Osservatorio sulla giurisprudenza civile al 31 maggio 2015. a cura di DIANA SELVAGGI

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Osservatorio sulla giurisprudenza civile al 31 maggio 2015 a cura di DIANA SELVAGGI 1. Corte di Cassazione, sezione III civile, sentenza n. 2854 del 13 febbraio 2015: autonoma rilevanza del consenso informato rispetto al trattamento sanitario. Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione torna ad occuparsi di consenso informato, avente rilevanza centrale ai fini della liceità del trattamento sanitario anche in punto di conseguenze derivanti dalla mancata acquisizione. Il consenso informato ha, come noto, la funzione di rendere note al paziente le prevedibili conseguenze del trattamento sanitario, tra cui il possibile verificarsi di un peggioramento delle condizioni di salute dello stesso, al fine di porlo nelle condizioni di acconsentire consapevolmente al trattamento sanitario prospettatogli. Costituiscono la base giuridica del consenso informato la Costituzione, agli articoli 13 e 32 co.2., e la Legge istitutiva del Sistema Sanitario Nazionale, n. 833 del 1978, che all art. 33 esclude la possibilità di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente quando questi sia in grado di prestare il consenso e non ricorrano i presupposti dello stato di necessità ex art. 54 c.p. L acquisizione del consenso configura, quindi, un momento centrale del rapporto medico/paziente, tanto da essere costruita dall ordinamento come un dovere gravante sul medico sanzionato dalla previsione di una responsabilità civile in caso di inadempimento, addebitabile indipendentemente da ogni valutazione di merito circa la diligente esecuzione della prestazione medica. L obbligo di acquisire il consenso informato e l obbligo di prestare il trattamento sanitario sono, afferma la Corte, obblighi distinti e aventi diverso fondamento, ma il consenso informato costituisce legittimazione e fondamento del trattamento sanitario senza il quale l intervento del medico è sicuramente illecito. Orbene, nella specie era mancata l acquisizione del consenso informato ed il ricorrente aveva subito un danno dall errato intervento chirurgico, ma sia il Tribunale che la Corte di Appello 1

non avevano liquidato il risarcimento del danno da errato intervento medico perché ritenuto assorbito dal liquidato risarcimento del danno da mancata acquisizione di consenso informato. La Corte, al contrario, aderendo alla ormai consolidata posizione della dottrina e della stessa giurisprudenza, afferma che l acquisizione del consenso informato da parte del medico costituisce prestazione altra e diversa da quella dell intervento medico richiestogli, assumendo autonoma rilevanza ai fini dell eventuale responsabilità risarcitoria in caso di mancata prestazione da parte del paziente. La domanda risarcitoria diretta all accertamento della colpa professionale è domanda diversa da quella basata sulla mancata prestazione del consenso perché diversi sono i diritti e la base giuridica, pur collocata sul piano dei diritti fondamentali della persona. Da una parte il comma 2 dell art. 32 Cost.: nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario se non per disposizione di legge e questa, in ogni caso, non può violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana; il consenso informato attiene proprio al diritto ad una libera e consapevole adesione al trattamento sanitario prospettato dal medico, consapevole adesione che deriva dalla consapevole autodeterminazione del paziente all intervento. Dall altra parte il comma 1 dell art. 32 Cost.: la salute è un diritto fondamentale dell individuo e un interesse fondamentale della collettività; il trattamento sanitario terapeutico attiene, evidentemente, al diritto fondamentale alla salute. Sulla scorta di tali considerazioni, pertanto, la Suprema Corte cassa con rinvio la sentenza impugnata ed enuncia il principio per cui l autonoma rilevanza della condotta di adempimento della dovuta prestazione medica ne impone l autonoma valutazione rispetto alla vicenda della acquisizione del consenso informato, dovendo al riguardo accertarsi se le conseguenze dannose successivamente verificatesi siano, sotto il profilo del più probabile che non, da considerarsi ad essa causalmente astrette. 2.Corte di Cassazione, sezione III civile, ordinanza n. 3569 del 23 febbraio 2015: il danno da nascita indesiderata tra oneri probatori e diritto a non nascere se non sano. Con l ordinanza in commento la III sezione della Corte di Cassazione rimette alle Sezioni Unite la soluzione del contrasto giurisprudenziale esistente in materia di danno da nascita indesiderata, 2

che ricorre quando, a causa del mancato rilievo dell esistenza di malformazioni congenite del feto, la gestante perde la possibilità di interrompere la gravidanza. Le questioni rimesse alle SS.UU., in particolare, attengono alla ripartizione dell onere della prova della madre ed alla legittimazione del nato alla richiesta risarcitoria. La sezione rimettente dà atto del contrasto sulle questioni articolando, per ciascun profilo, i subprofili maggiormente rilevanti. Con riferimento all onere probatorio, infatti, vanno considerati sia il nesso causale tra l inadempimento dei sanitari e il mancato aborto, sia la sussistenza delle condizioni necessarie per procedere alla interruzione della gravidanza oltre il termine di novanta giorni, possibile solo in caso di accertamento di processi patologici tra cui quelli relativi ad anomalie o malformazioni del nascituro che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. Premessa pacifica è che, trattandosi della prova di fatti costitutivi, questa spetta alla donna: il contrasto emerge al momento di individuare tipologia e contenuto della prova richiesta. Secondo un primo orientamento, in particolare, la madre potrebbe limitarsi ad allegare che, se fosse stata informata, avrebbe abortito, intendendo ivi implicita la ricorrenza delle condizioni di legge per procedere all aborto; altro orientamento, più recente, afferma invece che la semplice richiesta di sottoporsi ad esami per accertare la presenza di anomalie nel feto costituisce un semplice indizio e non prova che, in caso di notizia della malformazione, si sarebbe senz altro proceduto alla interruzione di gravidanza. Il contrasto è più vivace con riferimento alla figura, di creazione giurisprudenziale, del diritto a non nascere se non sano, traducentesi sul piano processuale nella legittimazione alla richiesta risarcitoria da parte del nato e a carico del medico e/o della struttura sanitaria. Secondo l orientamento prevalente, più risalente, l ordinamento tutela il concepito e la gravidanza solo rispetto la nascita: non potrebbe mai configurarsi in capo al concepito un diritto a non nascere o a non nascere se non sano. Da ciò discende che, una volta nato malformato, il minore non può far valere - in proprio - il danno da inadempimento contrattuale derivante dalla mancata informazione della madre che, non avendo avuto notizia delle patologie del feto, non ha potuto tutelare il proprio diritto alla salute mediante la interruzione della gravidanza. 3

Di qui tutta la contraddizione insita nel diritto a non nascere se non sani, diritto efficacemente definito adespota, perché privo di titolare sino alla nascita e inesistente in costanza di quest ultima. Due pronunce recenti, la 9700/2011 e la 16754/2012, sintetizzano invece l orientamento contrapposto secondo cui, non dovendosi fare uso dello status di concepito per affermare la titolarità di un diritto in capo al nato, in caso di omessa diagnosi dovrebbe ammettersi la legittimazione di questi ad agire per il risarcimento. Il nato, infatti, pur assumendo la violazione di un diritto della madre - ossia quello alla autodeterminazione si duole comunque non della nascita ma del proprio stato di infermità, che sarebbe mancato se non fosse nato. La pronuncia del 2012 afferma invece che il nascituro, se anche privo della soggettività giuridica fino alla nascita, una volta venuto ad esistenza ha diritto ad essere risarcito del danno per non essere nato sano, avendo egli interesse ad alleviare la propria condizione di vita impeditiva di una libera estrinsecazione della personalità, a nulla rilevando né che la sua patologia fosse congenita, né che la madre, informata della malformazione, avrebbe verosimilmente scelto di abortire. 3.Corte di Cassazione, sezione Tributaria, sentenza n. 439 del 14 gennaio 2015: ristrutturazioni d impresa e abuso del diritto. Con la sentenza in commento la Suprema Corte si occupa di processi di riorganizzazione e ristrutturazione aziendale e sui requisiti necessari per qualificare detti processi abusivi e/o elusivi. La Corte appunta l analisi, in particolare, sulla validità e correttezza non già delle ragioni economiche poste a fondamento, ma degli strumenti prescelti. Nella efficace disamina del quadro normativo posto a base della decisione, la Corte si avvale anche sotto il profilo definitorio - della Raccomandazione della Commissione dell Unione Europea 2012/772/UE del 6 dicembre 2012 con cui, al fine di perseguire la pianificazione fiscale aggressiva, si sollecita l intervento statale ogniqualvolta ricorra una costruzione di puro artificio o una serie artificiosa di costruzioni posta in essere allo scopo di eludere l imposizione e che comporti un vantaggio fiscale. 4

Si legge nella Raccomandazione che la costruzione è artificiosa quando manca di sostanza commerciale/economica ed è elusiva della imposizione fiscale quando, indipendentemente dal contributo di volontà del soggetto agente, contrasta con l obiettivo, lo spirito e la finalità delle norme fiscali. Norma nazionale di riferimento è invece la Legge n. 23 del 2014, recante la delega al Governo per la riforma delle disposizioni tributarie relative ai processi di riorganizzazione delle attività produttive e in tema di abuso del diritto ed elusione fiscale: qui si coglie la precisa volontà del legislatore nazionale di raccordare i principi e i criteri direttivi alla citata raccomandazione ed ai principi enunciati dalla Corte di Giustizia. In particolare, il decreto delegato deve : definire la condotta abusiva come uso distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio di imposta ; garantire la libertà di scelta del contribuente tra diverse operazioni comportanti diverso carico fiscale ; considerare causa prevalente della operazione abusiva lo scopo di ottenere indebiti vantaggi fiscali ; escludere la configurabilità di condotta abusiva se l operazione è sostenuta da ragioni extrafiscali non marginali ; stabilire che costituiscono ragioni extrafiscali anche quelle che non producono necessariamente una redditività immediata dell operazione, ma rispondono ad esigenze organizzative e determinano un miglioramento strutturale e funzionale dell azienda del contribuente ; in tema di prova, infine, occorre guardare alle modalità di manipolazione e alterazione funzionale degli strumenti giuridici utilizzati, nonché la loro mancata conformità a una normale logica di mercato. Rapportando il caso di specie a siffatto quadro normativo, la Corte rileva che, in concreto, l operazione economica era reale, quindi dotata di sostanza economica, e, sotto il profilo teleologico, appariva dettata da legittime ragioni di riordino societario. Si ha, infatti, risparmio e non elusione quando, quando tra vari comportamenti pariordinati sul piano fiscale, il contribuente adotta quello meno oneroso; e non c è aggiramento se il contribuente si limita a scegliere tra due alternative strutturalmente e fisiologicamente tali messe a disposizione dall ordinamento. Sulla scorta di tali considerazioni, cassando con rinvio la sentenza impugnata, la Corte enuncia il principio per cui nei processi di ristrutturazione e riorganizzazione aziendale integra gli estremi della condotta elusiva quella costruzione che, tenuto conto sia della volontà delle parti implicate che del contesto fattuale e giuridico, ponga quale elemento essenziale dell operazione 5

economica lo scopo di ottenere vantaggi fiscali, con la conseguenza che il divieto di comportamenti abusivi non vale ove quelle operazioni possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi di imposta e manchi il presupposto della esistenza di un idoneo strumento giuridico che, pur se alternativo a quello scelto dalla parte contribuente, sia comunque funzionale al raggiungimento dell obiettivo economico perseguito. Corte di Cassazione, sezione II civile, sentenza n. 1186 del 22 gennaio 2015: qualificazione della domanda giudiziale e distinzione fra risarcimento per equivalente e risarcimento in forma specifica. Con la sentenza in commento la Suprema Corte si occupa della distinzione e, quindi, del rapporto tra il risarcimento per equivalente ed il risarcimento in forma specifica. Si verte, nel caso di specie, in materia di appalto privato di lavori edili, non completati, per i quali il committente in sede di precisazione delle conclusioni aveva chiesto il risarcimento del danno per equivalente quando, nell atto introduttivo, aveva richiesto il completamento dell opera. Per tale ragione la Corte d Appello aveva dichiarato inammissibile la domanda risarcitoria. La Suprema Corte, al contrario, aderisce alla prospettazione del ricorrente e, inquadrata correttamente la fattispecie di responsabilità venuta in rilievo, cassa con rinvio la sentenza impugnata. Il percorso argomentativo della pronuncia muove dalla ricostruzione dei principi applicabili al caso di specie - appalto di opere non ultimate per giungere alla distinzione fra risarcimento per equivalente e in forma specifica e concludere per la piena ammissibilità della successiva domanda di risarcimento per equivalente. La questione principale sottoposta al vaglio della Corte concerne, infatti, proprio l inammissibilità della sostituzione della domanda di risarcimento in forma specifica (con cui si chiede l eliminazione delle difformità e i vizi delle opere appaltate) con quella di risarcimento per equivalente (con cui si chiede la condanna della impresa appaltatrice al pagamento di una somma di denaro necessaria per l eliminazione dei vizi). Dalla corretta qualificazione della domanda del condominio, innanzitutto, deriva l inquadramento in negativo della fattispecie in rilievo: l attore non ha, infatti, fatto valere la 6

garanzia per vizi, ma ha chiesto il completamento delle opere non ancora eseguite e la condanna dell impresa all eliminazione dei vizi a proprie spese, oltre al risarcimento del danno. Nella specie, le opere non sono state ultimate e quelle eseguite erano difettose: non trova, pertanto, diretta applicazione la garanzia per i vizi prevista dalle norme sull appalto ex art. 1668 c.c., che presuppone il completamento dell opera pur integrando, senza escluderli, i normali principi in tema di inadempimento contrattuale, che rimangono applicabili quando, come in questo caso, l opera non sia stata completata. Una volta inquadrata la domanda del condominio nello schema della responsabilità contrattuale di cui agli articoli 1453 e 1455 c.c., la Corte può svolgere una efficace disamina delle due figure di risarcimento previste dalla norma e della ratio di ciascuna. La norma sulla risoluzione del contratto per inadempimento di cui all art 1453 c.c., infatti, prescrive che la parte adempiente può chiedere alla controparte inadempiente l adempimento o la risoluzione, salvo il risarcimento del danno. Questo, evidentemente, configura uno strumento ulteriore e generale rispetto all adempimento e alla risoluzione del contratto. Due le figure tipiche di risarcimento: il risarcimento per equivalente costituisce un modo generale e tipico di risarcimento mediante l'attribuzione di una somma di denaro commisurata al pregiudizio, mentre il risarcimento in forma specifica si differenzia dall'attribuzione di una somma di denaro a titolo di risarcimento per equivalente, ma possiede la medesima natura risarcitoria essendo diretto a far conseguire al creditore una prestazione che viene a surrogare quella inadempiuta, ma che non si identifica con essa. Sulla scia di giurisprudenza costante, quindi, la Corte enuncia il principio per cui il risarcimento del danno per equivalente costituisce una reintegrazione del patrimonio del creditore, che si realizza mediante l'attribuzione al creditore di una somma di danaro pari al valore della cosa o del servizio oggetto della prestazione non adempiuta, e, quindi, si atteggia come la forma tipica di ristoro del pregiudizio subito dal creditore per effetto dell'inadempimento del debitore, mentre il risarcimento in forma specifica, essendo diretto al conseguimento dell'eadem res dovuta, tende a realizzare una forma più ampia di ristoro del pregiudizio dallo stesso arrecato, dato che l'oggetto della pretesa azionata non è costituito da una somma di danaro, ma dal conseguimento, da parte del creditore danneggiato, di una prestazione del tutto analoga, nella sua specificità ed integrità, a quella cui il debitore era tenuto in base al vincolo contrattuale. Ne 7

consegue che costituisce una semplice limitazione della domanda la richiesta di risarcimento per equivalente allorchè sia stato originariamente richiesto, in giudizio, il risarcimento in forma specifica. 8