Come sopravvivere allo sviluppo



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Transcript:

Come sopravvivere allo sviluppo (La globalizzazione sotto inchiesta) Raimon Panikkar Susan George Rodrigo A. Rivas Edizioni l altrapagina 1997 Presentazione Fu chiesto una volta a Confucio quale fosse il suo desiderio più grande. «Mettere ordine nel linguaggio», rispose il sapiente. In effetti, le parole hanno il magico potere di rendere plausibile anche quello che non lo è attraverso l'abitudine alla ripetizione. Termini come "sviluppo", "mondializzazione", "globalizzazione" celano fenomeni perversi che il linguaggio tende a nobilitare e giustificare. Mettere ordine nel linguaggio significa chiamare le cose con il loro nome. Allora ci si accorgerebbe che lo sviluppo è un meccanismo che favorisce pochi privilegiati, ossia le élites del nord e del sud del mondo, mentre la globalizzazione dell'economia si risolve in uno sfruttamento selvaggio e senza regole dei soggetti più deboli della società internazionale. Mai come oggi la grande speculazione ha monopolizzato l'economia mondiale. Non è un caso che dovunque nei paesi industrializzati cresca la disoccupazione e, contemporaneamente, nei paesi del Sud la politica neoliberista riduca intere popolazioni a una condizione ancora peggiore della schiavitù antica. L'aspetto più inquietante è la mancanza di riflessione su tali fenomeni. Come se si trattasse di realtà naturali immutabili dotate di una evidenza intrinseca e non di strutturazioni storiche contingenti. La forza mitica di cui è ammantata l'economia attuale impedisce di fare un'analisi spregiudicata dei suoi orientamenti. Forse, come spiega Susan George, dipende dal fatto che la destra ha plasmato una cultura che rende accettabile un mondo in cui due terzi delle persone sono escluse dalla società. Ma c'è un problema ancora più grave. La nostra economia è figlia della nostra antropologia e del suo esagerato individualismo. Sarebbe vano pretendere di modificare i meccanismi economici senza approfondire il senso globale della nostra vita: avremmo cucito le classiche toppe nuove sul vestito vecchio. Raimon Panikkar mette il dito sulla piaga quando sostiene che l'economia umana deve trattare degli uomini e dei loro bisogni, non delle merci e delle loro leggi. L'economia è una realtà troppo seria per lasciarla in mano agli specialisti: si tratta della condizione umana. Solo un recupero profondo del senso della nostra umanità ci fornirà le energie necessarie per fare in modo che la società riprenda il controllo dell'economia e possa orientarla. Attualmente, invece, è il funzionamento economico che decide l'organizzazione della società. Non c'è dubbio che il compito di uscire dalla situazione presente debba essere affidato a una forte ripresa della politica, come sottolinea vigorosamente Rodrigo Rivas. Una politica che attinga però al versante profetico e utopico e non si limiti alla pura gestione dell'esistente. Forse il primo nodo da sciogliere è come regolamentare l'arbitrio del capitale finanziario, che provoca una crisi generalizzata pagata dalla fasce più deboli della società. Il capitalismo sta scivolando sempre più rapidamente verso il monopolio e dunque verso disuguaglianze e conflitti. Basti pensare che un terzo del commercio mondiale è in mano ad appena cento multinazionali che effettuano scambi tra loro: Inter company transfers. Diventa sempre più urgente organizzare reti di persone che resistano a determinati provvedimenti ingiusti, attivare sistemi locali di scambio, democratizzare le grandi organizzazioni internazionali, difendere i diritti del lavoro in ogni parte del mondo. Ma non è compito di un piccolo testo come questo stabilire un'agenda di priorità politiche; è molto più significativo fornire stimoli per uscire dalla rassegnazione e dalla passività di fronte al grandioso marchingegno economico che incombe sulle nostre vite come un macigno. Che sia un moloch divorante lo sappiamo già, ma potrebbe anche trattarsi di un gigante dai piedi d'argilla. E allora anche un minuscolo sassolino può contribuire a disintegrarlo. Come sopravvivere allo sviluppo pag. 1

I - Raimon Panikkar Raimon Panikkar Nato a Barcellona da madre spagnola e da padre indiano, è laureato in chimica, filosofia e teologia. Professore emerito di filosofia della religione all'università di California, ha pubblicato una trentina di opere e più di 300 articoli accademici su argomenti che spaziano dalla filosofia alla scienza, dalle religioni comparate al dialogo fra le culture. Economia e senso della vita Vorrei affrontare questo tema con un invito al silenzio. Il silenzio è il luogo d'incontro tra il tempo e l'eternità, e chi non sa vivere del silenzio impiega tutta la vita a correre sulla scia di una temporalità che, a lunga scadenza, si rivela sempre deludente. Il mio invito al silenzio implica che la parola, il logos, non è tutto nell'uomo. Senza far riferimento ad altre tradizioni, potrei citare S.Ireneo il quale afferma che da un silenzio del Padre scaturisce l'unica parola, il Logos, il Figlio, oppure l'evangelista Giovanni: «In principio era la Parola». La parola è in principio, ma non è il principio. Il principio è il silenzio. L'averlo dimenticato ha generato nella nostra cultura una logomachia, una logorrèa, che si è poi convertita in razionalità e costituisce una delle cause ultime della situazione in cui ci troviamo. L esperienza del silenzio non è semplicemente tacere, non è nemmeno la repressione della parola nel momento in cui ho tante cose da dire, ma la consapevolezza della relatività di ogni parola, dunque della sua imperfezione: non c'è parola o concetto che possa esprimere tutta la realtà. Nella realtà c'è qualcosa di ineffabile, di inesprimibile, di cui posso essere consapevole solo nel silenzio. Se non scopriamo quest'altra dimensione, l'unica alternativa sociologica è la sconfitta, quando non il fiasco totale o la,caduta nel pessimismo. Non serve nemmeno proiettare la speranza nel futuro, lo si chiami inferno, cielo, reincarnazione, storia... perché nel frattempo la depressione può trasformarsi in menefreghismo. Dobbiamo renderci conto della situazione veramente unica che ci è toccato vivere. La scissione dell'atomo, un fatto unico nella storia, e l'invasione travolgente della tecnologia moderna in tutti gli angoli del mondo, ci vietano di pensare semplicemente con i parametri antichi. È in gioco, a mio parere, nel momento attuale, non una politica à la petite semaine o un assetto particolare, ma il destino di questa specie umana che da 6000 anni abbiamo chiamato storica. Abbiamo il privilegio, rispetto a 6 miliardi di persone, di potercene rendere conto e di sapere che unendo l'intelletto con il cuore e con l'azione possiamo contribuire in qualche modo a superare questo transito, questa mutazione. Non è un'epoca di cambiamento, come ha scritto qualcuno, è un cambiamento d'epoca. Dopo questa premessa entro in tema, dividendo il mio scritto in tre punti: una prima parte sullo sviluppo, una seconda sul pluralismo economico, una terza sul "sopravvivere allo sviluppo". Voglio subito evitare la tentazione, tipica della forma mentis moderna, di concentrarmi sul "come" dimenticando il "che cosa". Per la modernità l'importante è il come: come funziona la macchina? come funziona il computer? come funziona la famiglia? come funziona la società? I problemi della tecnologia sono tutti problemi del "come". Io invece non vorrei preoccuparmi esclusivamente del "come", per cercare di descrivere un po' il "che cosa". Il «che cosa» è il senso della vita ed è più complesso. Averlo dimenticato o averlo delegato ai santi, ai mistici, ai teologi, agli spirituali ha dato origine a una schizofrenia personale e collettiva della quale probabilmente siamo tutti più o meno vittime. Quindi il mio compito non sarà tanto di delegittimare il paradigma economico dominante, perché non me ne importa troppo della legalità, quanto di fare una rapida analisi dei tre concetti che stanno nel titolo della mia esposizione. Come sopravvivere allo sviluppo pag. 2

I - LO SVILUPPO E comincio subito con lo "sviluppo". Dovremmo domandarci perché questa parola ha avuto un successo così inaudito. Si è cominciato a parlare di "popoli sottosviluppati o sviluppati" nel 1949. Da quel momento la parola "sviluppo" ha monopolizzato il linguaggio. Ho fatto uno studio sui documenti ufficiali delle Nazioni Unite e ho trovato che si parla di sviluppo, di sottosviluppo, sviluppo diretto, culturale, economico, sostenibile, endogeno, centrato sull'uomo, interdisciplinare, scientifico, tecnologico, sociale, storico... La parola "sviluppo" è pervasiva e lo sviluppo è diventato un mito intangibile, una realtà sulla quale ovviamente siamo tutti d'accordo. Forse anche qui non siamo sviluppati come pensiamo e ogni tanto io devo invitare alla pazienza alcuni amici miei del Bengala che vorrebbero fare una crociata contro questi paesi occidentali sottosviluppati perché non sanno vivere, non sanno mangiare, godere; ma il paradigma dello sviluppo resta. Le parole hanno una forza intrinseca. Mi sono chiesto spesso perché l'idea di sviluppo si sia "sviluppata" tanto universalmente da convertirsi in ideologia dominante. Sono convinto che lo sviluppo non avrebbe avuto questo successo se non ci fossero stati in Occidente, dove ha preso corpo, Parmenide, Aristotele, S.Tommaso, Cartesio e i pensatori del nostro tempo. L idea di sviluppo si è radicata così fortemente in Occidente perché non è altro che un'applicazione unilaterale dell'intuizione aristotelica della potenza (dynamei on). In Aristotele la potenza richiede un altro elemento estrinseco, l'atto (energeia), e ambedue costituiscono l'essere finito. Le cose hanno una potenzialità che deve essere attualizzata attraverso l'atto; questa concezione è arrivata fino alla fisica di Newton e persino a quella di Einstein e di Plank. Se tengo in mano una penna e la lascio cadere, mi accorgo che si "sviluppa" un'energia che prima non c'era e adesso c'è. Si dice allora che questo corpo aveva un'energia potenziale che si è sviluppata cadendo, con la gravità e tante altre cose. E' una specie di necessità di un certo tipo di pensiero per rendere intelligibile l'apparire di una forza in un determinato contesto. Senza accelerazione non "appare" la forza fisica. Le conseguenze di questa concezione portano lontano: è un'ironia che nei paesi occidentali gli scienziati e i cosiddetti credenti discutano ancora sul big bang e la creazione. Come se la creazione fosse una realtà cominciata col big bang e sviluppatasi in seguito. Tutto l'evoluzionismo riposa sull'idea che le potenzialità nascoste nei livelli inferiori della realtà vanno evolvendo. La differenza con la concezione aristotelica del dynamei on, dell'essere potenziale, sta nel fatto che la potenza ha bisogno di un atto che le venga dall'esterno e che l'attualizzi: il divino in qualsiasi forma, l'atto puro. Noi che siamo già più "sviluppati" pensiamo che tutto possa avvenire senza quest'atto puro, che sembra quasi una ipotesi superflua. Allora la realtà si sviluppa da sé perché non ha bisogno di un Dio, di un demiurgo, di qualsiasi agente che l'attualizzi: le cose si spiegano come uno sviluppo della potenza. Anche i teologi attuali sono caduti nella trappola di pensare, contro la migliore scolastica, che la creazione sia avvenuta nel passato, prima o con il big bang, dimenticando quello che i buoni scolastici chiamavano creatio continua. Se la creatio non è oggi, adesso, in questo istante, non è creazione. Pensare che Dio sia un ingegnere, magari un po' più astuto di noi, che ha fatto le cose in modo tale che si potessero sviluppare, dal big bang fino ai sistemi più complessi, oltre ad essere una bestemmia è un'ingenuità. La famosa chiquenaude di Descartes: Dio ha dato il colpettino iniziale e poi tutto funziona da sé sviluppando le proprie potenzialità. L'idea di sviluppo è l'idea monoculturale centrale dell'occidente. Dobbiamo diventare consapevoli che l'idea di sviluppo non è né neutrale né universale né universalizzabile, e questa credenza, del resto geniale, che la concezione di una sola cultura valga per tutte le culture è l'essenza del colonialismo. Il colonialismo può non essere una cosa cattiva. Non tutti i colonialisti erano conquistadores brutali, crudeli; avevano solo la convinzione che Dio, la cultura, l'impero fossero la soluzione per tutti. Prima si diceva: un Dio, una religione, una chiesa; adesso un mercato mondiale, una democrazia, un governo mondiale, ma è la stessa sindrome: gli stessi cani con diversi collari, o, se vogliamo, gli stessi pescecani. Come sopravvivere allo sviluppo pag. 3

La crisi dello "sviluppo" Non voglio approfondire maggiormente da un punto di vista filosofico l'origine di questo successo, ma preferisco soffermarmi un po' di più sulla crisi dello sviluppo: lo sviluppo ormai non funziona. Attualmente solo l'8% dell'umanità ha una macchina; ma se tra 10 anni l'avesse il 72% della popolazione mondiale non si respirerebbe più sul pianeta; d'altra parte, se io sono un democratico voglio che quello che va bene per me vada bene anche per gli altri. Dunque l'idea di sviluppo è in crisi perché non si può estendere né nello spazio né nel tempo. Ma si trova in crisi per un'altra ragione più profonda. Non solo perché dal 1945 ad oggi 2500 persone muoiono ogni giorno di guerra, ma soprattutto perché lo sviluppo è sfuggito al nostro controllo. Lo sviluppo si è così "sviluppato", il cancro ha prodotto metastasi così numerose, I'omeostasi è talmente spezzata che noi, i quali pensavamo con Bacone che sapere è controllare, sapere è potere, cominciamo a renderci conto che non possiamo controllare un bel niente. Lo sviluppo funziona da sé, al di fuori del controllo dei singoli e della società. Sarebbe veramente, un insulto dire che tutti coloro che stanno al potere siano dei criminali o degli egoisti. Vorrebbero modificare la situazione, ma sfugge al loro controllo, anche a quello del dittatore più rigido. Dice un proverbio indiano: se cavalchi una tigre non puoi scendere, altrimenti la tigre ti divora. Noi stiamo cavalcando una tigre. Per aprirsi a tutta la ricchezza della realtà il silenzio è un organo altrettanto indispensabile quanto il pensiero. Siccome il pensiero funziona componendo e dividendo, ha bisogno di un certo tempo lineare più o meno lungo. Ma non c'è solo il pensiero. Abbiamo perso quell'esperienza umana universale di renderci conto che la realtà ha altre dimensioni. É come se avessimo perso l'occhio che ci permette di vedere la profondità. La tragedia del cristianesimo in Africa è che non ha valorizzato la danza, vale a dire la grande scoperta che la natura ultima del tempo è il ritmo: né linearità né circolarità, sempre la stessa cosa e sempre diversa, l'ultimo passo uguale al penultimo e tuttavia ognuno diverso e distinto. Anticipo qui un theologoumenon che avevo riservato per la fine, affermando che la speranza non sta nel futuro ma nel presente, e cioè nell'invisibile. Credo che nel 1997 la sindrome we sha11 overcome, venceremos non funzioni più e diventi demagogia. Una volta è accaduto, ma mille e mille altre volte il vincitore è stato Golia e non David. Questo non vuol dire che non ci possa essere un Martin Luther King, un Gandhi, benché non bisogna dimenticare che il successo di Gandhi è costato due milioni di vittime. Forse il problema umano va visto in una terza dimensione di profondità per non cadere nella tentazione del "come", gli strumenti o le regole del gioco che ci forniscono i prepotenti o la cultura attuale. Perciò le relazioni interculturali non sono un lusso di menti privilegiate che vanno in India o fanno turismo culturale, che sarebbe un'altra forma di prostituzione, ma una necessità imprescindibile. La prima radicale mutazione dovrebbe avvenire nel linguaggio. Bisognerebbe cessare di impiegare la parola "sviluppo" o, peggio ancora, la perifrasi "in via di sviluppo" per indicare la maggior parte dei paesi del mondo. Ci sarebbe una bella differenza se, invece di definirli "in via di sviluppo" si potessero chiamare paesi "in via di risveglio", "in via di illuminazione". Le parole sanno un po' di esoterismo, di New Age, ma non bisogna dimenticare che l'india da sola ha una popolazione superiore all'america, alla Russia e all'europa messe insieme. E nel subcontinente indiano queste parole suonerebbero diversamente. Forse si aprirebbe tutto un altro mondo per la forza stessa delle parole, la forza del mito. Attualmente siamo vittime del terrorismo dello sviluppo: se non ti sviluppi non fai carriera, muori di fame. O svilupparsi o morire. Un imperativo che vale tanto per l'individuo quanto per gli stati e le istituzioni. Viviamo tutti nel terrore di non poter essere sviluppati. Come sopravvivere allo sviluppo pag. 4

II - IL PLURALISMO ECONOMICO La parola pluralismo viene utilizzata in tanti modi, un po' come la parola sviluppo, ma io non vorrei impiegarla nel senso di pluralità e nemmeno in quello di tolleranza. Dobbiamo tollerare gli altri perché sono potenti. Siamo costretti a tollerare i cinesi. Quel che non possiamo tollerare è l'iraq, ma la Cina la possiamo tollerare, tanto per fare un esempio. Pluralismo è più di tolleranza; indica quell'atteggiamento dell'uomo (e delle culture) che riconosce la sua (e la loro) contingenza, cioè che nessun uomo e nessuna cultura ha accesso alla totalità dell'esperienza umana, che nessuno può capire, comprendere, abbracciare tutta la contingenza. L etimologia stessa lo dice: cum-tangere, tu tocchi una realtà che è infinita, ma in un solo punto. Nella consapevolezza della limitazione intrinseca a ogni cosa c'è lo spunto per far interagire quello che, dal punto di vista intellettuale, è inconciliabile. Ho avuto recentemente una discussione abbastanza accesa sul multiculturalismo, etichetta di cui si fregiava soprattutto il Quebec. Il Quebec si ritiene una regione multiculturale perché i vietnamiti possono fare le loro danze, i greci aprire i loro ristoranti, gli altri vestire come vogliono. Le culture non sono folklore e il pluralismo non è la tolleranza degli altri in quanto più o meno esotici, dal momento che non sono potenti; è il riconoscimento dell'incommensurabilità fondamentale ed essenziale delle diverse forme di cultura, di religioni, di modi di vivere. La consapevolezza di questa incompatibilità radicale impedisce di pensare, dopo 6000 anni di esistenza storica, che io, il monoteista o lo scotista, il democratico o il liberale, sia nella verità e tutto il resto del mondo viva nelle tenebre. Negli anni '70 il presidente delle Camere di Commercio degli Stati Uniti affermò che l'umanità aveva vissuto all'età delle caverne fino a che la democrazia americana con il libero mercato non aveva cominciato a rispettare l'individualità di ciascun essere umano. Pensare che gli altri per secoli e secoli siano stati nell'errore, oppure stupidi o, addirittura, cattivi, e che io solo in tutto il mondo e in tutti i tempi stia nella verità è un po' sospetto, per non dir peggio. Il pluralismo non è nemmeno la consolazione facile, fornitaci dall'escatologia, della riconciliazione finale, per cui tutto alla fine si ricomporrà. Non è un atteggiamento pluralistico dire: adesso siamo frammentati in tante visioni del mondo, ma la verità è una. La verità non è una né due né molte, la verità è pluralistica, che non vuol dire plurale. Significa semplicemente il riconoscimento e la consapevolezza della reciproca irriducibilità di sistemi, di forme di vita, di culture la stessa verità è una relazione. Potremmo desumere un esempio molto semplice dalla storia della geometria. Probabilmente attorno al IX-VIII secolo a.c. i Babilonesi prima, gli Indiani poi e i Greci un po' più tardi scoprirono che tra l'ipotenusa e il cateto c'è incompatibilità, che tra il raggio e la circonferenza c'è incommensurabilità. Li chiamarono numeri assurdi in un primo tempo, poi numeri irrazionali. Non si può misurare la circonferenza con il raggio e, tuttavia, senza raggio non c'è circonferenza e viceversa; vivono insieme, sono costitutivi l'uno dell'altra ma non si capiscono. E qui sorge la domanda: possiamo noi accettare soltanto quello che capiamo? La mia risposta è no. Non solo non lo possiamo noi, ma nemmeno un Dio onnisciente. Un Dio onnisciente conosce tutto quello che è conoscibile, ma chi ci ha detto che la realtà, o l'essere, debba essere conoscibile? Forse, con buona pace di Parmenide e di Hegel, c'è una parte opaca nella realtà che non è conoscibile. Né la mente individuale né quella collettiva possono esaurire la realtà. La consapevolezza è superiore all'intelligibilità; insomma, io mi rendo conto di qualcosa che non capisco. Gli inglesi usano le parole awareness e consciousness per indicare che consapevolezza e intelligenza non si identificano. Il pluralismo è dunque questo riconoscimento che nessuno di noi dal suo punto di vista, nemmeno il Dio onnisciente, può abbracciare tutto il reale. Come sopravvivere allo sviluppo pag. 5

Un'economia della solidarietà Ogni cultura in quanto cultura (da non confondersi col folklore) ha il suo sistema economico. Potrei parlare qui del grihastha shastra della civiltà classica indiana, che è una economia della vita familiare, senza moneta, con autorità e potere, senza quella competitività che ormai è diventata necessaria a causa del terrorismo a cui ho accennato sopra, ma in solidarietà. Faccio un esempio per spiegarmi in maniera più rapida. Il cugino di un mio studente, negli anni '70, da buon rivoluzionario andò in Africa a insegnare ai bambini. Siccome era già sufficientemente prevenuto dai suoi professori, non voleva essere colonialista insegnare a quella gente tutte le nostre scienze, le nostre conoscenze. L unica cosa veramente neutra era la ginnastica. In questa maniera non si sentiva colonialista, tutti erano contentissimi e anche lui era felice. Un bel giorno arriva con una scatola di cioccolatini in un gruppo di 9 o 10 bambini, spiega loro che al "tre" devono correre per arrivare all'albero che si trova a 150 metri. Lui conta: uno, due, tre... e tutti i,bambini spontaneamente si danno la mano e corrono insieme. Questa è la solidarietà, questa è la vita normale, questo è il cuore umano, questa è la natura dell'essere umano, quando non è caduto nell'isolamento dell'individualismo che ci obbliga ad essere egoisti per sopravvivere. Gli americani storpiano la pronuncia della parola "gìustizia" in "just-us", "solo noi" per sottolineare che in economia non esiste altra motivazione che il profitto "just U.S.". Eppure la maggior parte delle azioni umane non sono finalizzate al profitto, ma motivate da qualcos'altro: potremmo chiamarlo amore, istinto o spontaneità; si tratta comunque di una forza molto più potente della razionalità. Non mi convince quindi la teoria di una economia umana guidata solo dal profitto. anche perché il contatto diretto con certi esponenti del mondo economico mi porta a dire che nell'economia attuale gioca molto di più l'orgoglio, l'ambizione di potere, che la regola del profitto. Sospetto anzi che dietro questa visione esclusivamente negativa dell'uomo ci sia l'influsso sotterraneo di una certa concezione cristiana del peccato originale, come se i cristiani si fossero concentrati, nella lettura di questo mito solo sull'albero della scienza del bene e del male e si fossero dimenticati dell'albero della vita. L uomo non è solo cattivo e l'albero della vita ci ricorda che la vita è anche gioco, gioia, grazia. Nell'induismo, ad esempio, la figura di Indra ricorda al credente che bisogna andare al di là dei bene e del male e guadagnare una nuova innocenza. Abbiamo ancora bisogno di superare questi ultimi 6000 anni segnati da una cultura di guerra, da un ascetismo negativo e da una teologia della punizione, scaturita da una errata interpretazione della redenzione cristiana. Dio vuole la misericordia e non il sacrificio. Per ritornare sul terreno economico, bisogna affermare con decisione che un'economia sganciata dall'uomo, vista solo come applicazione della legge del più forte, per cui il pesce più grande mangia il più piccolo, per cui va cercato sempre il massimo profitto, è falsa. Non è né nomos (legge), né oikos (casa), non è "eco-nomia", la legge che gestisce la convivenza umana. Occorre il coraggio intellettuale di contestare le premesse ultime della forma attuale di economia: non si tratta solo di merci che debbano essere prodotte col minor costo possibile e che devono viaggiare da un capo all'altro del mondo nel minor tempo possibile, ma di esseri umani che hanno bisogno di mangiare, vivere, star bene. Un'economia umana deve,trattare degli uomini e dei loro bisogni, non delle cose (merci) e delle loro leggi. Ogni cultura genera il suo sistema economico. Ho vissuto sei mesi con i Naga, nel nord-est dell'india, dove il cibo è sacro: non si vende e non si compra, non si commercializza. Eppure non siamo in un regime comunista. Si tratta, è vero, di una popolazione di 600 mila abitanti, ma l'organizzazione economica è di una sofisticatezza eccezionale. Durante il mio soggiorno ho scoperto che in tutta la regione ci sono solo due ospedali e i medici e gli infermieri di queste due strutture mi hanno confidato che non esiste alcuna malattia psichica, alcuna forma di depressione. La gente muore per altre cause, ma non è posseduta da questa angoscia sottile che penetra le popolazioni dell'occidente. Insomma, una cultura che parte da premesse antropologiche diverse dalle nostre genera un'economia di tipo completamente differente da quella capitalista, sorta in Europa appena tre secoli fa, su una antropologia individualista. Come sopravvivere allo sviluppo pag. 6

La fecondazione reciproca fra le culture Si deve distinguere tra monoculturalismo, pluriculturalismo e interculturalità. Il monoculturalismo l'ho già criticato per soffermarmici oltre. Il pluriculturalismo,non esiste, per il semplice fatto che quando apro la bocca adopero un linguaggio. Non si può essere multiculturali, ma si deve essere - e questo è l'imperativo del nostro tempo - interculturali. Le culture non debbono chiudersi o mantenere soltanto relazioni di esteriorità o di potere, ma devono lasciare posto alla conoscenza e alla fecondazione reciproca; la conoscenza però è possibile solo quando c'è amore e l'amore si sprigiona soltanto quando ci si tocca. Come, dunque, non chiudersi nel solipsismo? Per me il primo dilemma sarebbe tra il solipsismo e l'informatica, per dirla in due parole. L'informatica, nel suo intento di universalizzazione, vuol persuaderci che la somma di tutti quanti noi rappresenta noi. É il proton pseudon della democrazia, come se il tutto fosse uguale alla somma delle sue parti (già comincia il pensiero razionale). Il tutto non è uguale alla somma delle parti, ma siccome abbiamo perso il contatto diretto con il tutto, non ci rimane altro che il calcolo integrale, il computer o la somma dei voti. Non è attraverso la somma che si arriva al tutto. Perciò la relazione tra gli uomini, anche economicamente, non ha bisogno né di internet, né del mercato unico, né della democrazia mondiale, né del governo mondiale, dove non c'è altro sistema che l'analisi. Prendiamo due esempi dalla natura: l'arcobaleno e le membrane semipermeabili, che permettono il movimento di un liquido in una direzione ma non nell'altra. Nell'arcobaleno è difficile distinguere dove finisce un colore e ne inizia l'altro: sono tutti in relazione. Quindi c'è una relazione con il vicino, con l'altro, e l'altro è quello che io conosco, non quello che vive in Patagonia. Ho già accennato a una certa prostituzione del turismo culturale (oggi mangiamo più chilometri che proteine), che ci fa credere che colui che abita in Patagonia o colui che vedo in televisione sia il mio vicino. In realtà non lo è; il mio vicino è colui che conosco, con cui parlo, che tocco, con il quale ho sia incontri che scontri. Abbiamo perduto la dimensione umana, siamo già tutti meccanizzati: pensiamo come un computer, siamo convinti che l'aver portato le cose sullo schermo di un televisore equivalga a conoscere la realtà. Abbiamo smarrito il senso mistico, il buddhakaya, il corpo mistico di Cristo, il karma, che è la consapevolezza della solidarietà universale, senza bisogno del controllo della mente e di conoscere tutti i dettagli. L arcobaleno può essere un simbolo sia per le relazioni sociali che economiche. Il problema del pluralismo economico sarebbe quello di trovare ponti di interculturalità, sul modello dell'arcobaleno o di qualsiasi frutto che abbia una membrana semipermeabile che riceve e conserva. Come sopravvivere allo sviluppo pag. 7

III - SOPRAVVIVERE ALLO SVILUPPO Per sopravvivere mi sembrano necessarie alcune condizioni. La prima è il passaggio dall'interdipendenza, della quale si parla continuamente, all'inter-indipendenza. L'etimologia della parola è significativa: "pendenza" l'inferiore che pende dalle labbra del superiore: sono di-pendente da uno più forte di me. Sono in-dipendente, invece, quando ho tagliato tutte le relazioni e posso sopravvivere ugualmente. L interdipendenza si realizza quando l'uno è la condizione per lo sviluppo dell'altro. Oggi siamo interdipendenti perché il Terzo Mondo è la condizione per lo sviluppo del primo. L inter-indipendenza è completamente diversa: non è l'eteronomia, non è l'autonomia (ciascuno per conto proprio), è la relazione tra uguali, la relazione di libertà e di grazia, che non serve a far profitto, altrimenti saremmo già condizionati, ma a giocare, a godere. Quando nella teologia indù si dice che Dio ha creato il mondo per giocare, vuol dire che la vita è gioco, sport, grazia, bellezza - che è il senso della parola grazia. In fondo si parla del senso della vita. Se vogliamo ancora giocare con le regole degli altri non c'è soluzione. Occorre la ontonomia, che sarebbe la parola accademica, la sinergia, che sarebbe la parola paolina. Ritorno da un recente convegno internazionale, a cui hanno partecipato artisti, scienziati, gente spirituale, economisti, dal tema: From competition to compassion. Naturalmente su questo argomento gli economisti dicono molte cose belle, perché la compassione e la condiscendenza rientrano nel raggio della loro ottica. Io ho proposto di variare il titolo in questo modo: From competition to cooperation, dalla competitività alla cooperazione, che è tale solo quando c'è inter-indipendenza, altrimenti non è cooperazione; quando sei padrone della tua azione, ti senti realizzato e, nonostante tutto, entri in interscambio con l'altro. Il mio cuore funziona in inter-indipendenza col mio stato d'animo. Per un verso è indipendente, dato che. io sono vivo, ma c'è una relazione col mio.stato d'animo e non soltanto con l'adrenalina. C'è una relazione di inter-indipendenza. Per sopravvivere è necessario realizzare in diverse forme questa inter-indipendenza. Passo al secondo punto di questa terza parte per sottolineare il dilemma inevitabile: o trasformazione radicale del senso della vita, del senso della civiltà (di tutte queste premesse che ho cercato di illustrare a proposito di Aristotele, Parmenide-, ecc.), o catastrofe totale. Piccole riforme qua e là non sono sufficienti, servono soltanto a prolungare l'agonia di un sistema condannato a morire. Rendersi conto quindi che quelli che riteniamo grandi valori (democrazia, tecnocrazia, mercato mondiale) sono inaccettabili come punto di partenza per una pace tra gli uomini. Le concezioni di materia, di spazio, di tempo, di scienza, di antropologia devono essere completamente ripensate. Se non facciamo questo, il resto è come una piccola aspirina che fa sparire il mal di testa per un certo tempo ma,non guarisce la malattia. Penso che il momento sia arrivato. Ecco perché il problema economico non è Soltanto economico, ma umano, totale. É della condizione umana che si tratta. Quando l'economia realizza una oggettivizzazione spietata, perché la scienza ci fa pensare che sia l'unica maniera di arrivare alla realtà, dimentica che si tratta di esseri umani e non soltanto di transito di monete, di leggi di mercato, di crescita. Ci si dovrebbe opporre sostenendo che si parla di un'altra cosa: di uomini non di monete, di persone umane, non di leggi fisiche o sociologiche. E questo non per romanticismo o filosofia, ma proprio a proposito di rapporti economici tra uomini. In Messico un mio amico spagnolo si era fermato ad ammirare il lavoro di un artigiano che stava dipingendo delle sedie policrome fantastiche. «Quanto vale questa?» chiede all'uomo prendendone in mano una. «Dieci pesos, señor» gli risponde l'uomo. «Ne voglio sei esattamente come questa. Eccoti 60 pesos». «Eh no, señor, ce ne vogliono settantacinque» «Perché mai - chiede il mio amico - se una sedia costa 10 pesos, 6 sedie dovrebbero costare settantacinque pesos?» E l'artigiano di rimando: «Chi mi paga per la noia di fare 6 sedie tutte uguali?». Noi trattiamo gli altri come macchine. Abbiamo già inaridito il nostro cuore. Chi paga quell'artista che sperimenta ancora la gioia di creare? «Ti regalo la sedia se tu vuoi, ma farle tutte uguali è castrare la mia creatività. É fare di me uno schiavo in nome dei sessanta miserabili pesos che tu mi offri». Se l'economia significa che sei sedie Come sopravvivere allo sviluppo pag. 8

sono un po' più a buon mercato che acquistarle una ad una perché si fa più profitto, vuol dire che la civiltà è caduta in basso. É preda del demone dell'oggettività, che ci rende senza volere parte della macchina e stravolge le relazioni umane. Ma se l'economia non è relazione umana non so proprio cosa sia. I passi intermedi Alcuni anni fa scrissi che non c'è una alternativa al sistema attuale, ma ci sono alternative. Adesso vorrei sottolineare che dire alternative non è sufficiente, perché quando si parla di alternative si è sempre dipendenti dall'alter che ci rende differenti, quindi si gioca ancora con i parametri del grande sistema. Perciò ci vuole creatività, coraggio, spiritualità e la disposizione a essere santi, a fallire o a trionfare. Ci manca la libertà dell'azione veramente spontanea dell'essere umano, che è quello che ci dà gioia. Non soltanto alternative, che sono necessarie - sono i passi intermedi - ma creatività, novità assoluta a livello umano, personale, di ciascuno di noi. E qui non c'è una ricetta, c'è qualcosa di più; è in gioco la nostra responsabilità. Perciò il problema non è soltanto economico né esclusivamente tecnico, come se si trattasse di trovare una nuova formula d'azione. É una nuova scoperta di vita, è questa speranza che non riposa nel futuro ma nell'invisibile. É questa relazione umana che rompe tutti gli schemi. lo interpreto la cosiddetta ribellione delle nuove generazioni come la confusa intuizione che tutti i nostri buoni consigli sono all'interno di un ordine che schiaccia. Ho la sensazione che la nostra civiltà stia facendo naufragio e che ognuno di noi cerchi di aggrapparsi a qualche tavola di salvataggio. Tutto il mio sforzo consiste nel consigliare di non aggrapparsi a niente, ma di nuotare un po' per arrivare a scoprire un'altra dimensione..a tutti coloro che non s'accorgono del naufragio e che difendono la forma attuale di economia o che sostengono che la tecnologia ha fatto il possibile per migliorare la vita dei popoli, vorrei chiedere come mai 1/3 dell'umanità non ha l'acqua potabile, come mai nel mondo si spende 70 volte di più per un soldato che per uno studente, come mai il reddito mondiale dal '60 al '91 è quintuplicato solo per gli sviluppati. Questo sistema ha avuto un risultato solo per noi, per un 20% dell'umanità e oggi ci troviamo di fronte alla necessità di un cambiamento radicale. Di più: il sistema attuale ha rotto i ritmi della terra. Attualmente utilizziamo 13 unità di energia pro capite, di cui 12 vanno al quinto più ricco dell'umanità, mentre la terra può sostenerne soltanto tre. Con l'accelerazione abbiamo -infranto non solo i ritmi umani ma anche quelli cosmici. A mio parere la fissione dell'atomo equivale a un aborto cosmico. Apriamo la vagina dell'atomo perché abbiamo bisogno di una maggiore quantità di energia e non ci facciamo altre domande. Dire, come fa qualcuno, che possiamo utilizzare l'energia atomica a nostro piacimento perché i bombardamenti atomici avvengono già nel sole è come sostenere che possiamo ucciderci tra noi perché siamo mortali. Ma vorrei spingere il mio pensiero ancora più a fondo: secondo me, la tecnologia ha ormai esaurito la sua missione. É evidente che dall'inizio della rivoluzione industriale ad ora c'è stato un grande passo avanti per il 20% degli uomini, adesso però scopriamo che questa stessa rivoluzione industriale che sfugge ad ogni controllo distrugge il restante 80% dell'umanità. Un esempio per tutti: in 10 anni una macchina consuma 15 volte più di un bambino. Se poi esaminiamo le condizioni di vita di questo 20% ci accorgiamo che vive sotto la schiavitù del lavoro, parola che lo spagnolo rende con trabajo, che deriva dal latino tripalium, strumento di tortura. In diverse lingue c'è la distinzione tra lavoro e opera (work e labour in inglese), per sottolineare che l'uomo è chiamato ad essere giardiniere della creazione e cooperatore di Dio, non lavoratore. Uno sguardo più approfondito ci rivela che ci sono tre grandi industrie nel nord del mondo: quella del movimento di merci, capitali e armi, quella del turismo e quella della pubblicità. Alcune cifre: il 50% dell economia mondiale è risucchiato dalle spese per la difesa, il 60% degli psicologi statunitensi lavora per la propaganda. Siamo talmente indottrinati da non renderci conto del sistema in cui viviamo e da non poterne uscire. Per uscire davvero dalla forma di civiltà in cui siamo intrappolati occorre una grande forza spirituale. C'è voluta una guerra civile per convincere l'umanità che la schiavitù non era difendibile; pro- Come sopravvivere allo sviluppo pag. 9

babilmente ci costerà molti traumi e sofferenze accorgerci che il capitalismo e l'organizzazione attuale dell'economia sono le nuove forme di schiavitù. Bisognerebbe però sbarazzarsene in maniera non violenta, come un nuovo Prometeo della mitologia greca che per rubare il fuoco a Zeus assumesse forme femminili; seducendo, più che ingaggiando la battaglia dialettica e dividendo gli uomini in buoni e cattivi; cercando collaborazione invece che contrapposizione frontale. In fondo non si può assolutizzare nulla, nemmeno il rifiuto, ma ci si dovrebbe liberare da quelle forme di pensare che ci hanno condotto in questo vicolo cieco, specialmente dal paneconomicismo che ci fa credere che l'economia sia tutto nella vita dei popoli. La nostra civiltà non ha futuro; basterebbe l'esempio dell'india a dimostrarlo. Per le classi medie indiane, che sono più di 160 milioni e vivono molto meglio della grande maggioranza degli italiani, la democrazia, il capitalismo, la tecnologia sono state una benedizione di Dio, ma per gli altri 750 milioni hanno portato un peggioramento delle condizioni di vita. Al tempo dell'impero britannico il dislivello tra la metropoli e l'india era di 8 a 1, oggi è di 47 a l. Siamo davvero su una cattiva strada; non si può continuare con i soliti schemi. 1 passi intermedi sono dunque i passi umani, quelli che noi facciamo; ciascuno di noi, dunque, nella scala umana: i nostri "piccoli" passi autentici. Se si tratta di un problema umano e non soltanto tecnologico, l'uomo è la risposta. Ci manca fede, speranza e amore in noi stessi. Una metànoia radicale Nemmeno un cambiamento di programma è sufficiente. É necessaria un'operazione molto più profonda e radicale: dobbiamo cambiare noi stessi. Ci potrebbe venire il dubbio che in questo modo non si faccia nulla per il mondo. Eppure io sono convinto che si faccia molto di più di quanto possiamo immaginare. Quello che ci manca è la fiducia in noi stessi, che ci spinge ad aggrapparci alle regole o al sistema che per noi è stato valido. Forse siamo prigionieri di un pensare quantitativo e scientifico, per cui un individuo in mezzo a 6 miliardi di persone è davvero insignificante, o un'associazione in un contesto mondiale non serve 1 a spostare alcun equilibrio. Si tratta di un pensiero assolutamente falso, che ha smarrito il senso dell'unicità di ciascuno, la coscienza della terza dimensione del reale e la convinzione che la speranza non sta nel futuro, ma nell'invisibile. Sognare un futuro migliore è un'ingenuità, come dimostra la storia dei vinti e degli schiacciati. Dal punto di vista sociologico Buddha, Gesù, Martin Luther King hanno fallito. È necessario scoprire il terzo occhio che ci apre a un'altra dimensione della realtà, la quale ci permette di sentire che la nostra vita, pur in mezzo a tutte le tragedie del mondo, non è stata un fallimento. Fra quattro miliardi e mezzo di anni cesserà ogni forma di vita sulla terra. Se il nostro problema è solo sopravvivere, allora lo si può fare ad ogni costo, anche mettendo in campo di concentramento gli altri e abdicando alla dignità umana; se invece si tratta di vivere, allora ci si deve rendere conto che la vita non è in funzione del tempo: può essere più piena e significativa una vita breve che una che si protrae molto a lungo. Vale la pena aver vissuto e vivere, non perché il futuro sarà migliore (nessuno sa come sarà), ma perché nel presente si scopre una luce nuova, un nuovo colore, riservato agli occhi di coloro che amano. Vorrei citare, per concludere, una frase di Gesù riportata soltanto nei Vangeli greci. Benché il testo si trovi nei migliori codici la Volgata l ha estromesso, perché un'espressione simile creava un certo imbarazzo ai detentori del potere. Si trova nel Vangelo di Luca quando si afferma che il sabato è per l'uomo e non l'uomo per il sabato. Dice il testo con il laconismo straordinario della koiné greca: «Gesù passeggiava coi suoi nei campi di Galilea e vide un uomo che lavorava il giorno di sabato e gli disse: Antropé macarios ei, uomo sei benedetto se sai quello che fai; se non lo sai, sei maledetto e sarai distrutto dalla legge». Se sai quello che fai e trasgredisci il sabato prendendo tutto il tuo coraggio e la tua responsabilità, sei benedetto. Se non lo sai, allora sei trasgressore e maledetto dalla legge. È questo, penso, ciò che dovremmo fare: saper essere trasgressori prendendoci la nostra responsabi- Come sopravvivere allo sviluppo pag. 10

lità. Il dilemma è questo e nessun altro. Allora tutto ricade su di noi e da qui nasce la speranza, la gioia e anche il rischio della vita. C'è però una difficoltà fondamentale: quando si dice che è necessario cambiare i parametri costitutivi della civiltà contemporanea gli occidentali si sentono spiazzati e diventano più fatalisti degli orientali. Non pensano che sia possibile emanciparsi dalla tecnologia moderna, che è antiumana e antinaturale. A differenza della techné, in cui bisogna essere ispirati per fare le cose, nella tecnologia occorre solo moltiplicare e niente più. La tecnologia è frutto del connubio tra la scienza moderna e l'economia: il 90% di tutte le ricerche scientifiche è sovvenzionato sia dallo Stato che dalle grandi industrie, perché serve esclusivamente ad interessi commerciali. La scienza moderna è dunque una forma innaturale di utilizzare le capacità umane, invece di essere gnosis, conoscenza, atto d'amore con il quale si diventa quello che si conosce e per il quale l'uomo è uomo. Dobbiamo avere il coraggio di lasciarci alle spalle questo atteggiamento che ha dominato la cultura per 450 anni e avviarci verso una mutazione, se non vogliamo vivere in un mondo in cui le macchine comandino. Ormai siamo diventati adulti, ci siamo emancipati dalla magia, da Dio, dalle ideologie e ci siamo affidati al meccanismo di una megamacchina che ci obbliga a vivere come non vorremmo e c'impedisce persino di sognare che la vita può prendere un'altra forma. Sognare questa possibilità, mostrarla nella concretezza del quotidiano senza teorizzare una grande rivoluzione è il compito più importante del nostro tempo. Come sopravvivere allo sviluppo pag. 11

II - Susan George Susan George Studiosa americana residente in Francia, laureata in filosofia e in scienze sociali, è direttore associato del Transnational Institute di Amsterdam, che si occupa della disparità fra nord e sud del pianeta, e membro del consiglio di amministrazione di Greenpeace International. Le sue numerose opere, tradotte in una dozzina di lingue, sono dedicate all'analisi dei rapporti di potere tra il nord e il sud del mondo. Lo sviluppo è finito Lo sviluppo classicamente inteso riguardava il trasferimento di risorse, di conoscenze, di denaro dal Nord al Sud. Tutti sanno che questa operazione non ha funzionato, perché nel XVIII secolo la differenza tra Nord e Sud era approssimativamente di 2 a 1, dopo la seconda guerra mondiale essa è salita a 30-40 a 1, oggi è di 60-70 a l. Su questo sviluppo facciamoci dunque una croce sopra perché non ha prodotto niente di positivo. Credo, comunque, che la parola "sviluppo" sia sempre stata una parola ideologica, importante in u 1 n periodo di guerra fredda per fare credere che il Nord si interessasse realmente al Sud. All'epoca della guerra fredda, infatti, non c'erano angoli del mondo senza rilevanza, perché tutti i paesi potevano diventare il luogo di confronto fra Russia e Stati Uniti; attualmente, invece, molti paesi che allora avevano importanza l hanno perduta. Basti pensare, per esempio, alla Somalia che è stata abbandonata al suo destino. Oggi ci sono molti segni che questo sviluppo è finito, a cominciare dal decremento dell'aiuto ufficiale. Esso ha raggiunto il tetto massimo di 65 miliardi di dollari; attualmente si attesta più o meno sui 48 miliardi e ogni anno si riduce. In Italia è praticamente azzerato, ma non solo in Italia. Credo che dovremmo sovvertire anche la rappresentazione grafica del rapporto Nord-Sud. Non più quindi il mondo disegnato come un'arancia in cui il Nord si distacca dal Sud, ma un mondo a forma di coppa di champagne, distinta in cinque fasce che rappresentano ciascuna un 20% della popolazione mondiale. Il 20% più ricco dell'umanità s'impossessa dell'82,7% delle risorse mondiali, il secondo 20% dell'11,7%, il terzo del 2,3%, il quarto dell'1,9% e l'ultimo, il più povero, dell'1,4%. Un'altra prova che lo sviluppo è finito consiste nel fatto che dal 1960 ad oggi, complessivamente, il 15% di ricchezze in più è affluito verso la cima della coppa ed è diminuito in basso. Insomma c'è un movimento ascensionale della ricchezza dal basso verso l'alto. Questa ripartizione delle risorse a forma di coppa di champagne si traduce in un modello di società che potremmo rappresentare come un triangolo, con al vertice un'élite minuscola, al centro le classi medie (che io chiamo "classi ansiose", perché siamo tutti sul punto di perdere il lavoro, di non sapere bene cosa ci riserverà il futuro) e in fondo gli esclusi, tutti quelli che non hanno un posto nella società. Questo è vero sia nel Nord che nel Sud, con la differenza che, mentre nel Nord l'80% della società è incluso nel sistema e il 20% è escluso dalle ricchezze, dai posti di lavoro, dai piaceri della società, nel Sud gli esclusi sono il 60% e il 30-40% rappresentano le classi medie e le élites.se dovessimo raffigurare il mondo intero a forma di piramide, constateremmo che 1/3 della popolazione può godere i benefici del sistema, 2/3 ne sono esclusi. É importante chiedersi come siamo arrivati a questa situazione. lo individuo diversi attori che hanno realizzato un mondo che ha escluso più gente di quella che ha potuto includere: ci sono le compagnie transnazionali, i creditori attraverso il meccanismo del debito, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e l'organizzazione del Commercio (OMC). Prima di passare a descrivere dettagliatamente gli attori della situazione economica mondiale, vorrei offrire ancora alcune cifre. Ci sono oggi nel mondo 441 miliardari in dollari. Ogni anno la rivista Forbes negli Stati Uniti fa una lista dei miliardari e a metà luglio 1996 ha detto che ce ne sono 441; l'anno prima erano 358; ma grazie a Dio la lista dei miliardari è aumentata. Il valore totale della loro ricchezza è uguale alla ricchezza, in termini di prodotto nazionale lordo, di 2 miliardi e mezzo di uomini. Incredibile ma vero! Si tratta di un paragone non scientifico, perché ho messo a confronto il valore della ricchezza dei miliardari col prodotto nazionale lordo, ma siccome la Banca Mondiale Come sopravvivere allo sviluppo pag. 12

dice, per esempio, che l'indiano ha una parte della ricchezza del suo paese pari a 370,dollari, siamo autorizzati a fare questo tipo di paragone. Non deve sorprenderci che il gruppo che usufruisce della maggior parte delle risorse mondiali non sia capace i includere tutti, perché ogni anno il numero dei privilegiati è in aumento e proporzionalmente quindi si appropria di una fetta sempre più consistente di ricchezza. I responsabili dell'assetto economico internazionale Vorrei cominciare a descrivere gli attori della situazione economica mondiale e inizio con i creditori. Non bisogna dimenticare la struttura piramidale delle società sia del Nord che del Sud. Al vertice della piramide nel Sud ci sono i governi e le élites che hanno preso i prestiti, i quali sono serviti agli strati elevati della società. I prestiti sono stati utilizzati per finanziare i consumi, ma non gli investimenti. É normale finire tra i debiti quando i soldi non sono investiti. É il Sud ha preso dal Nord, in un trasferimento da élite a élite, soldi, prestiti, beni di consumo. I prestiti costituiscono il debito del Terzo Mondo, che oggi è di 2 triliardi di dollari. Questi prestiti sono presi dalle élites, dai governi del Sud, senza che la maggior parte della società possa beneficiarne, e vengono impiegati per gli armamenti, per il petrolio, per il consumo generale. Quando questi paesi non possono più prendere prestiti, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario impongono il programma di aggiustamento strutturale che viene pagato dagli strati più umili della popolazione, i quali devono fare i sacrifici per onorare i debiti contratti dalle élites. Il meccanismo è ammirevole, perché coloro che occupano i vertici della piramide hanno una identità di interessi: le élites del Sud privatizzano le compagnie e i servizi dello stato, mentre le élites del Nord possono comprare a basso prezzo tutte queste imprese. Con i programmi di aggiustamento strutturale i salari sono sotto pressione, la disoccupazione aumenta e con essa le persone che lavorano per niente; è con i loro sacrifici che vengono fatti i pagamenti. Nello stesso tempo lo Stato sociale viene smantellato. Clinton ha firmato a settembre '96 una legge che va a prelevare denaro agli strati sociali più bassi protetti dal Welfare State. E lo stesso programma si sta applicando sia nel nord che nel sud del mondo. Il rapporto quindicinale del FMI conteneva un articolo nel quale si esortava il Nord a sbarazzarsi di tutte le leggi sociali, specialmente di quelle sull'occupazione. L'ideale per il FMI è che tutti siano liberi di accettare o no un posto di lavoro; in sostanza si auspica di dare mano libera ai datori di lavoro. Tutto questo attivismo delle élites e la capacità di reprimere sempre più la gente che si trova in fondo alla piramide non è un incidente. Credo che sia frutto di un'ideologia che pare normale oggi, mentre 50 anni fa sarebbe stata perfettamente anomala. Dopo la guerra tutti erano keynesiani o marxisti; sarebbe stato addirittura impensabile essere liberisti secondo questo schema. Ho fatto un piccolo lavoro in Le Monde Diplomatique del mese d'agosto su tale problema, perché mi sembrava che la trasmissione di questa ideologia fosse effettuata con grande abilità, consapevolmente, perché la destra è convinta che le idee portino i loro frutti, ed è vero. La destra ha capito la lezione gramsciana dell'egemonia culturale e ha plasmato una cultura che rende accettabile un mondo in cui 2/3 delle persone sono escluse. Negli Stati Uniti, per esempio, spende milioni di dollari per sostenere riviste, per finanziare intellettuali all'interno delle università, per pagare professori, giornalisti. Heritage Foundation, che è fatta con grosse fortune private, ha stilato un elenco di 1.500 esperti in tutti i campi, tutti di destra naturalmente, tutti dell'idea della Heritage Foundation. Il giornalista che è costretto a lavorare in fretta e furia non deve fare altro che telefonare all'esperto: il giorno dopo i giornali compariranno con il parere dell'esperto in bella evidenza. Sotto questo profilo il caso di Francis Fukujama è emblematico. Era un oscuro signore del Dipartimento di Stato degli USA, che è stato invitato da una ricchissima Fondazione americana, la Olin Foundation, a Chicago a presentare uno studio. Olin ha invitato anche tre suoi intellettuali (ovviamente ben pagati) che hanno espresso alcuni favorevoli commenti sullo studio di Fukujama. Successivamente queste quattro persone hanno fatto un dibattito sulla rivista Olin. Dibattito nato dal niente, fatto da persone pagate tutte dalla stessa fondazione, su una rivista di parte. Dopo il di- Come sopravvivere allo sviluppo pag. 13

battito il New York Times e la televisione si sono interessati a Fukujarna e oggi egli è conosciuto in tutto il mondo; ma è un personaggio costruito. Tutto procede con la stessa modalità: fondazioni che pagano gli intellettuali e che creano un clima ideologico in cui questa società dell'esclusione diventi normale. E Fukujama può permettersi il lusso di scrivere un libro intitolato La fine della storia, nel quale sostiene che le nostre società liberali dell'occidente sono arrivate alla fine della storia, perché abbiamo la democrazia, non ci sono più guerre tra noi e tutti gli altri devono arrivare a questo modello di società capitalistica e di democrazia elettiva. Sembra incredibile, eppure viene preso sul serio. Dopo questa digressione sul Fukujama-pensiero, vorrei ritornare sulla questione del debito, perché lo considero lo strumento politico perfetto per far obbedire il mondo intero a questo modello. Con il debito non siamo più di fronte a un problema economico, ma solo squisitamente politico. Sarebbe facile alleggerire o annullare il debito del Sud, eppure non succede. Da un decennio a questa parte ogni anno il G7 si riunisce ed esamina il debito del Terzo Mondo e particolarmente quello dei più poveri tra i poveri: gli africani. Ho fatto uno studio per vedere il destino di 31 paesi africani che sono sulla lista dei più poveri. Questi paesi si sono incontrati con il Club di Parigi più di 150 volte. Hanno fatto 150 accordi separati con il Club di Parigi, che è quello che discute del debito pubblico, mentre il Club di Londra esamina il debito privato. Immaginiamo le risorse per fare 150 discussioni, preparare i dossier. Il risultato è che tutti i 31 paesi, senza eccezioni, sono più indebitati di 6 anni fa quando sono cominciati gli incontri e che il debito annullato è stato inferiore al 5%, mentre la quota di debito per un pagamento dilazionato ha raggiunto il 18%. Comunque il debito non è stato cancellato. É falso credere che noi facciamo qualcosa per i più poveri tra i poveri. Sarebbe anche ingenuo pensare che il Terzo Mondo possa fare un fronte comune e accordarsi per non pagare il debito. L'unità del Sud ormai è spezzata, non c'è più l'organizzazione dei non-allineati come a Bangdung e ogni paese deve andare da solo davanti al Club di Parigi o di Londra. Se da 10 anni il G7 dice che dobbiamo fare qualcosa per risolvere il problema del debito e non viene fatto mai niente, significa che si tratta di uno strumento politico perfetto per ottenere certi risultati. L'Egitto, per esempio, ha visto un quarto del suo debito cancellato perché ha fatto la scelta giusta nella guerra del Golfo, schierandosi con gli Stati Uniti. É uno strumento politico in questo caso fin troppo evidente. In altri casi è sempre possibile imporre l'aggiustamento strutturale, fare in modo che l'investimento transnazionale sia realizzabile e considerare il capitalismo come una religione. E quando dico religione non invento niente. Basta leggere quello che Michel Camdessus, presidente del FMI, ha detto a una classe di laureati del FMI che stavano per diventare impiegati nella stessa organizzazione: «Voi siete i preti del capitalismo. Bisogna che persuadiate tutti i paesi che, se fanno quello che noi diciamo loro, tutto andrà bene. Dovete credere che la nostra organizzazione ha una flessibilità incredibile che le permette di adattarsi a sfide nuove grazie ai suoi statuti fondatori. Abbiate sempre con voi questi statuti del FML Rileggeteli spesso. La rivelazione di Dio per me è contenuta in queste sei ragioni d'essere del Fondo come sono scritte qui». E Camdessus continua imperterrito: «La nostra responsabilità è fare un mondo migliore...». É davvero convinto che con questi piani di aggiustamento strutturale si possa realizzare il mondo dell'armonia in cui tutto è compatibile con tutto: il commercio, l'occupazione, l'ambiente, la crescita, lo sviluppo. Ci troviamo davvero di fronte a una religione (non solo a una questione di interessi), alla quale ci si deve opporre con un'altra idea globale dell'umanità, del pianeta, della vita. É questa ideologia che bisogna smascherare, perché è come l'acqua in cui tutti nuotiamo. E, smascherarla è compito di tutti. Occorre evidenziare che ci sono altre possibilità di organizzare la società e che non è necessario escludere 2/3 dell'umanità. Sul piano concreto qualcosa si può fare, soprattutto a livello europeo. Ho terminato da poco uno studio per il Cnel in vista della Conferenza di Barcellona, che riunisce 15 paesi europei e 12 paesi del Mediterraneo, ribadendo quelli che io chiamo gli argomenti-boomerang, che ritengo molto forti per l'europa: immigrazione, droga (è il prodotto più remunerativo di tutti quelli esportati dal Come sopravvivere allo sviluppo pag. 14

Mediterraneo), disoccupazione, inquinamento. Mi sembrano argomenti convincenti per costringere gli europei a fare qualcosa che interessi le due sponde del Mediterraneo. Un'economia al di sopra della società? In tutte le civiltà umane, fin dall inizio della storia, è sempre stata la società a decidere la forma di economia. Forse si trattava di scelte orribili, come la schiavitù, ad esempio, o altri tipi di organizzazione sociale che noi non condividiamo, ma è stata sempre la società che, per i suoi bisogni identificati, per i suoi ideali, ha deciso come organizzare l'economia. Oggi abbiamo capovolto la situazione e l economia ha il ruolo di decidere l organizzazione della società. Secondo Karl Polanyi, il grande antropologo, sociologo ed economista morto nel 1962, è la prima volta che accade nella storia. Non c'è stato nessun dibattito democratico per stabilire come vogliamo organizzare l'economia, con quali mezzi, in vista di quali fini. Abbiamo un sistema capitalista che prende tutte le decisioni. Siamo in una barca senza timoniere e rischiamo il naufragio. É troppo facile dire che tutto va bene, inneggiare al liberismo e alla libertà, come Fukujarna, e affermare che tutte le decisioni dell'economia sono il meglio che ci possa capitare; sarebbe invece più responsabile prendere le decisioni consciamente e non lasciarle in mano alle forze dell'economia e del capitalismo. Quando si permette all'economia liberale di guidare la società si producono gli effetti che ho descritto all'inizio: le ricchezze vanno dal basso verso l'alto, crescono le disuguaglianze, ci si abitua a comprare e a vendere tutto. In Belgio è scoppiato lo scandalo per la vendita dei bambini; è una cosa orribile, naturalmente, ma è anche normale. Quando si vendono organi, occhi, reni, cuore, perché non vendere addirittura i bambini? Tutto è merce: la natura, il lavoro, la gente. Quando penso a un soggetto politico che possa capovolgere questa situazione non intravedo gran che nell'orizzonte attuale. L'unico segnale di un possibile cambiamento viene dall'urgenza del problema ecologico. La biosfera è limitata e con tutta la nostra tecnologia non possiamo minimamente ampliarla. Fino al XVIII secolo l'attività umana incideva in maniera irrilevante sulla biosfera, oggi con la nostra attività economica produciamo in 15 giorni quello che si produceva in un anno nel 1900. E questa produttività raddoppia ogni 20-30 anni. Attualmente la specie umana sì appropria del 40% del prodotto fotosintetico netto, Ossia di tutta l'energia che fornisce il sole e che serve per la vita. É evidente che l'equilibrio della biosfera non può essere spezzato, non si può continuare a consumare risorse non rinnovabili e magari a gettare i rifiuti (CO 2 compreso) nella biosfera. No n si può continuare a fare economia così, in maniera suicida. La ribellione della natura ci farà prendere coscienza della nostra stupidità economica. Il capitalismo non può fermarsi, è costretto dalle sue regole interne a proseguire sulla stessa rovinosa direzione, ma la natura se ne infischia di noi e dei nostri affari. É un'illusione credere che l'economia possa dettare legge alla natura. Ci sono limiti invalicabili: non possiamo andare più veloci della luce, non possiamo scendere al di sotto dello zero assoluto. Sono leggi di natura che costituiscono un limite alla nostra attività. Spero che un giorno non troppo lontano il logos sappia fornire regole all'economia. Le multinazionali e il libero commercio Vorrei parlare un po' delle compagnie transnazionali, dato che ho avuto modo di occuparmene, perché mi sembrava che tutti gli argomenti in favore del cosiddetto libero commercio fossero falsi e volevo vedere più da vicino come stessero le cose. Ho scoperto che ci sono oggi, secondo le statistiche Onu, 40 mila compagnie transnazionali, che insieme controllano i 2/3 del commercio mondiale. Solo che le prime cento coprono da sole 1/3 del volume totale degli scambi. Dunque 1/3 del commercio mondiale, che ha un valore complessivo di 5 triliardi di dollari, e semplicemente uno scambio tra filiali della stessa compagnia, Inter company transfers. Il rapporto sull investimento mondiale delle Nazioni Unite parla di mercato, ma mi sembra un mercato un po strano, in cui l accesso è limitato totalmente e in cui è possibile fare i prezzi che si vogliono, perché sono arrangiati secondo le leggi dei vari paesi per le necessità di tasse e di imposte. Nell'industria farmaceutica questi prezzi ar- Come sopravvivere allo sviluppo pag. 15

rangiati tra le filiali della Ciba Geigy, della Sandoz, ad esempio, vanno dal 30% a più del 7000% rispetto al prezzo reale di un vero mercato. Dunque 1/3 del commercio mondiale è falsato e totalmente controllato dalle compagnie transnazionali. Il capitalismo va verso il monopolio che è l'inverso del mercato. Il mercato funziona con la concorrenza e le regole servono ad organizzare questa concorrenza; attualmente però viviamo in un sistema in cui tutto ha tendenza ad andare verso il monopolio. Ma c'è da considerare anche un altro aspetto. Per un industriale dell automobile, ad esmpio, non è conveniente costruire una macchina nello stesso paese, ma realizzare i singoli componenti in paesi diversi. Si raggiungono così due risultati: si sfrutta la manodopera più a basso costo e si evita che i lavoratori o i governi di determinate nazioni possano prendere il controllo della produzione. Il commercio determinato da questa esigenza di differenziare la produzione nei vari continenti è pari a un altro terzo del commercio mondiale. In conclusione, solo 1/3 è commercio vero come lo si intendeva nel XVIII secoli, quando vennero elaborate le teorie classiche di Ricardo, di Adam Smith, i quali sostenevano che era meglio commerciare piuttosto che produrre tutto nello stesso paese. L esempio classico portato da Ricardo è quello dei vini portoghesi e delle lane inglesi: è meglio che il Portogallo si specializzi in vini e l Inghilterra in tessuti di lana. Ma Ricardo non immaginava che un giorno nel XX secolo il capitale sarebbe stato libero di trasferirsi da qualsiasi parte; per lui il capitale doveva rimanere nazionale e spesso locale. Per Adam Smith o per Ricardo sarebbe stato difficile immaginare che l industria di Leeds potesse investire a Manchester, tantomeno in Francia e in Portogallo, ancor meno in Indonesia o in Messico. Oggi non c è più un vantaggio comparativo, che è ciò su cui si fondava la teoria classica del commercio; oggi è possibile cercare il vantaggio assoluto, perché il capitale è libero di andare dove vuole, e il vantaggio include la repressione. In Italia la popolazione ha lottato perché gli operai fossero decentemente pagati, ci sono leggi che impediscono, ad esempio, di dare latte adulterato ai bambini, di fare troppi danni all'ambiente. Nei paesi sottosviluppati queste lotte, per ragioni diverse, non sono state fatte e il vantaggio di investire in Indonesia, in Messico o altrove include il vantaggio politico che non ci sono leggi che proteggano la gente. Oggi esistono persone in buona fede, le quali sostengono che non possiamo condividere il nostro lavoro con i paesi sottosviluppati perché i nostri operai sono disoccupati o sono messi sul lastrico e dobbiamo anzitutto pensare a difendere i nostri vantaggi. Sono convinta esattamente del contrario. Mi viene in mente la situazione del XIX secolo quando i bambini lavoravano in fabbrica a 6-8 anni per guadagnare qualche soldo e i primi sindacalisti venivano a dire ai loro genitori che non dovevano più mandare a lavorare i bambini... I genitori replicavano che avevano bisogno di quei soldi, ma erano i sindacalisti ad aver ragione e non i genitori. Credo che oggi il nostro dovere sia quello di far risalire il livello per tutti, non di accettare che il commercio faccia ribassare il soffitto per tutti, perché con il vantaggio assoluto siamo tutti in concorrenza con tutti. Con L Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) gli stessi paesi cosiddetti sottosviluppati sono in concorrenza gli uni con gli altri. A questo proposito la storia della Nike è emblematica. La Nike, una compagnia nordamericana, si è spostata in Corea qualche anno fa. I lavoratori coreani hanno fatto sciopero per avere salari migliori e allora la Nike si è trasferita in Indonesia. Domani s installerà in Vietnam o forse in Cina. Mi sembra, insomma, un errore gravissimo sostenere che dobbiamo condividere il lavoro nel mondo intero secondo la legge dell Organizzazione Mondiale del Commercio, perché non ci saranno mai posti sufficienti per tutti, dato che il capitalismo non è fatto per includere tutti, ma per lasciare ai margini una enorme massa di esclusi; e la concorrenza in queste condizioni è un vero suicidio. Gli investimenti delle compagnie transnazionali nel Terzo Mondo hanno creato complessivamente 12 milioni di posti di lavoro, per un investimento complessivo pari a 400 miliardi di dollari, impegnando meno dell 1% della forza lavoro disponibile. Se crediamo che le multinazionali possano risolvere il problema della disoccupazione sul pianeta siamo destinati ad aspettare secoli e inoltre Come sopravvivere allo sviluppo pag. 16

siamo in concorrenza con un 99% di lavoratori disposti a lavorare per una paga che è al di sotto del minimo vitale. Secondo l'organizzazione Mondiale della Sanità le donne indonesiane nelle zone dove è consentito il libero mercato lavorano per una cesta di cibo che non è sufficiente a mantenere la vita fisiologica. Mi è stato riferito che a Brasilia hanno ridotto il volume delle balle di cotone, perché i brasiliani mangiano talmente poco che non possono più portare sulle spalle il peso che una volta portavano gli schiavi. L'attuale regolamentazione del commercio internazionale tende ad attenuare anche le norme di protezione ambientale: saremo obbligati ad importare cibo con un tasso di pesticidi più alto di quello che permette la legge italiana o francese. C'è, insomma, una caduta verso il basso. Io sostengo, perciò, che nessuno può guadagnare in questo gioco al massacro. Anche le ONG del Sud hanno preso la stessa posizione e invitano a non accettare le regole dell'organizzazione Mondiale del Commercio. Il regolamento finale del GATT (800 pagine, 20.000 con tutti gli allegati) serve solo alle élites; modificarlo costituirà la grande battaglia politica dei prossimi 10 anni. Possibili piste d'impegno politico Siamo di fronte a un mutamento, epocale che richiede evidentemente un. cambiamento di mentalità. Ma un'azione solo individuale mi sembra insufficiente. E' estremamente importante lavorare con gli altri, mettere i propri talenti al servizio d'un gruppo e affrontare il conflitto con i poteri. Personalmente sono favorevole ad un confronto non violento, ma non bisogna dimenticare che i poteri uccidono. Credo anche che sia possibile coinvolgere in questo enorme lavoro politico di cambiamento le classi medie, che hanno paura e sono un po' in ansia. Le classi medie vedono vanificate dal sistema economico attuale tutte le loro conquiste e sono preoccupate. In Francia non c'è famiglia che non sia toccata dalla disoccupazione, compresa la mia. Esiste un senso di precarietà diffuso. Si tratta di un lavoro di coinvolgimento che presenta le sue difficoltà, come dimostra l'esempio di Clinton negli Stati Uniti. Il presidente americano per motivi elettorali ha varato una legge che riduce l'assistenza sociale alle classi più disagiate in mezzo all'indifferenza generale. Per contrastare il NAFTA, l'accordo di libero scambio tra Usa, Canadà e Messico, si era organizzata una coalizione enorme, la più grande dalla guerra del Vietnam, che comprendeva le chiese, i sindacati, gli esponenti al commercio equo e solidale. Eppure il NAFTA è stato approvato perché Clinton ha promesso soldi a tutti i rappresentanti. del Congresso. Alcuni dicono che abbia pagato 50 miliardi di dollari, più una sovvenzione per il suo Dipartimento, più una legge sulle arance in Florida, più qualche altra concessione. Comunque, l'accordo di libero scambio è passato al Congresso. C'è un lavoro politico enorme da fare per cambiare, le cose. Siamo nelle mani di un governo mondiale che io considero illegittimo, perché non è stato eletto da nessuno. Le multinazionali, il Fondo Monetario, la Banca Mondiale, l Organizzazione Mondiale del Commercio, qualche centinaio di miliardari sono i despoti che reggono il mondo in maniera dittatoriale. La prima cosa da fare è dichiarare che questo potere è illegittimo. La Banca e il Fondo sono regolati da uno statuto ma il loro modo di procedere è profondamente cambiato da 50 anni a questa parte e ha preso una piega che non era nella mente dei fondatori. Il potere che esercitano su una ottantina di paesi con gli aggiustamenti strutturali è veramente abusivo. In secondo luogo bisognerebbe impegnarsi a costruire la democrazia internazionale Capisco che è già difficile realizzarla nell'ambito di un singolo stato, ma ormai la situazione ci impone di operare a livello internazionale. Alle élites capitalistiche, che sono perfettamente collegate tra loro, bisognerebbe contrapporre alleanze internazionali di persone che fanno resistenza a determinati provvedimenti ingiusti. Voglio portare un esempio che si riferisce all'organizzazione di Greenpeace. Quando il governo messicano si preparava ad invadere il Chiapas per la seconda volta, la sezione messicana locale ha dato l'allarme all'organizzazione centrale, fornendo l'indirizzo e il numero di fax del ministro dell'interno. Ci siamo subito mobilitati inviando via fax messaggi al ministro per ricordargli che da tutto il mondo lo tenevano d'occhio. Fatto sta che l'invasione del Chiapas non c'è stata. Come sopravvivere allo sviluppo pag. 17

Oggi con gli strumenti elettronici non è difficile organizzare a livello internazionale questo tipo di protesta che ha una grande efficacia, perché la repressione vive dell'invisibilità e teme soprattutto che le cose spaventose siano rese visibili. Anche la facilità di viaggiare può offrire l'occasione di stringere legami fra persone e organizzazioni di paesi diversi. Ci sono poi da rafforzare le reti di collaborazione locale fra i cittadini. La stampa non parla molto di queste iniziative, ma in certi paesi sono molto diffuse. In Inghilterra esistono organizzazioni chiamate lets (local exchange trading systems), sistemi locali di scambio, dove vengono messi in comune sia i prodotti che le capacità di scambio senza denaro. Io ti taglio i capelli gratis e tu mi scrivi a macchina qualcosa, ad esempio. Il sistema è così sviluppato in certe località che il fisco se ne interessa vivamente perché non è tassato. Insomma, ci sono diversi modi per dare alla gente più potere sulla propria vita. In America, ad esempio, si sono sviluppate alleanze tra contadini e consumatori: all'inizio dell'anno un certo numero di famiglie fornisce al contadino i soldi per fare la coltura e s'iscrive per comprare i prodotti. Queste reti locali vanno rafforzate perché dipendiamo tutti dal mercato mondiale e subiamo una perdita di potere. Un altro obiettivo è quello di rafforzare lo stato. Fino a una quindicina d'anni fa ero praticamente anarchica, ma adesso non vedo cos'altro potrebbe proteggerci contro il mercato mondiale se non lo stato. Non bastano le reti locali a proteggere i cittadini contro gli effetti della mondializzazione; lo stato è l'unico bastione contro le forze che vogliono spazzare via le garanzie sul lavoro, la sanità, la famiglia. Io difendo lo stato sociale perché è il risultato di lotte che dobbiamo rispettare e non sono convinta che bisognerebbe abbassare lo stato sociale qui perché altra gente in altre parti del mondo ne tragga benefici. Tra i compiti prioritari da affrontare in questo scorcio di secolo c'è quello di riequilibrare l'impatto dell'attività umana sulla biosfera. Si tratta di un'equazione matematica: impatto = consumo globale x tecnologia x popolazione. Così non possiamo andare avanti. Come diceva Kenneth Boulding, un economista-ecologista negli anni '60, «per credere che sia possibile realizzare una crescita infinita nella biosfera finita bisognerebbe essere o un pazzo o un economista». Penso, infine, che bisognerebbe controllare il transnazionale. C'è un libro di Colin, Hines e Tim. Lang intitolato Il nuovo protezionismo, in cui gli autori sostengono che le multinazionali, per essere autorizzate a vendere in un territorio, dovrebbero produrre nel territorio stesso. Non si tratta di fermare il commercio, che sarà sempre necessario, ma di rendersi conto che con uno scambio di 5 triliardi di dollari all'anno l'impatto sul pianeta ha un effetto devastante. Far venire patate dal Nord Europa in Italia per lavarle e poi ritrasportarle in Francia o in Belgio per ricavarne patatine fritte, dal punto di vista ecologico è una follia. Questa crescita finisce per renderci sempre più poveri. Un'ultima riflessione sul nostro livello di vita. In Germania l'istituto di Wuppertal ha dimostrato che per produrre le arance destinate al consumo dì succo di frutta dei tedeschi occorre due volte e mezzo la superficie della Germania. Se potessimo fare una mappa dei consumi dei popoli europei ci accorgeremmo che il nostro consumo sta colonizzando il mondo e che è aumentato a dismisura col commercio e i trasporti. Gli americani e i danesi, per esempio, si scambiano gli stessi dolci. Non sarebbe più economico e più ecologico scambiarsi le ricette di cucina? Ci sono migliaia di esempi di questa natura, ma noi non riusciamo a pensare il commercio in maniera differente perché siamo vincolati alla concezione della crescita, che ha bisogno di una critica radicale. Vorrei concludere queste considerazioni con un richiamo alla pace. Per me la pace è l'ideale, l'utopia a cui m'ispiro e per cui lavoro, ma temo che saremo sempre costretti a fare resistenza e opposizione. Apprezzo la pace interiore e la ritengo la condizione per potere continuare a lottare in un mondo non giusto. Come sopravvivere allo sviluppo pag. 18

III - Rodrigo A. Rivas Rodrigo A. Rivas Economista e giornalista cileno, è stato dirigente di Unidad Popular prima del colpo di stato del 1973. Ha insegnato in diverse università sia in Italia che in America Latina. Dal 1980 al 1985 ha diretto il Centro Studi di politica internazionale e dal 1986 al 1989 Radio Popolare. Ha al suo attivo una trentina di pubblicazioni su temi di economia e di politica internazionale. I fasti del libero mercato «Il colonnello Aureliano Buendìa promosse trentadue sollevazioni armate e le perse tutte. Ebbe diciassette figli maschi da diciassette donne diverse, che furono sterminati uno dopo l'altro in una sola notte, prima che il maggiore compisse trentacinque anni. Sfuggi a quattordici attentati, a settantatre imboscate e a un plotone di esecuzione. Sopravvisse a una dose di stricnina nel caffè che sarebbe bastata ad ammazzare un cavallo... (Di lui) l'unica cosa che rimase fu una strada di Macondo intitolata al suo nome... Perse tutto salvo la voglia di combattere e la speranza di vincere»... Comincio con questa reminiscenza letteraria tratta da Cent'anni di solitudine, perché mi sembra piena di indicazioni pratiche. Spero che ciò risulterà più chiaro nel corso dell'esposizione. Per lo stesso motivo vorrei aggiungere a questo piccolo prolegomeno letterario un'altra citazione di García Márquez. Con l'immaginazione bisogna andare ancora in Colombia, questa volta sul grande fiume che fa da protagonista in molti testi dello scrittore, e cioè il Magdalena. Fermina Daza era rimasta vedova da pochi mesi e Fiorentino Ariza le aveva confessato che continuava ad amarla, per essere precisi da cinquantadue anni, sei mesi e tre settimane. Alla fine i due riescono ad imbarcarsi per coronare il loro sogno d'amore e, per non essere disturbati, Ariza - che è proprietario della compagnia di navigazione - ordina che si navighi sotto la bandiera gialla che è il segnale del colera. Sulla Nuova Fedeltà i due «fecero, un amore tranquillo e sano, da nonni appannati». Alla fine però, arrivarono in fondo al viaggio, una fine indicata dal «vento del mare dei Caraibi che si addentrava dalle finestre con il baccano degli uccelli». Ritornare nel mondo «sarebbe stato come morire». Fu allora che Florentino diede quell'ordine: «Andiamo a dritta, a dritta, a dritta, ancora verso La Dorada»... Il capitano, schiacciato dalla tremenda forza della ispirazione di Florentino, gli chiese: «Lo dice sul serio?». «Da quando sono nato - disse Florentino Ariza non ho detto una sola cosa che non sia sul serio»... «E fino quando crede lei che possiamo continuare con questo andirivieni del cazzo?», insistette ancora il capitano. Florentino Ariza aveva la risposta pronta da cinquantatre anni, sette mesi e undici giorni, notti comprese: «Tutta la vita», disse. Succede. D'altronde, anch'io comincio ad avere una certa età e - come capita spesso - ho parecchi ricordi. Pesano e non sono sempre felici. In Cile ho studiato scienze politiche e l'ultimo anno di università l'ho fatto in una classe in cui eravamo 18 persone. Non siamo vecchissimi, ma siamo vivi solo in pochi, gli altri morirono tra l'11 settembre del '73 giorno del colpo di Stato dei generale Pinochet - e i mesi successivi. Una generazione poco fortunata. Peraltro provengo da un paese nel quale circa il 90% della popolazione è di origine esterna, intendendo per interna, gli "americani originali", e cioè gli indigeni. Mio nonno paterno, Francisco Javier, era arrivato in Cile dopo una sola misera guerra, in Spagna, intorno agli anni '30. lo rifeci la stessa strada in senso inverso, pur se non ho fatto esattamente lo stesso percorso perché quando sono uscito dal Cile, e cioè nel 1974, a Madrid comandava ancora Franco e non era il caso di andarci. Quindi, andata e ritorno in tre generazioni, senza mai pagare il biglietto, sempre da esuli. Se non altro, non siamo stati un grande affare per le agenzie di turismo. Tutto questo mi permette di fare l'ultima notazione introduttiva: io provengo dal Terzo Mondo, ma da un Terzo Mondo particolare (ogni frammento lo è). Provengo cioè da quell'america Latina che Eduardo Galeano chiama 1'estrema periferia dell'occidente". E questo rappresenta un vantaggio e un limite. Un vantaggio perché non ci è difficile comprendere la cultura materiale dell'europa; (ricordo che quando sono arrivato m'incuriosirono le lavastoviglie, l'unica cosa che non avevo mai visto); un limite perché si tratta sì di un'altra cultura, ma molto vicina a quella europea. E ciò mi rende invece Come sopravvivere allo sviluppo pag. 19

difficile comprendere fino in fondo culture radicalmente diverse. Credo dunque di poter approcciare il tema da un'angolatura relativamente differente da quella abituale a queste latitudini, senza che ciò implichi la pretesa, la voglia o la capacità di rappresentare i tanti sud del mondo. Mi propongo, quindi, di raccontare un paio di esempi storici che mi sembrano interessanti per capire il contesto attuale e la sua novità; di fare in secondo luogo qualche riflessione sulla situazione odierna, sia dal punto di vista politico che economico; infine, di fornire qualche indicazione pratica su alcune cose da fare. I - LA STORIA Nel 1810 a Buenos Aires, allora una piccola città di 15.000 abitanti (oggi ne ha 9 milioni), arrivò la notizia che Napoleone Bonaparte aveva invaso la penisola iberica e che aveva nominato come nuovo re di Spagna il suo fratello Giuseppe, chiamato dagli spagnoli Pepe Botella (Beppe Bottiglia). A questa notizia, la borghesia latinoamericana di origine spagnola si riunì in un cabildo aperto in cui decise che non avrebbe riconosciuto l'usurpatore francese, ribadì contemporaneamente la propria fedeltà al re in esilio Ferdinando VII e nominò una giunta di governo che avrebbe retto il paese fino al ritorno del monarca legittimo. Nacque così, in modo praticamente indolore, la prima fase dell'indipendenza latino-americana, la "Patria vecchia". In Argentina il cabildo aperto porta la data del 25 maggio 1810. La notizia si sparse dovunque nel giro di qualche mese. E tutti i paesi americani presero più o meno la stessa risoluzione. Per quanto riguarda le colonie spagnole, ben presto il processo di reggenza si trasformò in movimento indipendentista, salvo nei due paesi che - non a caso erano le due capitali storiche, ovverosia il Messico e il Perù, dove l'indipendenza nacque invece imposta dall'esterno. Nel caso peruviano argentini e cileni invasero il Perù e lo dichiararono indipendente contro il volere dei peruviani; nel caso messicano un capitano di ventura, Agustín Iturbide, si autoproclamò imperatore dell'impero degli Stati Uniti del Messico. "Per la precisione" faccio un veloce riferimento al Brasile. Naturalmente, anche il Portogallo era stato invaso dalle truppe napoleoniche ma, in questo caso, l'insieme della corte di Lisbona decise di traslocare nella colonia sudamericana. Dopo Waterloo e il Congresso della Santa Alleanza a Vienna, il re ritornò a Lisbona, ma non riuscì a convincere suo figlio Joao a seguirlo. Viceversa, dom Joao decise di restare a Rio de Janeiro dove si proclamò imperatore del Brasile, che così diventò un Impero indipendente senza colpo ferire. Ma torniamo alla nostra storia specifica. Raccontano infatti gli storici che l'avvento della giunta di governo argentina fu salutato anche dal fiume della Plata. All'imbocco del fiume, infatti, c'era una flotta inglese che prese parte ai festeggiamenti sparando parecchie salve di cannone. Il giorno dopo, la prima misura del nuovo governo consistette nel ridurre le tasse per le importazioni dal 50% al 7,5%. Trenta giorni più tardi, la Giunta di governo di Buenos Aires decretò l'assoluta libertà nell'esportazione di oro e argento (il subcontinente importava essenzialmente schiavi e alcuni manufatti, mentre esportava preziosi, materie prime agricole e anche parecchi manufatti, pur se bisogna aggiungere che le sue merci non venivano pagate che in minima parte. Rappresentavano, per così dire, un grazioso contributo allo sviluppo europeo). Tre mesi dopo vennero aboliti tutti i dazi alle importazioni e alle esportazioni e fu proclamata la totale libertà commerciale. Da questo punto di vista la giunta del Mar del Plata, come poi tutte le altre, fu antesignana di un movimento di liberismo totale. Le conseguenze non si fecero attendere: due anni dopo in Argentina non c'era più nessuna industria. Erano completamente scomparse. Lo stesso avvenne altrove. Si potrebbe obiettare che non deve essersi trattato di una grande industria. É più che probabile. Comunque i prestigiatori del libero mercato fecero scomparire anche la maggiore industria tessile dei primi dell'800, e cioè quella indiana. Visitando le Americhe Alexander von Humboldt - che di tutto si occupava meno che di politica - aveva scritto nel 1805 che il valore della produzione manifatturiera del Messico era pari a 8-10 milioni di pesos annuali e che il 70% di essa era assicurato dal settore Come sopravvivere allo sviluppo pag. 20