I problemi della transizione



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Nino Luciani I problemi della transizione 1. La mia tesi è che l'italia ha di fronte i problemi strutturali propri delle economie di transizione, e precisamente da un sistema economico a prevalente «economia pubblica» a un sistema a prevalente «economia di mercato», che si ritrovano negli ex-paesi del socialismo reale, sia pur in proporzione al peso occupato dal settore pubblico nei rispettivi paesi. Ci sono qui anche i problemi congiunturali, ma questi hanno un'ampiezza talmente grande da rinviare, paradossalmente, ai problemi di struttura. La prima transizione, relativamente recente, è cominciata in Italia nel 1961 coi governi di centrosinistra ed è avvenuta nel senso di andare da un sistema a prevalente economia di mercato a un sistema a prevalente economia pubblica. Si passa da un rapporto tra spesa pubblica e PIL del 30% a un rapporto del 56-60%, attuale (1992). Adesso ci troviamo di fronte la seconda transizione, questa volta in senso inverso, e che dovrebbe restituire risorse dal settore pubblico al settore privato, in quanto da ritenere più produttivo. Questo obiettivo è imposto dalla distruzione macroscopica di risorse da parte del settore pubblico, e le cui ripercussioni più evidenti si ritrovano nella caduta persistente del tasso di crescita del PIL e nella crescente disoccupazione. 94

A mio modo di vedere, per l'italia, il traguardo finale realistico, compatibile con l'equilibrio del sistema economico (per quanto dipende dal settore pubblico), è ridurre la spesa pubblica al 40-45% del PIL. Questo parametro mi viene suggerito dal fatto che la pressione fiscale nominale è oggi (1992) nell'ordine del 39-40%, limite massimo risultato fin qui raggiungibile, e che quindi indica la possibilità realistica di finanziare la spesa pubblica con la sola tassazione. 2. Questa transizione verso il mercato richiede adattamenti importanti nelle abitudini di vita della popolazione: si tratta di un problema che, per sua natura, richiede un periodo medio-lungo (5-10 anni). Tale periodo è: a) il tempo necessario per riallocare verso il settore privato la mano d'opera via via licenziata dal settore pubblico; b) il tempo necessario per affidare al settore privato quei servizi pubblici che verranno via via dismessi dal settore pubblico e che dovranno continuare ad essere erogati per i cittadini disposti a pagarli; c) il tempo necessario per privatizzare le imprese pubbliche non strategiche, e che ovviamente non si può cominciare a fare con una estrazione a sorte delle imprese da privatizzare, ma solo dopo aver fatto una opportuna classificazione della loro situazione: ad esempio - imprese con buona capacità di reddito e buona situazione finanziaria; - imprese con buona capacità di reddito ma precaria situazione finanziaria; - imprese in perdita ma per carenze gestionali e quindi facilmente risanabili con la sostituzione del management; - imprese decisamente senza prospettive di reddito, ecc.; d) il tempo necessario per permettere ai beneficiari di trasferimenti pubblici di trovare un rimedio, in 95

vista di una loro decurtazione, ecc. Del resto anche la Comunità europea si è data un periodo transitorio (1957-92) per attuare pienamente il Mercato comune europeo, periodo che termina proprio quest'anno. Tali adattamenti della popolazione non sono necessariamente dei sacrifici, e tuttavia essi si giustificano perché pongono le basi per la ripresa dello sviluppo del reddito nazionale e dell'occupazione. Inoltre, la realizzazione della transizione richiede una classe politica appropriata. Ma su questo punto non dobbiamo dimenticare che la classe politica oggi chiamata ad attuare la seconda transizione è quella stessa che ha realizzato la prima transizione sulla quale essa fonda a tuttora il suo potere in termini di clientela elettorale, e di tangenti; non solo, ma anche senza una netta distinzione tra maggioranza di governo e opposizione. Questo vuoi dire che qui troviamo il primo collo di bottiglia, per cui le alternative politiche in termini di separatismo territoriale, qui e- vocate, sono fortemente realistiche. In ogni caso appare evidente l'urgenza di operare per una nuova legge elettorale che separi nettamente la responsabilità di governo da quelle di opposizione, in modo da permettere un rimedio ai mali della politica attraverso l'alternanza tra persone e programmi diversi. Senza la riforma della legge elettorale, che stronchi quanto meno il consociativismo e la frammentazione nel governo nazionale (e nei governi locali), al più ci si può attendere il congelamento dell'attuale sistema, che non espanderebbe ulteriormente il settore pubblico, ma eventualmente ne correggerebbe solo le maggiori disfunzioni finanziarie. 3. Tuttavia, i problemi di disavanzo del bilancio dello Stato non possono attendere. Occorre provvedervi subito, quanto meno in base agli impegni as- 96

sunti dall'italia di andare verso l'unione monetaria e la moneta unica in Europa. Secondo me la via appropriata è un aumento generalizzato e uniforme dell'aliquota dell'irpef nell'ordine del 6-10%, durante tutto il periodo della transizione, e da ridurre via via in rapporto all'avanzamento della transizione stessa. Tale aumento dell'irpef dovrebbe essere accettato dalla popolazione appena si spieghi che esso dovrebbe sostituire una imposta già esistente, che è la «imposta da inflazione», oggi nell'ordine del 10-15% del reddito. Infatti l'aumento di prezzi, dovuto all'inflazione, è l'equivalente di un'imposta indiretta, non solo, ma è anche la più sperequata tra le imposte. Invece, sul piano dell'equilibrio generale, l'applicazione di un'aliquota aggiuntiva, uguale per tutti i cittadini, avrebbe il vantaggio di ridursi a un fatto puramente monetario: nel senso che, per definizione e comunque tendenzialmente, essa non modificherebbe, in termini reali, le posizioni comparate e assolute dei contribuenti, perché per un cittadino è indifferente avere un reddito monetario invariato, ma con prezzi che cresceranno, oppure avere un reddito monetario decurtato, ma a prezzi che non muteranno. Questa tesi, che discende da un noto teorema della scienza delle finanze, pur se discutibile per alcuni aspetti, è un'ottima base di partenza per orientarsi nella concreta ripartizione del carico tributario necessario per ripianare il disavanzo del bilancio dello Stato. Rifiuto, invece, l'idea di affidare compiti importanti ad un'imposta ordinaria sul patrimonio. Ciò per varie ragioni: non è un'imposta generale; non ha ancora un apparato amministrativo collaudato per applicarla; il valore patrimoniale non emerge da elementi oggettivi ma da una «stima», per cui si presta ad aprire un contenzioso spaventoso. Del resto la sto- 97

ria dell'invim (imposta sugli incrementi di valore degli immobili) lo insegna. Essa può avere, beninteso, un suo ruolo come mezzo di recupero dell'evasione, ma a questo fine e tenuto conto della debolezza strutturale suddetta, penso che ne sia consigliabile l'applicazione con un'aliquota molto mite, associatamente all'ilor (imposta locale sui redditi) o all'iciap (imposta comunale sulle industrie, commerci, arti e professioni). Quanto all'evasione fiscale, ritengo che sia venuta l'ora di smettere col demonizzare gli evasori, ma di operare per far funzionare adeguatamente la macchina amministrativa finanziaria pubblica, il solo modo corretto di impostare il problema. In ogni caso non sono affatto convinto che esistano, presso le piccole e medie imprese, maglie di e- vasione così larghe, come una certa parte sociale va dicendo. Il motivo di fondo di questa mia convinzione è che, nei casi prevalenti, appena il sindacato dei lavoratori dipendenti si accorge che le imprese hanno dei sovra-profitti, ci pensa il sindacato stesso a scremarli chiedendo aumenti salariali. E se i salari non sfuggono alla tassazione, allora le piccole e medie imprese pagano le imposte attraverso i propri dipendenti. Dunque il fisco ha già, dentro l'impresa, un buon poliziotto fiscale. Quanto, infine, alla recente crisi del cambio, trovo notevoli responsabilità nella condotta delle autorità monetarie, non tanto per aver preferito le ragioni della «moneta» alle ragioni dell'«economia reale» (fatto già per sé inammissibile, economicamente, ma perdonabile a un banchiere), ma per aver persistito nell'assumere certi impegni monetari pubblicamente, senza poi mantenerli. Per altro verso, già i grandi maestri del tempo passato avevano insegnato che l'alternativa tra cambi fissi e cambi flessibili è una questione da risolvere in base alla natura strutturale o congiunturale delle crisi valutarie. Che l'italia si trovasse in una crisi strutturale è provato dal fatto che il 98

saldo passivo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti internazionali dell'italia, a partire dal 1986, è andato crescendo sempre più, non solo in assoluto, ma anche in percentuale del PIL (4% del PIL, ultimamente). Questo vuoi dire che il trend non dava ormai più segni di inversione, per cui già si profilava, come traguardo finale, la caduta della convertibilità della lira, che è poi la svalutazione a colpi di piccone, più tardi, anziché la svalutazione, subito, in condizioni più favorevoli. E dunque anche sotto il profilo tecnico la condotta delle autorità monetarie appare censurabile. 99