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1 SOTTO LE STELLETTE ARTICOLO 52 DELLA COSTITUZIONE LA DIFESA DELLA PATRIA È SACRO DOVERE DEL CITTADINO. IL SERVIZIO MILITARE È OBBLIGATORIO NEI LIMITI E MODI STABILITI DALLA LEGGE. IL SUO ADEMPIMENTO NON PREGIUDICA LA POSIZIONE DI LAVORO DEL CITTADINO, NÉ L'ESERCIZIO DEI DIRITTI POLITICI. L'ORDINAMENTO DELLE FORZE ARMATE SI INFORMA ALLO SPIRITO DEMOCRATICO DELLA REPUBBLICA. 1

2 Indice p.3 Introduzione PARTE PRIMA IL MILITARE DIVERSO 6 Faccia a faccia nel quartiere 10 Militari e sinistre PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO 13 Le prime lotte 14 Il Caso Sotgiu 19 Un sergente di colore 20 Un sergente anarchico 22 Nell aeroporto degli Hercules 27 Sergenti laureati 30 Nella marca orientale 33 Un maresciallo da tremila voti 35 Un sergente licenziato PARTE TERZA LA COSTITUZIONE DIMENTICATA 38 Dal Regolamento Andreotti alla bozza Forlani 41 Ma io a cosa servo? 43 Obbedienza pronta e assoluta 48 La politica come tabù PARTE QUARTA LA CONDIZIONE MILITARE 51 Posizione giuridica 52 Orari e retribuzione 53 La casa 53 La sanità 55 La cultura 57 Le rappresentanze 59 CONCLUSIONE 2

3 INTRODUZIONE La questione militare è uno dei nodi più delicati, se non il più delicato, della vita di una collettività. I cittadini in divisa sono il braccio armato delle istituzioni: possono rappresentare una solida garanzia per la loro difesa come possono diventare una minaccia per l'ordine democratico. Dipende da come sono concepite le funzioni, la natura, le finalità delle forze armate. La Costituzione, all'articolo 52, dice che l'ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica. Tuttavia l'ordinamento delle forze armate si regge su un codice militare penale di pace del 1941, fascista. È questa la contraddizione di fondo che sta all'origine dei conflitti di ruolo, dei comportamenti schizofrenici di chi porta le stellette: in sostanza i militari dovrebbero proteggere le libertà costituzionali degli altri mentre queste stesse libertà sono a loro negate da norme fasciste. È abbastanza naturale, dunque, che il militare viva come frustrante la propria condizione e che in lui scatti un meccanismo psicologico di rivalsa nei confronti di una società che lo respinge ai margini, lo priva di diritti fondamentali; così come è naturale che si ponga in antagonismo verso la società dei borghesi e diventi potenzialmente disponibile ad avventure golpiste. L'Italia ha avuto i suoi De Lorenzo, gli Henke, i Miceli, gli alti gradi delle forze armate implicati in trame eversive. Tuttavia la classe dirigente politica - sinistre comprese - non è riuscita o non ha voluto andare al fondo della questione, che è molto semplice: la vita dei borghesi è regolata da norme che discendono dalla Costituzione repubblicana, quella degli uomini in uniforme da norme del passato regime. Ci sono voluti quasi trent'anni, con tanto di trame eversive e golpe falliti, perché i partiti della sinistra avvertissero la portata di un problema vitale per la democrazia. Le sinistre storiche, socialisti e comunisti, hanno guardato fino a ieri con diffidenza all'universo militare concedendo spazio alla destra, ai conservatori, ai reazionari che, per decenni ormai, si sono fatti portavoce del malessere, del disagio di caserme, navi, aeroporti. C'è voluto il Sessantotto e quello che ne è seguito, c'è voluta la protesta dei cosiddetti «proletari in divisa», soldati di leva arrivati sotto le armi con alle spalle il bagaglio della contestazione, perché le sinistre avvertissero l'importanza della questione. Così ora il Psi ha in Parlamento un comandante di marina, Falco Accame, e il Pci il generale Nino Pasti. Oggi della questione militare si parla nelle sezioni socialiste e comuniste, nei 3

4 INTRODUZIONE circoli Arci ma i sospetti, le diffidenze fra gente di sinistra e sinistre in divisa permangono e saranno duri a scomparire. Se ieri si riteneva che le rivendicazioni dei militari fossero corporative e sostanzialmente reazionarie, oggi la sinistra tradizionale teme che sotto la divisa del sergente o del maresciallo contestatore batta un cuore gruppettaro, avventurista e così guarda con sospetto alle battaglie per democratizzare l'ordinamento delle forze armate condotte in particolare dai sottufficiali dell'aeronautica che per primi fra i militari di carriera si sono organizzati in un Coordinamento nazionale. Questo libro è stato scritto anche per contribuire a superare queste barriere: per fornire ai lettori e ai dirigenti dei partiti una testimonianza viva di quanto è successo negli ultimi due anni fra i sottufficiali che sono la spina dorsale delle forze armate. Dalle loro storie, dalle loro testimonianze emerge la voglia di partecipazione e il rifiuto della separazione del cittadino in divisa. È un dato reale, di grande novità politica: nelle caserme, nelle basi aeree, sulle navi è nato il dissenso ed è stato gestito con civiltà e senso di responsabilità, nel rispetto delle leggi dello Stato repubblicano anche se non sempre nel rispetto delle norme disciplinari vigenti che sono eredità di Mussolini. Questo libro non pretende di esaurire la problematica della questione militare. Anzi, volutamente, si ferma ad analizzare un aspetto particolare ma significativo: la storia del movimento nato nel 1975 fra i militari. Si apre con la cronaca di un dibattito in un circolo Arci di Pisa dove per la prima volta, nella città di punta della protesta militare, è avvenuto un franco dialogo fra civili di sinistra, sergenti e marescialli: dai loro interventi, senza bisogno di commenti, si può cogliere la portata dello scollamento ancora esistente fra le aspirazioni dei militari e le preoccupazioni dei partiti. Dopo questo flash, una prima parte del libro racconta la storia del movimento dei sottufficiali democratici: come si è organizzato e come sia lievitato con la dura risposta delle basi dell'aeronautica dopo l'arresto e la condanna del sergente Giuseppe Sotgiu nell'estate '75. Le cronache degli avvenimenti sono alternate ad interviste con i 4

5 INTRODUZIONE protagonisti, vicende individuali che danno un'immagine, costruita su esperienze di vita, del malessere dell'italiano in divisa. È la storia di un movimento nato dal basso, cresciuto senza la mediazione delle forze politiche: lo abbiamo scelto da raccontare proprio perché i sottufficiali, sergenti e marescialli, sono le figure più emblematiche del disagio delle forze armate. Senza la gratificazione del comando che spetta agli ufficiali, senza la prospettiva di tornare a casa dopo quindici mesi dei soldati di leva, i sottufficiali di carriera si trovano nella condizione psicologicamente più scomoda. Le loro manifestazioni (per le quali in molti hanno dovuto scontare giorni di cella di rigore oppure abbandonare le forze armate perché dopo sei anni di ferma non si sono visti riconfermare in servizio) sono sempre state composte; non c'erano manifestanti in divisa con il fazzoletto sulla bocca (che poi non si sa se siano realmente militari o provocatori infiltrati). Hanno chiesto e chiedono, attraverso documenti, organi di stampa, convegni, il ripristino dei diritti civili per chi sta in divisa. Chiedono che il Parlamento si occupi di loro. C'è stata una bozza-forlani nel '75 varata in tutta fretta per arginare la protesta dei militari che prefigurava un ordinamento delle forze armate diverso rispetto a quello che si richiama a leggi fasciste. È stata ritirata per l'indignata reazione dei militari che si vedevano riproporre riverniciate le stesse limitazioni dei diritti civili del passato. Da un anno, c'è un progetto di legge Lattanzio, ministro della difesa del governo Andreotti, che il Parlamento, a metà del 1977, non ha ancora messo all'ordine del giorno e che non si discosta di molto dalla bozza-forlani. I militari democratici chiedono un ribaltamento radicale dell'ordinamento delle forze armate che ritengono iniquo e anticostituzionale. Nella seconda parte del libro analizziamo, regolamento militare alla mano, il quadro legislativo, disciplinare e normativo a cui i cittadini in divisa sono soggetti e che non accettano più. Di fronte alla base in fermento di un settore tanto delicato della vita pubblica, il Parlamento ha continuato con ostinazione a ignorare la questione militare. A qualche deputato o senatore, queste pagine, possono essere utili se non altro perché s'informi. 5

6 PARTE PRIMA IL MILITARE DIVERSO PARTE PRIMA IL MILITATE DIVERSO Faccia a faccia nel quartiere Lunedì alle ore 21 presso il Circolo ARCI Alberone si terrà un incontro dibattito sul tema: Coordinamento Democratico Sott/li A.M.; esperienze prospettive in relazione ai problemi generali di riforma delle FF.AA. Alla manifestazione interverranno: rapp. ANPI, rapp. del Collegio di difesa dei sott/li incriminati, rapp. del Coordinamento Sott/li A.M. L'ANPl e il Circolo ARCI Alberone nel promuovere l'iniziativa intendono chiamare tutti i cittadini alla solidarietà attiva e all'impegno per portare avanti in modo efficace una effettiva riforma delle FF.AA. conforme ai principi della Costituzione repubblicana. La cittadinanza, le forze politiche democratiche e associative del quartiere sono invitate. IL CIRCOLO ARCI «Alberone» S. GIUSTO San Giusto è la borgata di Pisa attigua all'aeroporto, un vecchio quartiere popolare con passato antifascista, di lunga tradizione rossa. Il circolo «Alberone» è un punto di riferimento per la gente di San Giusto: prende il nome da una gigantesca quercia che sta al centro del cortile antistante l'ingresso. Sulla cancellata una luminosa col simbolo del partito comunista. Dentro, il bar, i biliardi, un piccolo bowling, tavolini per giocare a carte, qualche ufficio e un'ampia sala riunioni. Il 7 febbraio del '77 è una data importante per San Gíusto. È la prima volta che i sottufficiali della 4Ga aerobrigata, che prestano servizio nel vicino aeroporto e in parecchi abitano nel quartiere, vi mettono piede pubblicamente per discutere con i civili: per discutere con le stesse persone di cui hanno sposato le figlie o le sorelle, con cui vanno a scuola i loro figli, persone con le quali i sottufficiali s'incontrano nei consigli dei genitori o prendono il caffè allo stesso bar tutti i giorni; ma con le quali non è mai esistito un dialogo sui problemi di quella categoria, i militari, che riveste tanta importanza nell'economia di un quartiere povero, che deve molto alla vicinanza dell'aeroporto. S'incontrano per la prima volta, dopo che da quasi due anni la protesta dei sottufficiali di San Giusto (e di tante altre basi) contro le storture delle forze armate è stata al centro delle cronache nazionali. In sala riunioni, la maggioranza è costituita da militari in borghese, alcuni dei quali accompagnati dalle mogli. Sono vestiti come gli altri, ma si riconoscono per il contegno, per la compostezza e il riserbo; si riconoscono per la tensione dei volti attenti e compresi che non si lasciano sfuggire un sorriso, una battuta, una parola bisbigliata all'orecchio del vicino di sedia. Per loro è un'occasione importante: si trovano per la prima volta al centro dell'attenzione di gente che li ha accettati, non li ha respinti, ma li ha sempre considerati una componente aggiunta del quartiere, in qualche modo diversa, anche per l'antica diffidenza delle sinistre verso chi porta la divisa. 6

7 PARTE PRIMA IL MILITARE DIVERSO Al tavolo della presidenza, Diomelli, vecchio capo partigiano, in rappresentanza dell'anpi, l'avvocato Arnaldo Massei, che ha difeso molti di questi militari in processi a loro carico, rappresentanti dell'arci e anche un sergente maggiore dell'aeronautica, Pasquale Totaro. Dopo una prolusione degli ospitanti, seguono a raffica gli interventi dei militari, alcuni dei quali ci chiedono di non riportare il loro nome. Parlando in quella sede, stanno violando il regolamento di disciplina e sono passibili di punizione. Il primo, maglione marrone girocollo, giacca beige, accento meridionale, sui quarantacinque, esordisce: «Sono un sottufficiale della 46ª aerobrigata di Pisa». S'interrompe. «Scusate sono un po' emozionato». Poi si riprende e parla di sé: «Mi sono arruolato nel '50. Per necessità, c'era tanta disoccupazione e c'erano pochi impieghi: non venivo da una famiglia medio borghese. Avere uno stipendio mi bastava, non pensavo alla politica. Poi alcuni fatti mi hanno aperto gli occhi. Nel '53 un mio collega, il miglior elemento del reparto, uno dei migliori specialisti, viene congedato senza motivo: vengo a sapere che l'avevano cacciato perché nell'osteria di suo padre bazzicava gente del partito socialista e del partito comunista. Fu la prima sveglia. La seconda l'ho avuta più avanti, quando mi sono reso conto che nelle forze armate c'era chi tramava contro lo Stato. Chi sta dentro e tiene gli occhi aperti certe cose le capisce al volo, anche se non parla per tante paure. Ho capito allora che non lavoravo per tutto il paese, ma per un'istituzione di parte: capivo che i gruppi di potere che hanno conquistato l'egemonia nel dopoguerra si erano creati un esercito proprio». Dal tavolo della presidenza si alza e va al microfono Pasquale Totaro, che non ha turbamenti. Ha fatto il '68 all'università, benché militare di carriera nella Pisa di Sofri e di Lotta Continua. Parla con spiccato accento pugliese, barba scura, maglia blu girocollo, giubbotto blu con cerniera, jeans. Attacca riprendendo le frasi del collega più anziano: «Abbiamo cominciato a mobilitarci quando si è avuta la sensazione precisa che spesso il superiore è disonesto. Prima non eravamo coscienti dei tentativi di golpe o delle truffe. Anzi, noi stessi eravamo convinti di quanto dicevano i superiori, che fuori c'è il caos e che ci vuole ordine. Poi, quando abbiamo toccato con mano quello che hanno fatto i Miceli, gli Henke, i Fanali, siamo entrati in crisi. Se chi ci comanda è un farabutto, noi che facciamo? È stata la perdita di credibilità dei capi a farci muovere, ma abbiamo trovato difficoltà a farci capire anche dai democratici in borghese. Vi dobbiamo rendere onore, grazie per l'incontro di questa sera. Più volte abbiamo chiesto di incontrarci con le componenti politiche del quartiere, ma invano. Ci conosciamo personalmente, sapete chi siamo, sapete che non siamo golpisti, ma quello che mancava era un atteggiamento di fiducia da parte vostra verso di noi. Vogliamo contatti con tutti i circoli e le associazioni della città, partecipare ai seminari nell'università: in un convegno volevamo parlare, ma i comunisti non ce l'hanno permesso e questo è grave. Ciò capita perché non sapete, non conoscete quello che avviene in aeroporto: ci dicono che fuori è il caos, ci sono i sindacati e i contestatori che rovinano il paese e che bisogna mantenere l'ordine. Si è arrivati a sequestrare proprio due giorni fa a un sottufficiale un volume che conteneva la Costituzione e lo Statuto dei lavoratori! Comunque a noi fa piacere che al circolo Arci, questa sera, siamo più militari che civili. Ci fa piacere avere parlato qui prima di tornare a casa o in aeroporto». 7

8 PARTE PRIMA IL MILITARE DIVERSO Al microfono va un tipo tutto diverso da Totaro. Grande e grosso, rosso in volto, accento veneto, sui quarant'anni, ventidue di servizio, con barba di stampo austroungarico. Il maresciallo tutto d'un pezzo come lo vorrebbero le caricature militari: a volte bonario e paternalista a volte cerbero intransigente. È quello che sembra. Invece gli trema la voce. «Scusate, sono emozionato: non ho mai parlato in pubblico di fronte ai civili. Sono, oggi, un neonato della vita pubblica ma vi assicuro che quando tornerò a casa avrò il coraggio di guardare in faccia i miei figli con dignità, come mai mi è successo. L'invito del dibattito parla di esperienze e prospettive del Coordinamento sottufficiali aeronautica militare. Le mie esperienze sotto le armi? Sono le più grandi umiliazioni che ho subito nella vita. Non vi dico il mio nome perché non sono nessuno. Sono un numero di matricola, il Voglio ringraziare il quartiere di San Giusto dove vivo da quindici anni e mi trovo bene. Mi sono sposato nella chiesa di San Giusto con una di qui. Ma io mi chiamo Romano e sapete che cosa vuol dire, capite qual è stata la mia formazione in una famiglia che, a parte il passato regime, è da generazioni democristiana. E io, ventidue anni di servizio, ho sempre agito secondo i principi che mi hanno insegnato a casa. Finché un giorno ho fatto delle osservazioni per piccole cose che avvenivano in caserma. Mi hanno dato del delinquente, del disfattista e ho dovuto subire perquisizioni a casa mia. Mi sono allora chiesto perché capitava a me, che non ho mai abiurato la gerarchia e la disciplina. Ed ho capito che ciò avviene perché qualcuno specula sulla disciplina strumentalizzando centomila persone, quanti sono i sottufficiali in Italia: un ristretto giro di potenti che tutti sanno quanto sono pericolosi». Applausi composti dei colleghi e del pubblico. La testimonianza di Romano, uomo che viene da destra per idee e tradizione familiare ma sfida le gerarchie parlando pubblicamente in un circolo che reca all'ingresso la luminosa col simbolo del Pci, crea imbarazzo e ripensamenti. Il presidente dell'assemblea invita il pubblico a intervenire, ma nessuno alza la mano. Parla allora il presidente del comitato di quartiere, che elogia l'iniziativa, spiega che i militari si sono inseriti nella vita di San Giusto come dimostra la presenza di sergenti e marescialli nei consigli scolastici. L'assemblea resta zitta. Il presidente incalza: «Qui mica tutti siete militari, almeno le donne!» Una biondina dal fondo: «Lo siamo anche noi per la nostra metà. L'unica differenza è che non portiamo il numero di matricola». La battuta della donna, polemica nei confronti della sezione civile dell'assemblea, fa scattare un sergente maggiore, che raccomanda di non nominarlo. Il sergente maggiore R. P., jeans, maglione blu a collo alto, giaccone blu con cerniera, la stessa divisa in borghese di Totaro, dice con accento toscano: «Troppe volte quando abbiamo cercato di partecipare a manifestazioni della società non in divisa la gente ci guardava male, proprio perché eravamo in uniforme. Mentre guardavamo dal marciapiede gli operai della St-Gobain in corteo e magari avremmo voluto essere solidali con loro, c'erano manifestanti che ci sputavano addosso e ci dicevano fascisti soltanto perché eravamo in divisa. Abbiamo capito che soltanto la nostra iniziativa poteva ridarci credibilità presso la gente. Abbiamo detto - ma nessuno fuori dell'aeroporto l'ha capito - che il nostro problema non è quello dei soldi, anche se non stiamo bene finanziariamente. Vogliamo essere nella condizione di poter denunciare gli abusi, come quello del generale che usa la vettura di ordinanza per accompagnare i figli a scuola, tanto per 8

9 PARTE PRIMA IL MILITARE DIVERSO stare alle piccole cose. Noi siamo pubblici dipendenti e come tali, abbiamo il dovere di denunciare gli abusi amministrativi. Però, se lo facciamo, ci mandano in galera, soltanto per aver adempiuto a un dovere specifico dei dipendenti dello Stato. Abbiamo fatto semplicemente il nostro dovere e ci hanno accusato di voler politicizzare le forze armate. Questo non è vero - grida nel microfono il sergente maggiore R. P. -, non abbiamo alcuna volontà di fare del movimento un monopolio di partito. Siamo pluralisti. Fra di noi ci sono comunisti, socialisti, democristiani, anche fascisti [...] forse fascisti non è esatto, è meglio dire qualunquisti perché i fascisti veri stanno ai gradi più alti: sono quei superiori che ci ripetono che chi è comunista deve andarsene dalle forze armate. Per loro è naturale dire "abbiamo sempre servito un padrone, e adesso che si fa? volete cambiare? " Ci accusano di volere il sindacato dei militari, ma non è vero. Se i sottufficiali lo creassero, lo creerebbero anche i generali, i colonnelli e avremmo tante inutili, pericolose corporazioni. Vogliamo soltanto delle rappresentanze che controllino e denuncino quanto avviene di storto nelle forze armate». R. P. si accalora fra gli applausi dei civili e dei colleghi: «Il movimento è nato negli aeroporti e non nelle caserme dell'esercito perché noi abbiamo maggiori contatti con l'esterno. In caserma ti stroncano subito. Nella marina è ancora peggio: quando sono sorti i primi gruppi del Coordinamento a La Spezia, hanno prelevato i promotori dalla nave con l'elicottero e li hanno trasferiti in un battibaleno chi a Taranto chi ad Ancona. Con noi non possono farlo perché siamo cresciuti e sappiamo come rispondere, ma attenzione! Esiste un pericolo preciso, una minaccia che non riguarda soltanto noi militari, ma tutta Pisa. Si parla con sempre maggiore insistenza di smembrare l'aerobrigata: una parte di noi andrà in una sede, una parte in un'altra, per toglierci da questa città di sinistra che si vuole punire perché ha appoggiato il Coordinamento. Invitiamo su questo punto, che riguarda l'intera cittadinanza, tutte le forze politiche a prendere posizione». Al sergente maggiore, replica l'anziano esponente partigiano Diomelli: parla di «masochismo non giustificato» dei sottufficiali. Le signore in sala ridono a denti stretti e commentano amaro. Diomelli parla di conquiste della classe operaia, delle vittorie che essa ha conseguito contro la legge truffa del '53 e contro Tambroni nel '60, e invita i militari a considerare il futuro con ottimismo. Sotto la guida della classe operaia gli obbiettivi saranno raggiunti, con prudenza, grado per grado. «Non si può volere tutto e subito». Sembra quasi preoccupato che sotto le divise batta il cuore avventurista del gruppettaro. Poi il dibattito si smorza e il dialogo continua fra civili, sottufficiali e signore al bar, ai tavolini, vicino ai biliardi. La gente di San Giusto ha quasi l'impressione che i militari esagerino: gli esponenti politici invitano a ragionare, ad evitare spontaneismi poiché ogni movimento di base per avere successo deve svilupparsi nel quadro generale «della strategia di classe dei lavoratori», come ha detto in chiusura il presidente dell'assemblea. 9

10 PARTE PRIMA IL MILITARE DIVERSO Militari e sinistre Le diffidenze e le incomprensioni fra militari e sinistre hanno radici lontane, difficili da eliminare come l'incontro del 7 febbraio a Pisa dimostra. Quando il 27 marzo del , il Coordinamento nazionale dei sottufficiali dell'aeronautica militare tenne una grande manifestazione a Milano, con l'adesione dei sindacati (Cisl e Uil, mentre la Cgil all'ultimo momento si è ritirata), «l'unità» intitolava così un corsivo: Una manifestazione che isola i sottufficiali. E scriveva: «Non possiamo condividere forme di lotta come quella di oggi che prevede un corteo di militari e sottufficiali: cittadini cioè che fanno parte di un corpo armato a cui la Costituzione impone una particolare disciplina a garanzia e difesa delle istituzioni della nostra Repubblica. In una simile manifestazione è facile prevedere l'infiltrazione di gruppi estremistici e avventuristici non certo disponibili alla causa della democrazia». I segretari provinciali della Fim-Cisl e della Film-Uil rispondevano: «La decisione presa su pressioni della Camera del lavoro e del Pci milanese di negare ogni appoggio anche indiretto alla manifestazione è un atto cinico di irresponsabilità civile. Ci troviamo di fronte evidentemente a una diversa concezione della democrazia». Intervistato da «Epoca», il senatore comunista Ugo Pecchioli, portavoce del Pci per gli affari militari, dichiarava: «Il problema delle forze armate va affrontato e risolto con urgenza. Ma c'è un principio dal quale non si può derogare: le forze armate devono essere soggette al potere politico, non hanno alcun diritto di farsi giustizia da sé. Per questo motivo il Pci non approva certe manifestazioni di lotta. È legittima ogni presa di posizione, certo. Ma nella misura in cui le forze armate sono un corpo atipico, tra l'altro armato, i loro problemi devono venire risolti dal Parlamento. Altrimenti non si sa dove si va a finire». Il fatto è, dicevano i sottufficiali di Pisa nell'assemblea del 7 febbraio, che il Parlamento non ne ha ancora discusso: il regolamento Andreotti del 1964 è passato per decreto presidenziale, la bozza Forlani del 1975 per un nuovo regolamento stava per passare allo stesso modo, la legge Lattanzio non è ancora arrivata alle Camere. E al Parlamento, dicevano, ci sono anche i comunisti, e tanti. 1 Alla manifestazione del 27 marzo di Milano parteciparono oltre tremila militari democratici di tutte le armi alla testa di un corteo di migliaia di persone. Portarono la loro adesione decine di consigli di fabbrica in tutta Italia, federazioni sindacali di categoria, alcune sezioni dell'anpi (tra cui quella di Bergamo), la UiI. Tra i partiti partecipavano rappresentanze del Psi, Ao, Lc, Pdup, Pli. Al comizio conclusivo in piazza Castello intervennero vari rappresentanti dei militari democratici, la moglie di un sottufficiale, la vedova di un ufficiale caduto con il proprio aereo e a chiusura Giorgio Benvenuto. A distanza di oltre un mese dalla manifestazione dieci sottufficiali (sette di Monte Venda, tre del Comando della prima regione aerea di Milano) vennero denunciati alla procura militare; un ufficiale, il capitano Zangardi Gianni, espulso dall'aeronautica. Le reazioni dei sottufficiali furono immediate: in pochi giorni, solo nelle Tre Venezie, oltre duemila sottufficiali si autodenunciarono. 10

11 PARTE PRIMA IL MILITARE DIVERSO Questo primo scenario, il dibattito al circolo Alberone di Pisa, non è stato scelto a caso per cominciare a raccontare la storia dei sergenti e dei marescialli «ribelli» che da due anni ha investito le caserme, ma per motivi precisi: la 46ª aerobrigata di Pisa è la punta di diamante del movimento; il dibattito ha chiarito le ragioni della crisi che investe il Csdarn (Coordinamento sottufficiali dell'aeronautica militare), crisi dovuta alla difficoltà di dialogo fra cittadini in divisa e cittadini in borghese. Difficoltà che l'iniziativa dell'arci pisano si è sforzata di superare ma che la serata del 7 febbraio ha reso palpabile al di là dei complimenti e delle espressioni di solidarietà. Il senatore comunista Pecchioli parlando di «corpo atipico» in riferimento alle forze armate accoglie la filosofia del cittadino in divisa come «diverso». Ed è la stessa filosofia che ispira il regolamento e le gerarchie che lo applicano. Eccone la conferma. «Fino a quando il Parlamento e il Governo non mi daranno strumenti per mantenere la disciplina nelle forze armate, per me sono sempre validi il regolamento di disciplina e il codice militare di pace [...] chi sceglie liberamente di venire a fare il militare, sa in partenza che deve rinunciare, almeno in parte, ai diritti costituzionali del cittadino». Sono parole del generale di divisione aerea Piero Piccio vicecomandante della prima regione aerea (che comprende tutto il Nord, fino a una linea che va da La Spezia a Falconara), pronunciate nel corso di un'intervista al settimanale «Epoca» dell'aprile 1976 in occasione della prima giornata nazionale di lotta per la riforma delle forze armate indetta dal Coordinamento nazionale sottufficiali democratici il 27 marzo del '76. Il generale Piccio vuol dire che chi decide per propria scelta di fare il militare di carriera decide anche di essere un cittadino diverso, si colloca cioè in una specie di zona franca della comunità nazionale in cui il cittadino non è tutelato, almeno in parte, dalla Costituzione repubblicana. È lo stesso concetto di «corpo atipico» sostenuto dal senatore comunista Pecchioli. Nella medesima intervista ad «Epoca» alcuni sottufficiali del Coordinamento replicano al generale: «Già, la libera scelta. Come se uno a diciotto anni sapesse chiaramente che cosa vuole fare. Per l'80 per cento noi proveniamo dal Centro-sud. Il che significa famiglie povere, niente cultura, nessuna preparazione. E in queste condizioni, a un ragazzo che cosa resta da fare?» Dicono: «non sapevamo che cosa ci aspettava quando ci siamo arruolati e lo abbiamo fatto per necessità». Sono giustificazioni che possono avere rilievo sociologico, ma sul piano giuridico il discorso del generale Piccio non fa una grinza. Dice la verità: per lui conta il regolamento. Quello in vigore, emanato con decreto presidenziale nel 1964 e firmato dall'allora ministro della difesa Giulio Andreotti, non fa alcun riferimento alla Costituzione repubblicana, mentre il preambolo si richiama soltanto a una legge fascista. Dice: «Il presidente della Repubblica VISTO l'art. 38 del Codice penale militare di pace; SENTITO il Consiglio Superiore delle forze armate; SULLA PROPOSTA del Ministro per la Difesa; DECRETA: è approvato l'annesso regolamento di disciplina militare, visto dal Ministro della Difesa». Tale regolamento contiene, come vedremo, numerose norme che sono palesemente in contrasto con la Costituzione: ma non potrebbe essere diversamente dato che il preambolo si riferisce soltanto all'articolo 38 del codice penale militare di pace approvato il 20 febbraio del 1941 «con decreto di Sua Maestà Vittorio Emanuele III Re d'italia e Albania, imperatore d'etiopia, sulla proposta del Duce del Fascismo, Capo del Governo, Ministro della Guerra della Marina e dell'aeronautica». 11

12 PARTE PRIMA IL MILITARE DIVERSO I militari di carriera, al momento di arruolarsi, dovevano sapere che cosa li aspettava, secondo il generale Piccio, e non dovrebbero protestare a posteriori: a scuola, però, nell'ora di educazione civica, viene studiata, con minore o maggiore efficacia secondo l'insegnante, la nostra Carta costituzionale. Non si fa lezione sul codice militare di pace, tantomeno sul Regolamento-Andreotti, tantomeno ancora sulla bozza-forlani del luglio 1975 che propone un nuovo regolamento di disciplina. Chi si arruola ha potuto conoscere la Costituzione, non i decreti presidenziali che la ignorano. Entrando in caserma, maturando giorno per giorno lo stillicidio di vessazioni, di limitazioni della libertà personale, di punizioni, di soprusi, tutti legittimi a norma di regolamento, il militare di carriera scopre come una sorpresa la propria condizione di diverso per ciò che riguarda i diritti civili. La Costituzione, per chi a scuola l'ha conosciuta, non contempla questa diversità. All'articolo 52, incluso nel Titolo quarto - rapporti politici, parla delle forze armate e del «sacro dovere del cittadino» di difendere la patria. Lo stesso articolo dichiara che il servizio militare «non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l'esercizio dei diritti politici» e che «l'ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica». Un regolamento, quindi, che limita il diritto di associazione, che vieta ai militari di esprimere liberamente il loro pensiero e così via, non può che fare a pugni con il dettato costituzionale: e il preambolo Andreotti del '64 si riferisce a una legge fascista, non alla Costituzione repubblicana. L'aspetto più interessante, però, dell'articolo 52 è che esso non delega al cittadino in divisa la difesa della patria: parla invece di «sacro dovere del cittadino» sia o non sia militare. La Costituente si era preoccupata di non configurare le forze armate come un corpo separato avulso dalla società civile: pensava invece a un'organizzazione nata da quella società e perciò ad essa strettamente collegata, retta dai principi democratici dell'ordinamento giuridico dello Stato repubblicano. Invece la legge, a cui fa riferimento il regolamento di disciplina militare è ancora quella fascista. Dagli atti dell'assemblea costituente emerge la preoccupazione dei patres di dare all'ordinamento militare un assetto completamente diverso rispetto a quello del passato regime: emerge la volontà di fare delle forze armate un vero «esercito di popolo», organizzato in maniera democratica dove la circolazione delle idee e la consapevolezza di essere parte di un corpo non sganciato dalla società civile pongano i militari al riparo da tentazioni autoritarie. La contraddizione è ovvia: il regolamento che discendeva da leggi fasciste parte dal presupposto che i principi democratici non si accordano con l'esigenza di funzionalità Alle forze armate, mentre la Costituzione afferma categoricamente che l'«ordinamento militare si informa allo spirito democratico della Repubblica». Sono due filosofie inconciliabili che coabitino nella nostra giurisprudenza. 12

13 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO Le prime lotte Hanno cominciato i soldati di leva negli anni a mettere in discussione l'ordinamento militare. Ventenni che arrivano sotto le armi già politicizzati si trovano invischiati in strutture rigide, spesso repressive, ancorate a vecchie regole, aggiornate solo in piccola parte. Scoprono che esiste un abisso fra il mondo della scuola o della fabbrica e quello della caserma. Così gli estremisti, gli extraparlamentari in divisa cominciano a partorire una serie di slogan del tipo «la libertà non vogliamo cercarla solo fuori della caserma, la vogliamo anche dentro» oppure «Naja uguale a repressione sessuale più qualunquismo». Ma il disagio fra i soldati di leva supera presto i limiti dell'infantilismo e dell'estremismo politico: si manifesta attraverso lettere ai giornali, scioperi della fame, casi di insubordinazione non violenta che finiscono per raddoppiare la media delle presenze nel carcere militare di Peschiera. Poi scendono in campo i sergenti e i marescialli dell'aeronautica che sono su un totale di sottufficiali. All'inizio del '75 a Milano e a Roma nascono le prime forme di coordinamento, comitati aventi lo scopo di affrontate í problemi economici e normativi dei sottufficiali. Ben presto il discorso si allarga al regolamento di disciplina e alla funzione delle forze armate. «In tutti noi - dicono - c'era la volontà di colmare la frattura esistente tra caserma e società». Si pone subito il problema del collegamento fra le diverse sedi: è impossibile usare il telefono o le telescriventi per comunicare. Inoltre cominciano a circolare gli uomini del Sios (Servizio interno operazioni segrete) che spiano ogni movimento dei sottufficiali sospetti. Presto le comunicazioni non sono più un problema: ha cominciato a funzionare radio-scarpa, un sistema di staffette, interne ed esterne, rapidissimo e sicuro. «Sono mezzi da carboneria - commenta una staffetta - ma indispensabili. In questi giorni non ci si può avvicinare al telefono, senza vedersi subito un'ombra alle spalle che controlla». Radio-scarpa è efficace. Funzionerà perfettamente nel giugno e nel luglio del 1975, quando avviene la svolta decisiva per i sottufficiali, quando dilaga simultaneamente in tutti gli aeroporti d'italia la protesta per l'arresto e la successiva condanna del sergente dell'aeronautica Giuseppe Sotgiu. È il momento decisivo per la crescita del movimento che da quella estate si allarga in tutta l'aviazione militare. 13

14 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO Il caso Sotgiu Giovedí 26 giugno 1975, Roma: circa trecento sottufficiali dell'aeronautica militare si radunano a piazza Venezia per una manifestazione di protesta: chiedono la modifica del metodo di avanzamento nel grado, indennità di volo, di controllo, di mensa, turni di servizio meno gravosi, insomma tutta una serie di rivendicazioni a carattere economico e normativo. È una delle poche manifestazioni, per lo più pacifiche, ordinate, senza slogan e cartelli che i sottufficiali dell'aeronautica hanno tenuto in questi mesi. «Questa volta però entrano in scena le cineprese e le macchine fotografiche dei carabinieri - riferisce sul "Corriere della Sera" Giampaolo Pansa. - Non ci sono assassini da scoprire, ma in compenso ci sono un po' di sergenti da sorvegliare e magari da schedare e trasferire. Uno dei sorvegliati, il Sotgiu, se la prende con gli operatori che si qualificano chi giornalista, chi appassionato di fotografia. Quando il sottufficiale si ribella e scopre di avere di fronte militari e ufficiali dei carabinieri, è troppo tardi: finisce dentro accusato di insubordinazione pluriaggravata contro superiori (la pena va da cinque a dodici anni di galera)». Giuseppe Sotgiu viene trasferito in attesa di processo, al carcere di Forte Boccea. Vi rimarrà fino al 4 luglio quando si presenterà in aula. Nel frattempo la risposta dei suoi colleghi dilaga a macchia d'olio. Ecco alcuni flash dai giornali di quei giorni. 30 giugno, Treviso: «Quattrocento sottufficiali della base aerea militare di Istrana hanno inscenato una clamorosa manifestazione svoltasi tuttavia compostamente e correttamente. In sostanza i militari hanno rifiutato il rancio distribuito alla mensa sottufficiali e che di conseguenza è andato perduto costringendo inoltre l'amministrazione militare a rimborsare le spese di vitto. La protesta avrebbe interessato quattrocento dei seicentocinquanta sottufficiali in servizio. Una delegazione si è portata presso le sedi delle federazioni provinciali del Pci e del Psi illustrando le motivazioni della protesta» (dal «Corriere della Sera»). 30 giugno, Novara: «I duecento sottufficiali della base aerea di Cameri hanno fatto lo sciopero della fame per protestare contro l'arresto del sergente Giuseppe Sotgiu [...]. Le notizie che filtrano dalla base di Cameri sono molto scarne perché c'è il timore di conseguenze. Si sa comunque che tutti i sottufficiali hanno aderito alla manifestazione di protesta rinunciando al cibo della mensa» (dal «Corriere della Sera»). 30 giugno, Pordenone: «Per solidarietà con il sergente Giuseppe Sotgiu, una ventina di sottufficiali del poligono di tiro dell'aviazione militare di Maniago hanno messo in atto lo sciopero della fame» (dai «Corriere della Sera»). 3 luglio: «... anche ieri è proseguita in parecchi reparti, in ogni parte del paese - anche a Rivolto, sede della pattuglia acrobatica nazionale - l'astensione dalle mense; mentre sono continuate le riunioni a sostegno delle rivendicazioni di carattere morale ed economico della categoria. Il fatto nuovo della giornata che potrebbe portare allo sblocco o almeno in parte a un allentamento dell'agitazione è stata la convocazione, da parte dello stato maggiore dell'aeronautica di una settantina fra marescialli e sergenti, in rappresentanza di tutti i reparti in servizio. I sottufficiali sono stati ricevuti dal generale 14

15 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO Pesce, sottocapo di stato maggiore [...). Manifestazioni di protesta si sono avute alla base aerea Nato di Vicenza e presso il gruppo intercettatori di stanza a Chioggia» (dal «Corriere della Sera»). 4 luglio, Milano: proprio il giorno in cui Giuseppe Sotgiu deve comparire in aula, si tiene un'assemblea al circolo sottufficiali dell'aeroporto di Linate. «Il maresciallo presidente della mensa - riporta "Il Giorno" -, di ritorno ieri sera da Roma, dove ha partecipato all'incontro con il sottocapo di state maggiore generale Giuseppe Pesce ha riferito ai sottufficiali dipendenti dal comando di Linate sui risultati dei colloqui. I risultati - ha detto un sottufficiale interpellato - sono completamente negativi: qualche generica proposta in merito alle rivendicazioni e niente di più. Abbiamo perciò deciso di continuare la protesta studiando forme di lotta sempre più efficaci, quale potrebbe essere l'astensione dal lavoro». Per la prima volta, dunque, nelle forze armate italiane, disciplinate secondo il principio dell'«obbedienza pronta e assoluta», compaiono forme embrionali di rappresentanza che trattano con i superiori. C'è chi lo considera un avvenimento rivoluzionario, e in un certo senso lo è: così come la minaccia di sciopero dei militari, che in Italia non ha precedenti. L'astensione dal lavoro dei sottufficiali significherebbe la paralisi completa degli aeroporti. Dice un militare: «se si fermerà il lavoro in un certo ufficio della Malpensa sarà impedito il traffico aereo di mezza Europa. Ufficialmente daranno la colpa a motivi tecnici. Invece sarà il nostro sciopero a bloccare tutto [...]. Sotgiu deve tornare libero». I militari esigono la liberazione del compagno e la relativa assoluzione, così come il blocco dei trasferimenti con i quali si tenta di dividere gli animatori della protesta. La macchina della repressione, dopo la prima sorpresa, comincia a mettersi in moto. Due giorni prima a Linate, un sergente maggiore e un maresciallo sono stati trasferiti. A piazza Novelli (sede del comando della prima regione aerea, a Milano) gira tra gli ufficiali superiori una lista con trentacinque nomi sospetti. L'elenco delle reazioni potrebbe continuare a lungo: l'arresto di Sotgiu è la scintilla che fa divampare l'incendio. Gli aspetti che più colpiscono l'opinione pubblica, oltre alla vastità della protesta, sono la simultaneità della reazione e l'omogeneità delle forme di lotta (lo sciopero della mensa) in tutto il territorio nazionale. Ciò prova la maturità e l'organizzazione raggiunte in pochi mesi da un movimento di cui poco o niente era noto fuori dalle caserme. 4 luglio, Roma: comincia il processo. I colleghi del militare incriminato hanno chiesto al professor Giuseppe Sotgiu (omonimo del sergente) di assumere la difesa. II penalista chiede e ottiene il rinvio della causa per pochi giorni: fino a martedí 8 luglio. Nel frattempo conta di incontrarsi in carcere con il sergente. Nell'aula del tribunale militare di viale delle Milizie, mescolati tra la folla, una ventina di sottufficiali: a conclusione della breve udienza scendono quasi di corsa le scale per poter salutare all'uscita il loro compagno che viene ricondotto al carcere di Forte Boccea. Uno di loro dice ai giornalisti: «È innocente, c'eravamo anche noi in piazza Venezia e sappiamo come sono andate le cose [...] ma non possiamo testimoniare altrimenti rischiamo la stessa sorte. Sarebbe un inutile suicidio. Dovremmo venire qui in aula in trecento martedí prossimo e questo non è possibile. Ma qualcosa senz'altro faremo». Si ritorna a parlare di sciopero nelle basi aeree. 15

16 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO 8 luglio, Roma: in via delle Milizie, alle 9 si apre l'udienza. I difensori chiedono che il tribunale rinunci al rito per direttissima per poter aver modo di approfondire meglio tutti gli aspetti del processo (tra le richieste: vedere i filmati che i carabinieri avevano girato quel pomeriggio; cercare con più calma i testimoni in grado di raccontare come si sono svolti i fatti; ascoltare la deposizione di altri carabinieri in borghese che si trovavano a piazza Venezia per filmare i manifestanti). La corte risponde che tutto si sarebbe dovuto svolgere in giornata. C'è fretta insomma di chiudere il caso in modo da arginare l'agitazione nelle basi aeree. «Una decisione che non serve a nulla - commenta il professor Sotgiu - e che soprattutto non serve la giustizia». Verso le 13 inizia la requisitoria del pubblico ministero Scandurra con una difesa del «codice militare di pace» definito «proiettato verso il futuro» (è datato 1941: e porta la firma di Benito Mussolini!) Il pubblico ministero presenta il sergente come «un emotivo che sotto una spinta delinquenziale si è posto in contrasto con l'autorità del maggiore dei carabinieri». Per poter sostenere la tesi di un Sotgiu «impulsivo, riottoso, detonatore di una situazione incandescente», il pubblico ministero non esita a contrapporlo alla massa dei colleghi paragonati da lui a «timide giovanette che quasi si vergognavano di essere lí» e che a un certo punto si «sarebbero adunati davanti all'altare della Patria volgendo lo sguardo al simulacro e le spalle alla piazza, al sindacalismo, agli extra». (Seguiamo questa requisitoria nel dettaglio perché è sintomatica della filosofia che ispira la giustizia militare e del linguaggio in uso presso i tribunali con le stellette). Dopo aver sferrato un ulteriore, inesatto attacco all'imputato «giunto qui dalla natia Sardegna con la sola licenza elementare» (in realtà il sergente ha conseguito un diploma professionale di elettromeccanico) e dopo aver sostenuto che Sotgiu era l'«anima nera» di quella manifestazione, un trascinatore rissoso che aveva fatto degenerare quella forma di protesta, Scandurra chiede la condanna a tre anni con le attenuanti generiche. Prendono la parola i difensori Marotta e Sotgiu, che puntano il dito su tre fatti: primo, la mancanza della certezza che Sotgiu abbia udito i carabinieri qualificarsi come tali (tre ufficiali dei carabinieri hanno giurato che il sergente urlò, rivolto a loro «buffoni, fate schifo» ben sapendo chi fossero nonostante gli abiti civili: di qui l'arresto, con tanto di pistola in pugno per paura della reazione dei compagni); secondo, che se anche Sotgiu avesse pensato al Sid, bisogna tenere conto che «questo nome suona ormai molto male nelle orecchie di tutti gli italiani a causa delle irregolarità che sono saltate fuori in questo istituto»; terzo, che il fatto accaduto non riveste carattere militare riguardando il diritto di tutti i cittadini a difendere i loro interessi. «Se scioperano i magistrati, non c'è da scandalizzarsi se i sottufficiali hanno rivendicazioni economiche da sollecitare», dice l'avvocato Marotta. I magistrati, però, non portano le stellette e non sono considerati diversi come chi le porta. Dopo tre quarti d'ora di camera di consiglio, la sentenza: «una condanna a due anni di reclusione con la sospensione della pena per cinque anni» e l'ordine d'immediata scarcerazione dell'imputato. Nonostante la condanna Sotgiu è libero e può riprendere servizio. La prima reazione è un applauso della durata di cinque minuti, ma non è di approvazione: «Ci è scappato per la contentezza di vedere Sotgiu libero, - spiegano i 16

17 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO suoi compagni, - non era certo diretto alla sentenza contro cui gli avvocati della difesa hanno già presentato appello. È stato un compromesso per salvare capra e cavoli». La condanna di Sotgiu acuisce il malcontento dei sottufficiali è il titolo del «Corriere della Sera» del giorno dopo. Qualcuno sperava che la liberazione del sergente gettasse acqua sul fuoco, invece capita l'opposto. Riunioni in quasi tutti gli aeroporti, ondata di proteste; telefonate ai giornali come questa: «qui l'aeroporto di Rivolto, quello della pattuglia acrobatica nazionale: la condanna spezza la carriera di Sotgiu che sarà costretto a lasciare il servizio senza neppure la pensione; non la possiamo accettare, stiamo preparando qualcosa di grosso». Da Cagliari i sottufficiali di stanza in Sardegna, la regione di Sotgiu, annunciano una manifestazione in piazza del Carmine: «è assurdo - dicono - che si sia applicato il codice militare per reati commessi durante una pacifica manifestazione per questioni economiche e normative: con la condanna di Sotgiu si vuole colpire tutto il movimento che è nato spontaneamente nelle caserme». A Linate dicono: «Vogliamo battere il ferro finché è caldo. Le promesse non ci bastano più». Questa volta si muovono anche i sindacati, sino ad allora piuttosto tiepidi rispetto a quanto avviene nelle caserme: «La protesta ormai diffusa fra i militari di leva e anche fra i militari di carriera - dice un comunicato della Federazione metalmeccanici di Milano - è il sintomo del rifiuto di una concezione esclusivamente autoritaria delle forze armate che opera una netta frattura fra il militare e il cittadino, fra le forze armate e il paese. venendo meno al dettato della Costituzione che vuole l'adeguamento delle forze armate allo spirito democratico della Repubblica, nata dalla Resistenza». Tanta indignazione, solidarietà, impegni solenni, ma per lungo tempo ancora i militari rimarranno soli nelle loro battaglie. Dopo il caso Sotgiu sono avvenute numerose altre vicende analoghe: questa è stata la prima, la più clamorosa, che ha dato ai sottufficiali la coscienza della propria forza e che ha suonato la prima sveglia ai partiti e ai sindacati. Una storia politica cominciata con un ragazzo sardo di venticinque anni che aveva risposto male al carabiniere in borghese che lo stava spiando. Forse nemmeno lui si è reso conto del perché di tanto clamore: certamente non sua madre Bibbiana, commossa, confusa, in lacrime alla lettura della sentenza. Per assistere al processo ha lasciato per la prima volta il paese dov'è sempre vissuta, Osidda, provincia di Nuoro, ma non ha capito molto: ha sentito Scandurra pronunciare cose terribili sul conto del ragazzo, «rissoso», «anima nera» e così via. Chissà di quali colpe si è macchiato? Ma ora è libero e questo le basta: ora può tornare tranquillizzata in Sardegna dove l'aspettano nove figli. La vita di Giuseppe Sotgiu è molto simile a quella di tanti altri commilitoni: è una storia di famiglie numerose e di tanta miseria, una povertà che solo alcune zone della Sardegna conoscono a fondo. A Osidda, nel nuorese, Giuseppe Sotgiu ha passato tutta l'infanzia in una famiglia dove le donne erano in netta maggioranza (due fratelli, sei sorelle. Lui era il primogenito). Ha fatto le elementari al paese. Poi, racconta con un pò di rimpianto, «avevo anche ricevuto una borsa di studio per le medie, ma i soldi per proseguire gli studi chi ce li dava?» «Così la mia scelta è caduta su una scuola professionale che garantiva un posto nelle grandi fabbriche del Nord». Quattro anni di sveglia alla mattina alle 6 per andare a scuola a Bitti, un paese distante qualche chilometro da Osidda e mal collegato, quattro 17

18 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO anni di pomeriggi passati tra lo studio e il lavoro («ormai c'ero abituato: da quando avevo nove anni aiutavo mio padre bracciante nei campi dei signorotti della zona»). Poi il diploma di elettromeccanico e l'incertezza del futuro. Una sola cosa certa: il lavoro in Sardegna non c'era e anche lui, come due delle sorelle emigrate in settentrione a fare le cameriere, avrebbe trovato da sfamarsi in qualche periferia industriale. «Poi, a diciassette anni, mi venne in mente l'aeronautica, un'occasione d'oro secondo mio padre». Una domanda, e nel giugno del 1969 va a fare l'operatore telex a Taranto. «Per 18 mesi a lire mensili, - racconta, -come se non bastasse l'obbligo di dire sempre si a qualsiasi stupidaggine. Di essere uno sfruttato mi sono reso conto subito, avrei voluto tornare in Sardegna ma per non dare un dispiacere ai miei sono rimasto». Così Sotgiu si è fatto parecchi anni nell'aeronautica, mandando giù bocconi amari come fanno molti suoi colleghi; altre volte ha reagito contro quelle che gli sembravano le ingiustizie della disciplina militare. «Chi dice che ho la capoccia dura - è il sardo orgoglioso che parla - non ha capito niente di me, io credo soltanto di avere una dignità di uomo che m'impedisce d'obbedire sempre e ciecamente anche agli ordini più assurdi». È con queste convinzioni che giovedí 26 giugno 1975 si era recato in piazza Venezia, per dimostrare civilmente assieme a centinaia di colleghi il proprio malcontento. «In questi anni, in continente, ho capito che si può lottare contro una realtà ingiusta - conclude Giuseppe Sotgiu. - In Sardegna questo non lo sanno ancora, cullati come sono da preti e padroni che vogliono far continuare il sonno di un popolo che dorme da troppi anni. È proprio lí che voglio tornare». 18

19 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO Un sergente di colore Pochi mesi dopo, sempre a Roma, avviene il bis del caso Sotgiu. Il protagonista, questa volta, è un ragazzo di colore, nato all'asmara, ventisette anni fa, da padre italiano e madre eritrea. Era la fine di settembre del 1975: giornate tragiche per il suo paese d'origine, dove sempre più aspra era la lotta fra gli abissini e i partigiani eritrei. Augusto Mauri si era recato all'aeroporto per attendere un aereo militare che trasportava profughi italiani che rimpatriavano dall'asmara in seguito alla guerra civile. Sperava di incontrare la madre o altri parenti dei quali non aveva notizie. Secondo l'accusa, Mauri avrebbe rifiutato di appuntarsi una coccarda tricolore che gli veniva offerta da gente che attendeva í profughi. Avrebbe reagito con veemenza a chi gli ricordava che «tutto sommato noi ti sfamiamo», sottolineando che il suo mestiere di soldato di carriera era dovuto più a esigenze di lunario che non a vocazione. L'accusa sostiene che il giovane di colore fu sentito gridare a più persone queste frasi: «sono un militare rivoluzionario, della divisa che porto non so che farmene; questa divisa ce la fanno indossare per fame». Mauri si giustifica sostenendo che il senso delle sue parole è stato totalmente travisato. «Aspettando l'aereo, sentii delle persone che parlavano male della mia gente. Dicevano che gli etiopici facevano bene a tenerci sotto il tallone e che era un peccato che ai suoi tempi Graziani non avesse avuto sufficienti gas asfissianti, altrimenti l'eritrea sarebbe stata ancora italiana. Intervenni nella discussione. Dissi che i fascisti avevano fatto strade e case ma le avevano costruite sfruttando gli eritrei. Alcuni si meravigliarono del fatto che un negro potesse indossare la divisa dell'aeronautica militare. Ribattei che ero stato costretto a portare l'uniforme per non morire di fame, perché non ero riuscito a trovare un lavoro migliore». Non staremo qui a ricostruire il processo né la grande mobilitazione nei luoghi militari che ne è derivata, con scioperi delle mense e così via, proprio come avvenne per Sotgiu 1. Ci limiteremo a ricordare un'eccezione significativa avanzata dalla difesa di Mauri, composta dal deputato socialista Loris Fortuna e dai radicali De Cataldo e Mellini: «Riproporremo - disse Mellini - le solite e molteplici questioni di incostituzionalità che riguardano l'esistenza dei tribunali militari insieme ad un'altra eccezione inedita. Il reato di grida sediziose è già previsto dal codice civile e non lo si può discutere in un tribunale militare soltanto perché l'accusato porta le stellette. Sarebbe come introdurre il reato di adulterio militare per i soldati che tradiscono la moglie. È un assurdo». 1 L'udienza venne sospesa per un'ordinanza della Corte che imponeva nuovi accertamenti e l'escussione di testimoni residenti all'estero (uno in Australia). Uno stratagemma, secondo Mauro Mellini, per evitare un processo politico che, a metà 1977, non si è ancora celebrato. 19

20 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO Un sergente anarchico Un militare che ha avuto un ruolo di primo piano nelle manifestazioni di solidarietà per Augusto Mauri è Giovanni Maggi, ventinove anni, laziale, sposato, una figlia di due anni, sergente maggiore in servizio all'infermeria di Ciampino. Andiamo a trovarlo una mattina, a casa, in una borgata romana vicino all'aeroporto. Sta dando la prima colazione alla bambina. La moglie è andata al lavoro. Abbiamo la sorpresa di trovare tutte le pareti tappezzate da manifesti anarchici, pacchi di «Umanità Nuova», volantini, ritratti di Bakunin e Malatesta. Gli anarchici non sono certo ben visti dalle gerarchie militari ed è abbastanza curioso che un giovane di idee libertarie così evidenti porti la divisa. È per lo meno in contraddizione con la tradizione antimilitarista dell'anarchismo. Maggi sorride divertito, quando gli chiediamo se possiamo fare il suo nome scrivendo queste cose o se preferisce le iniziali per evitare punizioni e grane. Risponde di avere ormai tre denunce, che di lui sanno tutto e che non ha nulla da perdere. Ma un anarchico come si sente in divisa? «Non l'ho mica indossata per libera scelta: ho dovuto, per necessità. La toglierei se qualcuno mi trova un posto sicuro». E mi racconta la sua storia, simile a quella di tanti altri sottufficiali, con la parlata colorita della provincia laziale. «Vengo da Bassano Romano dove son tutti contadini: anche i miei lo erano, tranne mio padre invalido che fa l'usciere all'università. Son posti quelli dove fai il contadino e la fame, o emigri; e dove vai con questi chiari di luna? A fare il militare o a fare il delinquente. A diciotto anni ho presentato due domande, una alla polizia e una all'aeronautica, perché avevo visto quei bandi di concorso che ti promettono mari e monti: della fregatura ti accorgi dopo». Quando ha cominciato, Maggi, ad occuparsi di politica? «Andavo sempre alla facoltà di medicina: quando è nata la contestazione mi sono fatto prendere la mano. Dal contatto con gli studenti del Sessantotto è nato il mio interesse per la politica, la mia ansia di partecipazione. Tanto, si pensava allora, è impossibile cambiare le forze armate: cerchiamo di realizzarci in altro modo. Come me, tanti altri». Un anarchico dovrebbe volere l'abolizione di tutti gli eserciti: Maggi, lavorando per il Coordinamento dei sottufficiali, si batte per cambiarli o per abolirli? «Dato che ci sono le forze armate, lavoriamo per cambiarle portandoci la politica dentro. È vero che la nostra protesta è nata da rivendicazioni di tipo economico ma poi si è capito subito che il problema era politico. Non vogliamo una democratizzazione in senso generico come quella che propongono i comunisti con i quali spesso i nostri rapporti sono tesi: devono capire anche loro che vogliamo essere considerati lavoratori prima che militari, uomini, cittadini che lavorano. L'essere militari è una qualità accessoria. Vogliamo libertà di associazione, di stampa, di movimento, di dibattere, non vogliamo più restrizioni, tribunali speciali, Cps, Cpr, galere militari, codici militari, giudici militari. Basta, andare in galera per un regolamento che nulla ha a che fare con la Costituzione, basta essere puniti senza possibilità di difesa...» 20

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