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ovvero. Agenda un po insolita per appunti.. mica tanto frettolosi con il gradito contributo del Centro Studi O. Baroncelli N 04/2015 Napoli 26 Gennaio 2015 (*) Gentili Colleghe e Cari Colleghi, nell ambito di questa collaudata e gradita iniziativa editoriale di comunicazione e di immagine, collegata alla instancabile attività di informazione e di formazione che caratterizza il CPO di Napoli. Oggi parliamo di. IL CONTRATTO DI LAVORO NON PUO' RITENERSI RISOLTO PER MUTUO CONSENSO A SEGUITO DELLA SEMPLICE INERZIA DEL LAVORATORE DOVENDOSI, EX ADVERSO, VERIFICARE LA REALE VOLONTA' DELLE PARTI. CORTE DI CASSAZIONE SENTENZA N. 23 DEL 7 GENNAIO 2015 La Corte di Cassazione, sentenza n 23 del 7 gennaio 2015, ha statuito che la semplice inerzia del lavoratore, ed il conseguente decorso del tempo, non sono da soli sufficienti a far ritenere risolto il rapporto di lavoro per mutuo consenso dovendosi, ex adverso, valutare l'esistenza di una chiara e comune volontà in tale direzione. Nel caso in disamina un dipendente, assunto da Poste Italiane Spa con un contratto a tempo determinato della durata di un mese, adiva la Magistratura chiedendo la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ed il conseguente pagamento delle retribuzioni medio tempore maturate, per l'illegittimità della causale addotta a fondamento dell'apposizione del termine. I Giudici di merito respingevano le richieste del prestatore ritenendo che, in ogni caso, il rapporto di lavoro era da ritenersi cessato, per mutuo consenso, in quanto, per ben quattro anni dallo spirare del termine, poi 1

decretato illegittimo, il subordinato era restato del tutto inerte senza manifestare alcun evidente interesse al lavoro. Inevitabile il ricorso in Cassazione. Orbene, gli Ermellini, nel ribaltare il deliberato di prime cure, hanno sottolineato che l'inerzia del lavoratore, ed il connesso decorso del tempo, non sono elementi sufficienti, da soli, per poter far ritenere sussistente una risoluzione contrattuale per mutuo consenso essendo, invece, necessario accertare (anche) una comune volontà delle parti, certa e chiara, di voler effettivamente risolvere il rapporto. Allo stesso modo, non possono essere ritenute, quali manifestazioni di volontà incontrovertibili, la materiale accettazione del trattamento di fine rapporto o la mancata offerta della prestazione lavorativa da parte del subordinato. Pertanto, atteso che nel caso in commento, nel corso del procedimento istruttorio, non erano emersi elementi tali da poter essere considerati manifestazione di una volontà certa e tangibile di risolvere il rapporto di lavoro, i Giudici di legittimità hanno sancito il reintegro del lavoratore a tempo indeterminato. LA RENDITA PER INABILITA' PERMANENTE NON PUO' ESSERE RICONOSCIUTA SE IL DIPENDENTE ERA GIA' AFFETTO DALLA PATOLOGIA E L'ATTIVITA' LAVORATIVA E' CAUSA DEL SOLO ACUTIZZARSI DELLA SINTOMATOLOGIA DOLOROSA. CORTE DI CASSAZIONE SENTENZA N. 70 DELL 8 GENNAIO 2015 La Corte di Cassazione, sentenza n 70 dell 8 gennaio 2015, ha statuito che la rendita per inabilità permanente non compete al dipendente già precedentemente affetto dalla patologia se l'evento traumatico comporta solo l'aumento della sintomatologia dolorosa. Nel caso de quo, un dipendente, nel sollevare un blocco di pietra di circa 30 kg, pativa un aggravamento dell'ernia discale, da cui già era affetto, con conseguenze particolarmente dolorose. I Giudici di merito, aditi dal prestatore, si pronunciavano in modo non uniforme: in I grado riconoscevano sia l'indennizzo per l'inabilità temporanea 2

che la rendita per quella permanente, per poi confermare, in Appello, solo il trattamento economico temporaneo. Orbene, i Giudici di Piazza Cavour, aditi in ultima battuta per dirimere i contrasti di merito, hanno sottolineato che, laddove la patologia, non causata dalla prestazione lavorativa, sia preesistente all'evento traumatico, fonte del solo aggravamento dello stato di salute, con conseguente acutizzarsi della sintomatologia dolorosa, non è possibile riconoscere la rendita per inabilità permanente essendo mancante l'imprescindibile nesso eziologico evento/lesione. Pertanto, atteso che nel caso in disamina la patologia era già preesistente, e l'attività lavorativa, causa del solo aggravamento, veniva normalmente espletata dal subordinato, i Giudici del Palazzaccio hanno negato il diritto alla rendita permanente confermando, invece, quello per inabilità temporanea. E LEGITTIMO IL LICENZIAMENTO DEL LAVORATORE CHE, ASSEGNATO A MANSIONI DIFFERENTI PER IL SUO STATO DI SALUTE, CONTINUI A SVOLGERE ATTIVITA FISICA EXTRA LAVORATIVA INCOMPATIBILE. CORTE DI CASSAZIONE SENTENZA N. 114 DEL 9 GENNAIO 2015 La Corte di Cassazione, sentenza n 114 del 9 gennaio 2015, ha confermato la legittimità del licenziamento intimato ad un lavoratore per aver svolto attività sportiva compromettente il recupero delle sue energie fisiche e della sua capacità lavorativa. Nella fattispecie de quo, un lavoratore, assegnato a mansioni differenti e ridotte in conseguenza di una compromissione della propria integrità fisica, senza riferire alcunché al datore di lavoro, aveva continuato a svolgere una pratica sportiva del tutto incompatibile con le sue condizioni fisiche, creando le condizioni per il rischio di aggravamento delle condizioni stesse. Il comportamento, grave e lesivo del rapporto fiduciario, sfociava nel provvedimento del licenziamento disciplinare. La Corte d Appello di Torino rigettava la domanda del lavoratore tesa alla declaratoria di illegittimità del provvedimento, in relazione alla proporzionalità del fatto addebitato. Avverso la sentenza ha proposto ricorso il lavoratore adducendo che gli invocati obblighi di correttezza e buona fede non potevano trasformarsi nel dovere di 3

organizzare la propria vita in funzione della massimizzazione delle proprie capacità di rendimento lavorativo. Orbene, la Suprema Corte, nel rigettare il ricorso proposto, ha preliminarmente ricordato che l obbligo di fedeltà carico del lavoratore subordinato ha un contenuto più ampio di quello risultante dall art. 2105 c.c., dovendo integrarsi anche con gli artt. 1175 e 1375 c.c. che impongono correttezza e buona fede anche nei comportamenti extra lavorativi, necessariamente tali da non danneggiare il datore di lavoro. La Corte del merito, hanno concluso gli Ermellini, sostanzialmente si è attenuta alla precisata regula iuris poiché, dopo aver accertato che l attività sportiva svolta dal subordinato non era compatibile con le sue condizioni fisiche che avevano ridotto la sua capacità lavorativa con rischio di aggravamento, ha giustamente ritenuto che siffatto comportamento fosse contrario ai doveri di buona fede e correttezza, anche ai fini della proporzionalità della sanzione. IL CEDENTE E TENUTO A VERIFICARE LA VERIDICITA DELLA LETTERA DI INTENTO. CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA - SENTENZA N. 176 DEL 9 GENNAIO 2015 La Corte di Cassazione Sezione Tributaria -, sentenza n 176 del 9 gennaio 2015, ha statuito che il fornitore dell esportatore abituale è responsabile del mancato addebito dell IVA in fattura se non dimostra di avere esperito una minima indagine sull apparente veridicità della lettera d intento, oltre al mancato coinvolgimento nell attività fraudolenta del cessionario. Nel caso in specie, a carico di una società, l Agenzia delle Entrate emetteva avviso d accertamento per l anno 2002 con il quale contestava l imponibilità IVA di una cessione di merci eseguita nei confronti di un esportatore abituale. L ufficio, accertata la falsità della dichiarazione di intento resa dal cessionario, contestava il pagamento dell IVA anche al cedente per aver partecipato all operazione fraudolenta posta in essere dal cessionario. La società impugnava l avviso dinanzi alla giustizia tributaria risultando vincitrice in entrambi i gradi di giudizio. In particolare, i Giudici di merito annullavano l avviso sul presupposto che non incombe alcun obbligo in capo al cedente, se non di verificare che l operazione cui si riferisce la dichiarazione di 4

intenti rilasciata dal cessionario, sia conforme alle previsioni di cui all art. 8, lettera c), D.P.R. n. 633/1972. Avverso la sentenza della CTR, l Agenzia ricorreva in Cassazione. Come noto, l art. 8, lettera c), D.P.R. n. 633/1972, prevede che gli esportatori abituali possono acquistare beni e servizi senza corrispondere l IVA nei limiti di un plafond basato sulle cessioni effettuate l anno precedente. Prima di acquistare dai fornitori nazionali tali soggetti devono rilasciare una dichiarazione di intento nella quale sono comunicati al cedente i caratteri dell operazione. Ebbene, i Giudici del Palazzaccio, con la sentenza de qua, hanno capovolto integralmente la sentenza dei Giudici di secondo grado, rilevando che essi non avevano preso in considerazione la falsità della dichiarazione di intento e la relativa fittizietà dell operazione ed, inoltre, avevano erroneamente ritenuto il cedente esente da qualsiasi adempimento di verifica. In particolare, gli Ermellini, hanno affermato che il beneficio fiscale non può fondarsi soltanto sull esistenza della dichiarazione di intento poiché, in caso di falsità, il fornitore deve provare di essere estraneo all azione fraudolenta del cessionario e di non sapere che i beni sarebbero stati destinati al mercato interno. In nuce, il fornitore può ritenersi non responsabile soltanto se abbia adottato una condotta diligente volta ad assicurarsi sia della regolarità della lettera d intento, sia che la cessione effettuata non avrebbe comportato una sua partecipazione alla frode commessa dal cessionario. Si segnala che la suddetta ordinanza si pone in linea con altre sentenze di legittimità in subiecta materia (cfr. Cass. n. 23610/2011, Cass. n. 12751/2011). 5

SEQUESTRO DEI BENI DELL AMMINISTATORE SOLTANTO SE NON VI SONO BENI DI PROPRIETA DELLA SOCIETA. CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE PENALE - SENTENZA N. 1738 DEL 15 GENNAIO 2015 La Corte di Cassazione Sezione Penale -, sentenza n 1738 del 15 gennaio 2015, si è occupata dell annosa questione relativa all ammissibilità del sequestro strumentale alla confisca per equivalente, dei beni della persona giuridica per i reati di natura tributaria commessi a suo vantaggio ovvero nel suo interesse. Nel caso di specie, la S.C. ha annullato il provvedimento di conferma del Tribunale di Perugia per il sequestro preventivo disposto sui beni dell'amministratore di una S.r.l., indagato per il reato di cui all'articolo 10-ter del D.Lgs n. 74/2000, in quanto, nella sua qualità di legale rappresentante della società, aveva omesso il pagamento dell IVA. In particolare, l amministratore lamentava l'impossibilità di procedere a sequestro preventivo per equivalente sia perché il profitto del reato apparteneva al soggetto che aveva evaso l'imposta di fatto la società sia perché il Pubblico Ministero avrebbe dovuto preliminarmente dimostrare che i beni della società fossero incapienti e/o il profitto non fosse rinvenibile in capo a quest'ultima. Per i Giudici del Palazzaccio, la questione del sequestro diretto, la cui impossibilità costituisce il presupposto del sequestro per equivalente, non era stata considerata dai Giudici di Prime Cure, e ciò non sotto il profilo motivazionale, bensì in punto di diritto, in quanto il medesimo Tribunale aveva negato sostanzialmente che potesse essere disposto alcun sequestro nei confronti della società a cui vantaggio sarebbe stata evasa l'imposta. Ne consegue, pertanto, che prima di procedere al provvedimento cautelare per equivalente nei confronti dell amministratore, è necessario tentare direttamente il sequestro sui beni societari, frutto dell illecito. Sempre che, evidentemente, tale profitto sia rimasto nella disponibilità dell azienda. Ed inoltre, è sempre onere dell interessato, dimostrare l esistenza di beni in capo alla società e, quindi, la sequestrabilità diretta degli stessi. 6

Nel caso de quo, il Pubblico Ministero non aveva provato ad aggredire i beni della società, ma anzi, aveva erroneamente ritenuto non sequestrabili i beni aziendali, neppure per via diretta, sulla base del presupposto che i reati tributari non fanno parte del novero degli illeciti fonte di responsabilità ai sensi del DLgs n. 231/2001. Ad maiora IL PRESIDENTE EDMONDO DURACCIO (*) Rubrica contenente informazioni riservate ai soli iscritti all Albo dei Consulenti del Lavoro di Napoli. Riproduzione, anche parziale, vietata. Con preghiera di farla visionare ai Praticanti di studio!! Ha redatto questo numero la Commissione Comunicazione Scientifica ed Istituzionale del CPO di Napoli composta da Francesco Capaccio, Pasquale Assisi, Giuseppe Cappiello, Pietro Di Nono e Fabio Triunfo. 7