Ancora sulla Epistola a Moroello e sulla montanina di Dante (Rime, 15)



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Ancora sulla Epistola a Moroello e sulla montanina di Dante (Rime, 15) ENRICO FENZI I Un recente volume di Paola Allegretti torna a riproporre uno dei casi più intriganti entro il corpus delle rime dantesche: quello della canzone cosiddetta montanina, Amor, da che convien pur ch io mi doglia (già CXVI nell ordinamento Barbi, tra le Rime varie del tempo dell esilio; ora n. 15 nella recente edizione critica di Domenico De Robertis, in quanto ultima della famosa serie del Boccaccio) 1. Sì che intorno ad essa sarà bene richiamare brevissimamente qualcosa. Per esempio, che normalmente la si dà come l ultima lirica composta e divulgata da Dante, e da lui mandata al marchese Moroello Malaspina di Giovagallo quasi certamente nel 1307, o primi mesi del 1308, insieme alla lettera accompagnatoria Ne lateant dominum (Epist. IV), che ne costituisce una sorta di razo 2. In qualche modo, questa iniziativa sembra dunque raddoppiare l altra, di poco precedente (1303-1306, ma più vicino alla seconda data che alla prima), costituita dall invio a Cino da Pistoia della lettera Eructavit incendium (Epist. III, Frugoni: 532-535), che accompagnava il sonetto Io sono stato con Amore insieme (104: CXI Barbi), responsivo al suo CXXVIII, Dante, quando per caso s abandona 3. Né ad avvicinare le due doppie missive è solo la presenza della prosa latina esplicativa, ma anche una notevole affinità di contenuto, dal momento che sia il sonetto che la canzone celebrano l ineluttabile fatalità di un Amore che afferma il proprio potere su ragione e virtù, sbaragliando il libero arbitrio del soggetto innamorato. Di 43

Tenzone nº 4 2003 più, va anche osservato che a far da ponte tra l uno e l altra sta la circostanza che Cino, nello stesso giro d anni, rivolge al marchese Moroello assai probabilmente il sonetto CXXI, Signor, e non passò mai peregrino (che sembra essere molto vicino alla montanina ), e certamente il sonetto CXXIX, Cercando di trovar minera in oro, e che Dante a nome del marchese gli risponde con il suo Degno fa voi trovare ogni tesoro (106: CXIII Barbi). Proprio questa tarda corrispondenza tra Dante e Cino, con il Malaspina sullo sfondo, insinua tuttavia i primi gravi motivi di perplessità, dal momento che le retrospettive considerazioni dantesche sullo strapotere di Amore, affidate alla virtuosistica tessitura verbale e ritmica dei sonetti, inclinano presto verso il rimprovero mosso a Cino di «volgibile cor» e dunque di scarsa sincerità e serietà amorosa, cui s aggiunge nel terzo dei sonetti, Io mi credea del tutto esser partito (107: CXIV Barbi), l esplicita e definitiva presa di distanza da quella rimeria amorosa, ormai riguardata come un occasionale relitto del passato: «Io mi credea del tutto esser partito / da queste nostre rime, messer Cino, / ché si conviene omai altro camino / alla mia nave più lungi dal lito; / ma perch i ho di voi più volte udito / che pigliar vi lasciate a ogni uncino, / piacemi di prestare un pocolino / a questa penna lo stancato dito...». Ma ecco che la canzone rompe con i modi minori di questa tarda squisita e marginale accademia, e inaspettatamente restituisce al tema dell irrazionale e soverchiante forza di Amore tutta la sua attuale ed eloquente grandezza. Donde appunto quella perplessità, ché non ci si aspetterebbe da un Dante ormai fatto cantor rectitudinis e, a quell altezza, già impegnato nella Comedia, una canzone come questa, così anacronistica nel suo pessimismo erotico di tipo cavalcantiano e nella ripresa di motivi già svolti con ben altra potenza e tensione espressiva nelle petrose, composte, a quanto pare, undici-dodici anni prima, e prima, soprattutto, del formidabile spartiacque dell esilio. Insomma, secondo gli schemi che, dal più al meno, tutti abbiamo in 44

Enrico FENZI Ancora sulla Epistola a Moroello e sulla montanina... testa, è chiaro che solo Tre donne e Doglia mi reca potrebbero fregiarsi del titolo di Ultime Liriche...: ma tant è, le cose stanno proprio così, e non resta che farsene una ragione. Come è avvenuto in passato, del resto, quando si sono escogitati reconditi significati allegorici (la donna starebbe per Firenze, o per la Comedìa, o per Beatrice rediviva) 4, soprattutto per aggirare la curiosa circostanza di Dante che, nel congedo, invia la canzone a Firenze affinché vi proclami che il suo presente stato di asservimento amoroso è tale da impedirgli addirittura il ritorno, nell ipotesi che la città «vota d amore e nuda di pietate» mitighi la propria crudeltà e decida di richiamarlo dall esilio. E come più recentemente ha fatto Gorni che, in una eccellente messa a punto delle questioni sollevate dalla canzone, ha finito per dichiararsi insoddisfatto di quelle ipotesi allegoriche ma non dell idea che un qualche significato nascosto ci debba pur essere, e soprattutto ha avanzato una sua personale proposta che ha il merito di cogliere perfettamente il senso di disagio che la canzone suscita: quella cioè che Amor da che convien «potrebbe essere una specie di falso d autore forse una vecchia canzone d amore, recuperata durante l esilio a fini allegorici non evidenti, e come tale spacciata a Moroello e provocatoriamente indirizzata alla città: in tal caso, solo il congedo sarebbe degli anni dell esilio» 5. E l ipotesi, autorevolmente fatta propria da Domenico De Robertis nella sua edizione delle Rime, III: 226, è ora accolta anche dalla Allegretti (in part. 66-68), che non ne fa però un motivo centrale del suo discorso. Ho citato Gorni studioso in proprio della montanina prima che prefatore. Ma, a completare l accenno agli essenziali poli di riferimento critici, occorre anche che si ricordi il bel saggio di Giorgio Stabile 6, nel quale lo studioso mostra come Dante dedichi la canzone all analisi di un classico coup de foudre amoroso, e assuma come struttura portante del suo itinerario introspettivo proprio quanto la filosofia naturale del tempo insegnava circa la formazione dei tuoni e dei fulmini: un approccio, dunque, 45

Tenzone nº 4 2003 importante ma del tutto diverso da quello di Gorni, così come è ancora diverso quello della Allegretti la quale, per parte sua, non considera le difficoltà suscitate dalla posizione che la canzone occupa entro il corpus delle rime, e addirittura, tout court, entro la complessiva vicenda intellettuale e umana di Dante; non l analisi del nucleo tematico sul quale la canzone si regge, ma piuttosto l indagine sottile e la ricostruzione della tradizione letteraria sulla quale il lessico e le immagini dantesche puntualmente insistono. Così, la studiosa offre una fitta serie di rimandi interni ad altri luoghi danteschi, e di rimandi esterni, tra i quali hanno particolari significato, direi, quelli a Ovidio tra i classici, e quelli a Cavalcanti e Cino tra i volgari (ma sempre molto pertinenti sono pure le citazioni da Guittone, da Monte Andrea, da Guinizzelli, da Dino Frescobaldi...). Abbiamo così squadernato sotto i nostri occhi un vasto repertorio che ad ogni passo suggerisce spunti decisivi all interpretazione e che, di là dai molti rinvii alla Vita nova, conferma quanto pesi l ipoteca cavalcantiana (ma anche quella delle paure e degli sbigottimenti ciniani) su un testo dedicato a un amore tirannico che distrugge ogni contrario «argomento di ragion» (v. 26), e precipita il soggetto in una attonita condizione spirituale di «ignoranza ed oblio» di sé (v. 50). In perfetta antitesi, dunque, con quell Amore che, nella Vita nova, 2, 4, sempre «comandava secondo lo consiglio de la Ragione»: non però con i sonetti del gabbo, sempre nel libello, e, fuori, con le canzoni dell amor doloroso E m incresce di me e Lo doloroso amor, alle quali anche la montanina priva del posteriore congedo andrebbe riportata, almeno secondo la già considerata ipotesi di Gorni (ma anche De Robertis, nel luogo sopra citato: «essa sembra piuttosto riportarsi alla tematica dell amor doloroso, con particolari contatti con E m incresce di me», e così già Foster e Boyde, in particolare II: 331), alla quale indubbiamente la minuziosa schedatura della Allegretti fornisce un ampia rete indiziaria di supporto. 46

Enrico FENZI Ancora sulla Epistola a Moroello e sulla montanina... Ciò detto, è però vero che non solo la canzone pone molti problemi, sin qui ben individuati ma non risolti: lo fa anche l epistola che l ha accompagnata al marchese Moroello. E proprio da questa, quale cappello o razo della canzone, vorrei cominciare, anche perché è qui, nella prosa, che Dante ci indica quale sia la prospettiva entro la quale siamo invitati a collocare e intendere i suoi versi. II Ecco, per comodità, il testo dell Epist. IV, che suddivido in brevi paragrafi, per facilitare i riscontri con quanto dirò : [1] Ne lateant dominum vincula servi suj quam affectus gratuitas dominantis et ne alia relata pro alijs que falsarum opinionum seminaria frequentius esse solent negligentem predicent carceratum, ad conspectum Magnificentie vestre presentis oraculj seriem placuit destinare. [2] Jgitur michi a limine suspirate postea curie seperato in qua velut sepe sub admiratione vidistis fas fuit sequi libertatis offitia, cum primum pedes iuxta Sarnj fluenta securus et incautus defigerem, subito heu mulier ceu fulgur descendens apparuit nescio quomodo, meis auspitijs undique moribus et forma conformis. [3] O quam in eius apparitione ostupui: sed stupor subsequentis tonitruj terrore cessavit. Nam sicut diurnis coruscationibus illico succedunt tonitrua, sic inspecta flamma pulcritudinis huius amor terribilis et inperiosus me tenuit. [4] Atque hic ferox, tanquam dominus pulsus a patria post longum exilium sola in sua repatrians, quicquid eius contrarium fuerat intra me vel occidit vel expulit vel ligavit. Occidit ergo propositum illud laudabile quo a mulieribus suis cantibus abstinebam, ac meditationes asiduas quibus tam celestia quam terrestria intuebar quasi suspectas impie relegavit, et denique, ne contra se amplius anima rebellaret, liberum meum ligavit arbitrium, ut non quo ego sed quo ille vult me verti oporteat. Regnat itaque Amor in me nulla refragante virtute, qualiterque me regat inferius extra sinum presentium requiratis. 47

Tenzone nº 4 2003 Non ne farò un commento puntuale, per non occupare troppo spazio, in questa sede, con questioni già da altri affrontate e non direttamente pertinenti al proposito. Per esempio, quella che riguarda l identità non perfettamente certa del destinatario (il giovane Moroello marchese di Villafranca, cugino di Franceschino, per conto del quale Dante trattò la pace con il vescovo di Luni nell ottobre del 1306, o piuttosto, come ormai si conviene, Moroello di Manfredi marchese di Giovagallo, il «vapor di Val di Magra» di Inf. XXIV 145, sposo di Alagia Fieschi, della quale Purg. XIX 142-143), o la data, sulla quale mi pare che ormai tutti concordino, una volta respinta la vecchia ipotesi di Torraca (e più recentemente di Hardie) che pensava che la Curia fosse quella di Enrico VII e spostava epistola e canzone al 1311 7. O quelle che riguardano il testo, bisognoso di qualche emendamento (per il caso più notevole, vedi appena sotto). Altre sono invece le cose che vorrei precisare e aggiungere, come quelle che sono più interessanti per l interpretazione della canzone. [1] vincula [...] carceratum: Dante vuole far conoscere al marchese Malaspina la sua presente condizione di uomo incatenato e carcerato, per stornare l eventuale accusa di negligenza nei suoi confronti: non è infatti negligente, ma impossibilitato a far fronte ai propri impegni e probabilmente, come lasciano intendere le ultime righe, a tornare presso la sua corte. Ma, a intendere il passo nella sua compiutezza, occorre decidere circa un dubbio che riguarda la lezione. Il codice porta: «gratuitatis dominantis» che la Allegretti, contravvenendo alla scelta ormai invalsa, mantiene a testo traducendo la frase così: Perché non restino nascoste al signore le catene del suo servo, come i sentimenti verso la gratuità che lo domina (affectus, nominativo plurale). Precedentemente, invece, aveva finito per far testo l emendamento suggerito dallo Zenatti e difeso da Parodi in nome delle esigenze del cursus («si dica però che gratuitatis dominantis è, dal punto di vista del cursus, in fine di periodo, non 48

Enrico FENZI Ancora sulla Epistola a Moroello e sulla montanina... solo, ma proprio del primo periodo, quasi un mostro»), e introdotto poi dal Pistelli nell edizione del 1921 della Società Dantesca Italiana, che corregge gratuitatis in gratuitas (Torraca invece avrebbe voluto correggere in gravitas), che impone la traduzione:... come la gratuità del sentimento che lo signoreggia (affectus, genitivo singolare) 8. In entrambi i casi non si dovrà tuttavia intendere che il sentimento sia come una specificazione dei vincula, quasi si dicesse: Perché non restino nascoste al signore le catene dell affetto disinteressato che domina il suo servo, ma piuttosto che abbia valore disgiuntivo rispetto ai vincula, dovendosi riferire all atteggiamento di Dante verso il marchese, al quale lo lega un rapporto di dipendenza appunto gratuita, non condizionante, e dunque essenzialmente diverso dalla sua attuale condizione di schiavitù. Dunque, assai liberamente: Perché non restino nascoste al signore né le (nuove) catene del suo servo, né l affetto che tuttavia questo stesso servo continua a nutrire verso di lui, fondato su un rapporto di dipendenza volontaria, liberamente scelto e dentro il quale egli ha avuto salvaguardati i propri margini di libertà. E così appunto io intenderei, sulle orme di Parodi (cit.: 420): «è per me chiaro che egli intende contrapporre ai ceppi l affetto che, nonostante tutto, lo lega al suo Signore, e cioè anticipare in altra forma la contrapposizione che segue: carceratum, ma... non negligentem!»), non solo perché il testo ne riesce arricchito, ma soprattutto perché mi sembra che questo stesso concetto, che contrappone un servizio liberamente accettato e vissuto a una ben più radicale e costrittiva schiavitù nella quale il soggetto è improvvisamente caduto torni avanti nel testo, nei «libertatis offitia» del 2 (vedi sotto). -ad conspectum Magnificentie vestre presentis oraculi seriem placuit destinare: fa difficoltà, qui, la presentis oraculi seriem, che, d accordo con altri, solo con forte banalizzazione potremmo tradurre, come fa Frugoni, con il testo del presente scritto (meglio Allegretti: la compagine della presente visione ). 49

Tenzone nº 4 2003 Il termine series, alquanto ridondante, torna solo un altra volta in Dante, nell Epist. I al cardinale Niccolò da Prato, 2: «vestrarum litterarum series» (Frugoni: 524), che potremmo tradurre, con Frugoni, le parole della vostra lettera, ma forse meglio il contesto, l insieme, l ordinato procedere (o infine, appunto, la compagine... ). L espressione in ogni caso è comune, e basta per accertarsene una scorsa al CETEDOC: «totam seriem visionis» (Actus Francisci 74, 9); «attendenda et exponenda totius litere series» (Andrea di san Vittore, Exp. hystorica in librum Regum 1, 13); «propheticae visionis series» (s. Bernardo, Sermo in dom. inf. octavam assumptionis p. 5, 3, p 263, 22); «per totam seriem litterarum» (s. Bernardo, Epist. 87, 1), ecc. Ma il vero problema è quel oraculum, che Dante usa solo in questo caso. Nella tradizione, la parola da un lato designa il luogo fisico la parte più interna, più nascosta del tempio- dove ci si reca per avere i responsi della divinità 9, e, dall altro, gli stessi responsi, onde abbondano, nei testi, gli oracula delle Scritture, dello Spirito Santo, dei profeti, dei patriarchi, ecc., e si tratta quasi sempre di oracula definiti come celesti, divini, profetici, sacri, e così via. L oraculum è, insomma, un messaggio che la divinità fa giungere sino a noi sia parlando mediante una voce umana, com è il caso esemplare della Sibilla (Andrea di san Vittore, Exp. in heptateuchum. In Numeros r. 160: «Et est oraculum divinum per os hominis responsum») 10, sia, in maniera più ribassata, mediante l apparizione in sogno di persone dotate di particolare carisma o specifiche funzioni, o della divinità medesima. In questo senso, l oraculum fa parte, con la visio e il somnium, dei tre tipi superiori del sogno, mentre inferiori e fallaci sono l insomnium e il phantasma, secondo il celebre schema classificatorio di Macrobio, nel Commento al Somnium Scipionis ciceroniano, I 3, 1-11, che ha fatto testo per tutto il medioevo e che è stato spesso ripetuto. In particolare, ecco le sue parole: «Et est oraculum quidem cum in somnis parens vel alia sancta gravisve persona seu sacerdos vel etiam deus aperte eventurum quid aut non eventurum, faciendum devitandumve denuntiat» 11. Non è dunque semplice stabilire che cosa Dante abbia inteso. In ogni caso, anche a 50

Enrico FENZI Ancora sulla Epistola a Moroello e sulla montanina... me non pare che ci si possa limitare alla lettera/oggetto in sé, come fa appunto Frugoni e come faceva per la verità già Novati, per il quale l oraculum poteva significare una missiva qualsiasi, più o meno importante che fosse, indipendentemente dal suo contenuto 12, ma che tutta l espressione significhi che l autore vuol mettere sotto gli occhi del destinatario un esperienza particolare che gli è avvenuto di subire, carica d un suo speciale alone di significato. A rigore, dunque, stante il peso dell auctoritas in materia, cioè appunto Macrobio, si potrebbe addirittura sostenere che Dante riferisca al Malaspina il contenuto di un sogno: un sogno, naturalmente, che l ha profondamente condizionato, sino a fargli mutar vita. Non mi pare che questa ipotesi sia già stata fatta, e mi rendo conto come essa suoni azzardata, sia perché non trova altri espliciti riscontri all interno della lettera, sia perché, soprattutto, non sembra in alcun caso applicabile al testo della canzone. Sarà dunque meglio metterla tra parentesi, e ripiegare, accogliendo la traduzione della Allegretti, su una più generica visione, che dovrà il suo carattere oracolare al fatto che, come vedremo, attraverso l apparizione della donna (un oraculum reale, ricevuto a occhi aperti) è in realtà il dio d Amore che si rivela e rinnova il messaggio del suo invincibile potere. [2] Igitur michi a limine suspirate postea curie separato, in qua velut sepe sub admiratione vidistis fas fuit sequi libertatis offitia: Dante si è allontanato, non è detto in quale circostanza, dalla curia del Malaspina, nella quale il signore, con ammirazione, l ha visto spesso dedicarsi ai libertatis offitia, ed ha avuto presto a rimpiangerla. Si osservi intanto un ossimoro analogo a quello già visto sopra, con la gratuitatis dominantis: là, era questione di una dipendenza liberamente accettata e non condizionante; qui, della rivendicazione della propria autonomia di pensiero che sotto gli occhi ammirati del signore si realizza in determinati offitia. Il concetto che sottostà a queste parole può essere in parte spiegato con una citazione di Agostino, De vera religione 111: «Illud etiam cuivis cognoscere facile est, quod sub homine dominante liberas cogitationes habere concessum est», mentre 51

Tenzone nº 4 2003 quale sia il contenuto di tali occupazioni liberali è detto poco avanti: sono appunto le meditationes assiduas, gli studi filosofici. Ora importa tuttavia sottolineare che tutto ciò Dante lo sta per perdere, precipitando sotto il dominio di un ben diverso signore Amore- che diversamente dal Malaspina esercita su di lui un potere totalizzante e gli impedisce di dedicarsi ai doveri di quell uomo padrone di sé che ormai ha cessato di essere. Va anche detto che esiste una diversa interpretazione dell espressione, o meglio, diversamente orientata, che risale a Panfilo Serafini e poi allo Zenatti e a Zingarelli e che Torraca ha fatto propria con piena adesione, e cioè che Moroello «si meravigliava di veder Dante libero dalle cure di amore», che non mi pare accettabile. Per ciò, vedi Torraca: rec. cit.: 141, nota 147 e 148 e ora in particolare Allegretti: 128-130 13. - cum primum pedes iuxta Sarni fluenta securus et incautus defigerem: appena ho messo i piedi, sicuro e indifeso, lungo il corso dell Arno. Se si raddoppiano queste parole con le altre, della canzone, vv. 61-63: «Così m ha concio, Amore, in mezzo l alpi, / nella valle del fiume / lungo l qual sempre sopra me sè forte», e le si riportano agli anni 1307-1308, si dovrà intendere che la scena sia collocata nell alta valle dell Arno, il Casentino: ma si noti che nella lettera è del tutto assente l ambientazione montanina, che caratterizza così fortemente la canzone (vedo che anche Gorni: 141-142, sottolinea questa curiosa circostanza). In maniera molto intensa è qui presente il motivo dell amante incauto, catturato da Amore quando meno se lo aspetta (per es., Inf. V 129: «soli eravamo e sanza alcun sospetto») che ha qualche meno rilevato riscontro provenzale (Bernard de Ventadorn, Be m an perdut 10-11: «m esslaissei eu vas trop amar un jorn, / c anc no m gardei, tro fui en mei la flama»; Peire Vidal, Nulhs hom non pot 9-10: «Adoncs saubi pauc d escrimir, / ni no m gardei tro qu eu fui pres»): personalmente, non saprei dunque indicare nulla di più preciso del passo dantesco a proposito dello sviluppo che esso avrà in Petrarca, soprattutto in Rvf 3, 3 ss. («et non me ne guardai [...] però m andai / secur, senza sospetto [...] Trovommi Amor del tutto 52

Enrico FENZI Ancora sulla Epistola a Moroello e sulla montanina... disarmato...»); 8, 7; Tr. Pud. 14, ecc. (da vedere con i rimandi forniti rispettivamente dalle edd. di Santagata e Pacca, che però ignorano l Epistola dantesca). Per ciò, vedi ancora sotto, n. 16. -subito heu mulier ceu fulgur descendens apparuit nescio quomodo meis auspitijs undique moribus et forma conformis: l apparizione improvvisa di questa donna/folgore è precisamente l oraculum che Dante vuole partecipare al Malaspina: e non c è dubbio, a mio parere, che in questi termini essa abbia i tratti di una vera e propria visione, o, per usare le parole della Vita nova, di una «forte ymagination» (Gorni: 28 1, ma vedi anche l intero cap. 14, e, per l ymaginatione, anche 4, 7, e 15, 4). Lo fa pensare tra l altro il fatto che questa mulier appare come una sorta di proiezione e quasi materializzazione di un fantasma interiore già presente, in potenza, nello spirito di Dante, il quale scopre con istantaneo sbalordimento la perfetta conformità che corre moribus et forma, nei costumi e nella bellezza, tra il proprio segreto modello e questa apparizione. Il che va detto- non è precisamente lo stesso rapporto che nella canzone corre tra l immagine della donna dipinta e formata nel cuore e il suo aspetto reale, dotato di una assai più forte potenza alienante e distruttiva. Per quanto riguarda il carattere numinoso dell apparizione, esso appare affidato soprattutto alla folgore (ceu fulgur descendens), sì che mi sembra inevitabile ricordarne gli archetipi biblici, secondo i quali sono appunto i fulmini, i tuoni, le nubi e le tempeste montane a segnalare la presenza di Dio, a cominciare dalla vetta del Sinai in Esodo 19, 16: «et ecce coeperunt audiri tonitrua ac micare fulgura et nubes densissima operire montem», e nei Salmi, per esempio 29, 3 e 7, ove risuona come tuono «vox Domini intercidentis flammam ignis», o 18, 8 ss., ove l irata presenza di Dio si manifesta nel tremar della terra arsa dai fulmini, o 76, 18-19, ove ancora: «vocem dederunt nubes [...] / vox tonitrui tui in rota; / illuxerunt coruscationes tuae orbi terrae, / commota est et contremuit terra» 14. Naturalmente tutto ciò non intacca ma semmai arricchisce quanto ha spiegato Stabile, che ha messo in rilievo la tradizione scientifica relativa alla fulminatio quale s esprime 53

Tenzone nº 4 2003 negli scritti di Alberto Magno e, indietro, nelle Naturale quaestiones di Seneca, che Dante conosceva e aveva già poeticamente sfruttato nel gruppo delle petrose 15. Per il motivo, in ogni caso, e facendo entrare nel gioco anche il v. 57 della canzone montanina («qual fu quel trono che mi giunse addosso», ove il trono è appunto il fulmine), si veda Guittone, 138, Ben mi morraggio 5-6: «Quando la veggio paremi uno trono, / un foco ardente che mi fiere al viso» (Egidi: 208); il già più volte allegato Guinizzelli, 1, Lo vostro bel saluto 9: «Per li occhi passa come fa lo trono», e 3, Dolente, lasso 5: «come lo trono che fere lo muro»; Cino da Pistoia, CLXXXI, Tardi m accorgo 3: «come saetta la qual vèn con trono» 16. Ma soprattutto ha speciale significato il rinvio alla seconda canzone del Convivio, Amor che nella mente 63-67: «Sua bieltà piove fiammelle di foco, / animate d un spirito gentile / ch è creatore d ogni penser bono; / e rompon come trono [ceu fulgur] / l innati vizi che fanno altrui vile», detto della bellezza della donna/filosofia. Ne discute la Allegretti, pp. 104 ss., che allega altre auctoritates bibliche (Apoc. 1, 14; 2, 18; 19, 12; Dan. 10, 6; Act. 2, 2-3) e classiche (Aen. VIII 680-681, e II 680-704: ma per Virgilio, si veda anche quanto segue; Lucano, Phars. I 183-193, oltre all inizio del De consolatione di Boezio), per approdare alla possibilità che anche la mulier della nostra canzone abbia valenze allegoriche. Il punto è delicato, ma va lasciato un attimo in sospeso, perché, almeno a mio parere, può essere risolto solo con l aiuto dell ultima parte della lettera, che istituisce una forte dialettica proprio con il Convivio e le sue canzoni. [3] O quam in eius apparitione ostupui! sed stupor subsequentis tonitruj terrore cessavit. Nam sicut diurnis coruscationibus illico succedunt tonitrua, sic inspecta flamma pulcritudinis huius amor terribilis et inperiosus me tenuit: si tratta di un ulteriore scatto nella oraculi serie, mediante il quale il racconto abbandona il contenuto dell apparizione di fatto la mulier, della quale non si dirà più nulla- e ne analizza invece le conseguenze, che consistono nell istantanea caduta sotto lo spietato dominio di Amore: un Amore che sembra 54

Enrico FENZI Ancora sulla Epistola a Moroello e sulla montanina... aver animato di vita autonoma un fantasma muliebre partorito dal desiderio solo per tornare ad avere Dante in suo potere. Billanovich ha scritto che la matrice di questa raffigurazione risale senza dubbio al De consolatione di Boezio, e precisamente al suo inizio, pr. 1, 1, con l apparizione al prigioniero della bellissima Filosofia 17. Penso si possa essere d accordo, ma solo in parte. La matrice vera, infatti, sta altrove, ed è denunciata clamorosamente da quel obstupui, ribattuto dallo stupor che immediatamente lo segue: sta in Virgilio, nella tragica vicenda di Enea e Didone, nel primo e nel quarto dell Eneide. Per lo stupor che la pervade, appunto, sin dall inizio, quale suo momento fondante (I 613: «Obstipuit primo aspectu Sidonia Dido», che Servio annota affermando che «iam futuri amoris est signum», un signum che noi potremmo qui opportunamente ritradurre con oraculum...), e per l ineluttabile progressione che travolge i protagonisti dimentichi dei loro obblighi e gettati dallo stupor in potere di un amore davvero terribile e imperioso. E infine per quell epifania di amore che vede insieme il congiungimento di Enea e Didone nella spelonca e l esplosione della tempesta (IV 167-168: «fulsere ignes et conscius aether / conubiis summoque ulularunt vertice nymphae»), che fa di quel connubio tra fulmini e tuoni una sorta di sposalizio tra cielo e terra ben più forte e misterioso e fatale di quello che possano realizzare, qui nella lettera di Dante, le meditazioni filosofiche delle quali poco sotto si parlerà. Tutto sommato, dunque, ritengo che questo rimando, per tutte le sue suggestive implicazioni, debba prevalere sugli altri, e in particolare su quello pure importante ad Aen. VIII 388-394, là dove Venere riaccende le voglie amorose del marito, Vulcano, per convincerlo a forgiare nuove armi ad Enea: «Ille repente / accepit solitam flammam notusque medullas / intravit calor et labefacta per ossa cucurrit: / non secus atque olim tonitru cum rupta corusco / ignea rima micans percurrit lumine nimbos» (vedi Allegretti: 38, con la citazione di Servio ad loc. : «alii rima micans fulgetram dicunt: et hoc ad velocitatem amoris qui momento Vulcanum percussit»). 55

Tenzone nº 4 2003 [4] Atque hic ferox tamquam dominus pulsus a patria post longum exilium sola in sua repatrians quicquid eius contrarium fuerat intra me vel occidit, vel expulit vel ligavit. Occidit ergo propositum illud laudabile quo a mulieribus suis cantibus abstinebam, ac meditationes asiduas quibus tam celestia quam terrestria intuebar quasi suspectas impie relegavit: siamo a una ulteriore svolta del discorso, che finisce per distinguere nettamente il testo dell epistola a Moroello dalla canzone, alla quale il tema presente resta del tutto estraneo (cosa importante ripeto- ma sin qui non osservata). Si dice qui che Amore torna come chi rientri in patria da dominatore dopo un lungo esilio, e faccia piazza pulita di quanto aveva avuto la pretesa di sostituirlo: ergo distrugge il pur lodevole proposito di Dante di astenersi dalla lirica amorosa e colpevolmente, impie, lo allontana dalle meditazioni filosofiche alle quali si era dedicato con assiduità. Una minima chiosa, prima di tutto. Se non si supplisce la congiunzione mancante nel codice: suis[que], come invece fa l edizione della Società Dantesca italiana e dunque Frugoni, si dovrà tradurre, con la Allegretti (ma vedi già Gorni: 144 nota 34): dalle sue [di Amore] canzoni per donne. Ma, di là da ciò, esiste traccia, in Dante, del propositum di abbandonare la lirica amorosa? Sì, esiste, com è noto, anche se si esprime in modi abbastanza particolari e, per dire così, in due tempi. Prima (semplifico risolutamente), attraverso le prime due canzoni del Convivio nelle quali il perdurante ossequio alle convenzioni del linguaggio amoroso copre la realtà del passaggio all amore per la Filosofia; poi, in forma ormai dispiegata, con la terza canzone commentata nel trattato, Le dolci rime, che si apre precisamente proclamando quell abbandono, provvisorio sì, ma netto: «Le dolci rime d amor ch i solia / cercar ne miei penseri / convien ch io lasci; non perch io non speri / ad esse ritornare [...] E poi che tempo mi par d aspettare, / diporrò giù lo soave stile / ch i ho tenuto nel trattar d amore...». Ed a sistemare tutto ciò, ed a proiettarlo entro l orizzonte di una fondamentale scelta intellettuale e morale è appunto il Convivio, che spiega i modi del passaggio dall età giovanile dedita all amore e alle sue espressioni a quella matura, ormai volta 56

Enrico FENZI Ancora sulla Epistola a Moroello e sulla montanina... all impegno e alla responsabilità del sapere scientifico e filosofico 18. In questa luce, l avverbio impie ben si spiega, in opposizione a laudabile: e in effetti non può che apparire colpevole non solo il relegare in un canto le meditazioni filosofiche, ma impedire e propriamente distruggere un intero progetto di vita filosofica che proprio attraverso quel passaggio aveva acquistato tutta la propria pienezza di senso e la sua prospettiva di valore. Ma resta un punto: le meditationes asiduas quibus tam celestia quam terrestria intuebar davvero indicano lo studio della filosofia? La cosa ovviamente è già stata detta, ma, mi sembra, sempre con qualche timidezza, quasi fosse pur sempre soverchiata dalla forza della ripresa che Dante ne ha fatto nella Comedìa, nell esordio di Par. XXV, raddoppiata da un altrettanto forte ripresa dei versi del congedo della canzone 19. Eppure, non c è dubbio che abbia di nuovo ragione Gorni: 144, nota 33, quando scrive che meditationes non può designare la Comedìa, suggerendo invece che possa trattarsi del Convivio, interrotto al suo quarto libro in quel giro d anni. È senz altro così, per più ragioni, a cominciare dal fatto che non si è sin qui osservato che l espressione di Dante altro non è che una trasparente variante della definizione canonica della filosofia, per esempio in un testo che gli era particolarmente presente quale il ciceroniano De officiis, nel quale leggeva che la sofìa, è cioè «illam autem sapientiam, quam principem dixi, rerum est divinarum et humanarum scientia» (I 153). Ma questa definizione, di origine stoica, è assolutamente basilare, e torna ancora, per esempio, nello stesso De officiis, II 5: «sapientia autem est, ut a veteribus philosophis definitum est, rerum divinarum et humanarum causarumque, quibus eae res continentur, scientia», e, con le stesse parole, nel De oratore I 212, nelle Tusculanae IV 57, e nel De finibus II 37; in Seneca, Epist. 89, 5, e poi in Gerolamo, Ephes. I 1, 9, e in Agostino, Contra Acad. I 6, 16, e De Trinitate 14, 1,3, e, più volte, in Isidoro, Diff. 2, 39, 148, e Ethym. 2, 24 e 8, 6, ecc 20. E credo ci sia una ragione se Dante, senza troppo mutare la sostanza, varia la coppia degli aggettivi: non cose divine e 57

Tenzone nº 4 2003 umane, ma celesti e terrene, sulla scorta di quanto leggeva nella Praefatio, 2, alle Naturales quaestiones di Seneca: avere la filosofia due parti, delle quali «altera docet quid in terris agendum sit, altera quid agatur in caelo». Egli infatti si riferisce proprio al Convivio, al quale meglio si adatta l inflessione più naturale o comunque leggermente meno impegnata sul piano del divino della seconda coppia. Circa l assiduità delle meditazioni, si può forse ricordare che lo studio eccessivo della filosofia già aveva creato a Dante alcuni problemi di vista, come ricorda nel Convivio, III 9, 15: «E io fui esperto di questo [dell indebolimento della vista] l anno medesimo che nacque questa canzone [Amor che nella mente mi ragiona], che per affaticare lo viso molto a studio di leggere, in tanto debilitai li spiriti visivi che le stelle mi pareano tutte d alcuno albore ombrate», mentre Amore che vel occidit vel expulit vel ligavit tutto ciò che lo contrasta, non fa in fondo che vendicarsi di quanto egli stesso aveva dovuto subire, quando Dante aveva rinunciato alla poesia d amore e si era convertito alla filosofia, come ancora il Convivio spiega, II 12, 7: «... cominciai ad andare là dov ella [la filosofia] si dimostrava veracemente, cioè nelle scuole delli religiosi e alle disputazioni delli filosofanti; sì che in picciolo tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire della sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero» (corsivo mio). Di qui, con ogni evidenza, quel quasi suspectas, ove non è l aggettivo che fa problema ma, semmai, l attenuazione del quasi, visto che il dio d Amore ristabilisce su Dante il potere che in passato aveva perduto proprio per la forza di quelle meditationes che erano giunte al punto di soppiantarlo, ed erano dunque sospettate di poterci riprovare. -et denique ne contra se amplius anima rebellaret liberum meum ligavit arbitrium ut non quo ego sed quo ille vult me verti oporteat: varrà la pena di sottolineare sùbito che quel amplius conferma quanto si diceva appena sopra a proposito del suspectas. L avverbio, infatti, altrimenti incongruo, trattiene il senso di 58

Enrico FENZI Ancora sulla Epistola a Moroello e sulla montanina... ancora, di nuovo, e insieme: con forza ancora maggiore, e insomma alludere a una passata ribellione al dominio di Amore, quella che appunto aveva già avuto il provvisorio successo di cacciare in esilio il dio, ma che nel presente è stata da lui stroncata mediante la folgorante apparizione della nuova donna. Si osservi come Dante finisca qui di spiegare la serie occidit, expulit, ligavit, attribuendo via via ad ogni verbo il proprio oggetto: occidit propositum; relegavit (per expulit) meditationes; ligavit arbitrium. E in quest ultimo caso il libero arbitrio è inevitabile andare al sonetto responsivo a Cino, più o meno scritto in quello stesso torno di tempo, Io sono stato con Amore insieme, citato all inizio insieme all Epist. III dalla quale era accompagnato 21. Quanto Dante afferma nel sonetto corrisponde perfettamente a queste righe finali della lettera. Per lunga esperienza egli sa che Amore affrena e sprona a suo piacimento, e che usare contro di lui ragione o virtù è altrettanto inutile che suonare le campane per far cessare un temporale: «Chi ragione o virtù contra gli sprieme / fa come que che n la tempesta suona / credendo far colà dove si tuona / esser le guerre de vapori sceme» (5-8: il che, si vede, è esattamente quanto accade anche ora, dopo l apparizione della donna montanina tra folgori e tuoni). Ma ancora, con preciso rapporto tra i testi: «Però nel cerchio della sua palestra / libero albitrio già mai non fu franco, / sì che consiglio invan vi si balestra. / Ben può co nuovi spron punger lo fianco; / e qual che sia l piacer ch ora n adestra, / seguitar si convien, se l altro è stanco» (9-14). Ho citato per esteso i versi affinché sia del tutto chiaro che le righe finali della lettera a Moroello ne costituiscono una chiosa, come già ho detto, perfetta, e certo più puntuale di quanto non sia l epistola che accompagnava il sonetto, nella quale il caso in questione, «utrum de passione in passionem possit anima transformari», è trattato con maggior distacco speculativo. Ma anche perché sia altrettanto chiara la natura della contrapposizione, che vede da una parte ragione, virtù, consiglio, libero arbitrio, e dall altra il potere assoluto e incondizionato di un Amore che di tutto ciò si fa beffe perché non 59

Tenzone nº 4 2003 gli appartiene e non lo riguarda, così come nulla ha a che fare il temporale con il suono delle campane. La cosa può apparire ovvia, ma finisce per non esserlo se si volesse allegorizzare un amore siffatto, dal momento che ogni intenzione, appunto, allegorizzante deve fare i conti con una situazione che in qualche modo può ricordare quella della donna gentile della Vita nova, ove già la caratterizzazione negativa dell episodio sia sul piano morale che su quello intellettuale sbarra la strada a ogni interpretazione nobilitante, a dispetto di quanto Dante vorrà poi far intendere nel Convivio 22. E in questo gioco di riprese e contrapposizioni che configurano un vero e proprio rovesciamento della situazione di partenza, anche l anima ha il suo posto, visto che è proprio a lei che uno spiritel d amor gentile si rivolgeva, in Voi che ntendendo, per strapparla dallo stato di tristezza ed abbattimento nel quale era precipitata dopo la morte di Beatrice e per indirizzarla verso il nuovo e severo amore per la Filosofia (vedi, in questa canzone, v. 11, l anima trista, e, v. 19, l anima che vuole morire, e, v. 30, l anima che piange, e finalmente le rampogne dello spiritel, vv. 40 ss.: «Tu non sè morta, ma sè ismarrita, / anima nostra che sì ti lamenti...»). Sì che ora quella stessa anima che aveva saputo immergersi nelle assidue meditazioni della filosofia e gustare i suoi piaceri è impedita in ciò che costituisce il suo funzionamento, che prevede che dal giudizio di ragione discenda appunto la volontà e la libera capacità di scegliere, guidata da quella Filosofia «la quale veramente è donna piena di dolcezza, ornata d onestade, mirabile di savere, gloriosa di libertade» (Convivio II 15, 3: corsivo mio). Certo, la capacità di giudizio le rimane, ed è importante. Solo in virtù di un giudizio che per essere impotente non cessa di essere retto, infatti, la lettera intera può assumere la sua struttura antitetica, che lucidamente contrappone l immediato passato della libertà e della dedizione filosofica al presente nel quale il poeta si definisce via via incatenato, carcerato, schiavo di un Amore assoluto e tirannico, incapace di mantenere i propri lodevoli proponimenti, empiamente impedito a filosofare, privo del libero arbitrio e di ogni sia pur residua forza di resistenza (appena sotto: nulla refragante virtute). Sì che, infine, la lettera intera 60

Enrico FENZI Ancora sulla Epistola a Moroello e sulla montanina... la si potrebbe definire come una palinodia negativa, o il resoconto di una ricaduta, al modo, per ricorrere a un esempio efficace, del: «et veggio l meglio, et al peggior m appiglio» (Rvf 264, 136), o, con più precisa corrispondenza, con il: «Novum propositum mos vetustus opprimit; et cum recta placuerint, relabor ad solita» (Psalm. penit. VII 10) di Petrarca 23. III Con le osservazioni fatte circa la seconda metà della lettera già lo si è accennato- siamo precipitati al centro della grave questione che ha a lungo affaticato gli studiosi: quella del delicato passaggio, dopo la morte di Beatrice, dall amore per lei a quello per la Filosofia, descritto essenzialmente nelle prime due canzoni allegoriche commentate nel Convivio, Voi che ntendendo il terzo ciel movete e Amor che nella mente mi ragiona, e quella, appena successiva, dell ulteriore passaggio a un linguaggio tecnico e raziocinante e a contenuti più specificamente dottrinali, quali quelli espressi nelle due canzoni Le dolci rime (la terza commentata nel Convivio), sul concetto di nobiltà, e Poscia ch Amor (che certamente sarebbe stata commentata, se l opera non fosse stata interrotta) sul concetto di leggiadria. Ed è appunto il Convivio ad aver raccolto e sviluppato quanto le vecchie canzoni implicavano, configurando in termini assai netti quel passaggio e attribuendo un forte valore progressivo alle nuove scelte e alla loro connotazione etica. Ora, a me sembra indubitabile che la lettera a Moroello attraverso l immagine di Amore che torna dall esilio e riconquista il suo potere si riferisca in maniera esplicita e diretta a tutto questo, denunciando un nuovo ribaltamento della situazione legato all interruzione del Convivio e alla chiusura dell esperienza e della stagione che per comodità potremmo riassumere come filosofica. In tal senso, e per essere del tutto chiari, il parallelo ch è stato istituito con l apparizione della Filosofia nel De consolatione di Boezio andrà inteso in senso proprio a proposito della canzone Voi che ntendendo, prima 24, e in senso perfettamente 61

Tenzone nº 4 2003 rovesciato dopo, a proposito della lettera a Moroello, ché se in Boezio la Filosofia sopraggiungeva a scacciare le Muse, qui succede esattamente l opposto, perché ora è Amore che torna e scaccia la Filosofia. L apparizione della donna, insomma, ceu fulgur descendens, non va interpretata come qualcosa che stia a sé e che, isolato dal contesto, possa essere piegato alle più diverse intenzioni allegorizzanti, dal momento che essa non è che lo strumento del vittorioso ritorno sulla scena di Amore che azzera i propositi e gli impegni lodevolmente assunti in precedenza. Mi rendo ben conto che, in questo modo, le difficoltà che la lettera e la canzone presentano non si risolvono: addirittura, si aggravano, e sempre per la solita ragione. Ricorriamo, per una facile analogia, al capitolo finale della Vita nova. È evidente che quando Dante scrive: «Appresso questo sonetto [Oltre la spera] apparve a me una mirabile visione, nella quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedecta infino a tanto che io potessi più degnamente tractare di lei», egli apre una fase d attesa destinata a chiudersi quando gli sarà possibile un complessivo innalzamento di contenuti, di genere, di linguaggio, al quale proprio quell attesa è chiamata a contribuire: «E di venire a cciò io studio quanto posso...». Allo stesso modo, quando ne Le dolci rime dichiara di essere costretto a lasciare contenuti e stile amorosi, si preoccupa anche di sottolineare che si tratterà di un abbandono provvisorio, in attesa che si creino le condizioni per un ritorno potenziato e definitivo che saprà crescere e farsi forte proprio attraverso l esperienza di pensiero diversa e in qualche modo propedeutica che per il momento si prepara ad affrontare. Ed è dunque stupefacente e intimamente contraddittorio che il ritorno di Amore, proclamato nella lettera a Moroello, appaia come un ritorno affatto regressivo, come un salto all indietro che senza alcuna possibile mediazione nega sin la minima possibilità di un rapporto dialettico e positivo con il momento dell approfondimento filosofico e dottrinale e dunque con l esercizio virtuoso dei libertatis officia. L opposizione è dura, precisa, ed esclude interferenze 62