OSSERVATORIO SUL DIRITTO DEL LAVORO MARZO - APRILE 2015 AGGIORNATO AL 30 APRILE 2015 A cura di Laura Sicari

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1 OSSERVATORIO SUL DIRITTO DEL LAVORO MARZO - APRILE 2015 AGGIORNATO AL 30 APRILE 2015 A cura di Laura Sicari CASSAZIONE SEZIONE LAVORO SENTENZA DEL 9 MARZO 2015, N Sulla rilevanza delle esigenze tecnico-produttive ed organizzative in materia di licenziamento collettivo La Suprema Corte affronta la tematica della legittimità della procedura di licenziamento collettivo disciplinata dalla legge del 23 luglio 1991, n. 223 avuto particolare riguardo al criterio delle esigenze tecnico-produttive e organizzative da rispettare nell individuazione dei lavoratori in esubero. Com è noto, l art. 4 della citata legge prevede a carico del datore di lavoro che intenda avviare una procedura di licenziamento collettivo, l obbligo di comunicazione preventiva alle rappresentanze sindacali aziendali. Ai sensi della medesima norma, la comunicazione deve contenere talune specifiche informazioni, così da consentire all interlocutore sindacale di esercitare in maniera trasparente e consapevole un effettivo controllo sulla programmata riduzione di personale, valutando anche la possibilità di misure alternative al programma di esubero. Secondo la giurisprudenza costante richiamata nella sentenza in epigrafe, qualora le informazioni fornite dal datore di lavoro siano inadeguate, al punto da condizionare la conclusione dell accordo tra impresa e organizzazioni sindacali, il licenziamento può essere dichiarato inefficace per irregolarità della procedura, essendo quest ultima volta sia a consentire una proficua partecipazione alla cogestione della crisi da parte del sindacato, sia a rendere trasparente il processo decisionale datoriale, in funzione della tutela dell interesse del lavoratore destinato potenzialmente ad essere estromesso dall azienda (Cass. 11 aprile 2003, n. 5770, Cass. 2 marzo 2009, n. 5034, Cass. 11 luglio 2007, n ). A questo punto la Suprema Corte, per valutare la conformità dell operato dell azienda alla citata normativa, si sofferma sulla rilevanza delle esigenze tecnico-produttive e organizzative che vengono menzionate ben due volte nel primo comma dell art. 5: una prima, in riferimento al 1

2 complesso aziendale ed una seconda, come criterio di scelta del lavoratore concorrente con quelli di carichi di famiglia e di anzianità. Secondo gli Ermellini, infatti, «Tale duplicità si spiega in virtù della determinazione, nella prima parte, dell ambito di selezione del personale eccedente e dell individuazione, nella seconda, come detto in concorso con gli altri criteri, del singolo lavoratore da licenziare. Sicché, risulta arbitraria e quindi illegittima ogni decisione unilaterale del datore diretta a limitare l ambito di selezione ad un singolo settore o ad un reparto, se ciò non sia strettamente giustificato dalle ragioni che hanno condotto alla scelta di riduzione del personale. La delimitazione dell ambito di applicazione dei criteri dei lavoratori da porre in mobilità è dunque consentita solo in dipendenza dalle ragioni produttive ed organizzative, che si traggono dalle indicazioni contenute nella comunicazione di cui all art. 4, terzo comma l. 223/1991, quando gli esposti motivi dell esubero, le ragioni per cui lo stesso non può essere assorbito, conducano coerentemente a limitare la platea dei lavoratori oggetto della scelta. E così, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un unità produttiva o ad uno specifico settore dell'azienda, la comparazione dei lavoratori al fine di individuare quelli da avviare alla mobilità non deve necessariamente interessare l intera azienda, ma può avvenire, secondo una legittima scelta dell imprenditore ispirata al criterio legale delle esigenze tecnico - produttive, nell ambito della singola unità produttiva ovvero del settore interessato alla ristrutturazione, in quanto ciò non è il frutto di una determinazione unilaterale del datore di lavoro, ma è obiettivamente giustificato dalle esigenze organizzative che hanno dato luogo alla riduzione di personale (Cass. 19 maggio 2005, n )». Secondo la Suprema Corte, dunque, qualora l imprenditore intenda circoscrivere ad una determinata unità produttiva la scelta dei lavoratori in esubero per esigenze tecnico-produttive e organizzative, con assorbimento di ogni criterio di comparazione, è necessario che ne illustri in maniera chiara e precisa i motivi nella comunicazione preventiva, così da consentire la concertazione con le organizzazioni sindacali ed il controllo di quest ultime nella formazione del processo decisionale, ancorché le scelte avvengano per unilaterale determinazione datoriale. Ne deriva che, se tali giustificazioni non venissero specificate, la scelta dei lavoratori in esubero andrebbe operata in base a tutti i criteri sanciti dall art. 5 della legge n. 223 del Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte di Cassazione ha annunciato il seguente principio di diritto: «In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, le esigenze tecnicoproduttive e organizzative previste dall art. 5, primo comma l. 223/1991, in riferimento al complesso aziendale, determinano l'ambito di selezione del personale eccedente e possono costituire criterio esclusivo e determinante di riferimento nella determinazione della platea dei lavoratori da licenziare, anche addetti ad una sola unità produttiva: così, qualora il progetto di 2

3 ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un'unità produttiva dell'azienda, purché il datore di lavoro indichi nella comunicazione ex art. 4, terzo comma L. 223/1991 (che così assolva alla sua funzione autenticamente informativa) sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviare ad alcuni licenziamenti con il trasferimento ad unità produttive geograficamente vicine a quella soppressa o ridotta: in modo da consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l effettiva necessità dei programmati licenziamenti. Qualora invece il datore di lavoro faccia generico riferimento alla situazione generale del complesso aziendale, senza alcuna specificazione alle unità produttive che intende sopprimere, i licenziamenti intimati a tutti i loro dipendenti sono illegittimi per violazione della specifica indicazione delle esigenze tecnico-produttive e organizzative nella comunicazione». CASSAZIONE SEZIONE LAVORO ORDINANZA DEL 12 MARZO 2015 N Sulla legittimità della clausola del contratto individuale che prevede un termine di preavviso per le dimissioni più lungo rispetto a quello stabilito per il licenziamento L istituto del preavviso in caso di recesso dal rapporto di lavoro è disciplinato dall art cod. civ., il quale espressamente prevede che ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando preavviso nel termine e nei modi stabiliti dalle norme corporative, dagli usi o secondo equità. Ebbene, con la sentenza n del 12 marzo 2015, la Corte di Cassazione ha affermato che la clausola contenuta nel contratto individuale del lavoro e avente ad oggetto un diverso termine di preavviso rispetto a quanto previsto dalla contrattazione collettiva, non costituisce violazione della norma inderogabile ex art cod. civ., con ciò riconoscendo alle parti la possibilità di pattuire liberamente tale termine. La Corte richiama l ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità ad avviso del quale «[ ] nel rapporto di lavoro dipendente, il preavviso si pone come condizione di liceità del recesso, la cui inosservanza e sanzionata dall obbligo di corrispondere da parte del recedente una indennità sostitutiva; pertanto esso non può essere preventivamente escluso dalla volontà delle parti ne essere limitato nella sua durata rispetto a quello fissato dalla contrattazione collettiva; è lecito invece, mediante accordo individuale, pattuirne una maggior durata giacché tale pattuizione può giovare al datore di lavoro, come avviene nel caso in cui non è agevole la sostituzione del 3

4 lavoratore recedente, ed è sicuramente favorevole a quest ultimo che resta avvantaggiato dal computo dell intero periodo agli effetti della indennità di anzianità, dei miglioramenti retributivi e di carriera e dal regime di tutela della salute» (Cass. Sentenza n. 3741/1981 e 5929/1979). La Corte, richiama anche gli orientamenti più recenti «Il principio è stato ribadito ancor più di recente (Sez. L, Sentenza n del 25/07/2014) essendosi affermato che il lavoratore subordinato può liberamente disporre della propria facoltà di recesso dal rapporto, come nell ipotesi di pattuizione di una garanzia di durata minima dello stesso, che comporti, fuori dell ipotesi di giusta causa di recesso di cui all'art cod. civ., il risarcimento del danno a favore della parte non recedente, conseguente al mancato rispetto del periodo minimo di durata del rapporto; né può prospettarsi, in relazione alle clausole pattizie che regolano l'esercizio della facoltà di recesso dal rapporto di lavoro subordinato, una limitazione della libertà contrattuale del lavoratore, in violazione della tutela assicurata dai principi dell'ordinamento». Alla luce di tale ricostruzione, gli Ermellini chiariscono che l Ordinamento intende rimettere alle parti sociali o alle singole parti del rapporto la facoltà di disciplinare la durata del preavviso, in base alla convenienza del caso concreto. Ne deriva, dunque, che la durata del termine di preavviso può essere pattuita dalle parti attribuendo rilevanza a specifiche circostanze, quale quella per il datore di garantirsi nel tempo la collaborazione di un lavoratore particolarmente qualificato, prevedendo un più lungo periodo di preavviso a fronte di ulteriori benefici economici e di carriera. Dunque, «la pattuizione individuale (peraltro con patto ad efficacia temporanea ben determinata, esaurita la quale i contraenti hanno la possibilità di disdetta con preavviso del patto stesso) di una più ampia durata del preavviso a fronte di cospicui vantaggi per il lavoratore (nel caso, la promozione a funzionario di terza categoria, l attribuzione del relativo trattamento economico e la corresponsione di un assegno ad personam di lire lorde per tredici mensilità) è dunque legittima, essendosi già affermato in sede di legittimità (Sez. L, Sentenza n del 03/11/2009) il principio, che qui va ribadito, secondo il quale, in materia di recesso dal rapporto di lavoro, è valida la clausola del contratto individuale che preveda un termine di preavviso per le dimissioni più lungo rispetto a quello stabilito per il licenziamento, ove tale facoltà di deroga sia prevista dal contratto collettivo ed il lavoratore riceva, quale corrispettivo per il maggior termine, un compenso in denaro (la sentenza ha escluso altresì che tale accordo si ponga in contrasto con l art cod. civ., di cui va esclusa l applicazione, attesa l impossibilità di ravvisare una analogia fra il contratto di lavoro subordinato e quello d agenzia, nel quale il lavoratore autonomo sopporta il rischio economico)». 4

5 CASSAZIONE SEZIONE LAVORO SENTENZA DEL 30 MARZO 2015 N Sulla distinzione tra demansionamento e revoca della posizione organizzativa Con la sentenza in epigrafe, la Suprema Corte torna a parlare dei presupposti di legittimità dell atto di revoca della posizione organizzativa ed, in particolare, della differenza di tale istituto rispetto alla tutela apprestata al lavoratore ai sensi dell art cod. civ. 1 per le ipotesi di demansionamento. La Corte, nel ricostruire la normativa in materia, richiama l art. 8 del c.c.n.l. degli enti locali che riconosce al Sindaco del Comune un ampia discrezionalità nell affidamento degli incarichi di posizione organizzativa. Tuttavia, il successivo art. 9 del medesimo c.c.n.l. circoscrive tale discrezionalità per le ipotesi di revoca dei medesimi incarichi prescrivendo che Gli incarichi possono essere revocati prima della scadenza con atto scritto e motivato, in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di risultati negativi. In considerazione del rilievo che la contrattazione collettiva assegna ai mutamenti organizzativi, gli Ermellini ritengono corretto l iter logico seguito dalla Corte territoriale nel valutare la legittimità della revoca effettuata a seguito della modifica della dotazione organica, con conseguente accorpamento, con altra area amministrativa, dell area alla cui direzione era stata assegnata la ricorrente. Ad avviso dei giudici di legittimità, dunque, in tale contesto l eventuale mancato conferimento di un incarico di posizione organizzativa non costituisce, di per sé, un ipotesi demansionamento, in virtù della differenza tra i due istituti e tra le relative tutele. La Suprema Corte, infatti, ha precisato che «[ ] va rilevato che il conferimento di posizione organizzativa non comporta l inquadramento in una nuova categoria contrattuale ma unicamente l attribuzione di una posizione di responsabilità senza mutamento di posizione funzionale, con correlato riconoscimento di un particolare beneficio economico; l istituto attiene più alla disciplina della retribuzione che a quella dell inquadramento, sicchè non può verificarsi demansionamento per effetto della revoca di una posizione organizzativa. La fattispecie in discorso inerente la revoca 1 Art c.c.: Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione. Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all'attività svolta, e l'assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo per sostituzione del lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto, dopo un periodo fissato dai contratti collettivi, e comunque non superiore a tre mesi. Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è nullo. 5

6 delle posizioni organizzative è quindi del tutto estranea all ambito di applicazione dell articolo 2103 c.c. come pure dell articolo 52 del testo unico sul pubblico impiego: infatti, la mancata assegnazione di un incarico di posizione organizzativa non da quindi origine a demansionamento, in quanto tutti gli incarichi sono conferiti a tempo determinato e possono essere revocati anticipatamente, restando il dipendente - alla scadenza dell incarico - inquadrato nella categoria di appartenenza e nelle funzioni del profilo di appartenenza con il relativo trattamento economico (Sez. L, Sentenza n dei 15/02/2010; Sez. L, Sentenza n del 22/12/2004; Sez. L, Sentenza n del 19/12/2008).» CASSAZIONE SEZIONE LAVORO SENTENZA DEL 22 APRILE 2015 N E nullo il patto di prova se il datore di lavoro ha già verificato le qualità professionali del lavoratore in un precedente rapporto di lavoro La sentenza in esame affronta la tematica della validità del patto di prova, con particolare riferimento alla causa di tale patto. Secondo la Corte di legittimità, la causa del patto di prova va individuata nella tutela dell interesse comune alle due parti di verificare la reciproca convenienza del contratto. Grazie a tale strumento, infatti, il datore di lavoro può verificare le capacità e le attitudini del lavoratore, mentre quest ultimo può valutare l entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto. Identificata nei termini di cui sopra la causa giustificativa del patto di prova, la Corte ritiene che è «ammissibile il patto di prova in due contratti di lavoro successivamente stipulati tra le stesse parti, purché risponda alle suddette finalità, potendo intervenire nel tempo molteplici fattori, attinenti non solo alle capacità professionali, ma anche alle abitudini di vita o a problemi di salute». Qualora, invece, il lavoratore abbia già lavorato alle dipendenze del datore e, nell intervallo tra il primo ed il successivo rapporto di lavoro, non siano intervenuti fattori modificativi, il patto di prova dovrà ritenersi nullo per mancanza di causa, non essendo ravvisabile la necessità di verificare le qualità professionali e la personalità complessiva del lavoratore, in quanto già accertate precedentemente dal datore di lavoro. 6

7 CORTE COSTITUZIONALE SENTENZA DEL 30 APRILE 2015 N. 70 Sull illegittimità costituzionale della normativa che prevede il blocco della perequazione sui trattamenti pensionistici di importo complessivo superiore a tre volte il trattamento minimo INPS La sentenza in epigrafe è indubbiamente degna di nota per lo scalpore che ha destato e per le attualissime conseguenze, in termini di spesa pubblica, a cui può condurre. La Corte Costituzionale è stata investita del giudizio di legittimità costituzionale in ordine all art. 24, comma 25, del decreto legge del 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, dall art. 1, comma 1, della legge del 22 dicembre 2011, n La questione di legittimità è stata sollevata dalla Sezione Lavoro del Tribunale civile di Palermo, dalla Corte dei Conti per la Regione Emilia Romagna e dalla Corte dei Conti per la Regione Liguria. Tutti i giudici rimettenti ritengono che il comma 25 dell art. 24 è costituzionalmente illegittimo per violazione degli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., in quanto la mancata rivalutazione, violando i principi di proporzionalità e adeguatezza della prestazione previdenziale, si porrebbe in contrasto con il principio di eguaglianza e ragionevolezza, causando una irrazionale discriminazione in danno della categoria dei pensionati. La norma viene, altresì, censurata per violazione degli articoli 2, 23 e 53 Cost., poiché la misura adottata si configurerebbe quale prestazione patrimoniale di natura sostanzialmente tributaria, in violazione del principio dell universalità dell imposizione a parità di capacità contributiva, in quanto posta a carico di una sola categoria di contribuenti. Infine, la sola Conti per la Regione Emilia Romagna censura la citata disposizione, anche con riferimento all art. 117, primo comma, Cost., in relazione alla CEDU, richiamando, poi, gli artt. 6, 21, 25, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre La Corte di legittimità dichiara infondata la seconda questione 3 ed inammissibile la terza 4. 2 La norma espressamente prevede che In considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per cento.. 3 La Corte ritiene che «In base ai criteri elaborati da questa Corte in ordine alle prestazioni patrimoniali, in assenza di una decurtazione patrimoniale o di un prelievo della stessa natura a carico del soggetto passivo, viene meno in radice il presupposto per affermare la natura tributaria della disposizione. Inoltre, viene a mancare il requisito che consente l acquisizione delle risorse al bilancio dello Stato, poiché la disposizione non fornisce, neppure in via indiretta, una copertura a pubbliche spese, ma determina esclusivamente un risparmio di spesa. 7

8 Con riferimento, invece, alla prima questione di legittimità, la Corte dichiara l illegittimità costituzionale della predetta disposizione. La Corte muove da un excursus storico della disciplina in materia di perequazione automatica 5 delle prestazioni previdenziali. Ad avviso della Consulta, «la disciplina generale che si ricava dal complesso quadro storicoevolutivo della materia, prevede che soltanto le fasce più basse siano integralmente tutelate dall erosione indotta dalle dinamiche inflazionistiche o, in generale, dal ridotto potere di acquisto delle pensioni». Con riferimento invece, agli interventi di sospensione del meccanismo perequativo affidati a scelte discrezionali del legislatore, rileva come, nel corso degli anni, si siano succeduti diversi orientamenti «nel tentativo di bilanciare le attese dei pensionati con variabili esigenze di contenimento della spesa». Anche in tal caso, la Corte analizza tanto le normative antecedenti, quanto quelle successive alla disposizione de quo, per giungere alla considerazione che «la norma oggetto di censura si discosta in modo significativo dalla regolamentazione precedente. Non solo la sospensione ha una durata biennale; essa incide anche sui trattamenti pensionistici di importo meno elevato. Il provvedimento legislativo censurato si differenzia, altresì, dalla legislazione ad esso successiva». Ed infatti, «Dall analisi dell evoluzione normativa in subiecta materia, si evince che la perequazione automatica dei trattamenti pensionistici è uno strumento di natura tecnica, volto a garantire nel tempo il rispetto del criterio di adeguatezza di cui all art. 38, secondo comma, Cost. Tale strumento si presta contestualmente a innervare il principio di sufficienza della retribuzione di cui all art. 36 Cost., principio applicato, per costante giurisprudenza di questa Corte, ai trattamenti di quiescenza, intesi quale retribuzione differita (fra le altre, sentenza n. 208 del 2014 e sentenza n. 116 del 2013). Per le sue caratteristiche di neutralità e obiettività e per la sua strumentalità rispetto all attuazione dei suddetti principi costituzionali, la tecnica della perequazione si impone, senza predefinirne le modalità, sulle scelte discrezionali del legislatore, cui spetta intervenire per determinare in concreto il quantum di tutela di volta in volta necessario. Un tale intervento deve ispirarsi ai Il difetto dei requisiti propri dei tributi e, in generale, delle prestazioni patrimoniali imposte, determina, quindi, la non fondatezza delle censure sollevate in riferimento al mancato rispetto dei principi di progressività e di capacità contributiva». 4 Come si legge nella pronuncia «il difetto nell esplicitazione delle ragioni di conflitto tra la norma censurata e i parametri costituzionali evocati inibisce lo scrutinio nel merito delle questioni medesime (fra le altre, ordinanza n. 158 del 2011), con conseguente inammissibilità delle stesse». 5 La perequazione automatica è uno strumento di adeguamento delle pensioni al mutato potere di acquisto della moneta, fu disciplinata dalla legge 21 luglio 1965, n. 903 (Avviamento alla riforma e miglioramento dei trattamenti di pensione della previdenza sociale), all art. 10, con la finalità di fronteggiare la svalutazione che le prestazioni previdenziali subiscono per il loro carattere continuativo. 8

9 principi costituzionali di cui agli artt. 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost., principi strettamente interconnessi, proprio in ragione delle finalità che perseguono. La ragionevolezza di tali finalità consente di predisporre e perseguire un progetto di eguaglianza sostanziale, conforme al dettato dell art. 3, secondo comma, Cost. così da evitare disparità di trattamento in danno dei destinatari dei trattamenti pensionistici. Nell applicare al trattamento di quiescenza, configurabile quale retribuzione differita, il criterio di proporzionalità alla quantità e qualità del lavoro prestato (art. 36, primo comma, Cost.) e nell affiancarlo al criterio di adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.), questa Corte ha tracciato un percorso coerente per il legislatore, con l intento di inibire l adozione di misure disomogenee e irragionevoli (fra le altre, sentenze n. 208 del 2014 e n. 316 del 2010). Il rispetto dei parametri citati si fa tanto più pressante per il legislatore, quanto più si allunga la speranza di vita e con essa l aspettativa, diffusa fra quanti beneficiano di trattamenti pensionistici, a condurre un esistenza libera e dignitosa, secondo il dettato dell art. 36 Cost.». Ne deriva che il criterio di ragionevolezza, che impone un bilanciamento dei valori costituzionali tale da assicurare che l andamento delle pensioni non si discosti eccessivamente dalle retribuzioni, circoscrive la discrezionalità del legislatore e vincola le sue scelte all adozione di soluzioni coerenti von i parametri costituzionali. La Consulta, peraltro, rileva come la stessa, già con sentenza n. 316 del 2010, avesse ricostruito la ratio della norma 6 e, conseguentemente, avesse ritenuto legittimo il blocco della perequazione automatica stabilito dalla legge n. 247 del 2007 per un solo anno e unicamente per le pensioni di importo elevato 7. Tuttavia, già in tale occasione, la Corte aveva precisato che la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo espone il sistema a tensioni con i principi di ragionevolezza e 6 Consistente nell esigenza di reperire risorse necessarie «a compensare l eliminazione dell innalzamento repentino a sessanta anni a decorrere dal 1 gennaio 2008, dell età minima già prevista per l accesso alla pensione di anzianità in base all articolo 1, comma 6, della legge 23 agosto 2004, n. 243», con «lo scopo dichiarato di contribuire al finanziamento solidale degli interventi sulle pensioni di anzianità, contestualmente adottati con l art. 1, commi 1 e 2, della medesima legge». 7 Come si legge in un passaggio della sentenza: «In quell occasione questa Corte non ha ritenuto che fossero stati violati i parametri di cui agli artt. 3, 36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost. Le pensioni incise per un solo anno dalla norma allora impugnata, di importo piuttosto elevato, presentavano «margini di resistenza all erosione determinata dal fenomeno inflattivo». L esigenza di una rivalutazione costante del correlativo valore monetario è apparsa per esse meno pressante. Questa Corte ha ritenuto, inoltre, non violato il principio di eguaglianza, poiché il blocco della perequazione automatica per l anno 2008, operato esclusivamente sulle pensioni superiori ad un limite d importo di sicura rilevanza, realizzava «un trattamento differenziato di situazioni obiettivamente diverse rispetto a quelle, non incise dalla norma impugnata, dei titolari di pensioni più modeste». La previsione generale della perequazione automatica è definita da questa Corte «a regime», proprio perché «prevede una copertura decrescente, a mano a mano che aumenta il valore della prestazione». La scelta del legislatore in quel caso era sostenuta da una ratio redistributiva del sacrificio imposto, a conferma di un principio solidaristico, che affianca l introduzione di più rigorosi criteri di accesso al trattamento di quiescenza. Non si viola il principio di eguaglianza, proprio perché si muove dalla ricognizione di situazioni disomogenee». 9

10 proporzionalità, in quanto frustra la finalità di tutela, insita nella perequazione automatica, di difendere il potere d acquisto delle pensioni. Secondo la Consulta, dunque, non è stato ascoltato il monito indirizzato al legislatore con la citata sentenza. Né peraltro emerge, dal disegno complessivo della norma, la necessaria prevalenza delle esigenze finanziarie sui diritti oggetto di bilanciamento, nei cui confronti si effettuano interventi così fortemente incisivi, limitandosi a richiamare genericamente la «contingente situazione finanziaria». Ad avviso dei giudici di legittimità, infatti «L interesse dei pensionati, in particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto, costituzionalmente fondato, risulta irragionevolmente sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio. Risultano, dunque, intaccati i diritti fondamentali connessi al rapporto previdenziale, fondati su inequivocabili parametri costituzionali: la proporzionalità del trattamento di quiescenza, inteso quale retribuzione differita (art. 36, primo comma, Cost.) e l adeguatezza (art. 38, secondo comma, Cost.). Quest ultimo è da intendersi quale espressione certa, anche se non esplicita, del principio di solidarietà di cui all art. 2 Cost. e al contempo attuazione del principio di eguaglianza sostanziale di cui all art. 3, secondo comma, Cost.». Alla luce di tali considerazione la Corte Costituzionale ha dichiarato l illegittimità costituzionale dell art. 24, comma 25, del decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall art. 1, comma 1, della legge 22 dicembre 2011, n. 214, nella parte in cui prevede che «In considerazione della contingente situazione finanziaria, la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall art. 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, è riconosciuta, per gli anni 2012 e 2013, esclusivamente ai trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, nella misura del 100 per cento». Adesso non rimane che attendere i futuri interventi che il Governo dovrà adottare per trovare una soluzione che, nel rispetto del dictum costituzionale, minimizzi l impatto sulla finanza pubblica. 10

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