Natura Nuovo Continente

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1 Natura Nuovo Continente La laguna come set Aborigeni in canoa lungo gli acquitrini di Arafura, nell Arnhem Land, in Australia. Tutte le immagini del servizio sono tratte dal film Ten Canoes, in uscita a giugno in Italia SPECCHIO 68

2 Aborigeni visti da molto vicino di Arianna Dagnino Ten Canoes: un film-documento sui nativi d Australia, protagonisti gli stessi indigeni dell Arnhem Land e la loro terra. Un paradiso ancora intatto, vietato all uomo bianco

3 Natura Arnhem Land Hollywood, Australia Da qui sopra, in senso orario: Richard Birrinbirrin e Crusoe Gurdal; Frances nella laguna; SPECCHIO 70

4 il regista Rolf de Heer (col cappello) sul set assieme al direttore della fotografia, Ian Jones; aborigeni su una palafitta

5 Natura Arnhem Land Non ho pensato e diretto il mio film; piuttosto, io sono stato il mezzo attraverso il quale gli aborigeni hanno fatto il loro film», spiega il regista australiano Rolf de Heer, raccontando la genesi con cui è nato Ten Canoes, la prima opera cinematografica totalmente in lingua aborigena girata in uno dei luoghi più duri e inaccessibili del pianeta: la punta all estremo nord della Arnhem Land, nel Northern Territory australiano. «È stato un amico, David Gulpilil (l attore aborigeno protagonista di molti film ambientati nel quinto continente: da Crocodile Dundee a La Generazione Rubata fino a The Tracker, dello stesso de Heer) a dirmi: Vieni a fare un film qua da noi. Credeva che non l avrei mai fatto, invece ci sono andato». E non è stato uno scherzo. Per portare a termine le riprese, de Heer e la sua troupe hanno lavorato per dieci settimane in condizioni estreme, girando gran parte delle scene con l acqua fino alla cintola in paludi infestate da coccodrilli e sanguisughe. Ma soprattutto, con questo film de Heer ha dovuto smettere i panni del regista deus ex machina per infilarsi l umile saio da monaco Zen: «Ho azzerato le mie nozioni di cinematografia e ho ricominciato da capo. Fin da subito mi sono detto: non tentare di fare questo film in maniera convenzionale. Lascia che accada. Che si faccia da solo, nella maniera più aperta possibile. Là non puoi fare un film come sei abituato a fare: non solo perché ti trovi in una cultura diversa ma in una cosmologia diversa. Il loro modo di vedere il mondo è completamente diverso dal nostro. Non puoi imporre le cose, regolare, fissare degli orari. Gli attori, che attori non erano mai stati, non avevano la più pallida idea di cosa significasse girare un film. La partecipazione di tutti era a titolo volontario, sempre. Se qualcuno sentiva che quel giorno non doveva lavorare, non lavorava. Così ti organizzi per far fare alla gente cose diverse contemporaneamente, per non dover ripetere le scene infinite volte». «Il risultato per lo spettatore», continua il regista, «è un viaggio in un mondo lontanissimo, dove la percezione del tempo è diversa, le interazioni umane viaggiano su altri binari, il senso della terra su cui si vive assume significati a noi sconosciuti». Racconta ancora il regista: «Quando il mio produttore (Davide Procacci di Fandango, ndr) ne ha visto un primo spezzone mi ha detto: Non so se sono rimasto davanti allo schermo per venti minuti o per due ore. Un esperienza unica». È questo tipo di esperienza che de Heer intende offrire al suo pubblico, sdoganando la realtà aborigena dalla «colpa bianca» entro cui finora è stata in qualche modo intrappolata. Qui non si parla di misfatti bianchi ma si riproduce la loro mitizzata età dell oro (Il tempo del sogno), la vita com era prima dell arrivo dell uomo bianco. Paradossalmente, però, per farlo, de Heer e i suoi amici indigeni hanno preso come riferimento alcune fotografie in bianco e nero scattate dall antropologo Donald Thomson negli anni Trenta, fra cui quella che raffigura dieci canoe, da cui il titolo del film. «In realtà», dice de Heer, «più che attraverso le nostre lenti, gli aborigeni sono riusciti a farlo costruendo le canoe, le asce, le lance, e poi spingendole attraverso le paludi di Arafura. Io, con le esigenze delle mie lenti, ho solo facilitato il processo». Per quanto poi la sceneggiatura sia stata in larga parte improvvisata, mantiene al suo interno il ritmo di una storia da grande schermo. «Il passato mitico e idealizzato è solo il setting entro cui si svolge la vera storia», spiega il regista. «Ho fatto capire loro che un film non può essere solo una sequenza di scene idilliache». Il film è incentrato sul personaggio di Dayindi (impersonato dal figlio di David Gulpilil, Jamie). Per aver desiderato una delle mogli del suo fratello maggiore, viene punito con il racconto di una storia avvenuta nel passato mitico della tribù: una storia di amori proibiti, rapimenti, stregoneria, vendette. Ten Canoes verrà presentato in Italia a giugno ma la sua vera «prima» è avvenuta nello sperduto villaggio di Ramingining, in Arnhem Land, di fronte a una platea di aborigeni. Mostrare loro il film prima che a chiunque altro è stato il momento più gratificante», ricorda de Heer. «E non c erano nemmeno i sottotitoli in inglese. I bianchi presenti hanno detto: «Ehi, e noi?». Ho pensato: «Questo è il loro film, è la proiezione per loro. Lasciamoglielo vedere a modo loro. Sono venuti tutti, anche quelli che inizialmente avevano espresso dubbi e riserve su quello che stavamo facendo». Risa, scoppi di pianto, lacrime e gioia: la reazione emotiva è stata fortissima e, secondo il regista, prevedibile: «Noi siamo la cultura dominante. Tutte le loro immagini derivano dalla nostra cultura dominante. Immaginate dunque cosa può significare per loro vedere finalmente rappresentati se stessi sullo schermo, a quel livello». Eppure se si chiede a de Heer se in questa sua esplorazione della cultura aborigena lui abbia in qualche modo tentato di pagare il debito che i bianchi storicamente hanno nei confronti degli aborigeni, la risposta è categorica: «No, non c è stato alcun tentativo consapevole di questo genere. Anche se alla fine il risultato può sembrare quello, il motivo per cui è stato fatto il film è diverso e molto più complesso: risale alla mia amicizia con Gulpilil. Se c è un elemento politico nel film, semmai è quello di sovvertire gli stereotipi, di aiutare a comprendere meglio le differenze culturali e mostrare che siamo tutti esseri umani». A.D. Una cultura a portata di volo La più importante collezione di manufatti, fotografie e filmati sulla cultura aborigena si trova nel South Australian Museum, ad Adelaide ( la città in cui vive il regista Rolf de Heer. Uno dei modi migliori per scoprire i segreti di Arnhem Land è attraverso le visite guidate che organizza Max Davidson, un antropologo che da 30 anni vive in quella regione remota gestendo il campo tendato di Mt. Borradaile. Per parteciparvi dall Italia ci si può appoggiare alla Southside Viaggi di Milano ( Hotelplan ( e Rallo Viaggi ( A bordo di fuoristrada e a piedi, Davidson porta a visitare quella che è una vera e propria galleria d arte a cielo aperto, ricchissima di pitture rupestri che gli aborigeni hanno lasciato in eredità in 50 mila anni di storia. SPECCHIO 72