DOCUMENTO E PROVA DOCUMENTALE Verificazione della scrittura privata disconoscimento della scrittura privata



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Juris data Archivio selezionato : Sentenze Civili Documento n. 1 di 1 DIVISIONE Divisione ereditaria in genere DOCUMENTO E PROVA DOCUMENTALE Verificazione della scrittura privata disconoscimento della scrittura privata VENDITA Vendita di cosa comune VENDITA Vendita di eredita' in genere DIVISIONE Comunione e condominio Cassazione civile, sez. III, 01 luglio 2002, n. 9543 REPUBBLICA ITALIANA In nome del popolo italiano LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. Gaetano FIDUCCIA - Presidente - Dott. Ugo FAVARA - Consigliere - Dott. Francesco TRIFONE - Consigliere - Dott. Giovanni Battista PETTI - Consigliere - Dott. Antonio SEGRETO - Rel. Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: CATALANO GIUSEPPE, CATALANO NICOLA, CAPOLECCHIA ELISABETTA VED CATALANO, elettivamente domiciliati in ROMA VIALE MAZZINI 6, presso lo studio dell'avvocato MACRO RENATO, difesi dall'avvocato DE ZIO GIUSEPPE, giusta delega in atti; - ricorrenti - contro AVELLA FRANCESCO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA LAURA MANTEGAZZA 24, presso Cav. GARDIN LUIGI, difeso dall'avvocato LAURORA NICOLA, giusta delega in atti; - controricorrente - avverso la sentenza n. 786-97 della Corte d'appello di BARI, TERZA SEZIONE CIVILE emessa l'11-06-1997, depositata il 14-07-97; RG.786-1997, udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14-02-02 dal Consigliere Dott. Antonio SEGRETO; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Antonietta CARESTIA che ha concluso per accoglimento del III motivo, assorbito il IV, rigetto degli altri. Fatto Con citazione del 27.12.1984, Catalano Giuseppe, assumendo di essere proprietario per successione paterna ab intestato, di un fondo rustico in agro di Ruvo di Puglia, conveniva innanzi al tribunale di

Trani, Avella Francesco, indicandolo come detentore sine titulo del predio e chiedeva che lo stesso fosse condannato al rilascio. Il convenuto si costituiva ed assumeva di essere divenuto proprietario del fondo, per acquisto fattone da Coppolecchia Elisabetta, il 14.5.1979, madre dell'attore ed erede anch'essa, con i di lei figli Catalano Giuseppe e Nicola, del marito Catalano Antonio, deceduto il 28.10.1978. L'Avella veniva autorizzato a chiamare in causa la Coppolecchia, in proprio e quale legale rappresentate del figlio minore Giuseppe, proponendo contro gli stessi e contro l'attore la domanda di accertamento del suo diritto di proprietà sull'intero fondo, in via gradata l'accertamento del diritto di proprietà su un terzo del fondo, la condanna della Coppolecchia alla restituzione dell'acconto di L. 1.500.000, versato con assegno, sul prezzo complessivo di L. 5.500.000, il rimborso delle spese per migliorie a carico di chi fosse riconosciuto proprietario del fondo. Il tribunale, con sentenza depositata il 12.11.1994, dichiarava che per effetto del contratto di compravendita tra la Coppolecchia e l'avella, quest'ultimo era comproprietario di una quota ideale, pari ad un terzo del fondo, in comunione ed indiviso con i fratelli Catalano; respingeva le restanti domande. Avverso questa sentenza proponevano appello i Catalano e la Coppolecchia, che hanno presentato memoria. Resisteva l'avella. La corte di appello di Bari, con sentenza depositata il 14.7.1997, rigettava l'appello. Riteneva la corte di merito che, quanto all'assunto disconoscimento della sottoscrizione della scrittura privata da parte della Coppolecchia, detto disconoscimento non vi era mai stato, non avendo mai la stessa disconosciuto in modo inequivoco l'autenticità della scrittura; che nessuna influenza aveva il comportamento delle parti successivo alla scrittura ai fini della validità della stessa; che era inammissibile il deferito giuramento per mancanza di decisorietà, poiché, ove anche fosse risultato dal giuramento che la Coppolecchia non aveva riscosso l'assegno, tanto non influiva sull'assunta inesistenza, inefficacia o risolubilità del contratto; che, inoltre, la formulazione era ambigua. Quanto alla domanda di rilascio del fondo da parte dell'avella, riteneva la corte, che non poteva disporsi detto rilascio da parte dell'avella, in quanto egli, essendo comproprietario di una quota ideale, ne era per ciò stesso compossessore, mentre gli attori avrebbero potuto far valere la qualità di comproprietari e di compossessori nella sede opportuna. Avverso questa sentenza hanno proposto ricorso per cassazione I catalano e la Coppolecchia. Resiste con controricorso il convenuto. Diritto 1. Con il primo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione degli artt. 214, 215, 216, c.p.c. e 2702 e 2727 c.c. nonché l'insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza. Assumono i ricorrenti che il disconoscimento della scrittura privata non necessita di formule sacramentali e che nella fattispecie la Coppolecchia aveva sempre contestato l'esistenza di un contratto di compravendita. In ogni caso la mancanza di sottoscrizione da parte dell'acquirente rende inesistente la scrittura. 2.1. Ritiene questa Corte che il motivo sia infondato e che lo stesso vada rigettato. Osserva questa Corte che, ai sensi dell'art. 214 c.p.c., il disconoscimento di scrittura privata, pur non richiedendo l'uso di formule sacramentali o speciali, postula che la parte contro la quale la scrittura è prodotta in giudizio, impugni chiaramente l'autenticità della stessa, nella sua interezza o limitatamente alla sottoscrizione, contestando formalmente tale autenticità, ove egli sia l'autore apparente del documento prodotto, ovvero, nel caso di erede o avente causa dell'apparente sottoscrittore, solo dichiarando di non conoscere la scrittura o la sottoscrizione di quest'ultimo

(Cass. civ., 27 agosto 1990, n. 8755). Nella fattispecie il giudice di merito ha accertato, con motivazione immune da censure in questa sede di sindacato di legittimità, che mai la Coppolecchia aveva effettuato questo disconoscimento dell'autenticità della scrittura privata 2.2. Nè la sola contestazione del rapporto fondamentale è di per sè idonea ad essere equiparata ad un disconoscimento (ex art. 214 c.p.c.) della scrittura privata posta a base dello stesso. 4. Infondata è anche la censura di inesistenza del contratto di compravendita, per non essere stata sottoscritta la scrittura privata da parte dell'acquirente Avella, che l'ha prodotta in giudizio. Infatti, come è giurisprudenza pacifica, il contraente la cui sottoscrizione non figura nel documento rappresentativo di un contratto per il quale sia richiesta dalla legge a pena di nullità la forma scritta, può validamente perfezionarlo con la sua produzione in giudizio, al fine di farne valere gli effetti contro l'altro contraente sottoscrittore, o manifestando a questo con un proprio atto scritto la volontà di avvalersi del contratto. In tal caso la domanda giudiziale o il successivo scritto assumono valore equipollente della firma mancante, sempreché, medio tempore, l'altra parte non abbia revocato il proprio assenso o non sia decaduta, con la conseguente impossibilità della formazione del consenso nella forma richiesta dalla legge nei confronti dei suoi eredi (Cass. 7 maggio 1997, n. 3970). 5. Con il secondo motivo di ricorso, i ricorrenti lamentano la violazione degli artt. 2697 e 2657 c.c., nonché l'insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza, ai sensi dell'art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.. Secondo i ricorrenti competeva all'avella fornire la prova che la proprietà del fondo, o di una quota ideale dello stesso era stata a lui venduta, indipendentemente dal disconoscimento della scrittura privata. In ogni caso, secondo i ricorrenti, non era sufficiente, ai fini della trascrizione della domanda, che la sentenza si limitasse ad accertare che la Coppolecchia non aveva disconosciuto la scrittura, essendo anche necessario che la sentenza dichiarasse l'autenticità della sottoscrizione. 6. Ritiene questa Corte che il motivo di ricorso in parte sia manifestamente infondato ed, in parte, sia inammissibile. Quanto alla prima censura l'infondatezza discende dal fatto che la sentenza impugnata ha fondato l'accoglimento parziale della domanda dell'avella, proprio sulla scrittura privata da lui prodotta. Quanto alla seconda censura, la stessa, indipendentemente dal profilo della fondatezza, è inammissibile, per mancanza di interesse da parte dei ricorrenti a rilevare l'assunta mancanza di pronunzia ai fini della trascrizione, avendo - eventualmente interesse a tanto solo l'avella. 7. Con il terzo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione degli artt. 757, 1418, 1480, 1362 e 1376 c.c., nonché il vizio di insufficiente motivazione, ai sensi dell'art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.. Assumono i ricorrenti, che, in ogni caso, poiché nella fattispecie si trattava di vendita di bene ricadente in comunione ereditaria, essa aveva efficacia solamente obbligatoria, in quanto non poteva avere effetti reali se non dal momento, in cui il bene fosse stato assegnato alla Coppolecchia, tenuto conto, che, per effetto dell'art. 757 c.p.c., se, a seguito della divisione, detto bene non viene assegnato al coerede che l'ha alienato, questi viene considerato come se non avesse mai avuto la proprietà dello stesso. In ogni caso assumono i ricorrenti che, poiché il bene era considerato come un unicum inscindibile, poiché gli altri comproprietari coeredi non avevano aderito alla vendita, il contratto stesso deve considerarsi nullo. 8.1. Il motivo va accolto, per quanto di ragione. Anzitutto va dichiarata inammissibile la seconda censura quella attinente alla nullità (o inefficacia) del contratto poiché, per quanto il bene fosse stato venduto come un unicum, alla sua vendita non parteciparono anche gli altri comproprietari. L'inammissibilità deriva da due ragioni. In linea di principio è vero che la vendita di un bene in comunione è di norma considerata dalle parti come un unicum inscindibile e non come somma delle vendite delle singole quote che fanno capo ai singoli comproprietari, per cui questi ultimi costituiscono una unica parte complessa e le

loro dichiarazioni di vendita si fondono in un'unica volontà negoziale tranne che dall'unico documento predisposto per il negozio risulti chiaramente la volontà di scomposizione in più contratti in base al quale ogni comproprietario vende la propria quota all'acquirente senza nessun collegamento negoziale con le vendite degli altri (Cass., 26 novembre 1998, n. 11986). Sennonché il principio suddetto opera - appunto - allorché, anzitutto, il bene sia stato venduto come bene in comproprietà e come tale risulti qualificato nel contratto, e non allorché sia stato venduto come bene di proprietà esclusiva dell'alienante (indipendentemente poi dal punto se tale bene fosse per intero o solo in parte del venditore), come finora sostenuto nel presente giudizio. Ne consegue che la censura prospetta una questione nuova, non sollevata nei gradi di merito, ed attiene alla valutazione della volontà contrattuale, che istituzionalmente compete al giudice di merito. Infatti è giurisprudenza pacifica di questa Corte che i motivi del ricorso per Cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in Cassazione questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase del merito e non rilevabili di ufficio (Cass. 29.3.1996; Cass. 10.5.1995, n. 5106; Cass. 8.7.1994, n. 6428). 8.2. In ogni caso va osservato che unico legittimato a far valere detta nullità del contratto di compravendita di bene in comunione, effettuato da un solo comproprietario e non anche dagli altri, per quanto indicati nel contratto ed allorché il bene sia stato considerato come un unicum, è il preteso acquirente e non anche il comproprietario non alienante. Infatti la compravendita di un bene predisposta per la partecipazione di tutti i comproprietari, ma stipulata da uno solo di essi, deve considerarsi inefficace con riferimento all'intera res empta ma, trattandosi di inefficacia soltanto relativa, legittimato a farla valere è soltanto il titolare dell'interesse all'acquisto dell'intero bene, cui va peraltro riconosciuta la facoltà di chiedere, in sede giudiziale, l'accertamento dell'efficacia del contratto in relazione alla quota del comproprietario validamente intervenuto alla stipula, senza che quest'ultimo possa a ciò opporsi, in assenza di un apprezzabile interesse a che la cosa indivisa sia venduta per intero, a meno che, dal contratto di compravendita non risulti che il negozio sia stato comunemente inteso come vendita unitaria, e cioè che le parti abbiano convenuto la stipula nel comune presupposto della successiva adesione degli altri contitolari della comunione (Cass. civ., sez. II, 15 maggio 1998, n. 4902; Cass. civ., sez. II, 18 settembre 1991, n. 9749). 9.1. Fondata è invece la censura di violazione dell'art. 757 c.c. e della falsa applicazione dell'art. 1480 c.c.. Osserva preliminarmente questa Corte che il principio per cui la vendita del bene comune come proprio da parte del comproprietario ha efficacia reale per la quota dell'alienante ed efficacia obbligatoria come vendita di cosa altrui per il resto (Cass. 10 marzo 1981, n. 1341; Cass. 27.6.1983, n. 4405; Cass. 12 aprile 1983, n. 2575), in applicazione della disciplina di cui all'art. 1480 c.c. (tesi, peraltro, non condivisa dalla dottrina classica che ritiene applicabile la norma in questione solo nell'ipotesi di cosa parzialmente altrui pro diviso), non è applicabile in caso di bene ricadente nella comunione ereditaria. Infatti, in tema di comunione ereditaria, opera il principio di cui all'art. 757 c.c., secondo cui "ogni erede è reputato solo ed immediato successore di tutti i beni componenti la sua quota o a lui pervenuti dalla successione, anche per acquisto all'incanto, e si considera come se non avesse mai avuto la proprietà di altri beni ereditari". 9.2. Da ciò consegue che non può ritenersi che la vendita di un bene, rientrante nella comunione ereditaria, da parte di uno solo dei coeredi, produca effetti reali relativamente alla quota ideale del coerede alienante, in quanto questi, per effetto dell'assegnazione in sede di divisione, potrebbe non risultare mai proprietario del detto bene o di parte di esso (questa volta pro diviso). In questo caso la vendita ha solo effetto obbligatorio, essendo la sua efficacia reale subordinata all'assegnazione del bene al coerede - venditore attraverso la divisione (Cass. civ., 13 luglio 1983, n.

4777). Pertanto, fino a tale assegnazione il bene continua a far parte della massa comune da dividere (Cass. civ., 23 giugno 1981, n. 4105). 9.3. Il compratore di un bene in comunione ereditaria dà uno solo dei coeredi, data la comunione e finché essa perdura, non può ottenere la proprietà esclusiva di una singola parte materiale della cosa. Neppure può ottenere la quota ideale di un singolo bene, in proporzione alla quota di eredità che compete al coerede alienante, per il semplice motivo che, giusto il principio che emerge dall'art. 757 c.c. e più in generale dal sistema (art. 477 c.c. che prevede la vendita di diritti di successione, ed art. 765 c.c., che prevede la vendita del diritto ereditario), non esiste una quota ideale della proprietà di quel bene in capo al coerede, il quale è titolare solo di una quota di eredità, intesa come universitas, che è già di per sè un diritto alienabile (artt. 1542 e segg. c.c.), mentre la proprietà del bene non necessariamente deve rientrare in quella quota, al momento della divisione. In altri termini, mentre nella comunione normale di un bene il rapporto tra il comproprietario del bene (che poi aliena) ed il bene è diretto ed è dato dall'unico diritto esistente, quello di (com)proprietà, nella comunione ereditaria il rapporto non è diretto, ma passa attraverso il diritto alla quota ereditaria. 9.4. Da ciò consegue che l'acquirente di un bene ereditario da uno dei coeredi, ignorando la comunione, può sempre chiedere, anche subito, la risoluzione del contratto e ciò a differenza della disciplina dell'art. 1480 c.c., senza che rilevi indagare se avrebbe stipulato il contratto, qualora avesse saputo della comunione. Se, invece, preferisce attendere la divisione, e con questa la cosa viene assegnata per intero al suo dante causa, si applica l'art. 1479, c. 1, e rimangono precluse tanto la risoluzione quanto la semplice riduzione del prezzo. 9.5. Se nella divisione la cosa rimane assegnata per intero ad altro condividente, la cosa diventa di cosa interamente altrui, e spetta la risoluzione ex art. 1479 c.c., senza che sia concepibile un'alternativa con la semplice riduzione del prezzo. Infine se la cosa nella divisione viene assegnata solo in parte al venditore, da tale momento comincia ad applicarsi l'art. 1480 c.c.: quindi il compratore acquista la parte materiale toccata al proprio dante causa ed ha diritto ad una proporzionale riduzione del prezzo. 9.6. Se, invece, il compratore ha acquistato il bene ereditario, conoscendo della comunione, il venditore ha verso il compratore l'obbligo di chiedere subito la divisione, e, nei limiti del possibile, di fare in modo che gli venga assegnata la cosa da lui venduta, poiché solo in questo modo il venditore diventa proprietario del bene. Se la divisione non viene chiesta dal venditore, può esserlo dal compratore, ma non iure proprio, perché una vendita, come quella considerata, non lo rende comproprietario. 9.7. Solo nel caso in cui il bene venduto sia l'unico bene della massa ereditaria (e sempre che lo stesso sia divisibile) può ammettersi che l'effetto traslativo della quota ideale di comproprietà non rimanga subordinato all'assegnazione della quota del bene al coerede, in quanto in questo caso, stante l'unicità del bene, la quota di eredità coincide necessariamente con la quota di comproprietà del bene stesso, con la conseguenza che il coerede è anche sicuramente proprietario della quota promessa in vendita e può di questa liberamente disporre ai sensi dell'art. 1103 c.c., immettendo così l'acquirente nella comproprietà del bene (Cass. civ., sez. II, 23 luglio 1993, n. 8259). 10. Nella fattispecie la sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi, ritenendo che la vendita del fondo dalla coerede Coppolecchia all'avella avesse efficacia reale, sia pure ai sensi dell'art. 1480 c.c., senza accertare se vi fosse stata una divisione, con l'assegnazione di una quota alla Coppolecchia, ovvero se detto bene fosse l'unico bene ereditario (il che è contestato dai ricorrenti). In questi termini va quindi accolto il motivo di ricorso.

11. L'accoglimento del suddetto motivo comporta l'assorbimento del quarto motivo di ricorso con cui si lamenta la violazione degli artt. 112 c.p.c., 1140, 1146, 1147 e 1470 c.c., in relazione al mancato accoglimento della domanda di rilascio, sia pure nei limiti della quota ideale di due terzi, fondata dalla sentenza impugnata sul fatto che l'avella fosse comproprietario per un terzo del fondo in questione. 12. Con il quinto motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione degli artt. 2736, 1362, 1208 c.c. nonché l'insufficienza e contraddittoria motivazione della sentenza. Assumono i ricorrenti che erroneamente la sentenza impugnata ha ritenuto inammissibile il giuramento decisorio, attinente alla mancata riscossione da parte dell'alienante dell'assegno di L. 1.500.000, in quanto con esso si intendeva contribuire ad un'interpretazione del contratto diversa da quella individuata dai giudici di merito. Inoltre ritengono i ricorrenti che la formula non era ambigua. 13. Ritiene questa Corte che il motivo è infondato. Osserva questa Corte che la valutazione del requisito della decisorietà del giuramento decisorio, è riservata, al pari della valutazione della rilevanza e della pertinenza di ogni altro mezzo di prova, al giudice di merito e non è censurabile in cassazione, se non per vizio di motivazione (Cass. 8.2.1985, n. 1022). Nella fattispecie la sentenza impugnata, con motivazione immune da censure nei limiti del sindacato di legittimità sulla motivazione, ha ritenuto che era inammissibile il deferito giuramento per mancanza di decisorietà, poiché ove anche fosse risultato dal giuramento che la Coppolecchia non aveva riscosso l'assegno, tanto non influiva sull'assunta inesistenza, inefficacia o risolubilità del contratto. Il rigetto della censura relativa alla prima delle due autonome motivazioni che sorreggono la dichiarazione di inammissibilità del giuramento decisorio rende priva di interesse processuale la censura relativa alla seconda motivazione. 14. In definitiva, va accolto, per quanto di ragione il terzo motivo di ricorso, assorbito il quarto, e vanno rigettati i restanti. L'impugnata sentenza va cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio ad altra sezione della corte di appello di Bari, che si uniformerà ai principi di diritto sopra esposti e provvederà anche sulle spese di questo giudizio di cassazione. P.Q.M Accoglie, per quanto di ragione, il terzo motivo di ricorso, assorbito il quarto, e rigetta i restanti motivi. Cassa l'impugnata sentenza, in relazione al motivo accolto, con rinvio, anche per le spese di questo giudizio di Cassazione, ad altra sezione della corte di appello di Bari. Così deciso in Roma, lì 14 febbraio 2002. Codice Civile (1942) art. 1480 Codice Civile (1942) art. 757 Codice Procedura Civile art. 214 Codice Procedura Civile art. 215 Codice Procedura Civile art. 216 >> Note: << (1-2) In senso sostanzialmente conforme cfr. Cass. 16 agosto 1990 n. 8315