Lezione Obbligazione retributiva e principio di corrispettività. Principi di sufficienza e proporzionalità, di non discriminazione e di parità retributiva. Il concetto di onnicomprensività.
Obiettivi Ricostruire la normativa relativa all obbligazione retributiva e al principio di corrispettività, ai principi di sufficienza e proporzionalità, di non discriminazione e di parità retributiva, nonché al concetto di onnicomprensività.
Obbligazione retributiva L obbligo retributivo, che grava sul datore di lavoro ex artt. 2094 e 2099 c.c., connota il contratto di lavoro come contratto oneroso di scambio o a prestazioni corrispettive. La corrispettività è un carattere tradizionalmente attribuito alla retribuzione in quanto la stessa rappresenta la prestazione del datore di lavoro compensativa, nell equilibrio contrattuale, della prestazione lavorativa.
Obbligazione retributiva Questo nesso di interdipendenza, tuttavia, a volte subisce delle alterazioni specificamente individuate in una serie di ipotesi di sospensione del rapporto di lavoro per motivi in genere attinenti alla persona del lavoratore. Si tratta, in particolare, dei casi di sospensione dell attività lavorativa per infortunio, malattia, gravidanza o puerperio di cui agli artt. 2110 e 2111 c.c., in cui si impone al datore di lavoro di adempiere, in tutto o in parte, all obbligo retributivo, ovvero ad un indennità più o meno corrispondente, nonostante l assenza della relativa controprestazione.
Obbligazione retributiva Un ulteriore attenuazione del nesso di corrispettività può essere riscontrata nella disciplina di una serie di istituti retributivi indiretti (quali la gratifica natalizia, la retribuzione feriale, ma anche il trattamento di fine rapporto) che tendono a compensare la prestazione complessiva fornita dal prestatore di lavoro nell anno o nell intero rapporto senza però un rigoroso riferimento al lavoro effettivamente reso.
Obbligazione retributiva La disciplina specifica dell obbligazione retributiva, per quanto concerne gli aspetti quantitativi nonché i modi e i criteri di calcolo, è fondamentalmente determinata dalla contrattazione collettiva, la quale si conferma per tali aspetti la fonte prioritaria di disciplina del rapporto e di definizione del costo del lavoro (art. 2099, 1 comma, c.c.).
Obbligazione retributiva Sul tema si registrano talora conflitti di competenza tra la fonte legale e quella contrattuale. In linea di massima si ritiene che esista un rapporto gerarchico tra legge e contratto collettivo, integrato con il principio del favor nei confronti del lavoratore, nel senso che la fonte negoziale può solo migliorare i trattamenti legali. Tuttavia la regola predetta subisce delle deroghe in relazione ai principi di concorrenza e di specialità che in alcuni casi inducono a privilegiare la disciplina contrattuale in quanto più specifica e più vicina agli interessi oggetto di regolazione.
Obbligazione retributiva In qualche caso è poi la stessa norma legale che conferisce un ampio potere negoziale alla contrattazione collettiva anche sul piano dell efficacia soggettiva in funzione integrativa e a volte persino derogativa in peius rispetto ai trattamenti legali. Nella stessa logica vanno richiamate le numerose norme di legge che impongono l applicazione dei trattamenti economici prescritti dalla contrattazione collettiva, per la partecipazione ad appalti e commesse pubbliche, oppure quale condizione per fruire di determinati benefici ed esenzioni in materia di sgravi contributivi e di fiscalizzazione degli oneri sociali.
Obbligazione retributiva Di contro, l autonomia individuale può solo migliorare gli standards retributivi stabiliti in sede collettiva.
a) Principio della sufficienza; b) Principio della proporzionalità; c) Principio di non discriminazione; d) Principio di parità di trattamento retributivo.
L obbligazione retributiva non rappresenta solo il principale termine di scambio della prestazione lavorativa, ma rileva anche come diritto soggettivo del lavoratore ad un compenso proporzionato e sufficiente, idoneo ad assicurare il sostentamento proprio e della sua famiglia. A questo profilo dà ampio risalto l art. 36 Cost. secondo cui il lavoratore ha diritto ad una «retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa».
Sono dunque due i principi sanciti dalla norma costituzionale: quello della sufficienza e quello della proporzionalità. Il principio della sufficienza va inteso nel senso che il livello di retribuzione da corrispondere debba essere non solo correlato al minimo vitale, ma anche tale da consentire al lavoratore e alla sua famiglia un tenore di vita socialmente adeguato secondo il contesto storico e ambientale. La proporzionalità è un principio ulteriore e successivo nella gerarchia della norma, ispirato da una logica mercantilistica o economicista; esso esplicita essenzialmente una correlazione della retribuzione rispetto alle mansioni svolte dal lavoratore e al tempo di lavoro.
Il disposto costituzionale dell art. 36 Cost. è riconosciuto dalla giurisprudenza come immediatamente precettivo ed impositivo per l autonomia privata del c.d. «corrispettivo minimo» del lavoro, tale da attribuire al giudice il potere di sindacare la conformità della retribuzione al dettato costituzionale, supplendo alle carenze contrattuali (Cass. 10 aprile 2000, n. 4523; Cass. 28 marzo 2000, n. 3749).
Si pone tuttavia il problema di stabilire i canoni a cui rapportare la retribuzione costituzionalmente corretta. Sotto quest ultimo profilo, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, il giudice, al fine di stabilire la conformità della retribuzione percepita dal lavoratore ai criteri espressi dall art. 36 Cost., deve far riferimento alle retribuzioni fissate in relazione alle mansioni svolte dal lavoratore dai contratti collettivi della categoria o del settore produttivo di appartenenza, considerati quale parametro affidabile a prescindere dalla diretta applicabilità del contratto e, quindi, indipendentemente dalla iscrizione delle parti ai sindacati stipulanti (cfr. da ultimo, Cass. 22 giugno 2004, n. 11624).
Le retribuzioni così individuate, in rapporto alle tabelle fissate nei contratti collettivi nazionali di categoria o di settore, costituiscono, pertanto, il livello minimo vincolante per tutti i rapporti di lavoro di quella categoria o di quel settore. Attenzione. La retribuzione da calcolare per verificarne la corrispondenza al precetto di cui all art. 36 Cost. è, sulla scorta dell interpretazione giurisprudenziale oggi prevalente, quella comprensiva della paga base (i c.d. «minimi tabellari»), con conseguente esclusione di altri istituti retributivi contrattuali (Cass. 28 agosto 2000, n. 11293).
Rimane fermo che se il contratto individuale non rispetta i canoni di sufficienza e proporzionalità, la relativa pattuizione è ritenuta nulla per violazione di norma imperativa. Vero è che, a stretto rigore, secondo i principi della nullità parziale (art. 1419 c.c.), la nullità di una clausola essenziale come è quella sulla retribuzione dovrebbe comportare la nullità dell intero contratto, con conseguente applicazione dell art. 2126 c.c. per il periodo in cui il rapporto di lavoro abbia avuto effettiva esecuzione. Cionondimeno, al fine di evitare un tale risultato, indubbiamente paradossale per la parte debole del rapporto, la giurisprudenza ricorre ad una interpretazione estensiva del dettato dell art. 2099, 2 comma, c.c. laddove stabilisce che, in mancanza di norme di contratti collettivi o di accordi individuali tra le parti, la retribuzione è determinata dal giudice.
Per l effetto, il contratto di lavoro non viene meno ma la retribuzione individualmente concordata è sostituita dalla retribuzione minima legale risultante dall art. 36 Cost., che ha appunto carattere di norma impositiva, sia pur generica, del corrispettivo di lavoro. Per quel che concerne la sfera di applicabilità dell art. 36 Cost., va precisato che la norma è invocabile in tutti i rapporti di lavoro subordinato, privati e pubblici, compresi i rapporti di lavoro speciali e i rapporti di lavoro a tempo parziale.
In quest ultima ipotesi la giurisprudenza, dopo qualche iniziale esitazione, ha asserito l estensibilità dei principi costituzionali di «sufficienza» e «proporzionalità», ferma restando la riduzione della retribuzione in proporzione all orario di lavoro previsto nel caso specifico (cfr. da ultimo, Cass. 6 novembre 2000, n. 14433). Questa interpretazione è ora confortata dallo stesso legislatore che all art. 4, 2 comma, lett. b, d.lgs. n. 61/2000, dispone che non solo la retribuzione minima, ma il trattamento in senso lato del lavoratore a tempo parziale «sia riproporzionato in ragione della ridotta entità della prestazione lavorativa in particolare per quanto concerne l importo della retribuzione globale e delle singole componenti di essa».
Il principio di non discriminazione, che in realtà ha un vasto ambito di applicazione per tutti gli aspetti inerenti il rapporto di lavoro, si manifesta, invece, nel divieto di trattamenti retributivi differenziati tra gruppi di lavoratori per specifici motivi discriminatori espressamente individuati (di sesso, età, razza, ecc.). Una più accentuata disciplina è poi contemplata nella ipotesi in cui la discriminazione abbia una matrice sindacale (v. art. 28 e Titolo II della legge n. 300/1970) ovvero sia connessa alla condizione della donna lavoratrice (d.lgs. n. 198/2006).
Da ultimo, il principio di non discriminazione si estrinseca nell obbligo di adottare una parificazione del trattamento dei lavoratori che ricoprono la stessa posizione professionale. Attenzione: secondo l opinione dominante, nel nostro ordinamento non sarebbe configurabile un principio generale e assoluto di parità di trattamento operante nei rapporti interprivati di lavoro e di scambio (ex art. 3 Cost.). Né, secondo la giurisprudenza, un simile principio potrebbe fondarsi sulla base del parametro costituzionale della proporzionalità retributiva sancito dall art. 36 Cost.
Sulla questione specifica è intervenuta la Corte costituzionale che, con sentenza del 9 marzo 1989, n. 103, ha affermato la sussistenza di un diritto del lavoratore all eguale retribuzione a parità di mansioni svolte sulla scorta della normativa internazionale (Convenzione OIL n. 117/1962), ammettendo possibili disparità di trattamento per i lavoratori in posizione di identico valore solo qualora simili differenziazioni risultino giustificate o comunque ragionevoli.
Il citato indirizzo, tuttavia, è stato successivamente fortemente ridimensionato dalla giurisprudenza della Suprema Corte la quale in più occasioni ha chiarito che: «né l art. 36 Cost. che si limita a porre il principio della retribuzione sufficiente e proporzionata all attività svolta né il successivo art. 41 che garantisce la libertà di iniziativa economica privata nei limiti posti dalla legge a tutela della sicurezza, della libertà e della dignità umana possono individuarsi, pur dopo la pronuncia della sentenza interpretativa di rigetto n. 103/1989 della Corte costituzionale, come precetti idonei a fondare un principio di comparazione soggettiva, in base al quale ai lavoratori dipendenti che svolgano identiche mansioni debba attribuirsi la stessa retribuzione o il medesimo inquadramento» (cfr. da ultimo, Cass. 10 aprile 2006, n. 8310).
La questione si è attualmente assestata nel senso di ritenere insussistente il principio di parità retributiva anche in considerazione del fatto che una sua applicazione potrebbe comprimere in maniera eccessiva l autonomia privata individuale nella determinazione dei trattamenti retributivi e delle condizioni di lavoro.
Il concetto di onnicompensività Il concetto di retribuzione globale di fatto, introdotto dalla contrattazione collettiva, ha ottenuto un riconoscimento normativo di significativa rilevanza per effetto della legge n. 108/1990 che, nel riformulare l art. 18 della legge n. 300/1970, ha ancorato alla retribuzione globale di fatto il criterio di liquidazione del risarcimento del danno, conseguente a licenziamento illegittimo. Per retribuzione globale di fatto deve intendersi il complesso degli emolumenti corrisposti a carattere continuativo ed in particolare oltre a quelli che integrano la retribuzione ordinaria (stabilita a livello nazionale dalla contrattazione collettiva) anche quelle ulteriori componenti definite dalla contrattazione aziendale ed individuale.
Il concetto di onnicompensività Dal canto suo, la giurisprudenza ha dapprima elaborato il c.d. concetto unitario o onnicomprensivo di retribuzione alla stregua del quale si porrebbero alcuni caratteri strutturali che sarebbero propri della retribuzione in modo tendenzialmente costante. Si tratta, più precisamente: della determinatezza, richiesta dagli artt. 2099 e 1346 c.c. per definire la quantità in misura sia fissa sia variabile; della obbligatorietà, che escluderebbe le prestazioni eventuali rientranti nella discrezionalità o liberalità del datore; della corrispettività, nel senso non di corrispondenza con specifiche prestazioni di lavoro ma di generica riconducibilità causale al rapporto di lavoro; e infine della continuità, come corresponsione ricorrente nel tempo con carattere di regolarità, anche per compensi non configurati ex ante come stabili, ma erogati di fatto in modo continuativo.
Il concetto di onnicompensività Questi caratteri sono stati utilizzati in modo unitario e combinato per comprendere nella retribuzione grosso modo tutti i compensi erogati dal datore di lavoro in dipendenza del rapporto con carattere necessario e ricorrente nel tempo, con la sola esclusione dei rimborsi spese in senso stretto (principio di onnicomprensività). Vero è che le critiche mosse a tale esegesi, per lo più fondate sulle implicazioni derivanti da un indifferenziato allargamento del concetto di retribuzione, hanno indotto la stessa giurisprudenza a operare una revisione progressiva del concetto di onnicomprensività della retribuzione, fino a disconoscerne la configurabilità. Si è quindi convenuto che l onnicomprensività non costituisce un principio dell ordinamento giuridico, risultando adottata solo in alcune ipotesi particolari, legislativamente tipizzate, mentre in ogni altro caso rimane affidata all autonomia collettiva, e nell ambito di questa all autonomia individuale, la definizione della misura delle modalità e dei termini di erogazione della retribuzione (Cass. 4 settembre 2003, n. 12920).
Il concetto di onnicompensività È dunque un problema di interpretazione della volontà contrattuale, collettiva e individuale, accertare il significato delle espressioni utilizzate, quali «retribuzione normale», «retribuzione globale di fatto», «normale retribuzione di fatto giornaliera» ed altre espressioni affini. Pertanto, l individuazione dell ammontare della retribuzione si risolve in un problema interpretativo delle formule adoperate dal legislatore o dalle clausole dei contratti collettivi (Cass. 6 ottobre 2005, n. 19425).