mentre svolge l esperimento, deve ripetere silenziosamente una serie di otto numeri. La sua memoria viene poi testata facendogli scegliere tra la serie originale di numeri e una diversa. Condizione di interferenza spaziale. Il soggetto, mentre svolge l esperimento, deve tenere a mente uno schema visivo e alla fine deve mostrare di ricordarlo. In un loro lavoro non pubblicato, gli autori sostengono di aver scoperto che le categorie linguistiche giocano un ruolo maggiore nei compiti percettivi più difficili, che richiedono discriminazioni più sottili. Per mettere alla prova questa scoperta, includono negli stimoli discriminazioni più facili in cui il target e il distracter sono percettivamente dissimili (far-color comparisons) e altre più complesse in cui il target e il distracter sono più vicini percettivamente (nearcolor comparisons). I soggetti, in generale, erano molto più veloci nelle far-color comparisons che nelle near-color comparisons. Per determinare il confine linguistico del soggetto all interno della gamma dei blu utilizzata nell esperimento, venne fatto svolgere ad ogni soggetto un compito di classificazione al termine di quello percettivo. Quindi, ai soggetti russi veniva chiesto di classificare ogni stimolo visto in goluboj o sinij, mentre ai soggetti 154

157 inglesi di classificarli in light blue e dark blue. Il confine proprio di ogni soggetto era identificato come il punto di transizione nella sua classificazione. Questo punto era quasi identico per tutti i soggetti. I risultati dimostrarono che i soggetti russi hanno un vantaggio nel discriminare due colori appartenenti nella lingua russa a due categorie diverse quando sono testati senza interferenze. Questo vantaggio viene meno nel caso di interferenza verbale ma non in caso di interferenza spaziale. Per i soggetti inglesi invece non si evidenzia alcun tipo di vantaggio, in nessuna delle condizioni sopra descritte. Inoltre, nei casi di discriminazioni più difficili (near-color comparisons) gli effetti del linguaggio sono più pronunciati. Nonostante il vantaggio dovuto ad una categoria cromatica in più, i russi erano in media più lenti degli inglesi, e ciò potrebbe essere dovuto al fatto che essi erano meno abili con l uso del computer e con il prendere parte ad esperimenti. Non venne riscontrata nessuna differenza di vantaggio tra la condizione di interferenza spaziale e la condizione priva di interferenze. Questi risultati dimostrano che le categorie linguistiche possono influenzare la percezione in un compito di discriminazione tra colori e che la performance in un compito di questo tipo è diversa da un gruppo linguistico ad un altro in funzione delle particolari distinzioni che abitualmente vengono fatte in una determinata lingua. Il caso del blu in russo suggerisce che distinzioni categoriche abituali o obbligatorie presenti in una specifica lingua risultano in distorsioni categoriche specifiche di quella lingua evidenti nei compiti percettivi oggettivi. La differenza critica tra inglesi e russi non è che gli inglesi non possono distinguere tra blu scuro e blu chiaro, ma piuttosto che i russi non possono farne a meno: devono farlo per parlare russo in modo convenzionale. Si tratta quindi di una sorta di requisito comunicativo. Anche Paramei [57] sostiene che in russo i termini sinij e goluboj non identifichino due diverse sfumature dello stesso colore, bensì due colori diversi e ben separati. I russi appaiono sorpresi nell apprendere che, ad esempio, in inglese esista un termine solo per questi due colori. Paramei sostiene che la divisione in questi due termini non sia recente, ma presente già a partire dall XI secolo. Il loro uso rivela un iniziale differenza riguardo agli oggetti che venivano designati dai due termini. Inoltre, nella morfologia di entrambi i termini è possibile rintracciare dei significati acromatici, implicando la loro opposizione lungo la dimensione semantica chiaro-scuro. Questo significato antico è tuttoggi contenuto nei dialetti russi contemporanei. Nel russo moderno entrambi sono usati per gli stessi oggetti, anche se il contesto semantico del loro uso e la loro collocazione cambiano. Al di là della designazione diretta delle esperienze cromatiche, i due termini vengono usati anche metonimicamente, invocando diverse connotazioni emotive. Inoltre hanno una semiotica distinta e specifica alla cultura, e non sono intercambiabili per i parlanti nativi russi. Le due metafore espresse in inglese con blue stocking e blue blood, per esempio, vengono rese in russo rispettivamente con sinij ĉulok e golubaja krov. In generale, nelle metafore viene spesso usato goluboj e raramente sinij. 155

158 Paramei riporta alcuni studi non molto conosciuti sul russo. Tra questi ci sono gli studi di Frumkina [ ]. Come si vede in figura 8.3, da questi studi emerge che i due termini vengono mappati dai soggetti come entità distinte che non si sovrappongono. L area coperta da goluboj, che ha maggiori incertezze denotative, è più ampia di quella coperta da sinij. Figura 8.3: Mappatura dei punti focali di sinij e goluboj sull array di Munsell (su 100 partecipanti). Le croci indicano i migliori esempi dei due termini. Da [109]. Gli studi di MacLaury [75] rivelano invece una sovrapposizione delle aree denotative dei due termini. Per alcuni soggetti esaminati, sinij include nella sua area denotativa anche goluboj, per altri goluboj include al suo interno sinij. Ciò è contrario all idea di una mappatura diversa per i due termini, come quella visibile in figura 8.3. Gli autori concludono che i due termini si trovano in una relazione in cui sinij è il termine dominante e basico, mentre goluboj è quello recessivo e non basico. Se goluboj fosse basico, il suo significato centrale sarebbe diverso da quello di sinij, e ciò non è sempre vero. La relazione in cui si trovano i due termini è quella in cui due termini di colore denotano approssimativamente la stessa gamma di colori, così da sembrare che siano in libera variazione e che siano entrambi associati ad una singola categoria di colore. Tuttavia, in questi casi, uno dei due termini, quello dominante, avrà il suo prototipo vicino al centro della categoria, mentre l altro, il recessivo, avrà il suo prototipo vicino ai margini. Inizialmente, quando si chiede agli informanti di indicare l estensione del colore espresso dal termine recessivo, questi tendono ad includere solo una gamma di colori abbastanza ristretta. Quando si chiede loro di includere tutti i colori che il termine può denotare, la gamma verrà estesa in modo da raggiungere quasi lo stesso numero di campioni associati al termine dominante. La ricerca del gruppo di Surrey (tra cui Corbett, Morgan e Davies) stabilì la 156

159 basicità di entrambi i termini sulla base del fatto che entrambi ottennero valori molto alti in tutte le misure comportamentali prese in esame, tra cui la frequenza di occorrenza del termine, il tempo di risposta e la consistenza d uso. Anche per loro i due termini denotano aree non sovrapposte, a differenza di quanto sostenuto da Berlin e Kay (secondo i quali goluboj era incluso nel dominio di sinij ), anche se il termine sinij predomina a bassi livelli di luminosità e goluboj a quelli alti. In uno studio analogo [110] si arrivò alle stesse conclusioni. Quest ultimo venne compiuto utilizzando il sistema NCS, all interno del quale vennero mappati i termini di colore russi. Ciò è visibile in figura 8.4, dove si vede chiaramente che i due termini non sono sovrapposti sebbene vicini tra loro. Figura 8.4: Mappatura dei termini di colore russi sul piano cromatico del NCS. Da [110]. Secondo Paramei [57] questi diversi risultati ottenuti sono dovuti alla diverse metodologie e sistemi colore utilizzati. Esistono anche dei fattori cognitivi da tenere in considerazione, come il fatto che l uso dei termini può variare tra diverse generazioni, classi sociali, origine urbana o rurale, livello di educazione e vocazione dei soggetti. Anche il periodo in cui i dati sono stati raccolti è importante. Una base non linguistica per l inclusione del termine goluboj tra i termini basici viene fornita dall interpoint-distance model (IDM) [111, 112] che studia le proprietà relazionali tra le categorie degli spazi colore. La comparsa di questo termine seguirebbe da una partizione naturale dell intervallo di colori senza nome che troviamo tra il blu basico e il bianco, uno dei più lunghi che si possano trovare nello spazio colore. Paramei considera goluboj basico dal punto di vista culturale, in quanto i russi non possono designare alcune cose, come il colore degli occhi o del cielo, senza usarlo. La descrizione del colore è legata a referenti locali salienti, il significato 157

160 dei termini di colore riflette concettualizzazioni specifiche ad una cultura che funzionano come ancore nella comunicazione intelleggibile con gli altri. Sinij invece è basico nel senso che, quando ci si vuole riferire al colore astratto, esso può essere utilizzato anche per denotare i colori espressi da goluboj. Tuttavia la situazione è diversa quando si arriva all uso descrittivo o attributivo, anziché referenziale, del termine. In conclusione l autrice nota come una segmentazione della categoria blu simile a quella del russo venga riscontrata anche in lingue con cui il russo ha dei contatti, come l ucraino e il bielorusso. Questo indica che la categoria russa del blu chiaro è abbastanza saliente da influenzare il concetto di blu nelle lingue vicine. Tra le lingue moderne, l area del blu rivela un ampia ricchezza terminologica. Troviamo due termini per questo colore ad esempio in cinese, in alcune lingue indiane, in giapponese, italiano, spagnolo, turco e altre lingue di cui parleremo in seguito. Potremmo quindi essere, in questo momento, i testimoni della formazione di un dodicesimo colore basico in molte lingue Il caso dell ungherese Berlin e Kay [32] sostenevano che in ungherese, eccezionalmente, esistessero 12 termini di colore perché esisterebbero due termini per riferirsi alla regione rossa dello spazio colore: piros e vörös. Giunsero a questo risultato sulla base di un solo soggetto, il che risulta essere un metodo inadeguato. Peraltro Uusküla e Sutrop [58] ritengono che nei termini russi proposti come basici da Berlin e Kay ricorrano delle inaccuratezze dovute al fatto che si risalì ai termini per mezzo di un dizionario di ungherese pubblicato a Cleveland e di dubbia autorevolezza. Secondo Uusküla e Sutrop i termini di colore ungheresi non sono ancora stati studiati sufficientemente, con un numero di soggetti e un metodo adeguati. Per questo motivo compiono questo studio con un metodo diverso rispetto a quello utilizzato da Berlin e Kay, il quale risulta anche molto costoso in termini di tempo, affidandosi al metodo sul campo di Davies-Corbett [113]. In questo studio si pongono l obiettivo di determinare se il russo possieda 11 o 12 termini di colore basici. I dati vennero raccolti in molteplici località dell Ungheria e i soggetti vennero sottoposti ad un list task ( dimmi tutti i nomi di colore che conosci ) e ad un colour-naming task ( che colore è questo? ). In quest ultimo caso vennero presentati 65 colori e venne chiesto di assegnare ad ognuno un termine di colore. Il sistema colore utilizzato fu quello di Ostwald [114]. Per quanto riguarda l enunciazione di tutti i termini conosciuti, vennero esaminate la frequenza di una parola (quanti soggetti la proposero) e la sua posizione media all interno delle liste fornite dai soggetti (in che posizione quella parola veniva mediamente offerta). Il termine piros ricopriva il primo posto (insieme a fekete, nero) in quanto a frequenza, mentre vörös si posizionava intorno al diciasettesimo. Esso venne prodotto da 12 soggetti su 40. Questo non lo farebbe concorrere alla posizione di termine basico. Anche l altro parametro, la posizione media, fa propendere per questa ipotesi in quanto non c è consenso 158

161 di opinioni tra i soggetti riguardo a quale colore rappresenti in modo adeguato il termine vörös. Solo piros concorre quindi alla posizione di termine di colore basico. Dall analisi combinata dei due parametri, risultano 13 candidati a termini basici, gli 11 termini proposti da Berlin e Kay (tolto il dodicesimo, vörös), bordó e sötétbarna. Questi ultimi due vengono però esclusi in quanto il primo costituisce un prestito dal francese (dal nome della città Bordeaux) e il secondo (il cui significato è marrone scuro ) non è monolessemico e il suo significato può essere dedotto da quello delle parti di cui si compone essendo una parola composta. Questi risultati coincidono con quelli di MacLaury [115], il quale sostiene che entrambi questi termini siano molto salienti. Tuttavia vörös viene usato per nominare una gamma di colori molto più ristretta rispetto a piros, oltre ad avere un rosso più scuro come suo prototipo, e perciò può essere visto come un termine non basico. Un caso simile è quello del giapponese, in cui il termine ao è usato sia per tinte verdi che blu, mentre midori è usato più comunemente per riferirsi ad una più ristretta gamma di tinte blu. Ciò potrebbe suggerire che midori sia un termine non basico. Tuttavia midori viene usato maggiormente per riferirsi a tinte blu rispetto ad ao, ed è comunque saliente; potrebbero quindi essere due termini basici, ed è così che vennero considerati da Berlin e Kay Il caso di altre lingue Berlin e Kay proposero solo il russo e l ungherese come lingue che presentano un dodicesimo colore basico, ma in seguito ne vennero scoperte altre come il peruviano [116], lo spagnolo del Guatemala [117], il nepali [118] e il francese [119]. Mentre le prime tre avrebbero, come il russo, un secondo termine per il colore blu, il francese ne avrebbe due per il colore marrone (brun e marron). Taft e Sivik [59] compirono uno studio su quattro lingue (inglese americano, polacco, spagnolo e svedese) allo scopo di determinare se esistessero o meno prove dell esistenza di possibili termini di colore derivati addizionali verificando la salienza relativa dei termini di colore basici e non basici attraverso il metodo del list task. Come indicatore di questa eventuale potenzialità di un termine venne utilizzata la salienza psicologica, di cui vennero esaminati tre indici: apparizione all inizio di liste di nomi, stabilità di riferimento tra diversi soggetti e in diverse occasioni, presenza nell idioletto di tutti gli informanti. I termini derivati definiti da Kay e McDaniel [70] sono definiti dalle intersezioni, o mescolanze, dei sei basici primari. Ne deriva che esistono quindici possibili coppie di primari. Tuttavia, la teoria dei canali opposti pone dei limiti per quanto riguarda le coppie possibili (non può esistere la mescolanza di rosso e verde, né quella di blu e giallo), e che rimangono tredici combinazioni possibili. Di queste ne esistono solo cinque, nero-giallo (marrone), giallo-rosso (arancione), bianco-rosso (rosa), rosso-blu (viola) e bianco-nero (grigio), ma in teoria, secondo il ragionamento fatto, dovrebbero esistere diciannove termini basici. I termini basici primari risultarono essere i più salienti, seguiti dai termini basici 159

162 derivati e infine dai termini non basici. Tuttavia alcuni termini non basici raggiunsero in questo studio frequenze e salienza più alte rispetto ad alcuni termini derivati. Gli undici termini basici proposti da Berlin e Kay costituiscono solo una piccola parte rispetto al totale dei termini di colore di cui una lingua si avvale, l inglese per esempio ha a sua disposizione circa 4000 termini di colore [120]. Alcuni termini non basici vengono usati quasi con la stessa frequenza di quelli basici, sebbene vengano utilizzati con minore consistenza e consenso degli ultimi. I termini basici non sono solo pochi in relazione al numero dei termini usati comunemente, ma anche la loro copertura dello spazio colore è minima. Chapanis [121] stimò per esempio che una persona non specialista può utilizzare senza confusione e senza sovrapposizioni circa 50 termini per coprire tutto lo spazio colore. Inoltre la distribuzione degli 11 termini basici nello spazio colore è molto irregolare. C è quindi disponibilità, dal punto di vista spaziale, ad accettare nuovi termini, ma non è chiaro quali siano questi termini. Nelle lingue esaminate in questo studio il numero medio di termini prodotti da ogni gruppo era molto più alto di 11. Le liste prodotte dai soggetti contenevano termini corrispondenti ad alcune delle 8 intersezioni che rimangono togliendo dalle 13 combinazioni possibili le 5 categorie derivate. Tra queste beige, che si può considerare un intersezione tra bianco e giallo, venne riscontrato in tutte le liste di tutti i gruppi e apparì essere il termine non basico più saliente. Questo termine corrisponde all area dello spazio colore più ristretta, sia in termini di punto focale che di confini; nonostante ciò il consenso tra i soggetti era molto alto. Una possibile ragione della mancanza di questo termine tra quelli basici è la mancanza di una sua rappresentazione adeguata nei campioni utilizzati nei vari esperimenti compiuti. Gli stimoli utilizzati hanno infatti un influenza sul comportamento dei soggetti nella produzione di nomi di colori. Altri termini salienti prodotti dai soggetti, corrispondenti ad intersezioni del blu e del verde, erano gli equivalenti dei termini inglesi turquoise, navy blue e gold (per tre gruppi su quattro) e sky blue, silver e violet (per due gruppi su quattro). La più grande distanza percettiva non coperta da termini derivati si trova proprio in quest area. Questi termini non soddisfano i requisiti posti da Berlin e Kay per i termini basici, tuttavia sono salienti nelle liste americane e svedesi (meno nelle altre) nel senso che la maggioranza dei soggetti li enunciò ai primi posti nelle liste di termini di colore. Il perché di questo andrebbe studiato ulteriormente, così come andrebbe studiato ulteriormente il perché alcune aree dello spazio colore siano codificate con pochi termini, mentre altre siano rappresentate in modo sproporzionato da un numero di termini molto elevato. 160

163 8.6 Casi di regressione nei sistemi di colore: un caso italiano Berlin e Kay [32] sostennero che l evoluzione nel sistema dei colori non fosse sempre lineare, ma che si potessero osservare fenomeni di regressione e successiva rielaborazione. Alcuni dialetti italiani, ad esempio, sembrano possedere sistemi di colore semplificati, avvalendosi di meno termini di colore rispetto al latino classico. I dialetti italiani mostrano alcune delle modalità di cambiamento diacronico dei sistemi di colore. Secondo Kristol [122], un elemento debole nella teoria di Berlin e Kay è la mancanza di informazioni diacroniche per arrivare alla conclusione che abbiamo indicato, e si propone di completare questa loro teoria con un esempio trovato nello studio diacronico dei sistemi di colori delle lingue romanze. Se è possibile dimostrare che il latino classico ha avuto a sua disposizione un sistema più ricco di qualche lingua o dialetto romanzo suo successore, l ipotesi della regressione è confermata. Il sistema lessicale dei termini di colore in latino venne studiato da André [38], il quale concluse che esso possedeva un sistema di colori allo stadio V. Per questo suo studio Kristol si basò sul materiale raccolto sul campo tra il 1919 e il 1927 da Scheuermeier e Rohlfs per la creazione del Atlas of Italian and Southern Swiss dialects (AIS), che venne poi pubblicato quasi totalmente in [123]. L italiano moderno standard ha un sistema di colori allo stadio VII, tuttavia l evoluzione dal latino all italiano non fu lineare. La situazione linguistica in Italia all inizio del 1900 e fino agli anni 30 era una situazione di estrema frammentazione dialettale ed eccellente preservazione dei dialetti locali, soprattutto quelli delle zone rurali lontane dai centri urbani. Per secoli questi dialetti e- sistettero in modo più o meno indipendente e persino l unità politica d Italia non influenzò molto questa situazione. In questo modo un certo numero di dialetti riuscirono a preservare strutture molto arcaiche e (di maggior interesse ai fini della nostra trattazione) sistemi di colore arcaici. Una nuova indagine al giorno d oggi probabilmente non sarebbe più in grado di identificare questi vecchi sistemi: la scuola e soprattutto la nascita dei mass media a partire dalla Seconda Guerra Mondiale hanno diffuso la conoscenza dell italiano standard attraverso tutta la penisola. I sistemi di colore si sono per cui di recente italianizzati. Negli anni però alcuni dialetti mostravano già segni di co-esistenza di sistemi di colore vecchi (più ridotti) e nuovi (più elaborati). L unico termine latino che fu perso e non immediatamente rimpiazzato fu il blu, caeruleus. Ciò coincide con l osservazione che le comunità rurali primitive possono facilmente fare a meno di questo termine che sembra avere poca utilità pratica al di fuori di campi come la moda, l arte e la letteratura. Nonostante l atlante contenesse i termini locali per blu per quasi tutte le località analizzate (373), la situazione per questo colore nei dialetti italiani risultò così complessa tanto da non essere poter mappato. Solo in 29 di queste è stato riscontrato un 161

164 termine per marrone. Se le regole di codifica sono adeguate e reversibili, nei dialetti in cui manca un termine per blu dovrebbe mancare anche un termine per marrone. Nel 10% del corpus totale dei dati si riscontrano situazioni di dialetti che possiedono un numero di termini di colore inferiore rispetto a quello dell italiano standard. Si tratta di casi di regressione, ovvero sistemi di colore più poveri in termini di colore rispetto al sistema di cui disponeva il latino. Ci sono quattro modi in cui una lingua o un dialetto reagiscono alla perdita di un termine di colore: 1. La perdita è trascurata, nessuna parola nuova rimpiazza quella perduta. Questa condizione è molto instabile in quanto in ogni momento una nuova parola potrebbe essere introdotta. 2. Il colore a cui ora manca un espressione adeguata viene incluso all interno dei confini di un altro termine di colore vicino. Questo è il caso più interessante: l ampliamento dei confini di un altro termine di colore è il caso più chiaro di regressione. 3. Formulazioni ad-hoc, che si riferiscono al colore di oggetti caratteristici, rimpiazzano la parola mancante. Questa situazione potrebbe essere l anticamera dell introduzione di un nuovo termine attraverso lessicalizzazione. 4. Un nuovo termine viene creato o preso in prestito da un altra lingua. La sostituzione di un termine però non costituisce regressione. La mancanza assoluta di un termine per blu è stata riscontrata in quattro dialetti. In questi dialetti, a quanto riferisce Kristol, non ci si può riferire per esempio al colore del cielo. Kristol critica il fatto che questa situazione non venne considerata da Berlin e Kay né dalla ricerca successiva, secondo la quale tutti i colori sembrerebbero essere inclusi in uno o in un altro termine esistente, in qualsiasi momento dell evoluzione. Dai dati raccolti in questo atlante, invece, sembra lecito dedurre che in casi di regressione si può sviluppare un vuoto che può persistere per secoli senza che nessun altra soluzione venga adottata. Il fatto che la regressione possa aver luogo è una prova del fatto che in alcune situazioni possa non essere sentita la necessità di una certa categoria di colore. (Paul Kay sottolineò in una comunicazione personale il fatto che il concetto di mancanza totale di un termine per blu fosse da avanzare con estrema cautela. Infatti, parlanti di lingue che esprimono in una sola categoria il verde e il blu, spesso sostengono di non avere alcun termine per descrivere il cielo, intendendo però dire che non hanno un termine speciale per descriverlo. La precarietà della conclusione di Kristol è abbastanza ovvia). Quando un termine per blu si estingue senza sostituti, la parola più adatta a inglobare in sé la sua funzione sembra essere il termine verde. Infatti in molti dialetti il termine per verde è stato adottato anche per esprimere quello per blu. Nell atlante a cui ci stiamo riferendo sono stati registrati 13 dialetti che riassumono nel termine verde le categorie di colore di verde e blu. Molti di questi sono situati nella stessa zona geografica, ad est e sud-est di Roma 1. 1 Si tratta di dialetti delle regioni Abruzzo, Molise, Lazio, Puglia, Campania e Basilicata. 162

165 Questo fatto ci permette di ritenere che un importante numero di dialetti simili esista nel resto dell Italia meridionale, dove l isolamento culturale fu più marcato rispetto al nord (solo sette delle località esaminate nel centro e nord Italia presentano questa situazione). I dialetti che utilizzano un termine solo per i colori verde e blu appartengono effettivamente allo stadio IV. Quindi l Italia presenta chiare prove di sistemi dialettali allo stadio IV, seppur nascosti dietro lo stadio VII dell italiano standard. Ci dovremmo quindi aspettare di trovare dei sistemi colore intermedi tra questi due, e in effetti questi casi esistono. Ci sono ad esempio alcuni dialetti allo stadio V o VI che usano un termine molto vecchio e di origine popolare, turchino, per esprimere il colore blu. Per i colori marrone e grigio tuttavia si avvalgono solo di parafrasi (color caffè, color castagna, color cenere ecc). L autore conclude dicendo che i dialetti italiani, a causa della loro indipendenza ed esistenza quasi indisturbata e grazie ad una tradizione fortemente conservatrice soprattutto nel sud del paese, sono simili a dei musei per diversi stadi evolutivi di sistemi di colore. Alcuni di essi rappresentano casi di regressione dallo stadio V del latino allo stadio IV, con successiva rielaborazione della terminologia del colore attraverso l introduzione di parole dall italiano o coinè locali, oppure attraverso la creazione di parafrasi e nuovi termini riferiti ad oggetti. 8.7 Il contatto tra lingue nei lessici di colore Il contatto tra lingue è un fenomeno che riguarda l introduzione, in una lingua, di parole nuove per effetto del contatto con altre lingue, più o meno lontane. Questo fenomeno riguarda qualsiasi dominio lessicale, quindi non risparmia nemmeno quello dei colori. Si può trattare di prestiti tra lingue adiacenti dal punto di vista geografico, come nel caso dell ucraino e del bielorusso che hanno preso in prestito dal russo un secondo termine per riferirsi al colore blu [57], ma anche di prestiti da una lingua importante dal punto di vista politico e sociale. Questo sicuramente è il caso dei prestiti dall inglese, considerata la maggior lingua internazionale, che per questo motivo influisce sui comportamenti linguistici di molte comunità linguistiche. In giapponese c è un uso pervasivo di prestiti in generale e, nello specifico, nell ambito dei termini di colore, cosa che venne per lo più trascurata da Berlin e Kay [32]. Molti di questi prestiti sono più salienti per i parlanti rispetto alle loro controparti native giapponesi. Il lessico dei colori di questa lingua consiste di due distinti insiemi di termini, uno di origine nativa e l altro preso a prestito dall inglese. Questo secondo insieme, secondo Stanlaw [124], sta rimpiazzando il primo, e ciò sta avvenendo in un ordine inverso rispetto a quello proposto nella sequenza evolutiva di Berlin e Kay. Stanlaw condusse un tipico studio simile a quello descritto da questi ultimi. Se in generale non è mai facile determinare se un termine di colore sia o meno basico, in giapponese è particolarmente vero in quanto esistono una serie di complicazioni. Alcuni dei criteri stabiliti da Berlin e Kay per definire la basicità 163

166 o meno di un termine possono non essere quindi facili da applicare. La salienza rimase però un criterio applicabile, e in tabella 8.1 sono elencati i termini di colore del giapponese in ordine di salienza dal più alto al più basso. Esaminando la frequenza dei termini in giornali e quotidiani, Stanlaw sco- JAPANESE ENGLISH SALIENCY shiro WHITE 97% aka RED 94% kuro BLACK 92% ao BLUE 91% ki-iro YELLOW 81% midori GREEN 77% cha-iro BROWN 60% murasaki PURPLE 50% pinku pink 43% orenji orange 39% kon dark blue 26% ki-midori yellow-green 25% mizu-iro light blue 24% hai-iro GREY 15% gin-iro silver 14% guree grey 12% kin-iro gold 12% buraun brown 10% kaaki khaki 9% beeju beige 7% kuriimu-iro cream 6% remon lemon 6% emerarudo guriin emerald green 6% hada-iro flesh 6% nezumi-iro GREY 5% sora-iro sky blue 5% koge-cha dark brown 5% momo-iro PINK 4% daidai-iro ORANGE 4% Tabella 8.1: Termini di colore giapponesi in ordine crescente di salienza. Tratto da [124]. prì una correlazione tra la frequenza/salienza e la sequenza evolutiva proposta da Berlin e Kay. Almeno i primi otto termini seguono l ordine da loro proposto (ad eccezione del fatto che il termine aka sia lievemente più saliente di kuro, rispettivamente rosso e nero). Dall ottavo posto in poi però l ordine non è affatto rispettato, in quanto spesso troviamo un prestito inglese al posto del termine nativo giapponese che ci aspetteremmo, soprattutto per le posizioni pinku 164

167 e orenji, che sono quindi più salienti dei corrispettivi giapponesi. Per questo motivo Stanlaw propone che il giapponese stia rimpiazzando i termini nativi con prestiti inglesi con un andamento inverso da quello proposto da Berlin e Kay e che potrebbe in futuro salire verso le posizioni alte della gerarchia implicazionale. Si riscontrò una differenza tra termini nativi e prestiti dall inglese, infatti i due non erano mappati come se fossero sinonimi. I termini presi in prestito dall inglese portano con sé una connotazione più luminosa rispetto ai corrispondenti termini nativi. C è quindi una differenza nei livelli di chiarezza. Un altro aspetto notato da Stanlaw, e che ancora una volta ci permette di osservare l influenza dell inglese sul giapponese, riguarda il termine con cui i giapponesi si riferiscono al verde dei semafori. La lingua giapponese in passato utilizzava il termine ao (blu) per indicare in molti casi anche il colore verde, a cui oggi ci si riferisce con il termine midori. Ancora oggi esistono però differenze denotative tra questi due termini: mentre midori ha un numero ristretto di referenti, ao ne ha molti. I giapponesi si riferiscono al verde del semaforo con il termine ao, forse perché in questo uso c è un riferimento a un significato addittivo che questo termine porta con sé, l idea di inizio, partenza, freschezza. Il verde del semaforo viene quindi letteralmente chiamato luce blu. Se i colori fossero dei puri denotata, il termine midori sarebbe invece stato preferito. Stanlaw condusse uno studio chiedendo a soggetti giapponesi che vivevano negli Stati Uniti da periodi di tempo diversi (dai 6 mesi ai 15 anni) di scegliere il tassello dall insieme usato da Berlin e Kay che secondo loro ricordava meglio il colore del via dei semafori in Giappone (che non sono diversi da quelli americani o europei). Stanlaw scoprì una correlazione tra la lunghezza del periodo trascorso all estero e la tinta selezionata: più lungo era questo periodo, più blu era la tinta del tassello selezionato. Il motivo di ciò probabilmente risiede nel fatto che, essendo il ricordo visivo più lontano, e mancando quindi lo stimolo stesso (la luce verde ), i soggetti che da più tempo vivevano negli Stati Uniti erano costretti a ricorrere al codice linguistico, e ciò li riconduceva ad ao. Maggior era il tempo di lontananza, maggiore risultava l affidamento a questo codice: la luce viene chiamata blu, quindi i soggetti si convincono che la luce fosse veramente blu. 8.8 Le differenze di genere nell ambito del colore Anche il genere è considerato un fattore molto importante nel dominio del colore ed è un argomento che ha ispirato molti studi. Molti di questi, di cui non ci si occuperà in questa sede, si pongono come obiettivo quello di capire se ci siano differenze percettive tra i due sessi, su cui i pareri sono discordanti. Altri invece sono studi che indagano le differenze nel lessico del colore tra i due sessi, anche se è evidente che le differenze percettive potrebbero essere ciò che causa in un secondo momento differenze lessicali. Le due cose potrebbero essere quindi strettamente legate. Ciò che è particolarmente interessante è che i soggetti di 165

168 sesso femminile tipicamente hanno a loro disposizione un lessico di colori più ampio e sfaccettato rispetto ai soggetti di sesso maschile. In [125] si propose un test in cui si chiedeva ai soggetti (studenti di college americani) di attribuire dei nomi di colori ad alcuni tasselli colorati. L ipotesi che questo array di stimoli colorati avrebbe evocato un numero maggiore di risposte da parte dei soggetti femminili rispetto a quelli maschili venne confermata. La correlazione tra sesso e numero di nomi diversi forniti fu significativa, così come fu significativa la correlazione tra sesso del soggetto e attività del tempo libero (hobbies) e tra il numero di nomi diversi forniti e gli hobbies. La variabile degli hobbies fu costruita da informazioni fornite sul questionario e venne codificata su una scala di 1 a 5. Bassi livelli di questa variabile corrispondevano ad attività scarsamente legate al colore, il contrario per i valori alti. Il valore medio di questa variabile era di 1.50 per gli uomini e di 2.79 per le donne. Queste differenze potrebbero essere una funzione di differenze tra sessi nel processo di socializzazione. Le donne, infatti, sono incoraggiate a scegliere attività per il tempo libero che sono maggiormente dipendenti dal colore rispetto agli uomini. Di conseguenza, le donne sviluppano un lessico di colori più esteso. Si tratta quindi di differenze acquisite nell espressione dell apprezzamento delle differenze di colore. In [126] queste differenze vennero indagate attraverso un esperimento di color listing su 72 soggetti nepalesi. Le donne elencarono un numero di nomi di colore più alto rispetto agli uomini. Questa differenza è statisticamente significativa e può essere attribuita a variazioni tra uomini e donne nell esposizione al colore e nel suo uso nell ambiente in Nepal. In Nepal le donne indossano abiti molto colorati, mentre gli uomini vestono di nero, grigio, bianco e marrone. La differenza riscontrata potrebbe quindi anche essere ristretta al particolare ambiente preso in esame in questo studio. Anche la dicotomia città-villaggio potrebbe giocare un ruolo importante per la spiegazione di queste differenze. Su 36 soggetti di sesso femminile presi in questo studio infatti, 25 vivevano a Kathmandu, contro gli 11 che vivevano in ambiente rurale. Sembra che entrambi i fattori, il genere dei soggetti e l ambiente in cui questi vivono, vadano presi in considerazione e abbiano un ruolo importante. I due fattori che vengono proposti in questo studio per spiegare perché le donne producano più termini di colore sono la maggior fluenza verbale delle donne e il maggior coinvolgimento delle donne nel settore specifico del colore. 8.9 Conclusioni Al termine di questa panoramica di alcuni studi legati a diversi sottodomini di questo ambito si sarà colta la grande varietà di spunti e idee al suo interno. Ad esempio, si sarà notato come i potenziali soggetti di esperimenti appartengano a categorie molto eterogenee: dai bambini, che forniscono informazioni sul processo di apprendimento di questi termini, ai neonati, che forniscono informazioni sull esistenza di categorie cromatiche antecedenti lo sviluppo linguistico, ai bilin- 166

169 gui, interessanti per studiare come la conoscenza di due lingue possa influenzare le categorie linguistiche cromatiche, agli anziani, che, confrontati con altre fasce d età, ci possono dare un indicazione di come questa influenzi il lessico dei colori. Lo studio di pazienti afasici può invece aiutarci a capire quali siano i processi cognitivi relativi a questo dominio. 167

170 168

171 CAPITOLO 9 I dizionari di colore 9.1 Introduzione In precedenza si è visto che esistono dei metodi per specificare il colore in modo numerico preciso e non ambiguo. Un altro metodo per specificare il colore è quello di ricorrere all utilizzo di termini appartenenti al linguaggio naturale, avvalendosi di descrizioni linguistiche. Questo sistema di comunicazione è ovviamente molto meno preciso, tuttavia è il più diffuso e quello meglio compreso dalle persone. Per molti aspetti è quindi preferibile ad un metodo altamente preciso ma difficile da usare. Questo risultò evidente in un esperimento [127, 128] in cui vennero comparati tre diversi sistemi di notazione del colore, due dei quali sono sistemi di notazione numerica (RGB e HSV), mentre il terzo, il CNS, si basa sul linguaggio naturale, nello specifico la lingua inglese. Ad ogni volontario che partecipò all esperimento venne assegnato in modo casuale uno di questi tre sistemi e chiesto di imparare ad usarlo. Successivamente venne loro chiesto di dare una specificazione, avvalendosi del sistema assegnato, ad una serie di colori che vennero loro mostrati. Per ogni risposta data si calcolò la distanza euclidea tra il colore che il soggetto avrebbe dovuto descrivere e quello corrispondente alla risposta effettivamente data: maggiore era la distanza, meno accurata la risposta. Si scoprì che gli utenti del sistema CNS erano significativamente più accurati nella specificazione del colore, e ciò dimostra che è più efficace dare all utente 169

172 la possibilità di scegliere da un insieme limitato di valori scelti accuratamente e basati su fattori umani, piuttosto che da un insieme di valori molto più ampio e apparentemente più flessibile che però non si basa su questi principi. Come ci si aspettava, il sistema HSV ottenne dei risultati migliori rispetto al sistema RGB, in quanto si basa sugli stessi attributi psicologici anziché fisici del colore, come il sistema CNS. In più, il sistema CNS permette di dare risposte basate sulle esperienze accumulate in una vita con i termini di colore inglesi. I sistemi linguistici utilizzano nomi di colore comuni, così come combinazioni di questi, per affinare la specificazione del colore. Offrono inoltre molti aggettivi modificatori che permettono ulteriori sottili discriminazioni nella specifica. Oltre alla specifica del colore, le lingue naturali sono comunemente usate per specificare differenze o cambiamenti di colore, esempi di parole o sintagmi che esprimono questi concetti possono essere slightly less yellow, much darker, more saturated, greener, significantly punchier, a smidge lighter. Sebbene queste espressioni siano certamente molto imprecise vengono usate comunemente da tutti. Identificare un colore tramite il suo nome è quindi un metodo di comunicazione comprensibile per chiunque, e per questo motivo sono stati fatti numerosi tentativi tesi alla creazione di un metodo standard per scegliere nomi di colori. Ad esempio, il sistema di ordinazione del colore Munsell è ampiamente usato in applicazioni che richiedono specifiche precise del colore, come il settore tessile e quello delle vernici. Uno dei suoi svantaggi è però la mancanza di un dizionario di colori. In questo capitolo verranno presentati alcuni dizionari di colore 1. Ne esiste un numero veramente ampio, alcuni di essi sono nati con uno scopo generale, ma la maggiorparte di essi vengono creati direttamente dalle aziende per esigenze puramente commerciali e per specificare i colori legati ad un determinato prodotto. Hanno quindi una portata ridotta e specifica a quel determinato settore. Solo alcuni di essi possiedono una sintassi sistematica che li rende coerenti al loro interno e più facilmente utilizzabili, ma nella maggioranza dei casi essi ne sono privi. Altri ancora, come il CNE [129], nascono non tanto da una scelta operata dall ideatore riguardo a quali colori rappresentare, quanto dal feedback ricevuto da una serie di soggetti che decidono di prendere parte ad un esperimento (nel caso specifico, un esperimento online). In questo caso, vengono certamente rispecchiate molto meglio quelle che sono le intuizioni dei parlanti di una lingua riguardo ai termini di colore e verrà rappresentata meglio la lingua vera. Il numero dei termini di colore che i diversi dizionari contengono può variare molto e anche questo aspetto ha un ruolo importante sulla qualità del dizionario. Un numero troppo basso risulta poco rappresentativo, d altra parte un numero eccessivo è controproducente rendendo lo strumento difficile da usare. Dopo averne scelti alcuni, si è cercato di rintracciarne la struttura per capire se questa fosse più o meno affidabile e sistematica. Infine si è tentato di fare un

173 confronto tra questi dizionari presenti sul mercato, individuando i punti forti e deboli che presentano. Alla luce di questo confronto si proporranno in conclusione le caratteristiche che dovrebbero essere presenti in un buon dizionario di colore e quelle che andrebbero sicuramente evitate. Un altro problema relativo ai dizionari è il fatto che essi siano tutti in lingua inglese. Per questo motivo si tenterà di dare alcune indicazioni riguardo ad un possibile dizionario in lingua italiana attraverso un esperimento di color listing che è stato condotto e che verrà presentato nel prossimo capitolo. 9.2 Il sistema ISCC-NBS Il primo elenco di più di 3000 termini e sintagmi inglesi usati per nominare colori fu creato da Maerz e Paul e pubblicato nel loro Dictionary of colors nel 1930 [120]. Più dettagliata fu la circolare 553 pubblicata dal National Bureau of Standards (NBS), oggi National Technical Information Service (NTIS), la quale conteneva circa 7500 diversi nomi che venivano usati sia generalmente che in campi specifici [130]. Il fatto che entrambi questi dizionari contenessero esempi di termini abbastanza esoterici e oscuri alla maggior parte della gente, e che questi termini venissero elencati in modo non sistematico, li rese inadatti ad un uso generale. Seguendo i consigli dell Inter-Society Council (ISCC), l NBS, avvalendosi della notazione Munsell, sviluppò quindi un lessico standardizzato di nomi che definisce un insieme di 267 diverse regioni dello spazio colore (267 centroidi), che andarono a costituire il dizionario ISCC-NBS [131], partendo da un ampio numero di elenchi di colori presenti in compilazioni in uso negli Stati Uniti in settori molto disparati tra loro. La scelta di 267 centroidi sembrò agli ideatori una buona scelta dal punto di vista numerico, trattandosi di un numero abbastanza piccolo da essere imparato facilmente, ma abbastanza grande per operare le necessarie distinzioni per molte applicazioni. Il dizionario utilizza termini inglesi per descrivere il colore lungo le tre dimensioni dello spazio colore. Ci sono cinque valori discreti relativi alla chiarezza (very dark, dark, medium, light, very light), quattro valori discreti relativi alla saturazione (grayish, moderate, strong, vivid) e tre termini che denotano combinazioni di chiarezza e saturazione (brilliant, pale, deep). Si prenda il colore purple per esemplificare l utilizzo dei modificatori. La figura 9.1 rappresenta l insieme completo dei modificatori per questa tinta. I termini di colore in questa tinta sono quindi vivid purple, dark purple, light purplish gray eccetera. A causa della non-linearità del nostro apparato visivo e delle irregolarità nel sistema del lessico dei colori presente nelle lingue naturali, non tutte le tinte presentano l intera gamma di modificatori. A partire da un insieme basico (red, orange, yellow, green, blue, violet, purple, pink, brown, olive, black, white, gray) vennero costruiti 28 termini riferiti alla tinta. Alcune coppie di questi nomi possono essere concatenate per denotare 171

174 Figura 9.1: Rappresentazione del segmento relativo alla tinta purple, grazie al quale possiamo osservare tutti i modificatori riferiti a questa tinta. tinte intermedie, ad esempio yellow e green possono dare vita alla forma yellow green, ma non a quella green yellow. Ancora, altri termini di colore non possono essere accoppiati in questo modo con le tinte a loro adiacenti per formare tinte intermedie, è il caso di red, blue, violet, purple e pink. Un altro modo per definire tinte intermedie è quello di aggiungere il suffisso -ish in una coppia modificatoremodificato. Ad esempio, greenish blue è un blu con una piccola percentuale di verde al suo interno. Ci sono però molte eccezioni a questa regola. Ad esempio, violet e olive non possono essere né modificatori né modificati, orange e pink non possono essere modificatori, red modifica orange, purple e brown ma viene modificato a sua volta solo da purple. I nomi acromatici possono essere combinati con nomi cromatici ma non esiste una sintassi sistematica: blackish red è valido ma non lo è blackish brown. Il principale problema di questo sistema è quindi che non esiste una regola semplice per determinare quale termine di colore possa essere messo in coppia con altri, possa modificare o essere modificato, e in che ordine debba apparire. La sua sintassi è quindi estremamente difficile da imparare. Oltre al dizionario dei 267 centroidi di cui abbiamo parlato finora, l NBS propone una tavola con 5411 nomi di colore, ad ognuno dei quali vengono attribuiti e fatti corrispondere alcuni dei 267 centroidi, talvolta uno solo, in altri casi molti di più, fino ad arrivare a un totale di circa venti centroidi assegnati ad uno stesso nome. A questo proposito si vedano gli esempi in figura 9.2. Questo lavoro venne fatto prendendo tutti i termini presenti in un ampia serie 172

175 Figura 9.2: Alcuni esempi di centroidi assegnati a nomi di colori. di elenchi di termini di colore esistenti negli Stati Uniti che venivano utilizzati in diversi settori: aeronautica, trasporti, agricoltura, filatelia, biologia, decorazione di interni ecc. In fianco al nome, tra parentesi, viene indicata una lettera che si riferisce all elenco da cui il nome è stato tratto, mentre a destra troviamo i centroidi che sono stati assegnati a quel nome. Il fatto che spesso venga assegnato un numero davvero alto di centroidi lascia un po perplessi, in quanto spesso questi centroidi rappresentano dei colori che sono molto diversi tra loro. Risulta quindi inverosimile che ci si possa riferire a colori così diversi avvalendosi dello stesso nome. 9.3 Il sistema CNS Un problema relativo al dizionario appena descritto era la mancanza di una sintassi sistematica. Questa fu la questione che si tentò di affrontare con la creazione di un nuovo sistema di color-naming (CNS), basato sul modello ISCC- NBS, che risultava comunque essere il sistema di notazione più adeguato tra quelli esistenti basandosi su termini comuni della lingua inglese, i cui referenti sono quindi chiaramente compresi. Era però necessario semplificarne la sintassi, fornendo una struttura che seguisse poche regole semplici e sistematiche, e rimuovere alcune disomogeneità del lessico. Il sistema CNS [128] usa le stesse tre dimensioni, ma definisce in una sintassi formale le regole usate per combinare parole a partire da queste tre dimensioni. I modificatori riferiti alla chiarezza (very dark, dark, medium, light, very light) e alla saturazione (grayish, moderate, strong, vivid) sono presi direttamente dalla nomenclatura ISCC-NBS, ad eccezione di brilliant, deep e pale che vengono esclusi. Se l attributo di chiarezza viene omesso, si assume una chiarezza media (medium), se viene omesso l attributo di saturazione, viene assunto vivid. I due designatori di chiarezza e saturazione possono ricoprire entrambi il primo posto. I termini relativi alla tinta sono solo vagamente collegati a quelli dell ISCC-NBS. Per quanto riguarda i termini cromatici, vengono usate solo le tinte che giacciono sul cerchio del colore (red, orange, yellow, green, blue e purple) con l aggiunta 173

176 di brown. Violet, olive e pink vengono omessi. Pink è facilmente riconoscibile come light red, e non giace sul cerchio dei colori puri; violet e olive non hanno la stessa distribuzione in inglese degli altri termini utilizzati. Per esempio, non possono prendere i suffissi -ish, -er, -est come fanno invece gli altri termini. L unico termine incluso ma che non è presente nel cerchio dei colori puri è brown, incluso perché, a differenza di altri colori non puri, non viene percepito come qualitativamente simile alla sua controparte (l arancione saturo, brillante). Questa inclusione quindi ci dimostra che i termini sono stati scelti in base a considerazioni psicologiche e linguistiche; infatti brown sarebbe ridondante, trattandosi di un arancione, ma viene incluso perché i parlanti inglesi lo percepiscono come un colore separato e per questo gli autori lo hanno ritenuto importante per il potere descrittivo del sistema. In totale si ottengono 31 nomi di tinte cromatiche che si formano partendo dai sette nomi di colore generici attraverso l applicazione delle regole sintattiche. Ai sette nomi già citati sopra, vanno aggiunti i termini acromatici black e white. A partire da essi nascono gli altri termini acromatici (very dark gray, dark gray, (medium) gray, light gray, very light gray) che hanno necessariamente saturazione zero e che quindi sono denotati da un massimo di due componenti. Per quanto riguarda la sintassi di questo sistema, tutti i termini di tinta adiacenti possono modificare gli altri secondo le regole qui di seguito: Due tinte generiche unite da un trattino denotano una tinta che sta esattamente a metà tra le due tinte generiche specificate. I due termini green-blue e blue-green sono quindi equivalenti. Se si desidera un colore che si trova ad un quarto tra due tinte generiche adiacenti, la tinta più lontana costituirà il modificatore, apparendo per prima con il suffisso -ish, mentre la tinta più vicina sarà l elemento modificato e apparirà per seconda. Questa semplice grammatica genera un totale di 24 nomi riportati in tabella 9.1. Come mostrato dalle parentesi, sette termini addittivi possono essere generati sostituendo il termine brown al termine orange. La sintassi di questo sistema è ortogonale rispetto ai tre termini della specificazione del colore. Tutte le combinazioni possibili sono sintatticamente corrette, sebbene alcune combinazioni sintatticamente corrette potrebbero non essere realizzabili. Per esempio, se un colore è molto chiaro o molto scuro, non può essere pienamente saturo. La saturazione massima possibile di un colore decresce man mano che il colore diventa più chiaro o più scuro. In totale, il sistema CNS conta 627 nomi di colore (620 termini cromatici + 7 termini acromatici). La sintassi formale di questo sistema è la seguente: < color name > ::= < chromatic name > < achromatic name > < achromatic name > ::= [< lightness >] gray black white < chromatic name > ::= < lightness >< saturation >< hue > [< saturation >] [< lightness >] < hue > 174

177 - red - green - orangish red (brownish red) - bluish green - red-orange or orange-red - green-blue or blue-green (red-brown or brown-red) - reddish orange (reddish brown) - greenish blue - orange (brown) - blue - yellowish orange (yellowish brown) - purplish blue - orange-yellow or yellow-orange - blue-purple or purple-blue (brown-yellow or yellow-brown) - orangish yellow (brownish yellow) - bluish purple - yellow - purple - greenish yellow - reddish purple - yellow-green or green-yellow - purple-red or red-purple - yellowish green - purplish red Tabella 9.1: I 24 nomi generati dalla grammatica CNS. < lightness > ::= verydark dark medium light very light < saturation > ::= grayish moderate strong vivid < hue > ::= < generic hue > < halfway hue > < quarterway hue > < generic hue > ::= red orange brown yellow green blue purple < halfway hue > ::= < generic hue > < generic hue > < quarterway hue > ::= < ish form >< generic hue > < ish form > ::= reddish orangish brownish yellowish greenish bluish purplish Questa sintassi è espressa in BNF, notazione spesso usata per mostrare la sintassi specialmente dei linguaggi di programmazione. La sigla sta per Backus Naur Form, dal nome di chi l ha introdotta. Secondo questa notazione il simbolo ::= sta per è definito da e indica che l oggetto alla sinistra di tale simbolo viene definito come ciò che si trova alla destra di questo. Il simbolo sta per oppure, si può cioè usare indifferentemente l oggetto a destra o quello a sinistra del simbolo. Le parentesi quadrate [ ] indicano occorrenze opzionali e le parentesi angolari < > indicano il nome di una categoria. 9.4 Il sistema CNM Tominaga [132] propose in seguito un estensione del modello CNS che prese il nome di Color-Naming Method (CNM). Tominaga utilizzò un insieme predefinito di termini di colore nello spazio colore Munsell. Questi nomi vennero speci- 175

178 ficati come appartenenti ad uno su quattro livelli di accuratezza (fundamental, gross, medium, minute), in modo che nomi appartenenti al più alto livello di accuratezza corrispondessero a sezioni più piccole dello spazio Munsell. Uno dei più gravi difetti che vengono solitamente accreditati a questo metodo è l utilizzo di un lessico di colori non standard, compaiono infatti nomi come lavander, lilac, sky, gold. 9.5 Il modello proposto da Mojsilović Mojsilović [133] tentò di sviluppare un metodo computazionale di color naming che fornisse delle descrizioni di colore più dettagliate rispetto agli altri sistemi e che permesse comunicazioni inerenti il colore di più alto livello. Per creare un lessico dei colori affidabile si eseguirono una serie di esperimenti soggettivi volti a testare l accordo tra i nomi tratti dal dizionario ISCC-NBS e i giudizi umani, aggiustando così il dizionario per il suo uso nelle applicazioni automatiche del color naming e per guadagnare una migliore comprensione della categorizzazione umana del colore e dell attribuzione di nomi. Gli esperimenti condotti furono quattro. Il primo (Color Listing Experiment) mirava a capire quali fossero i colori basici. Ai soggetti venne chiesto di nominare almeno 12 colori più importanti. Oltre agli 11 identificati da Berlin e Kay [32] vennero individuati anche beige/tan, olive e violet. Nel secondo (Color Composition Experiment) venivano presentate ai soggetti 40 immagini fotografiche in sequenza e veniva chiesto loro di nominare tutti i colori presenti in queste immagini utilizzando nomi di colore comuni ed evitando nomi rari. Qualora venissero riscontrati colori difficili da definire, veniva suggerito di descriverli in termini di altri colori. Negli ultimi due (Color Naming Experiments) venivano presentati ai soggetti i 267 centroidi dal dizionario ISCC-NBS e veniva chiesto loro di nominarli. La differenza tra i due stava nel fatto che nel primo venivano mostrati più colori insieme, nel secondo venivano mostrati uno alla volta. Anche qui si chiedeva di usare nomi e modificatori comuni e di evitare nomi derivati da oggetti e materiali. Per quanto riguarda il primo esperimento si trovarono 11 colori basici nella lista di ogni soggetto. Nove soggetti inclusero beige e quattro inclusero violet. Non vennero inclusi modificatori di nessun tipo (tinta, saturazione, chiarezza). Nove soggetti elencarono più di 14 colori. I vocaboli utilizzati rimasero all incirca gli stessi nell esperimento di descrizione di immagini, con l aggiunta di modificatori, utilizzati solo per distinguere tra diversi tipi della stessa tinta in una singola immagine. Il livello più alto di precisione venne raggiunto negli ultimi due esperimenti, in cui vennero spesso utilizzati modificatori, creati sia unendo due nomi di tinte generiche con un trattino, sia attaccando il suffisso -ish al termine del colore più lontano Sette soggetti usarono olive, pur non avendolo elencato nel primo esperimento. I modificatori brilliant e deep non vennero usati. Si riscontrò grande accordo intersoggettivo tra i soggetti nella scelta dei nomi, che nella 176

179 maggioparte dei casi corrispondevano a quelli presenti nel ISCC-NBS. La differenza principale tra questo dizionario e i nomi usati stava nei modificatori di saturazione. I colori apparivano meno saturi ai soggetti, i quali generalmente applicavano soglie percettive più alte quando anteponevano modificatori come vivid, strong e grayish. Per quanto riguarda le due liste di nomi generate dai due esperimenti di color naming, va detto che i nomi presenti nel dizionario ISCC-NBS vennero modificati per riflettere l opinione della maggioranza dei soggetti. Tra le due liste si riscontrò un buon accordo, l unica differenza riguarda l uso dei modificatori di chiarezza. Lo stesso colore era spesso percepito più chiaro nel riquadro piccolo rispetto che nella finestra più grande. Per il dizionario finale Mojsilović adottò la lista di colori generata dal primo dei due esperimenti di color naming, in quanto questi nomi sono stati generati nell interazione con altri colori e l autrice sente questa scelta come migliore rappresentante delle applicazioni del mondo reale. Ecco la sintassi che genera questi nomi: < color name > ::= < chromatic name > < achromatic name > < chromatic name > ::= < lightness >< saturation >< hue > < saturation >< lightness >< hue > < achromatic name > ::= < lightness >< achromatic term > < lightness > ::= blackish verydark dark medium light verylight whitish < hue > ::= < generic hue > < halfway hue > < quarterway hue > < generic hue > ::= red orange brown yellow green blue purple pink beige olive < halfway hue > ::= < generic hue > < generic hue > < quarterway hue > ::= < ish form >< generic hue > < ish form > ::= reddish brownish yellowish greenish bluish purplish pinkish < achromatic term > ::= < generic achromatic term > < ish form > < generic achromatic term > < generic achromatic term > ::= gray black white Omettendo la luminosità o la saturazione queste vengono assunte medie. Solo tinte adiacenti possono essere combinate per formare <halfway hue> e <quarterway hue>. Questa sintassi permette anche di descrivere il colore a diversi livelli di accuratezza. Al livello fundamental i nomi sono espressi come <generic hue> o <generic 177

180 achromatic hue>. Al livello coarse, i nomi sono espressi come <luminance>, <generic hue> oppure <luminance>, <generic achromatic hue>. Al livello medium i nomi si ottengono aggiungendo <saturation> alla descrizione relativa al livello precedente. Al livello minute si utilizzano <color name> completi come specificato nella sintassi sopra esposta. Questi diversi livelli di accuratezza corrispondono a diversi modelli di color naming nei linguaggi umani. Per esempio, noi usiamo il primo livello quando ci riferiamo ad oggetti ben conosciuti o quando l informazione relativa al colore non è ritenuta importante (es. Color Listing Experiment). Secondo questo studio la descrizione di immagini fotografiche verrebbe formulata con una precisione che corrisponde ai livelli coarse o medium (Color Composition Experiment), mentre il livello più dettagliato (minute) verrebbe usato tipicamente nella descrizione di campioni di colore isolati (Color Naming Experiments) o oggetti e regioni specifiche (Color Composition Experiment). Gli esperimenti condotti in questo studio portano alla luce il fatto che molti dei termini presenti nell ISCC-NBS non sono ben compresi dal pubblico generale. L obiettivo era però quello di correggere solo la sintassi di questi nomi e non i valori dei prototipi corrispondenti. Il lessico così ottenuto può quindi essere visto come un ISCC-NBS rinominato, poiché opera sullo stesso insieme di prototipi del modello ISCC-NBS. Le differenze tra i due sono: 1) i prototipi di colore che non sono stati percepiti consistentemente dai soggetti sono stati rimossi dal modello e 2) alcuni dei nomi dell ISCC-NBS sono stati modificati per riflettere la maggioranza delle decisioni soggettive. Una volta realizzato questo dizionario dei nomi di colore, è stato sviluppato un algoritmo per assegnare un nome ad un colore input arbitrario. Quello che si vede in figura 9.3 è un esempio del risultato a cui si giunge per mezzo di questo modello. Ad esempio, a partire da un immagine, il modello è in grado di assegnare delle descrizioni linguistiche, ovvero dei nomi, ai colori presenti nella stessa. Ciò avviene in un modo che si avvicina molto al comportamento umano. 9.6 Il sistema X11 Questo dizionario contiene 657 termini di colore, anche se convenzionalmente si parla di 455 poiché nel numero complessivo sono incluse ben 202 variazioni di grigio, da gray0 a gray100 e da grey0 a grey100. Ad ogni identico colore grigio viene attribuito un duplice nome di colore, uno espresso utilizzando la forma lessicale gray, e uno che utilizza la forma grey. Ciò avviene anche in altri dizionari di colore, tuttavia non è del tutto chiaro il motivo che spinge all adozione di questo metodo, che rende molto più confuso il sistema e rende più alto, ma inutilmente (dato che si tratta degli stessi identici colori), il numero dei termini a disposizione. Gray e grey sono semplicemente due varianti ortografiche, la prima usata prevalentemente negli Stati Uniti, la seconda nel Regno Unito. 178

181 Figura 9.3: In alto varie rappresentazioni della stessa immagine, in basso una tabella con i vari livelli di descrizione linguistica previsti dal modello e la descrizione fornita dai soggetti. Tratto da [133]. Per quanto riguarda gli altri termini di colore, la struttura usata ricorre spesso all uso di numeri accanto alle descrizioni linguistiche. Oltre al nome base (es. turquoise), esistono infatti nella maggiorparte dei casi altre 4 descrizioni identiche del nome, ma con l aggiunta di numeri da 1 a 4. Ad esempio, oltre a turquoise, abbiamo turquoise1, turquoise2, turquoise3, turquoise4. Come è evidente, queste descrizioni linguistiche appaiono assolutamente poco intuitive, in quanto non risulta chiara la differenza tra la forma base e quelle successive e a quale livello sia la differenza (saturazione, chiarezza, ecc). Di tutti i termini singoli presenti nel dizionario, elencati qui di seguito, una piccola parte, indicata nell elenco con un asterisco, non segue questo tipo di struttura (forma base, forma base1, forma base2, forma base3, forma base4). Non è chiara però la ragione per cui 12 termini siano esclusi da questo trattamento. 179

182 - turquoise - cyan - coral - linen* - azure - aquamarine - tomato - beige* - snow - chartreuse - pink - black* - bisque - orange - magenta - white* - green - sienna - chocolate - peru* - gold - brown - purple - violet* - khaki - yellow - firebrick - mocassin* - wheat - thistle - maroon - lavender* - honeydew - red - plum - navy* - ivory - orchid - goldenrod - gainsboro* - seashell - blue - grey* - tan - salmon - gray* Alcune di queste parole sono semplici, altre complesse, ad esempio honeydew, seashell e firebrick. Ad un analisi semantica risulta evidente come, accanto a nomi di colore astratti, ci siano molti termini presi a prestito da nomi di oggetti e di vegetali, come nel caso di snow, wheat, ivory, plum, lavender, tomato, di animali, come nel caso di salmon, e di luoghi geografici, come sienna, magenta e peru. Questi termini non sono propriamente termini di colore, e in molti esperimenti di color naming non vengono presi in considerazione. I termini di colore composti invece si possono formare in tre modi diversi: Semplice anteposizione di un modificatore di chiarezza o saturazione al nome del colore, come dark blue. Anteposizione di un nome di oggetto al nome del colore, ad esempio steel blue. Al nome così ottenuto è possibile poi anteporre un modificatore, come in light steel blue. Combinazione di due nomi di colore, in cui il colore principale sta al secondo posto, mentre il primo modifica il secondo, come yellow green, che è prevalentemente un verde che però tende al giallo. Questo è il modo di creare nomi composti che si trova nella quasi totalità dei dizionari di colore analizzati. Nell indagare la struttura di questi ultimi termini emergono debolezze ulteriori. Prima di spiegarle diamo un elenco di questi termini in tabella, limitandoci ai colori blue e green che sono quelli maggiormente rappresentati linguisticamente e che ci servono da campione anche per gli altri. Innanzitutto va detto che non tutti le parole semplici o complesse viste nell elenco precedente vengono riprese per ulteriori suddivisioni, anzi, solo per ventuno di esse ciò accade. Anche in questo caso la distribuzione tra termini che possiedono le 4 varianti (forma base ) oltre alla forma base non è chiara. Perché ad esempio light blue possiede le altre 4 varianti, ma ciò non accade per medium blue e dark blue? Questo accade anche ai livelli successivi: sea green si divide in light sea green, medium sea green e dark sea green, ma solo dark sea green riconosce le 4 varianti. 180

183 Blue Sky blue, 1, 2, 3, 4 Light sky blue, 1, 2, 3, 4 Deep sky blue, 1, 2, 3, 4 Steel blue, 1, 2, 3, 4 Light steel blue, 1, 2, 3, 4 Slate blue, 1, 2, 3, 4 Medium slate blue Dark slate blue Light slate blue Royal blue, 1, 2, 3, 4 Dodger blue, 1, 2, 3, 4 Cadet blue, 1, 2, 3, 4 Light blue, 1, 2, 3, 4 Alice blue Cornflower blue Medium blue Dark blue Midnight blue Navy blue Powder blue Green Sea green, 1, 2, 3, 4 Light sea green Dark sea green, 1, 2, 3, 4 Medium sea green Spring green, 1, 2, 3, 4 Pale green, 1, 2, 3, 4 Dark olive green, 1, 2, 3, 4 Forest green Lime green Lawn green Yellow green Light green Dark green Medium spring green Tabella 9.2: Elenco dei termini relativi ai colori blue e green tratti dal dizionario X11. Per quanto riguarda l uso dei modificatori, vengono utilizzati prevalentemente quelli riferiti alla chiarezza: light, medium e dark; in un solo caso viene usato dim, cosa che forse andava evitata: non ha senso introdurre del materiale che rende più pesante la struttura per usarlo in un solo caso. In alcuni casi vengono usati anche deep e pale, che si riferiscono sia alla chiarezza che alla saturazione. Non vengono mai usati modificatori di saturazione. Il loro utilizzo segue però una struttura molto irregolare, come si evince dalla tabella in cui ad esempio troviamo dark olive green, ma non il livello base di questo, olive green. Ancora, troviamo light green e dark green, ma non medium green. Allo stesso modo, per quanto riguarda il blu, slate blue si suddivide in medium slate blue, dark slate blue e light slate blue. Tuttavia steel blue ri- 181

184 conosce solo light steel blue, mentre sky blue riconosce solo light sky blue e deep sky blue. Il colore giallo riconosce un solo grado di chiarezza (light). Troviamo anche light goldenrod yellow, senza che vi sia traccia di goldenrod yellow. La decisione di ripetere tutti i termini di colore grigio due volte, utilizzando le due varianti del termine, viene comunque disattesa. Slate gray infatti si suddivide nei quattro sottogruppi (slategray1... slategray4 ), ma ciò non avviene per slate grey che presenta solo la forma base. Lo stesso vale per dark slate gray (dark slate gray... dark slate gray4 ) e per dark slate grey. Probabilmente si tratta di dimenticanze. L utilizzo di nomi di colori come modificatori del colore base (es. yellow green) non è molto ampio. Si riscontra invece un alto numero di termini poco formali come white smoke, burly wood, old lace, olive drab e molti altri. Va però notato che questi termini vengono usati dalla maggiorparte dei dizionari di colore. 9.7 Il sistema Hollasch Il dizionario Hollasch comprende 190 termini di colore, anche se tra questi presenta un colore ripetuto due volte, ma che presenta due codici esadecimali diversi (goldenrod light e light goldenrod). La prima cosa evidente è che questo dizionario utilizza nella maggiorparte dei casi l aggettivo modificatore in seconda posizione anziché in prima. Si trovano quindi blue light, green pale ecc, ma allo stesso tempo in alcuni casi viene mantenuta la struttura abituale, come in dim grey, dark orange ecc. Il fatto di anteporre il termine modificato al modificatore, pur essendo agrammaticale nella lingua inglese, potrebbe essere dettato dal fatto che in questo modo l elemento più importante, la tinta, possa essere individuato per primo, o in tempi più brevi. Tuttavia questa scelta, qualora abbia una sua ragione di esistere, dovrebbe essere usata in modo coerente. Inoltre, questo procedimento viene usato solo per i termini modificatori di saturazione e chiarezza, e non per i termini di oggetti o per gli altri aggettivi che possono precedere e modificare l attributo di tinta (es. chrome oxide green, venetian red). I termini utilizzati sono prevalentemente quelli utilizzati nell X11. La maggiorparte dei composti nascono dall anteposizione di nomi di oggetti al termine che denota la tinta, mentre i modificatori di saturazione e chiarezza sono usati molto poco, così come l unione di due termini di colore. I modificatori utilizzati sono medium, light, dark (chiarezza) e deep e pale. Anche in questo dizionario si riscontrano alcune irregolarità strutturali. Alcuni esempi: troviamo cadmium red deep e cadmium red light, ma manca cadmium red. Troviamo olive green dark, ma non olive green (anche se c è olive). Anche questo dizionario, infine, si avvale di un alto numero di termini fantasiosi e poco formali. 182

185 9.8 Il sistema Resene La Resene Paints Limited, a cui si deve la creazione di questo dizionario, è una delle aziende private più grandi della Nuova Zelanda che operano nel settore delle vernici. Il loro dizionario contiene un numero altissimo di termini di colore, precisamente 1383, con i quali copre un ampissima porzione dello spazio CIELAB in maniera uniforme. Avendo un numero così alto di termini, è inevitabile che molti di essi siano specifici di questo sistema, nonostante ciò la loro organizzazione e ampiezza di copertura rende questo sistema meno confuso e più utile rispetto ad altri. Ha comunque dei difetti, ad esempio, il bianco di riferimento è stato fissato troppo alto e il nero di riferimento troppo basso, così che molti colori hanno componenti RGB di 255 o al contrario di 0. Dal 2001, data della realizzazione di questo dizionario, la Resene Paints Limited ha acquisito molte nuove aziende, e di conseguenza i loro colori sono stati incorporati nel suo palette, che ora conta più di 2400 colori. Il numero dei nomi, nella versione del 2007, è quindi quasi raddoppiato. Il bianco e il nero di riferimento sono stati modificati. Al di là della copertura uniforme dello spazio CIELAB, è subito evidente la difficoltà per l utente di gestire un numero così ampio di termini, che risulta quindi controproducente soprattutto alla luce di un veloce esame dei termini utilizzati, che sono raramente composti da quelli che intuitivamente riconosciamo tutti come nomi di colore. Gli unici modificatori di saturazione e chiarezza che compaiono, anche se non assiduamente, sono dark, pale e deep. Essi vengono anteposti sia a termini di oggetti, come in dark rum, che a termini di colore, come in dark tan. I termini utilizzati brillano certamente per la loro originalità e fantasiosità, ma quasi sempre il nome non denota in nessun modo il colore a cui è legato. C è un uso ampissimo di termini geografici, talvolta da soli (es. Kabul, Tuscany, Nevada, London hue), altre volte forniti di un piccolo suggerimento che ci permette di capire almeno che colore sia (es. Paris white, Oslo grey, Morocco brown). Troviamo anche termini in altre lingue, soprattutto in italiano e spagnolo (es. melanzane, fuego, hacienda, vida loca). Tra i nomi più fantasiosi e di cui è impossibile, a partire dal nome stesso, capire il riferimento cromatico: kidnapper, mirage, eternity, creole, morning glory, affair, gossip, Bonjour, Just right, half and half, flirt, rolling stone, lucky, camouflage, horsesneck, shocking, charm, lucky point, endeavour, illusion. Molti nomi si rifanno a personaggi della politica, letteratura, arte, mitologia, fiabe: Castro,Botticelli, Calypso, Shakespeare, Cinderella, Crusoe. Vengono usati molti nomi propri di persona: Charlotte, Edward ecc. Difficile è anche intuire la differenza tra double spanish white, half spanish white e quarter spanish white. Se ci trovassimo di fronte a questo elenco di termini senza sapere cosa riguardi, difficilmente capiremmo che si tratta di un dizionario di colore (salvo incappare in uno dei rari green o blue sparsi qua e là), piuttosto ci apparirebbe come un elenco di termini tratti dai domini semantici più disparati, ma che non presentano alcun tipo di legame tra loro. 183

186 9.9 Il sistema Crayola Anche la famosa azienda produttrice di pastelli a cera Crayola ha creato un proprio dizionario. Questo è consultabile anche sul loro sito web 2, dove ogni colore, in tutto 120, viene mostrato attraverso una sorta di scarabocchio su uno sfondo bianco (ad eccezione di quello bianco che si trova su sfondo nero). Crayola non dà alcun dettaglio tecnico della loro metodologia di misurazione, ma è chiaro che il controllo del processo di colore non è il loro obiettivo primario. I colori scelti non sono uniformemente distribuiti nello spazio CIELAB, ma sono presenti zone molto più rappresentate di altre. I termini di colore sono volutamente fantasiosi trattandosi di un dizionario che non ha pretese scientifiche. Non vengono usati modificatori di saturazione e chiarezza Dizionari nati da esperimenti sul web: il sistema CNE Nel 2003 Moroney [129] presentò il suo lavoro di creazione di un sito web 3 nel quale i visitatori venivano invitati a sottomettere nomi per sette colori scelti casualmente nello spazio srgb. In figura 9.7 viene mostrata la grafica del test. I nomi raccolti in questo modo vennero esaminati accuratamente e, dopo aver calcolato la media, venne creato il dizionario CNE, da Color Naming Experiment. Lo scopo dello studio era di indagare sui vantaggi e gli svantaggi nell uso di un esperimento visivo online nell esplorare il tema generale del color naming. Moroney tenta questo nuovo approccio basato sul web per raccogliere nomi o categorie di colore, allontanandosi da quello già conosciuto dei test in ambiente controllato che richiedevano un alto numero di osservazioni da parte di un basso numero di osservatori, oltre a limitare le risposte a termini singoli e non composti. L esperimento mira a raccogliere un basso numero di risposte da un alto numero di soggetti (possibilità offerta dall uso di uno strumento come Internet), facendo uso della psicofisica distribuita. In essa la richiesta di tempo per ogni osservatore è ridotta ad un minimo avendo un ampio numero di soggetti, nessuno dei quali completa l intero test dando un nome a tutti i (216) colori test. Ciò riduce l impatto di ogni partecipante e offre un modo per ridurre l effetto di multiple sottomissioni e di osservatori falsi, oltre a permettere di ottenere un lessico di colori più ricco, che risulta dall alto numero di soggetti, che altrimenti sarebbe stato difficile da raccogliere. Inoltre questo esperimento non limita né restringe le risposte in alcun modo. L analisi dei colori focali si basa in questo studio sull analisi statistica dei colori che sono stati indicati con parole singole. Fa quindi uso della monolexicality come criterio per l analisi dei colori focali. Va detto che solitamente l analisi dei Moroney/color-name-hpl.html 184

187 colori focali viene condotta attraverso il riconoscimento, da parte dei soggetti, di un tassello colorato all interno di un insieme di tasselli colorati, che risulta al soggetto il migliore rappresentante di quel colore. Infine Moroney offre un analisi più dettagliata dei colori non basici, tema spesso ignorato. I vantaggi identificati da Moroney relativi a questo tipo di esperimento sono: accesso ad un ampio numero di osservatori, automatismo, minima interazione tra osservatore e sperimentatore, processo diretto dall input all analisi e inclusione di fonti di variabilità del mondo reale. Gli svantaggi sono: mancanza di controllo di hardware, software e condizioni visive, il feedback non avviene in tempo reale e non esistono chiarificazioni interattive, difficoltà di controllare l osservatore, possibilità di utenti maliziosi o che vogliono creare problemi (l anonimato non è un incentivo all onestà o alla buona fede)e inclusione di fonti di variabilità del mondo reale. Come si può notare, l inclusione di fonti di variabilità del mondo reale costituisce allo stesso tempo un vantaggio e uno svantaggio. Esistono molte altre variabili, molte legate al computer con il quale l esperimento viene eseguito (ad esempio età, scheda video, calibrazione dello schermo, pulizia, tecnologia del display, browser utilizzato) altre legate all ambiente (ad esempio il colore della stanza e il livello di illuminazione dell ambiente), altre ancora legate all utente stesso (ad esempio età, genere, esperienze, motivazione, deficit e anomalie visive, predisposizioni ed influenze, livello di competenza in inglese). A fronte di tutti questi svantaggi e delle molte fonti potenziali di variazione del colore che entrano in gioco Moroney cita Martin [134]: The more highly controlled the experiment, the less generally applicable the results.... if you want to generalize the results of your experiment, do not control all of the variables. Come si vede in figura 9.7 all osservatore viene chiesto di usare i migliori nomi di colore possibili per nominare i quadrati di colore mostrati. Ciò viene lasciato intenzionalmente il più vago possibile per non influenzare il soggetto. Non ponendo limiti sul tipo di nomi da utilizzare, Moroney ottiene dei risultati che gli danno un indicazione su quanto spesso gli osservatori naïve a cui non vengono posti vincoli utilizzino nomi costituiti da parole singole piuttosto che nomi composti. Idealmente, l esperimento era costruito per essere sufficientemente breve e facile in modo da non far perdere troppo tempo ai soggetti pensando a come chiamare i colori, utilizzando piuttosto un criterio di attribuzione di nomi più naturale. Il 54% dei soggetti, pur non avendo ricevuto questa istruzione, utilizzò termini singoli. Nomi composti da due parole vennero usati 42% delle volte, mentre solo 4% delle volte vennero usati nomi composti da più di due parole. I soggetti usarono 27% delle volte termini di colore basici e 27% termini non basici costituiti da una sola parola. Termini basici e non basici vennero usati quindi equamente, e ciò potrebbe essere un indicatore del fatto che l esclusione di quelli non basici in molti esperimenti potrebbe avere portato a dei risultati quantomeno imprecisi o parziali. In figura 9.4 possiamo vedere la frequenza dei 185

188 Figura 9.4: Frequenza relativa nell uso dei 20 nomi di colore più comunemente usati. venti termini più usati. Come si può notare, oltre all uso ampissimo di green e blue, nelle prime dieci posizioni troviamo anche termini di colore non basici, come lime, dark, light. Altro punto interessante è l utilizzo del suffisso -ish con tutti i colori basici ad eccezione di black e white, fatto che solleva alcune questioni inerenti il potenziale distributivo dello stesso, che potrebbe essere più legato a gradazioni di tinta, mentre black e white sono più vicini a dei colori assoluti. Nel momento in cui l articolo venne completato, Moroney sostiene di aver raccolto 4907 nomi di colori a partire da circa 700 partecipanti. Ovviamente la raccolta dei dati continua tuttora e l esperimento è stato allargato ad altre venti lingue, incluso l italiano. Tuttavia, come lamenta Beretta [135], suo collaboratore, solo per la lingua inglese sono stati raccolti sufficienti dati per la creazione di un dizionario significativo. Per le altre lingue, la raccolta dei dati si rivela molto più difficoltosa, nonostante gli sforzi compiuti, anche perché c è un alta percentuale di ridondanza che si concentra attorno ai nomi più frequenti, data l autonomia con cui i soggetti operano. Beretta lamenta anche la variabilità per quanto riguarda i nomi più rari, per i quali è più difficile raccogliere dati. Nel 2007 Moroney giunse ad un dizionario dei colori 4 basato sui nomi raccolti in questo studio. Entrando in questa pagina, l utente può cercare il nome di un colore. Una volta trovato, potrà vederlo nel riquadro a sinistra e potrà leggerne le coordinate in srgb e il codice esadecimale. Viene data anche un indicazione relativa alla frequenza con la quale il termine viene usato (es. rarely used, less commonly used, widely used). In basso troverà la colonna dei sinonimi e quella dei contrari. Si veda la figura 9.5. Nella versione italiana è previsto anche uno spazio in cui lasciare un giudizio, elemento importante in esperimenti online in cui non si sa nulla sulla compe- 4 Moroney/color-thesaurus.html 186

189 Figura 9.5: Grafica relativa al dizionario dei colori con un esempio di nome di colore. tenza dei soggetti. A loro viene chiesto di giudicare l associazione del colore nel quadrato con il nome assegnato, assegnando a questa corrispondenza un valore da 1, se i due non combaciano affatto, a 5 nel caso in cui la corrispondenza sia ritenuta perfetta. Nel caso in cui invece il colore richiesto dall utente non sia presente nel dizionario, gli verrà offerta la possibilità di costruirlo attraverso un dispositivo simile ad un telecomando, creato anche per rendere più interessante e divertente l interfaccia, che suggerisce un comportamento che ricorda quello dei video games e che permette di proporre un colore premendo ripetutamente sui pulsanti colorati. Anche questo vale solo per la versione italiana. Il dizionario presenta un numero di termini molto ampio (865 circa). Un colore viene inserito nel dizionario solo quando un determinato numero di utenti lo definisce con lo stesso nome. Tuttavia, più di 800 nomi di colore costituisce un numero molto alto ed è evidente che per arrivare a raggiungerlo è necessario includere anche nomi molto poco usati. Per questo motivo, navigando attraverso questo strumento scopriamo anche molti colori abbastanza insoliti. È abbastanza particolare il fatto che i soggetti, posti di fronte ad un colore e chiesto loro di attribuirgli un nome, abbiano pensato, o pensino, a nomi come salad, dirt, hunter, happy, princess, clear ecc. Traducendo questi termini in italiano risultano dei nomi che difficilmente useremmo per designare dei colori. Probabilmente si tratta di termini che sono associati a determinati colori da un gruppo linguistico che è quello anglosassone, legati a fattori culturali diversi dai nostri: il fatto di riscontrare il nome di colore rootbeer, nome di una bevanda molto conosciuta e venduta solo in America, ne può essere una prova. Il forte legame con questi fattori culturali risulta dal fatto che non sono termini scelti casualmente dal creatore del dizionario, ma sono invece termini che gli utenti hanno identificato come quelli che meglio possono descrivere un determinato colore. È stata riscontrata la presenza di rouge e noir, oltre ai termini inglesi red e black. Le due coppie corrispondono però a colori diversi, essendo le coordinate che li identificano diverse. Ancora, nel dizionario troviamo i termini 187

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