PER FIRSTDRAFT. Il mistero produttività: la coscienza infelice del capitalismo all italiana. Enzo Rullani



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Transcript:

PER FIRSTDRAFT Il mistero produttività: la coscienza infelice del capitalismo all italiana Enzo Rullani La produttività non cresce. Da anni, non da ora. E non cresce soprattutto nel terziario, che poi è l unica parte del nostro sistema che si espande in termini di posti di lavoro. E questa la campanella di allarme su cui Stefano richiama la nostra attenzione dopo l indagine Istat che ha messo in evidenza le basse performances produttivistiche del capitalismo italiano, in generale, e del settore dei servizi in particolare. Per una volta, dice Stefano, nelle parole dei commentatori, non sono le piccole imprese (industriali) ad essere cattive, ma è il settore dei servizi. Le prime sembrano temporaneamente assolte dalle buone performances realizzate con l export e con la dinamica dell innovazione di prodotto e di mercato. Ma i servizi? Eppoi come mai l occupazione aumenta proprio in un settore in cui la produttività media cala? Diciamo innanzitutto che la cosa rispecchia una faccenda di cui si discuteva molto negli anni settanta e ottanta. C è tutta una letteratura sul cosiddetto Baumol desease (malattia da costi descritta da Baumol negli anni settanta), per cui il terziario cresce in quota di occupati sul totale ma, siccome la sua produttività è strutturalmente incapace di crescere in modo paragonabile a quella della manifattura (meccanizzabile), il risultato sarà la stagnazione produttivistica di tutto il sistema e la sua crisi finale (una versione postmarxista dell inevitabile crollo del capitalismo, questa volta ad opera dei perfidi fattorini e camerieri del terziario improduttivo). Solo l Europa e il Giappone, allora, crescevano perché meccanizzavano la manifattura (usando anche tecnologie americane), ma era una fase di decollo, poi anche per loro sarebbe arrivata la stagnazione da costi Nemmeno i computers con i loro poteri di meccanizzazione delle informazioni (immateriali) sembravano cambiare questo destino, da cui il paradosso di Solow: vedo computer ovunque salvo che nelle statistiche sulla produttività. Poi sono arrivati due cavalieri bianchi a salvare le sorti del capitalismo in declino: Internet, che ha capitalizzato il lavoro dei computer moltiplicando per n (elevato) il riuso delle conoscenze; e la globalizzazione, che ha dato una base manifatturiera estesa (mondiale) all intelligenza terziaria che rimaneva nei paesi ricchi, sedi delle multinazionali estese che portano la manifattura nei paesi emergenti. Da allora miracolo! la produttività cresce anche nel terziario. O meglio: nei paesi low cost cresce nella manifattura replicativa. Ma nei paesi ricchi cresce nell intelligenza terziaria, applicata alla tecnologia (Germania, Giappone) o all immateriale (Stati Uniti, UK). Non guardiamo alle classificazioni statistiche: se un azienda chimica fa la ricerca in patria e moltiplica il suo uso attraverso n impianti all estero, nella filiera la sua specializzazione è terziaria, non manifatturiera. Lo stesso vale per la NASA e per la ricerca universitaria, la medicina o per il biotech. Tutte cose che sfruttano la produttività del lavoro speso in intelligenza fluida, non replicativa. La nuova frontiera da stabilire è quella tra attività che sfruttano l intelligenza tecnica delle macchine (conoscenza

replicativa) e quelle che invece sfruttano l intelligenza fluida degli uomini (conoscenza esplorativa) nel fare ricerche sul nuovo, progettare macchine o prodotti innovativi, elaborare e vendere nuove idee, fornire servizi personalizzati in situazioni complesse. Dunque, il capitalismo è guarito dalla malattia da costi. E oggi la produttività si vede dappertutto, anche in attività che una volta ne erano escluse: Internet e globalizzazione sono stati farmaci efficaci. E l Italia? Ha agganciato il treno della produttività manifatturiera (da conoscenze importate) negli anni del miracolo, grazie alle grandi imprese, e negli anni 1970-2000 grazie ai distretti e al loro effetto moltiplicativo (specializzazione, export, economie di scala multi-client). Ma, anche per questa storia alle spalle, non ha mai agganciato il treno della produttività terziaria (Internet + globalizzazione). Anche in questo caso sarebbe sbagliato generalizzare: ci sono fior di aziende terziarie che hanno fatto buon uso delle nuove leve produttivistiche, allineandosi ai trend mondiali. Al CFMT di Milano abbiamo addirittura messo un laboratorio (il t.lab) che ha studiato 100 casi originali di aziende innovative nel terziario e pubblicato due libri sul tema (Il terziario motore dell economia; Innovare che passione, da Angeli). Un terzo libro su ICT e innovazione nei servizi è in uscita. Abbiamo anche partecipato alla fondazione di una nuova rivista (Economia dei servizi) presso il Mulino. La verità è che si è trattato di un percorso solitario. La classica voce che grida nel deserto. La maggior parte dei commentatori come dice Stefano continua a cercare i buoni e i cattivi altrove, nel recinto sempre più ristretto della manifattura. Il resto rimane sullo sfondo, come se fosse poco importante o una variabile dipendente. Invece le leve del nostro futuro stanno nell intelligenza fluida delle persone, ossia nel terziario interno alle grandi aziende (management, ricerca, reti ecc.) e nel terziario delle nuove imprese di servizi che in un sistema decentrato come il nostro sostituiscono quando ci sono - il management interno, che non avrebbe economie di scala sufficienti per svilupparsi in un capitalismo industriale in cui la dimensione media delle imprese è di 9 addetti (nella manifattura). Ma è qui che, come si dice, casca l asino. Perché tutto congiura nell assegnare ai servizi (portatori di intelligenza fluida) un ruolo strategico nell evoluzione del nostro sistema; ma tutto lascia anche pensare che i servizi rimangano in ritardo e che ritardo! nell assumere questo ruolo. Il tutto nell indifferenza generale, che continua a discutere di altro. Come mai i nostri servizi rimangono indietro, anche rispetto a quanto si fa all estero? Qui dobbiamo entrare nel vivo dell Italia, o meglio dell Italietta, che ben conosciamo. Cominciamo dal nostro paradosso: i servizi crescono anche se la produttività cala (Internet e globalizzazione esistono anche per noi da almeno venti anni). Come mai? Una volta si spiegavano effetti del genere con l effetto spugna, nel senso che il servizi assorbono la disoccupazione nascosta, perché consentono a chi non ha altro lavoro di mettere su la botteguccia o il lavoro artigianale di primo soccorso per le tante riparazioni che servono, o per la consegna delle pizze espresso e/o dei pacchi a casa. Ma nel Centro Nord italiano questa spiegazione non regge, almeno nei termini crudi di un tempo (disoccupazione nascosta): non è infatti difficile trovare lavoro, per chi ci tiene, perché l offerta scarseggia anche alle basse qualifiche. 2

Un altra spiegazione possibile del mistero sono le fluttuazioni derivanti dal sommerso: quando il sommerso cresce, la produttività visibile cala, e riemerge con crescite repentine - quando le politiche o le conveniente inducono molti lavori in nero ad emergere. Ma se questa emersione porta a regolarizzare lavoratori marginali, che prima restavano nascosti (ad esempio immigrazione clandestina che viene regolarizzata) allora la produttività media cala. In settori ad alta sommersione e immigrazione come l edilizia e i servizi di turistico, commerciale, logistico ecc. queste oscillazioni del confine tra ciò che si vede e ciò che non si vede può fare la differenza. Ma anche questa spiegazione lascia il tempo che trova perché la situazione dura da anni e le oscillazioni da un anno all altro non l hanno cambiata. E allora? Per capire qualcosa del (nostro) mistero dell im-produttività media dei servizi bisogna fare almeno tre considerazioni: a) Il terziario è un insieme eterogeneo che comprende al suo interno la Pubblica Amministrazione, la cui produttività non viene rilevata (si assume un prodotto pari al costo), e che tutti sappiamo essere altamente improduttiva e in via di peggioramento (il suo effetto invisibile, ma incidente, è quello di abbassare la produttività degli altri che usano servizi costosi, ma poco utili); b) Il terziario in passato era definito in base al criterio della nonmeccanizzazione di attività (i servizi) ancorate a prestazioni non stoccabili e non trasferibili. Insomma una specie di calderone del lavoro non-moderno e, fino a poco tempo fa, non modernizzabile. Oggi, come abbiamo detto, non è più così. L immateriale delle ICT e dei significati rilanciati dai mass media ha creato fior di miliardari e settori in grande salute in tutti i paesi avanzati. Anche da noi, bisogna dunque distinguere all interno dei servizi quelli che stanno tuttora nel calderone dei residui non-modernizzabili e quelli che, invece, forse lo erano una volta, ma oggi non lo sono più, o potrebbero non esserlo. Bisognerebbe cioè misurare non la produttività media dei settori terziari, ma la velocità con cui, all interno di ciascuno di questi settori, si sta allargando l area delle attività modernizzabili e moderne, rispetto a quelle che restano refrattarie ad ogni intervento (a quando una nuova indagine Istat, fatta sulle cose che contano?); c) I servizi fanno parte delle filiere produttive, che comprendono lavoro manifatturiero (di trasformazione fisica) e lavoro immateriale (di produzione di idee ecc.). Se i servizi non rendono può dipendere dalla cattiva qualità della filiera, che li paga poco (la produttività Istat viene rilevata non a livello di filiera ma di azienda) perché ha maggiore potere contrattuale o perché non li sa usare, fornendo alle imprese di servizi una domanda di basso livello. Invece di Il continente servizi, diciamolo, non lo conosciamo. E forse la parola stessa non coglie più l essenza del problema che oggi è il mix tra intelligenza tecnica (replicativa) e intelligenza fluida (flessibile, creativa). Campi nuovi di applicazione dell intelligenza tecnica offrono possibilità di espansione, meccanizzazione e replicazione a servizi che in precedenza ne erano 3

esclusi: chiamiamo questo continente neo-servizi, che possono fare passi da giganti con l impiego di intelligenza tecnica (non solo macchine, ma anche macchine, perché no?) per servire clienti lontani, interessati a nicchie di passione o di desiderio particolari, o, semplicemente, molto più numerosi di una volta. Campi nuovi di applicazione dell intelligenza fluida possono conquistare alla personalizzazione, alla attenzione ai dettagli, alla ricerca della qualità della vita anche produttori che una volta erano interessati ai volumi e basta. Dando ossigeno a quella parte della manifattura che diventa neo-industria. Ossia un tipo di attività che, nella filiera, produce e vende non solo prodotti (materiali), ma anche idee e significati immateriali, che spesso catturano la parte essenziale del valore. Tra neo-servizi e neo-industria non c è quella differenza radicale che una volta esisteva, anche nella cultura imprenditoriale e nelle cifre della produttività, tra servizi (tradizionali) e industria (standard). Dunque, per fare le medie, bisogna mettere meglio a punto i confini tra industria e terziario: qualcuno si scandalizza se diciamo che la Geox è un azienda terziaria (o meglio neo-industriale), non manifatturiera? Dovremmo almeno tri-partire il campo dei possibili modelli di business: terziario tradizionale; industria di massa; e poi, in un campo che è in corso di straordinaria espansione negli ultimi tempi, neo-servizi e neo-industria, affiancati dai servizi connettivi che li tengono insieme (reti). E questo terzo campo che ci interessa. Accanto al vecchio che continua a fare il suo mestiere di sempre - con prospettive tendenti al peggio - ci sono potenziali di business veramente grandi nell applicare intelligenza tecnica (replicativa) a servizi che un tempo erano esclusi dalle economie di scala, grazie appunto a Internet e alla globalizzazione. E ci sono potenziali di business altrettanto grandi nell impiegare intelligenza fluida che dia maggiore valore a prestazioni un tempo banalizzate, dall uso di macchine poco flessibili e molto standard, o despecializzate per effetto di sistemi circoscritti di circolazione e scambio delle idee. Anche in questo secondo caso, le leve per moltiplicare il valore dell intelligenza fluida sono le stesse: Internet e globalizzazione, ossia le economie di rete che stanno cambiando il mondo. Dunque le imprese di servizi che pensiamo possano agganciare in questa grande onda, facendosi trascinare, devono cambiare pelle, come già hanno fatto alcuni pionieri una minoranza del settore. Non conta essere bravi e avere buone idee, se poi non si riesce a moltiplicarne l uso attraverso l espansione delle reti e delle filiere con cui si lavora. Quanti nostri laureati cercano di vendere buone idee a imprese (locali) che non sono pronte per raccogliere e rilanciarle? E che offrono condizioni di valorizzazione tali da deprimere le statistiche della loro produttività e quelle dei loro redditi? Se la produttività non cresce è perché ci siamo rassegnati a usare le buone idee prodotte dalla flessibilità e dalla creatività in circuiti ristretti, in cui finiscono per appassire, senza generare valore. La parola d ordine dunque è: liberiamo le (buone) idee dai prodotti, dalle aziende, dai settori, dai distretti, dai paesi in cui sono prigioniere. Facciamo girare le idee rendendole vendibili o condivisibili a scala ampia con le risorse di Internet e della globalizzazione, appoggiandole ai brevetti, ai significati, ai marchi, alle reti commerciali, in proprietà, in alleanza o in franchising. E rompiamo le monoculture locali e settoriali che hanno fatto bene ai distretti in passato e che oggi 4

5 sono la loro maggiore malattia. Facciamo cioè correre ciascuna (buona idea) verso il suo intero potenziale di valore, andando a cercare, nel mondo, tutti coloro che potrebbero trarre utilità dal suo impiego. Clienti potenziali, magari molto diversi da quelli attuali, di oggi. Comunità epistemiche che siano capaci di propagare nel mondo uno stile di vita o un modo di pensare e sentire il mondo di oggi. Users lontani o di altri settori. Impieghi a cui non abbiamo ancora pensato, ma che restano latenti, fonti nascoste di valore. Ossia di produttività. Questo vale sia per i nostri piccoli imprenditori industriali che per le nostre piccole imprese terziarie. Non conta tanto che siano piccole o grandi, ma che sappiano correre in rete, facendo muovere e apprezzare le loro idee. Cominciamo a ragionare in un altro modo: nel mondo globale, il valore prodotto è la variabile di aggiustamento che consente a paesi dotati di risorse diverse di competere tra loro, modificando il livello dei prezzi relativi delle conoscenze che scambiano. Se la produttività italiana non cresce è perché le nostre idee non acquistano sufficiente valore in questi circuiti di scambio internazionale, deprimendo i valore medio prodotto da ciascuna ora del nostro lavoro. Basta con la coscienza infelice di un capitalismo che lascia andare le cose, e poi si piange addosso perché sembra che gli manchi tutto (dalla tecnologia alle grandi dimensioni di impresa). Nelle statistiche della nostra scarsa produttività leggiamo le difficoltà che incontriamo nel dare valore alle idee prodotte dal nostro lavoro, ossia dalla nostra intelligenza tecnica e dalla nostra intelligenza fluida. Che ci sono, in potenza, ma potrebbero essere usate meglio. Perché una cosa deve essere chiara: in un mondo complesso e fluttuante, come il nostro, il futuro non si prevede. Si fa. Credendo nelle proprie idee, facendo gli investimenti relativi e prendendosi i rischi che servono. Ecco il segreto (anche per far crescere la produttività). Venezia, giugno 2008