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Transcript:

Senza alcun dubbio è da salutare con vivo apprezzamento, quest'impegno dall'avvincente titolo "L'Immensa Onda" che si richiama alla definizione che Omero dava per indicare la navigazione d'alto mare. Giuseppe Mavilla, già noto per precedenti imprese agonistiche, si rivela appassionato operatore d'archeologia sottomarina, affrontando diffidenze e paure derivanti dalla pericolosità di un mondo misterioso in attesa d'essere esplorato. L'autore, che si dedica da quasi mezzo secolo a tale rischiosa attività, ha fatto bene a fissare in questo libro tutte le sue esperienze di attento ricercatore di storici reperti che oggi conducono a conoscere e decifrare cosa giace nascosto in fondo ai mari. Trapela, attraverso ciò che egli esprime, l'appassionato desiderio di scoprire cose antiche e dar loro il compito di raccontare la Storia a coloro che le ammirano negli ambiti dei musei archeologici. La verità che caratterizzò tali scoperte emerge proprio nell'"immensa Onda" che fornisce la limpida documentazione dei fatti ponendo nel doveroso giusto rilievo quella che fu la posizione di Giuseppe Mavilla che con la "Testa del Filosofo" ed altri importanti reperti rinvenuti per suo merito, rendono ancor più preziosa la Sezione dell'archeologia sottomarina al Museo Nazionale di Reggio. Franco Cipriani Decano giornalisti calabresi

P R E M E S S A "Nel corso del 1969 alcuni pescatori di Villa S.Giovanni individuarono un piccolo giacimento archeologico sottomarino nell'insenatura di Porticello e ne iniziarono il saccheggio. Dopo qualche tempo la Soprintendenza ne fu informata e si ottenne la consegna di anfore e ceramiche di età e soprattutto di molti frammenti di statue in bronzo, tra cui un eccezionale ritratto di vecchio dalla lunga barba." La storia del ritrovamento del "Relitto di Porticello" nello Stretto di Messina, viene così riportata nei pannelli didattici della sala ove sono esposti i bronzi di quel relitto, e tra questi la mirabile "Testa del Filosofo", mentre all'ingresso del Museo archeologico di Reggio Calabria, viene offerta in vendita ai visitatori la "guida" intitolata "Il Museo di Reggio Calabria" che riporta la stessa descrizione.. A differenza dei Bronzi di Riace esposti nello stesso Museo, non si menziona il nome dello scopritore ufficiale, lasciando credere che la Soprintendenza Archeologica della Calabria entrò in possesso dei reperti grazie alle informazioni relative al saccheggio, fuorviando la verità che emerge dalla documentazione di Stato.

Questo mare è pieno di voci e questo cielo è pieno di visioni. Ululano ancora le Nereidi obliate in questo mare... Questo è un luogo sacro, dove le onde greche vengono a cercare le latine...sotto le porpore iridescenti dell'occaso è appiattata dicono, la morte... Quella che sradica, non quella che lascia dietro di sè le lagrime, ma quella cui segue l'oblio. Tale potenza nascosta... ha annullato qui tanta storia, tanta bellezza, tanta grandezza. Ma ne è rimasta come l'orma nel cielo, come l'eco nel mare. Qui dove è quasi distrutta la storia, resta la poesia. ì G.Pascoli

I N T R O D U Z I O N E Un giorno leggevo l'iscrizione del Pascoli scolpita sulla pietra della mia Via Marina di Reggio. Il grande poeta italiano, intorno al 1898, era professore all'università di Messina e scrisse quei versi durante una traversata verso la Calabria, zona sismica e preda di immani distruzioni naturali che "annullano tanta storia, tanta bellezza, tanta grandezza". Pascoli a quel tempo non sapeva che presto, dopo solo mezzo secolo, il mare avrebbe restituito i suoi tesori custoditi per millenni, come "I Bronzi di Riace", tra le massime espressioni dell'arte d'ogni tempo; ne descriveremo il recupero e racconteremo le vicende legate al ritrovamento del "Relitto di Porticello", nello Stretto di Messina, seguito da una confusa ed improduttiva caccia al clandestino. Offriremo la soluzione sulla causa dell'affondamento del relitto greco, basandoci su esperienze vissute a bordo di un veliero di attuale costruzione, certamente più sicuro ed inaffondabile, dal quale osservare i tratti di mare che impaurivano gli antichi navigatori. Il comando di quel veliero era affidato allo scrivente che è lo stesso sommozzatore che scoprì nel 1969 il relitto, quindi nella favorevole condizione di sintetizzare gli imponenti fenomeni meteorologici e subacquei relativi al sito interessato. Il relitto fu studiato nel 1970 dalla missione americana della Pennsylvania University che stabilì in una serie di pubblicazioni che il battello era un "HOLCAS" di circa 20 metri, affondato a 200 metri dalla riva con la prua rivolta verso sud. Era a carena quasi piatta come ogni imbarcazione commerciale. Furono ritrovate sbarrette di piombo a sezione trapezoidale, quindi prima del varo fu colato del piombo all'interno, sul fondo, lungo i lati dell'asse centrale della carena detto paramezzale, che con il carico stivato molto in basso offrivano maggior stabilità. I contrappesi esterni, come i bulbi dei moderni yachts erano sconosciuti e trovarono applicazione solo dal XVIII secolo. Inoltre non esistevano sistemi di autovuotamento. L'acqua imbarcata per le ondate più grosse o la stessa pioggia doveva essere scaricata continuamente con dei recipienti, e guai se il battello inclinandosi avesse immerso il bordo; sarebbe affondato in pochi secondi! Invece le attuali imbarcazioni dispongono di un controstampo interno, fissato oltre la linea di galleggiamento, che consente all'acqua imbarcata di defluire rapidamete all'esterno. Nessuno ha saputo indicare la rotta dell' holkas, mentre si è potuta stabilire l'età del battello e dei reperti bronzei in esso contenuti, la tipologia delle anfore e la paternità della mirabile "Testa del Filosofo" come impropriamente viene definita. Infatti lo studioso Angelo Maria Ardovino, attuale soprintendente per la Lombardia, così conclude nel suo saggio per l'istituto di Archeologia dell'università di Perugia, intitolato:il Relitto di Porticello ed il cosiddetto Filosofo (1982): "forse il concetto di filosofo prima dell'esperienza socratica non era del tutto formato e tendeva a sfumare e a confondersi con altre nobilissime attività intellettuali. E' probabile che all'interno di queste si debba cercare il nostro personaggio; cerchiamo perciò di rettificare l'uso di un termine che oggi potrebbe comportarci una serie d'equivoci." Nel volume "Storia della Calabria Antica" edito nel 1987, Paolo Enrico Arias tenta così un discorso concreto:

"proponiamo con molta cautela il nome di Esiodo. Risale a Carl Robert la proposta che il personaggio barbato, con bastone pastorale e seduto davanti a un parapètasma (coperchio) su sarcofago, del Museo di Napoli, possa essere ESIODO. Se questa ipotesi fosse vera, essa porterebbe di conseguenza anche all'identificazione di un ritratto di Napoli dalla lunga barba che potrebbe confrontarsi per la struttura della barba del nostro bronzo." Inoltre, lo stesso Arias attesta la paternità della scultura ritenendo: "che appartenga a quel momento tipico della fine del V secolo in cui non cessano gli impulsi dello stile severo accolti anche da una grande personalità come quella di Fidia."

Capitolo Primo L'isola africana. "come il dì spunti, salirem di nuovo la nave, e nell'immensa onda entreremo" Omero (Od. XII - 367) Prima d'entrare nello Stretto di Messina, spingiamoci in navigazione verso altre zone del Mediterraneo, ove potremo accrescere le nostre esperienze. Da Biserta, dopo otto ore di mare formato, ci avvicinavamo all'isola di "La Galite" 60 miglia a Nord dalla costa africana. La carta nautica indicava un'insenatura riparata dai venti da nord, e feci rotta verso la rada tranquilla dove in una notte di vento compresi come era affondato il relitto di Porticello, bloccato "con una cima a terra" che ne determinò il rovesciamento. L'isola era bellissima e selvaggia, sovrastata da due maestosi picchi dalla vegetazione rada, interrotta da massi taglienti. Raccolsi le vele e mi avvicinai con il motore al minimo studiando con attenzione l'ancoraggio. Guardavo continuamente la lancetta dell'eco-scandaglio che saliva velocemente verso i venti metri, poi diciotto, quindici ed a dieci metri di profondità ancorai, lasciando libero il battello di orientarsi al vento. Ogni estate ero impegnato nel mio consueto lavoro di charter(1), ed in quell'occasione avevo a bordo un cliente con moglie e due ragazze. La barca era un Beneteau francese di 14 metri, con albero surdimensionato a tre crocette, pesante 11 tonnellate di cui 6 di zavorra, di nome "ATHENA". Il sole era da poco tramontato, una leggera brezza di terra mi teneva allineato con la poppa verso il largo e l'unico motivo a tenermi allertato era la tenuta dell'ancora che durante la notte avrebbe potuto "arare" sul fondo. La barca sarebbe andata indietro forse verso il largo dove lo scuotimento delle prime onde del mare aperto m'avrebbe svegliato, oppure verso gli scogli che avrebbero rapidamente frantumato la lunga pala del timone. Avevo deciso! La cosa più sicura era "la cima a terra". Calato in mare il piccolo tender (2) presi terra vicino ad una roccia dove legai una lunga cima riportando il capo sullo yacht. Spostato a poppa (3) il residuo della catena d'ancora cominciai a tirare la cima da prua (4) facendo avanzare lentamente la barca verso terra. La catena invertì l'inclinazione e di colpo si tese bloccando l'avanzare dello yacht a discreta distanza di sicurezza, e l'indomani, con la prua più vicina a terra, saremmo stati favoriti per caricare i numerosi bidoni d'acqua che a Biserta non avevamo potuto imbarcare. I clienti erano già sistemati per la notte, e prima di dormire guardai i contorni dei due monti ai lati della rada. A destra verso est si stagliava uno dei picchi con una parete quasi piatta e verticale. Il vento veniva da nord, e la lieve altezza della terra a noi di fronte, impediva che arrivasse con forza, smorzandolo in una dolcissima brezza rinfrescante. Soltanto in mare si gustano certi momenti di pace, mentre tu sai che fuori la rada c'è vita, movimento, e l'aria tesa che per tante ore t'ha fatto tenere le mascelle serrate.

Dopo una breve cena mi addormentai subito, mentre la barca immobile, nell'acqua appena screziata, galleggiava sicura ormeggiata con una "cima a terra". Mi svegliai di soprassalto, la barca s'inclinava di lato, venni sbattuto dalla parte opposta alla cuccetta. Un cupo mugolio di vento e di acque scroscianti nel nero della notte, trasformarono l'ansia in paura che si esasperava per la subitaneità di quanto accadeva. Il vento a raffiche violente arrivava da est. La cima di terra era tesa, poi di colpo s'allentò e si poggiò sull'acqua, mentre la barca non smetteva di rollare (che è il movimento altalenante da destra a sinistra e viceversa). Andai a poppa a controllare la catena dell'ancora cercando di spiegarmi il fenomeno. Il vento aveva cambiato leggermente direzione disponendosi da nord-ovest e, dopo aver attraversato l'isola, colpiva il picco alla mia destra creando un vento di rotazione da est che intubandosi colpiva la rada con raffiche micidiali di oltre 40 nodi. La cima dell'albero verso le stelle descriveva ampi semicerchi dovuti all'effetto pendolo sulla zavorra messa in movimento dalla raffica precedente. A tale movimento s'integrò la forza della raffica successiva che, per un momento, portò la barca con il bordo sott'acqua. L'Athena era fatta per navigare anche in quelle condizioni e soprattutto quando di bolina stretta(5) il bordo sottovento si immerge fino alla battagliola (6). Altri scafi senza totale pontatura e sistemi auto-vuotanti sarebbero affondati in meno di un minuto. Mi rendevo conto che l'athena era irrovesciabile grazie al bulbo in piombo di ben 2 metri e mezzo d'immersione, il pericolo non era quello. Provai a pensare alle conseguenze di un cedimento dell'ancora. La pressione laterale era troppa! Tenendomi dalla battagliola andai a prua e mollai a mare la cima legata a terra. La barca trattenuta soltanto dall'ancora iniziò a ruotare allontanandosi dalla riva e disponendosi alle raffiche da est, esaurendo in breve ogni oscillazione laterale concedendoci finalmente di riposare. Al mattino tutto era calmo, anche al largo, e mentre gustavo il mio cappuccino, osservavo il rientro dopo una notte di lavoro di alcuni pescherecci molto sporchi che venivano ricoperti di lerci teloni per l'ombra sui ponti. La vecchia flottiglia usciva all'imbrunire a pesca di aragoste. Il pescato era poi immerso in grandi vivai di rete metallica e posato a 25 metri di fondo, ed ogni tre giorni un peschereccio più grande, che faceva la spola con Biserta, caricava nelle proprie vasche d'acqua salata un gran carico d'aragoste che dopo 10 ore erano in volo per Parigi dove giungevano ancora vive. Sulla riva pietrosa notavo pezzi di pescherecci andati distrutti proprio a causa delle "cime a terra" che non lasciando libere le imbarcazioni di assestarsi al vento ed alle onde, creavano una pressione laterale talmente forte da determinare la rottura delle cime delle ancore ed il conseguente spiaggiamento delle barche. Forse il relitto di Porticello era affondato in analoghe condizioni? Non proprio, il relitto non era finito sulla riva, in quel caso noi moderni non avremmo ritrovato nulla. I resti di qualsiasi naufragio sbattuti sulle rive o finiti a pochi metri d'acqua, venivano raccolti dagli abitanti del luogo quasi immediatamente, senza lasciarne memoria storica. Mentre i relitti poggiati su fondali più profondi, restavano quasi intatti anche per millenni. Le parti esposte al continuo movimento delle maree ed agli organismi ghiotti di legno, venivano via via dissolte nel corso dei primi decenni, mentre le terrecotte (anfore, vasi, ecc.) e le parti metalliche specie se protette dal fango e dalla sabbia, restavano pressochè immutate fino ai nostri giorni. Anche le parti in legno sepolte sotto la sabbia resistevano al tempo, tanto che s'è potuta avere l'idea della forma e della lunghezza di alcuni relitti ritrovati negli ultimi anni come quello di Yassi Ada nel 1961, e lo stesso Relitto di Porticello del 1969.

Certo per noi navigatori moderni, muniti di motore, carte nautiche e sistemi elettronici di rilevamento, andar per mare è facile! Gli antichi invece dovevano affrontare enormi difficoltà legate alla scarsa conoscenza dei pericoli rappresentati dagli scogli affioranti e dai fenomeni improvvisi come le intense correnti marine che impedivano le manovre. La rada di La Galite per fortuna era sgombra di pericoli, e chissà se mai antico sbarcò in quell'isoletta remota, posta proprio al centro del Mediterraneo. Il Bérard identifica in Peregil o Alboran, presso lo Stretto di Gibilterra, la sede della "ninfa il crin ricciuto" Calipso, isola troppo distante dalla rotta di Ulisse. Ma è possibile che Omero si riferisse, nel descrivere l'isola Ogigia proprio alla più vicina La Galite distante da Alboran oltre 500 miglia. La logica dell'antico poeta non aveva la necessità di coincidere con la realtà delle cose, ma è pur vero che la genialità di Omero doveva forzatamente legarsi ad uno schema geografico sia pur dilatato ed impreciso. Egli indica la modalità di costruzione della zattera, larga quanto una nave da carico Larghezza il tutto avea, quanta ne danno di lata nave trafficante al fondo periti fabbri... (Od. V - 298) e precisa il punto d'arrivo, l'isola dei Feaci, Corfù, distante da noi 620 miglia, per un tempo di percorrenza di 17 giorni, che ad una media di 1,5 miglia all'ora, fanno di La Galite l'isola Ogigia Dieci pellegrinava e sette giorni sui campi d'anfitrite. Il dì novello, gli sorse incontro co suoi monti ombrosi l'isola dé Feaci... (Od. V - 333) Ma il giorno passò, e con la sera giunse una fresca brezza, quasi un piacevole appuntamento per la partenza della nostra barca a vela. A tutta randa (7) ed il grande fiocco genoa (8), lo yacht prese a muovere verso la punta est dell'isola guadagnando in breve 7 nodi di velocità. Note: (1) Charter: noleggio dell'imbarcazione. (2) Tender: piccola barchetta o gommone di servizio (3) Poppa: parte posteriore delle barche. (4) Prua: parte anteriore delle barche (5) Bolina Stretta: andatura a vela quasi controvento con scafo molto inclinato. (6) Battagliola: Cavi di protezione delimitanti i bordi della barca. (7) RANDA: Grande vela centrale. (8) Fiocco Genoa : Vela di prua

Capitolo Secondo Le isole Eolie La notte nascose l'isola e mi dedicai al calcolo della rotta su Ustica-Filicudi. Dopo aver digitato le coordinate nel Loran,(1) il pilota automatico(2) accostò lo yacht verso estnord-est. Il vento mi dava 50 gradi di bolina larga(3), ed affidai al congegno elettronico la conduzione della barca sdraiandomi nella mia cuccetta di navigazione, vicina al tavolo di carteggio. Ogni trenta minuti un cicalino mi svegliava, così controllavo improbabili luci di altre navi in quelle acque generalmente deserte. La grande ruota del timone si muoveva da sola, a piccoli scatti per compensare le variazioni dovute all'irregolarità del vento o per le onde più grandi che potevano spostare la prua. Nel dormiveglia ricordavo i lunghi tratti di mare che avevo attraversato negli ultimi anni, quando dalla Grecia tornavo in Italia dopo aver toccato le isole dell'egeo. Ancora non erano state attivate le stazioni Loran per il diporto nautico e si navigava soltanto con la bussola. Da Corfù si scendeva verso sud-ovest tentando di giungere su Crotone. Era la rotta classica degli antichi che non avevano bussola e non potevano orientarsi con la frequenza dei fari che indicavano, come nei tempi moderni, l'esatto punto verso cui si stavano dirigendo. Per loro, una terra in avvicinamento e non riconosciuta poteva offrire pericoli d'ogni genere, e non ultimo quello d'incontrare popolazioni aggressive. Era l'opposto di quanto accadeva con le incursioni piratesche che tormentavano gli abitanti di quelle terre, spesso trasferitisi sui fianchi dei monti non visibili dal mare. Una volta, con un motor-yacht, scapolato Crotone per via di una pertubazione che mi aveva spinto troppo a Sud, navigavo con molta apprensione per il timore di essere all'altezza della Sicilia che non avrei potuto raggiungere per mancanza di carburante, e con il finire del maltempo le onde mi consentirono una rotta verso Ovest. Finalmente apparvero lunghe montagne e poi, una città. Era Locri, che non disponeva di un porto e nessun attracco per il rifornirmento di carburante. Con il binocolo notavo sulla spiaggia la presenza di alcuni pescatori. Mi avvicinai per quanto potevo, e passato il timone al mio secondo, preparai tre bidoni vuoti da cinquanta litri legati tra loro che gettai a mare. Subito mi tuffai rimorchiandoli a nuoto fino alla riva, mentre il motor-yacht si manteneva nei pressi con i motori accesi, non potendo dar fondo all'ancora per via del mare mosso. I pescatori mi aiutarono, fui accompagnato con un'auto ad un distributore, fu varata una barca da pesca per il trasporto dei bidoni pieni, non senza difficoltà, ed in breve eravamo di nuovo in rotta per Capo Spartivento e quindi per il porto di Reggio. Intanto mi ero addormentato profondamente senza sentire i richiami del cicalino che ogni mezz'ora mi ricordava di osservare se la rotta era sgombra. Per fortuna nessuna nave incrociò l'athena, ed al mattino, con il sole già alto e senza interrompere l'andatura, filai (4) in acqua una robusta cima, ed a turno ci tuffammo lasciandoci trascinare in un tonificante bagno d'alto mare. Era un gioco piuttosto pericoloso perchè potevano incrociare grossi squali, e le gambe trascinate nell'acqua potevano costituire un appetitoso stimolo. A turno stavamo di vedetta ed il bagno si completava in pochi secondi, giusto il tempo d'una rinfrescata. Incontrammo poco dopo un branco di allegri delfini che ci accompagnarono per qualche miglio, ed il pomeriggio ci fermammo un paio d'ore ad Ustica, ritrovo mondiale dei subacquei. Ogni anno, tra giugno e luglio viene organizzato un concorso di

fotografia subacquea che vede la partecipazione dei più noti subacquei del mondo. Vi si svolgono convegni e simposi dove viene dibattuto ogni problema del mare. Nelle prime settimane di settembre l'accademia Internazionale di Scienze e Tecniche Subacquee di Ustica organizza un corso di archeologia subacquea diretto da docenti universitari ed assai valido come presupposto al definitivo ordinamento della materia per cui la stessa Ustica è deputata. La parte dell'isola esposta ad ovest è dichiarata parco nazionale; all'estremo sud i fondali sono ricchi di reperti ed ancore in piombo, ognuna con il suo cartellino ad indicarne tipo ed età. E' il "parco archeologico" subacqueo, che richiama centinaia di turisti che possono ammirare e fotografare quelle antiche testimonianze. L'anno prima, in giugno, avevo conosciuto proprio ad Ustica, il cubano Francisco Ferreras detto "Pipin", il recordmen d'immersione in apnea. In quell'occasione si svolgeva l'annuale concorso di fotografia subacquea ed erano presenti i più noti fotografi del mondo collaboratori delle principali testate subacquee. Quasi tutti i concorrenti erano accompagnati da bellissime modelle addestrate a posare in apnea. Nella grotta dell'accademia, senza disturbare, osservammo il lavoro del campione tedesco Binazer che, per creare particolari giochi di luce, faceva tenere accese sott'acqua dalla modella due torce al magnesio dalla luce rossa molto intensa. Nei giorni successivi s'imbarcò con noi Raimondo Buker, ormai settantenne, l'inventore dei primi fucili a molla nonchè teorizzatore della manovra detta del "valsalva" che consiste nel premere il naso per compensare la pressione durante la discesa. Buker ci raccontava che, malgrado l'età, andava normalmente con le bombole ad oltre 100 metri di profondità, ed ogni anno si recava nei mari tropicali per filmare la moglie mentre dava da mangiare a grossi squali. Cosa confermata dai documentari proiettati in quelle serate. Pipin nel frattempo era diventato di casa sull'athena, ed ormai occupava stabilmente la cabina di prua. Si allenava un'ora al giorno raggiungendo agevolmente in apnea i sessanta metri mentre io, con la telecamera subacquea registravo i suoi miglioramenti. Una volta ancorammo a Nord dell'isola, dove era consentita la pesca subacquea e mi acquattai con la telecamera vicino ad uno scoglio a 40 metri mentre Pipin in superficie si iperventilava, cioè respirando profondamente, usava la tecnica di massima ossigenazione dei polmoni. Improvvisamente avvertii una strana presenza e mi vidi circondato da un branco di ricciole attirate dalla colonna di bolle che espiravo. I bellissimi pesci, curiosi come i gatti, erano sopra di me e giravano attorno alle bolle. Azionai la telecamera mentre verso l'alto inquadravo un punto nero che si avvicinava al centro delle bolle. Era Pipin che si fermò sopra la mia testa a seguire la danza delle ricciole. I loro occhi erano grandi quanto quelli di un bue, alcune più piccole, altre grandissime. Pipin era immobile, la sua apnea gli consentiva di non respirare per circa 4 minuti e finalmente la curiosità spinse i pesci a stringere il loro cerchio. Passarono i più piccoli, poi arrivò la ricciola più grossa e partì il colpo che centrò il magnifico animale. In un caso del genere, se il fucile non è collegato ad una sagola di superficie viene strappato di mano dalla potenza del pesce. Ma Pipin, balzando in avanti ed afferrando la sagola, arrivò sul pesce aggrappandosi all'arpione penetrato in profondità, e con le gambe circondò la coda bloccando la ricciola che in breve fu in superficie. Pesava 30 chili. Questa volta non avevamo tempo come l'anno prima per fermarci oltre, la vacanza era finita e lasciammo Ustica, "la solitaria". Durante l'avvicinamento alle Eolie dormii poco per la presenza di numerosi pescherecci che inducevano ad una continua attenzione per non finire sulle reti fluttuanti per chilometri.

Superata Alicudi ci fermammo nei pressi della grotta del "Bue Marino" a Filicudi. Lo scenario era incantevole, verso ovest svettava "la Canna" uno scoglio di origine vulcanica alto 85 metri, quasi una colonna nera, e nei pressi, lo scoglio Montenassar dava impressioni d'inferno dantesco. Calammo il tender (5) ed entrammo nella grotta. L'antro era stato per lungo tempo il rifugio dell'ultima foca monaca vista nelle Eolie e portava quel nome anche per i muggiti delle onde infuriate che si infrangevano all'ingresso durante le tempeste. Il fondale rifletteva la luce proveniente dall'esterno, irradiando un color verde smeraldo. L'umidità era altissima e dopo tanto sole, avvertivamo sulla pelle un piacevole senso di frescura e gli occhi potevano riposarsi nella penombra. Presto risalimmo a bordo e dopo mezz'ora ci ancorammo ad est di Filicudi a ridosso di Capo Graziano, ove l'accogliente gentilezza della collina ricordava la forma di una tazza rovesciata. Nell'immediato fondale giacevano i resti di ben due relitti entrambi del III Secolo av.c., provenienti dalla Campania e diretti in Nord-Africa. La causa degli affondamenti era dovuta ad un infido scoglio che da un fondale navigabile, si innalzava fino ad un metro sotto la superficie del mare, invisibile a causa del nero riflesso della collina sul mare, e posto a circa 150 metri dal capo che veniva circumnavigato dagli antichi marinai. Alla base del monte, erano visibili alcune macine in pietra per la lavorazione dell'olio che erano parte del carico di uno dei due relitti che era affondato sul ciglio del costone nelle vicinanze dello scoglio. Il fondale si manteneva intorno agli otto metri per poi scendere a picco fino ad una grande base di sabbia e scogli sparsi, che dai trenta metri di profondità sfumava in un digradare più dolce. Sicuramente il relitto che trasportava le macine, dopo lo squarcio operato dallo scoglio, si era rovesciato seminando sul basso fondale tutte le grosse pietre circolari, mentre l'altra parte del carico più leggero era rotolata giù lungo il costone. La Soprintendenza siciliana operò un buon recupero di vasellame ed anfore che ora arricchiscono in suggestiva coreografia il Museo di Lipari allocato nel castello spagnolo della seconda metà del '500, costruito dopo la distruzione della città da parte del pirata tunisino Barbarossa. Purtroppo, come i relitti di Spargi, delle Scole, della secca dello Sparviero al Giglio, ed altri, anche i relitti di Filicudi furono preda di sommozzatori francesi, belgi, tedeschi, americani ed italiani, e mai sapremo se tra quei reperti vi siano state opere d'arte o altri reperti che avrebbero potuto comunque dare maggiori informazioni storiche. L'inverno precedente durante un mio soggiorno al Club Mediterranèe di St.Moritz, un belga mi aveva mostrato una serie di fotografie eseguite a Filicudi e ritraenti il prezioso vasellame di una ceramica color nero perfettamente conservata, marchiata della caratteristica decorazione del Campano-A. Solo da pochi anni la zona viene controllata in qualche modo. La grande scritta "divieto d'immersione" dovrebbe scoraggiare chiunque, ma in effetti ormai, salvo qualche collo d'anfora e tanti cocci, non vi è più niente d'interessante. Ma il secondo relitto, secondo l'opinione dei più, non si sovrappone al primo. Il secondo relitto, dopo l'urto con lo scoglio, galleggiò ancora e si inabissò più avanti, a 500 metri verso sud, ad una profondità di 58 metri. Ancora sono visibili alcune anfore, ma basta scavare per pochi centimetri ed altre anfore appaiono, e forse potrebbe esservi qualcosa di molto importante. Credo che una spedizione organizzata potrebbe svolgere un buon lavoro. 58 metri non sono pochi, ed occorre un certo tempo per scavare ed esplorare con calma. Dobbiamo inoltre rilevare che il primo ceppo d'ancora da abbinare sicuramente ad un relitto, è quello recuperato il 14 agosto 1960 da Gianni Roghi che nella sua relazione agli

atti del Congresso Internazionale di Archeologia Sottomarina di Barcellona nel 1961, così riferisce: "La nave romana di Capo Graziano ha comunque regalato una importante novità, e cioè il primo ceppo d'ancora in piombo, per quanto ne sappiamo, che possa essere datato con sicurezza. Ho potuto individuare il ceppo grazie al suo lieve affiorare da sotto l'ammasso di anfore, proprio al limite inferiore (m.42) del cumulo compatto, che in questo punto poteva essere osservato come in sezione. Attirato da un profilo rettilineo che appariva per meno di una spanna sotto il fango e i detriti, scavai e potei riconoscere la caratteristica barra di piombo. Per liberarlo occorse un lungo ed assai faticoso lavoro, in due immersioni. Dovetti spostare numerose anfore, e quindi estrarre il ceppo a forza di braccia, pur con le dovute cautele necessarie per la sua integrità. Decisi di ricuperare il ceppo sia per la sua importanza intrinseca, sia per essere il relitto ormai noto e saccheggiabile (la vigilanza sulle coste archeologiche sommerse, in tutto l'arcipelago, è inesistente). Eseguii una decina di fotografie da diversi lati, poi lo imbragai e lo feci issare dal nostro verricello a motore. L'operazione ebbe esito perfetto". Ma era giunto il momento di salpare da Filicudi dopo un piacevole bagno nel mare tiepido, e dopo aver fatto colazione. Traversammo in un paio d'ore da Filicudi a Lipari, e nel canale di Vulcano puggiai (6) verso la punta Sud di Lipari, altro affascinante sito archeologico chiamato Secca di Capistello. Il "Relitto di Lipari" giaceva su un fondale pericoloso, anfore e vasellame erano rotolate giù lungo una discesa di sabbia piuttosto precipite, che si addolciva a 108 metri di profondità, dove gran parte del carico era stato depredato per lungo tempo. Le voci di banchina raccontavano di "ordinazioni" di completi da 8 o da 12, e grandi cene si organizzarono a Vulcano con le pietanze servite in quel vasellame. Dalle autorità fu sequestrato un capanno colmo di anfore e qualcuno finì in prigione. Morì qualche anno dopo per aver respirato i gas di scarico del compressore per la ricarica delle bombole. Ma il relitto di Lipari volle ancora un suo tributo! Due eminenti studiosi, Helmut Schlager ed Udo Graf dell'istituto Germanico di Archeologia erano in quelle profondità, quando per l'alta pressione saltarono le fascette in plastica dell'erogatore (7) di uno dei due, che preso dal panico tentò di strappare il boccaglio dalla bocca dell'altro. La respirazione alternata a due con un unico boccaglio è l'esercizio che si compie con più frequenza nelle scuole subacquee, ma evidentemente l'azoto e quindi l'ebbrezza di profondità che esaspera in quei casi ogni stato ansioso, determinò una drammatica colluttazione ed entrambi morirono. Alcuni anni prima mi ero immerso con la precauzione di appendere a circa 8 mt., lungo la cima dell'ancora, un autorespiratore supplementare per la decompressione. L'immersione era assai impegnativa, e per consumare meno aria iniziai la discesa a gran velocità compensando senza interruzioni, fino ai 60 metri. Il costone era sempre più ripido e non si vedeva ancora il fondo. I colori erano scomparsi, tutto era grigio e continuai la discesa. Sentivo una leggera ebbrezza, l'acqua era più fredda e cristallina, piacevole. Stavo veramente bene e compensando con le dita sul naso, picchiai ancora verso il fondo che cominciava a spianare, e vidi sotto di me nel buio tante anfore. Illuminai con la torcia l'ammasso di terrecotte: avevo la tentazione di svuotarne una e riempirla d'aria ma guardando il profondimetro mi rendevo conto di essere a 108 metri ed il manometro già