7. PREVIDENZA E ASSISTENZA



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7. PREVIDENZA E ASSISTENZA I testi integrali delle sentenze si trovano sotto la voce giurisprudenza 1. Corte di Cassazione III sez. civ. 24 gennaio 2014 n. 1361, pres. Russo, est. Scarano, Soprani e altri (avv. Boccardi) c. Valentini (avv. Spadafora)e c. Allianz Spa (avv. Spadafora). Danno tanatologico lesione del diritto alla vita - Autonoma risarcibilità - Sussistenza - Apprezzabile lasso di tempo tra la lesione e il decesso - Lucidità e coscienza della vittima - Irrilevanza ai fini del risarcimento. Il danno non patrimoniale della perdita della vita va garantito in via primaria anche in sede civile e deve risarcito indipendentemente dal danno biologico terminale e/o dal danno catastrofale, assumendo autonoma rilevanza ex se e quindi a prescindere dal lasso di tempo intercorso tra la lesione e la morte e/o dalla consapevolezza che ne avesse in vita la vittima. Il tormentato cammino del danno biologico da morte e la sua risarcibilità jure hereditatis ai congiunti della vittima (Aldo Garlatti) Con la storica sentenza n. 136114 in commento la Cassazione ha dato ingresso, e riconosciuto per la prima volta, al risarcimento del danno alla vita in quanto tale, ovvero del danno da morte propria della vittima, rientrante nella categoria del danno non patrimoniale e trasmissibile in quanto tale jure hereditatis agli eredi. Quale danno non patrimoniale esso rientra nella disciplina dell art. 2059 c.c. Occorre da subito precisare che la questione sulla risarcibilità del danno tanatologico è tutt altro che assodata, tanto che la stessa Corte di Cassazione sez. III civ., con recentissima ordinanza del 4/3/14 n. 5056 ha rimesso gli atti di un proprio procedimento analogo per materia, al Primo Presidente, affinché valuti l esigenza di rimettere la questione alle Sezioni unite della Corte al fine di definire e precisare per imprescindibili esigenze di certezza del diritto, il quadro della risarcibilità del danno non patrimoniale, che come a tutti noto, ha cominciato la propria ridefinizione dalla categorie classiche del danno con le sentenze di San Martino del 2008. Effettivamente la Cassazione giunge ad affermare la risarcibilità del danno morte quale lesione del diritto alla vita dopo un lungo percorso, incentrato innanzi tutto sulle (sotto) categorie del danno biologico terminale e del danno catastrofico, spesso utilizzate dalla 1

giurisprudenza al fine di accordare adeguato risarcimento alla vittima di un illecito da cui sia poi conseguita la morte. Infatti, a fronte dei numerosi orientamenti giurisprudenziali volti a ristorare gli eredi del danno biologico derivato in vita al soggetto deceduto, possiamo affermare che costituiscono invero massime ormai consolidate nella giurisprudenza della Corte di legittimità: a) che in caso di lesione dell'integrità fisica con esito letale, un danno biologico risarcibile in capo al danneggiato, trasmissibile agli eredi, è configurabile solo se la morte sia intervenuta dopo un apprezzabile lasso di tempo 1, sì da potersi concretamente configurare un'effettiva compromissione dell'integrità psicofisica del soggetto leso, non già quando la morte sia sopraggiunta immediatamente o comunque a breve distanza dall'evento, giacché essa non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute, ma lesione di un bene giuridico diverso, e cioè del bene della vita 2 ; b) che parimenti il danno cosiddetto catastrofale - e cioè la sofferenza patita dalla vittima durante l'agonia - è risarcibile e può essere fatto valere iure hereditatis unicamente allorché essa sia stata in condizione di percepire il proprio stato, abbia cioè avuto l'angosciosa consapevolezza della fine imminente, mentre va esclusa quando all'evento lesivo sia conseguito immediatamente il coma e il danneggiato non sia rimasto lucido nella fase che precede il decesso (cfr. Cass. civ. 28/11/08, n. 28423; Cass. civ. 24/3/11, n. 6754) (cfr. Cass. civ. 10/3/11 n. 10107). Con altra sentenza la Corte di legittimità ha invece riconosciuto jure hereditatis la liquidazione del danno biologico permanente in caso di infortunio sul lavoro mortale 3 mentre quella di merito 4 ha tentato di adeguare l entità del risarcimento del periodo di inabilità temporanea. La dottrina riconosce come danno biologico terminale, il danno biologico patito dalla vittima di un illecito nel periodo intercorrente tra la lesione e la morte, e si identifica nel danno biologico patito da colui che, sopravvissuto per un considerevole lasso a un evento poi 1 Cfr. Cass. civ. sez. 3, 21/3/13 n. 7126 In caso di illecito civile che abbia determinato la morte della vittima, il danno cosiddetto 'catastrofale', conseguente alla sofferenza dalla stessa patita - a causa delle lesioni riportate - nell'assistere, nel lasso di tempo compreso tra l'evento che le ha provocate e la morte, alla perdita della propria vita (danno diverso sia da quello cosiddetto "tanatologico", ovvero connesso alla perdita della vita come massima espressione del bene salute, sia da quello rivendicabile iure hereditatis dagli eredi della vittima dell'illecito, poi rivelatosi mortale, per avere il medesimo sofferto, per un considerevole lasso di tempo, una lesione della propria integrità psico-fisica costituente un autonomo danno "biologico", accertabile con valutazione medico legale) deve comunque includersi, al pari di essi, nella categoria del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., ed è autonomamente risarcibile in favore degli eredi del defunto. 2 Cass. civ. 17/1/08, n. 870; Cass. civ. 28/8/07, n. 18163; Corte Cost. n. 372/94. 3 Cfr. Cass. sez. lav 18/1/11 n. 1072. 4 Vedi in questa Rivista 2013, 248 il testo e il commento a Corte d Appello di Torino 13/5/13. 2

rivelatosi mortale, abbia in tale periodo sofferto una lesione della propria integrità psicofisica autonomamente considerabile come danno biologico e quindi accertabile con valutazione medico legale 5. In questo caso il danno veniva riconosciuto come trasmissibile agli eredi. Il contrasto sulla risarcibilità pacificamente ammessa, si muove attorno all intervallo di tempo ritenuto necessario per consolidare detto danno in capo alla vittima e a renderlo perciò trasmissibile e sul quale la giurisprudenza si è per così dire sbizzarrita nel fornire pronunce spesso tra loro in contrasto 6. Si tratta di un danno massimo per entità e intensità. Il danno catastrofico si distingue dal danno terminale, e si identifica con il pregiudizio del soggetto che, in conseguenza di un illecito, sia deceduto dopo un arco di tempo non sufficiente per far consolidare l autonoma risarcibilità del danno terminale. Le sentenze di San Martino avevano ricondotto tale danno nell alveo del danno non patrimoniale affermando (per vero anche con una recente pronuncia 7 ) che il danno catastrofale è il danno non patrimoniale conseguente alla sofferenza psichica patita dalla persona che, a causa delle lesioni sofferte nel lasso di tempo compreso tra l evento che le ha provocate e la morte, assiste alla perdita della patologia della vita. Il danno tanatologico riconosciuto dalla Cassazione con la sentenza 1361/14 prende le mosse da un acceso dibattito dottrinale e giurisprudenziale che di fatto ha diviso in due gli orientamenti. Secondo l opinione prevalente, il danno tanatologico non sarebbe risarcibile, poiché il soggetto che perde la vita non è in grado di acquistare un diritto risarcitorio, perché finché è in vita non vi è perdita e quando è morto da una parte non è titolare di alcun diritto e dall altra è privo della capacità di acquistarne 8. Vita e salute si pongono come beni giuridici distinti e nell ipotesi in cui l illecito abbia inciso sul bene vita, la perdita di quest ultima per il definitivo venir meno del soggetto non può consolidarsi nel patrimonio del de cuius con corrispondente diritto al risarcimento del danno trasferibile agli eredi. L orientamento minoritario ritiene invece vita e salute come aspetti del danno assolutamente inscindibili, accordando in particolare al bene vita la tutela più ampia quale imprescindibile diritto dell uomo e valorizzando l art. 2 della Costituzione e l art. II- 62 della Costituzione europea. 5 Sul punto Cass. sez. III civ. 13/12/12 n. 22896. 6 Cfr. Cass. n. 3549/04 che ha ritenuto sufficiente il decorso di qualche giorno, o Cass. n. 13585/04 che ha ritenuto sufficiente un arco di tempo tra la lesione e il decesso di mezz ora. 7 Cfr. Cass. civ. sez. III civ 13/12/12 n. 22896 cit. 8 Cfr. Cass. sez. III 23/2/04 n. 3549. 3

La sentenza della Cassazione in commento interviene in tale contrasto valutando innanzi tutto come il risultato ermeneutico raggiunto dal prevalente orientamento giurisprudenziale appare non del tutto rispondente all effettivo sentire sociale nell attuale momento storico e riconoscendo la necessità di ammettere la diretta ristorabilità del bene vita in favore di chi l ha perduta in conseguenza del fatto illecito altrui.. La pronuncia non si discosta dal principio di fondo enunciato vigorosamente dalle pronunce delle Sezioni unite del 2008 per il quale nel nostro sistema sono risarcibili i soli danni conseguenza in considerazione della funzione riparatoria e non sanzionatoria cui è improntato il sistema. Ma contemporaneamente afferma che il diritto alla vita costituisce imprescindibile eccezione al principio della risarcibilità dei soli danni conseguenza e ancora il percorso motivazionale prosegue affermando che la morte determina la perdita di tutto ciò di cui consta(va) la vita della vittima, che avrebbe continuato a dispiegarsi in tutti i suoi molteplici effetti suoi propri se l illecito dell autore non ne avesse determinato la soppressione. Come correttamente osservato in dottrina, la perdita della vita va in realtà propriamente osservata ex ante e non già ex post rispetto all evento che la determina La perdita della vita non può lasciare invero priva di tutela, poiché il diritto alla vita è altro e diverso dal diritto alla salute, così come la sua risarcibilità costituisce realtà ontologica e imprescindibile eccezione alla risarcibilità dei soli danni conseguenza. Va per altro evidenziato come di poco precedente alla pronuncia in esame sia stato presentato il disegno di legge n. 1063 del 28/5/13 con l obbiettivo di uniformare il quadro risarcitorio il quadro risarcitorio dei danni non patrimoniali. La sentenza potrà certamente costituire valido precedente per meglio adeguare l entità del risarcimento in favore degli eredi soprattutto nelle controversie promosse nei casi di lavoratori deceduti in seguito a patologie professionali nelle quali le liquidazioni effettuate sono a oggi grandemente differenti da quelle accordate agli eredi anche solo nel caso di sinistro stradale mortale. 2. Tribunale Milano 16 gennaio 2014, est. Fontana, Seringhelli (avv. Mazzi) c. Fall. Finpac Srl (avv. Della Sciucca) e FON.TE Fondo Complementare per i dipendenti delle Aziende del Terziario (avv. Canelli e Bottari). Previdenza complementare - Omissione del versamento dei contributi per la parte a carico del lavoratore - Obbligo di pagamento in capo al lavoratore - Delegazione di pagamento - Domanda di ammissione al passivo del fallimento della datrice di lavoro - Legittimazione ad agire: spetta al lavoratore in via di surroga. 4

Previdenza complementare - Omissione del versamento dei contributi per la parte a carico del datore di lavoro - Domanda di ammissione al passivo del fallimento della datrice di lavoro - Spettanza esclusiva al Fondo della titolarità del credito - Legittimazione ad agire: spetta al lavoratore in via risarcitoria - Grado del privilegio - Chirografo. A fronte del mancato versamento al Fondo di previdenza complementare dei contributi dovuti dal lavoratore, nel caso di inerzia del Fondo la legittimazione ad agire e a proporre la domanda di ammissione al passivo del fallimento della impresa datrice di lavoro spetta al lavoratore, poiché nella delega di pagamento il mancato adempimento del soggetto delegato non estingue l obbligo del delegante. A fronte del mancato versamento al Fondo di previdenza complementare dei contributi dovuti per contratto dal datore di lavoro, la legittimazione ad agire spetta esclusivamente al Fondo di previdenza che è l unico titolare del credito. Al lavoratore resta solo la ordinaria azione risarcitoria nei confronti del datore di lavoro nel caso di inerzia del Fondo, con la conseguenza che nel passivo fallimentare il relativo credito deve essere collocato al chirografo. L omissione del versamento dei contributi di previdenza complementare e la legittimazione ad agire (Giovanni Paganuzzi) Il particolare caso del fallimento della società datrice di lavoro, oggetto della sentenza in commento, non modifica i termini della questione che il nostro legislatore ha dimenticato di affrontare al tempo della riforma del sistema previdenziale, vale a dire quello della titolarità dell azione risarcitoria in caso di omissione del versamento dei contributi. Chi è il titolare del credito contributivo? E chi è, per l effetto, legittimato ad agire per il recupero di quei contributi? Il Fondo pensione o il lavoratore? Come noto la previdenza complementare è stata introdotta nel nostro ordinamento come secondo pilastro previdenziale con il D. Lgs. 124/93 che disciplina la costituzione di fondi pensione a favore dei lavoratori dipendenti, individuando in particolare tra le fonti costitutive di un Fondo i contratti e gli accordi collettivi (anche aziendali) tra le parti sociali (cfr. art. D. Lgs. 124/95). Successivamente la materia è stata rivisitata e precisata con modifiche al medesimo D. Lgs. 124/93 fino all'emanazione del D. Lgs. 252/05 il quale ha interamente sostituto la disciplina precedente (almeno formalmente). La disciplina della previdenza complementare è caratterizzata dall'adesione volontaria. Il suo finanziamento ha luogo attraverso una contribuzione a carico anzitutto del lavoratore che conferisce del Tfr e in secondo luogo anche e del datore di lavoro nella misura stabilita dai contratti collettivi (cfr. art. 8 D. Lgs. 252/05). La riforma ha introdotto la previdenza complementare in un momento in cui ha ridotto i rendimenti della previdenza obbligatoria, ha trasformato il sistema in senso contributivo (da 5

retributivo che era) e ha allungato l età di collocazione a riposo dei lavoratori, sulla base di una valutazione complessiva negativa in merito alla capacità del pregresso sistema di assicurare equilibrio economico per il futuro. L effetto di tali riforme è stato però quello di ridurre sensibilmente i futuri trattamenti pensionistici. La creazione del cd. terzo pilastro (la previdenza obbligatoria), in questo contesto, aveva la funzione di sollecitare il risparmio previdenziale dei lavoratori in modo che il trattamento pensionistico finale, decurtato per effetto delle misure sopra descritte, potesse essere integrato a livelli decorosi sulla base del contributo volontario di ciascun lavoratore (cfr. D. Lgs. 124/93). 2 - Il sistema di previdenza complementare è stato disciplinato con principi e regole molto diverse da quelle vigenti per il sistema di previdenza obbligatoria. Il perno del nuovo sistema infatti è stato individuato nella volontarietà (artt. 1 e 8 L. 252/05) e non nella obbligatorietà; nella creazione di fondi previdenziali privati di fonte contrattuale (art. 3 L. 252/05); in un sistema di versamento legato al rapporto di lavoro e mediato dall intervento del datore di lavoro; e nel funzionamento sulla base del principio di capitalizzazione: in cui cioè i contributi versati da ogni iscritto vengono accantonati su un conto previdenziale individuale (art. 11 L. 252/05), vengono rivalutati nel tempo grazie alla gestione finanziaria del Fondo e vanno a costituire un montante individuale che alla scadenza andrà ad alimentare la pensione integrativa. La misura di quest ultima, in pratica, dipenderà dai contributi versati e dai rendimenti ottenuti dalla gestione del Fondo (cfr. art. 11 L. 252/05). Dunque questa prima differenza tra i due sistemi appare particolarmente rilevante al fine di risolvere la questione giuridica della titolarità del credito contributivo: nel sistema di previdenza complementare la pensione futura è solo eventuale ed è il frutto degli accantonamenti dell iscritto e degli investimenti di quel capitale da parte dell ente gestore. Per contro la caratteristica principale della previdenza obbligatoria è quella di funzionare secondo il meccanismo a ripartizione : la pensione futura è certa (sulla base di rendimenti predefiniti) e i contributi versati oggi dai lavoratori in attività finanziano le pensioni di chi ha già smesso di lavorare. Dunque nella previdenza obbligatoria c è un interesse fondamentale da tutelare che non è solo quello del lavoratore che vuole preservare la propria posizione contributiva, ma anche quella della collettività a garantire l erogazione delle pensioni attuali. Da qui viene il principio di autonomia della obbligazione contributiva; e da qui viene la norma di chiusura che garantisce l automaticità della prestazione previdenziale anche in caso di inadempimento dell obbligazione contributiva da parte del datore di lavoro (art. 2116 c.c.). 3 - Su questa premessa possiamo affermare che la legittimazione ad agire per il recupero dei contributi di previdenza complementare non versati dal datore di lavoro al Fondo pensione spetta al lavoratore, poiché è il lavoratore il creditore della prestazione, non il Fondo pensione. 6

Si tratta di una conclusione che si desume dalla natura del sistema di previdenza complementare sopra descritta: se il sistema di previdenza complementare è improntato al criterio della volontarietà, ciò significa che l interesse specifico oggetto della disciplina è quello del singolo lavoratore (all'integrazione volontaria della sua pensione). Se inoltre esso è fondato sul principio della capitalizzazione, l ente previdenziale si configura come mero gestore del patrimonio altrui, che non deve garantire alcun risultato, né alcun equilibrio complessivo. Nel sistema di previdenza obbligatoria invece - lo si è detto - l interesse precipuo è quello dell ente previdenziale che deve garantire l equilibrio del sistema, anzitutto nell interesse della collettività e di color che sono già pensionati. Tale interesse precipuo è garantito da un potere di accertamento autonomo del credito previdenziale conferito all ente (addirittura anche contro la diversa qualificazione del rapporto fatta dalle parti e contro la eventuale rinuncia fatta dal lavoratore interessato in sede di conciliazione), da un potere sanzionatorio, dal diritto di denuncia attribuito al lavoratore e dal diritto alla prestazione automatica in caso di denuncia. Dunque nel sistema di previdenza obbligatoria la titolarità del credito previdenziale è anzitutto dell ente previdenziale, perché l interesse perseguito è di natura collettiva, perché la legge lo dice espressamente e perché conferisce all ente quegli specifici poteri di accertamento, recupero e sanzione. In questo quadro è ovvio che la titolarità del credito previdenziale sia semplicemente estesa al lavoratore (e garantita col diritto alla prestazione automatica ex art. 2116 c.c. e alla ricostituzione della posizione previdenziale ex art. 13 L. 1338/62). Si tratta, come si vede, di elementi del tutto assenti nel sistema di previdenza complementare che non attribuisce ai relativi - e costituendi - fondi alcuna finalità di natura pubblicistica. L interesse perseguito dai fondi di previdenza complementare infatti è quello dei singoli aderenti, che non hanno alcuna garanzia di ritorno delle somme versate, partecipando essi al rischio degli investimenti. E proprio questa assenza in capo al Fondo dell obbligo di restituire al lavoratore (rectius: ai lavoratori) una prestazione predeterminata in maniera fissa lo esonera dall obbligo di assicurare un equilibrio di gestione e dalla necessità di procedere coattivamente al recupero delle somme dovutegli dai lavoratori. E da questa rilevante differenza che consegue l assenza in capo ai fondi di previdenza complementare (che sono di natura contrattuale, lo si ricordi) di un potere di accertamento autonomo o sanzionatorio del rapporto previdenziale. D altra parte il lavoratore interessato può sempre sospendere la prestazione e non è tenuto ad avvisare il Fondo di questa scelta. Si deve ritenere insomma che il Fondo di previdenza complementare nel nostro sistema non ha alcun interesse proprio e autonomo rispetto a quello dei singoli aderenti e pertanto non ha alcuna titolarità del credito di previdenza complementare: esso è semplicemente un ente mandatario degli aderenti con il compito di gestire le somme versate in modo che possano un giorno restituire agli interessati un capitale o una rendita. 7

E se il Fondo di previdenza complementare non ha un interesse proprio al recupero dei contributi previdenziali di un aderente, si deve altresì ritenere che tale interesse resti in capo unicamente al lavoratore aderente al Fondo, il quale è l unico soggetto legittimato ad agire per il recupero di quanto trattenuto e non versato dal datore di lavoro. 4 - Ora, se il rapporto tra il lavoratore e il Fondo pensione di previdenza complementare deve essere qualificato come un mandato ex art. 1703 c.c. a gestire un patrimonio di beni fungibili, investendolo per assicurare una futura rendita o la restituzione di un capitale maggiorato dei frutti, diversamente deve essere qualificato il rapporto tra lavoratore e datore di lavoro. Il contratto collettivo che regola il rapporto individuale di lavoro, obbliga anzitutto il datore di lavoro a versare al Fondo pensione i contributi che il dipendente decide di versare, trattenendoli e decurtandoli dalla sua retribuzione (senza che ciò diventi un costo ulteriore per il datore di lavoro, afferendo il prelievo esclusivamente al reddito del lavoratore). Il contratto collettivo obbliga inoltre il datore di lavoro - a date condizioni - a versare anche un ulteriore contributo al Fondo (questo invece diventa un costo aggiuntivo per il datore di lavoro) per conto del lavoratore medesimo (cfr. art. 8 D. Lgs. 252/05). Dunque nel rapporto di previdenza complementare le obbligazioni del datore di lavoro nascono dal contratto individuale di lavoro, dal rinvio al contratto collettivo applicato e dall'adesione volontaria del lavoratore al Fondo pensione. Esse sono configurate come obbligazioni del datore di lavoro verso il lavoratore e non verso terzi: la trattenuta effettuata riguarda il salario del dipendente; e la somma aggiuntiva eventuale a carico del datore di lavoro è un incentivo al risparmio previdenziale, ma resta pur sempre un impegno del datore di lavoro verso il dipendente di accrescere il suo monte contributivo previdenziale. Su questa base, infine, possiamo qualificare il rapporto trilaterale, il quale deve essere definito come delega di pagamento (artt. 1268 c.c. e sgg.). Infatti i trasferimenti di denaro dal datore di lavoro al Fondo pensione avvengono in forza di un ordine di pagamento che il lavoratore effettua con l adesione al Fondo pensione e la contestuale comunicazione di tale adesione al datore di lavoro, sulla base di quanto preventivamente stabilito dal contratto collettivo e dalle regole che disciplinano ogni specifico Fondo da queste istituito. 5 - Sicché la decisione del Tribunale di Milano in commento è solo parzialmente coerente con la disciplina di sistema, così come ora ricostruita. Essa infatti riconosce la titolarità del credito al lavoratore, ma solo per la parte di contributi a suo carico e configura invece come mero risarcimento del danno la pretesa del lavoratore di essere reintegrato della parte di contributi a carico del datore di lavoro, sottraendo così al privilegio di cui all art. 2751 bis cc quello che invece resta un credito di lavoro, vale a dire una somma dovuta al lavoratore (e per esso a terzi) in forza del contratto di lavoro e della prestazione resa in adempimento di questo. 8