Corte di Cassazione, sentenza n. 2820 dell'11 febbraio 2005 Svolgimento del processo - Con ricorso presentato il 21 luglio 1990 la sig.ra A.N., che dichiarava di agire anche in nome e per conto dei figli minori Al.C., A.C. ed E.C., insieme ai propri figli maggiorenni D.C., M.M.C. e P.C., che agivano ciascuno in proprio nome e conto, impugnavano innanzi alla Com- missione tributaria di I Grado di Milano il "processo verbale di constatazione e contestuale avviso di irrogazione sanzioni e liquidazione dell'imposta" - loro notificato in data 25 maggio 1990, quali eredi del rispettivo marito e padre sig. M.C. deceduto il 15 maggio 1989, già contitolare con i di lui fratelli della società Fratelli C. SdF - con il quale l'ufficio Iva di Milano contestava il mancato versa-mento dell'imposta dichiarata per l'anno 1985 in L. 63.234.000, irrogando le relative sanzioni. A fondamento del proprio ricorso, i ricorrenti deducevano che la società Fratelli C. S.d.F. era stata dichiarata fallita, che essi avevano rinunciato all'eredità di M. C., il quale peraltro non aveva loro lasciato alcun bene, con atto per notaio V.E. di Monza del 6 novembre 1989. La Commissione adita, innanzi alla quale l'ufficio non aveva svolto alcuna attività difensiva, con sentenza n. 431/36/91 del 19 dicembre 1991, depositata il 13 gennaio 1992, accoglieva il ricorso. La sentenza veniva tempestivamente impugnata dall'ufficio, eccependo, tra l'altro, "la nullità dell'atto di rinuncia all'eredità per mancata osservanza della formalità prevista dall'art. 52 delle disposizioni attuative del codice civile". Gli appellati non si costituivano in giudizio. La Commissione tributaria regionale di Milano, con la sentenza in epigrafe, accoglieva l'appello, ritenendo fondata aia l'eccezione relativa alla nullità della notifica dell'atto contestato, dato che il fallimento era chiuso alla data di esecuzione di quest'ultima, sia l'eccezione relativa alla omessa inserzione della rinuncia all'eredità nel registro di cui all'art. 52 delle disposizioni attuative del codice civile, omissione il cui effetto era quello di rendere inefficace la rinuncia nei confronti dell'amministrazione finanziaria. Avverso tale sentenza i sig. D.C., M.M.C., P.C., A.C. ed Al.C., nonché A.N., anche per conto della figlia minore E.C., con atto notificato il 1 febbraio 1999, propongono ricorso per cassazione con due motivi. L'Amministrazione finanziaria non ha notificato controricorso, limitandosi a depositare un "atto di costituzione in giudizio", senza formulare alcuna richiesta specifica. I ricorrenti hanno depositato memoria ex art. 378 del codice di procedura civile con la quale oltre a ribadire le posizioni espresse nel ricorso chiedono in via subordinata l'applicazione dello ius superveniens costituito dall'art. 8 del D.Lgs. n. 472/1997. Motivi della decisione - Con il primo motivo di ricorso, i ricorrenti denunciano "violazione e falsa applicazione di norme di diritto e carenza di legittimazione passiva", in quanto erroneamente la sentenza impugnata avrebbe dato decisivo rilievo alla (mera) affermazione dell'appellante ufficio Iva circa il fatto (non vero) che la rinuncia all'eredità prodotta dagli odierni ricorrenti in primo grado non era stata inserita nel registro delle successioni di cui all'art. 52 delle disposizioni attuative del codice civile, mentre l'ufficio Iva, secondo la regola generale di cui all'art. 2697 del codice civile avrebbe dovuto dare la prova positiva dell'avvenuta accettazione dell'eredità, da parte dei supposti eredi: in tal modo la sentenza impugnata risulta fondata su una inammissibile inversione dell'onere della prova e sulla rilevanza attribuita all'altrettanto inammissibile pretesa che non fosse l'ufficio a dare prova della mancata inserzione della rinuncia all'eredità nel registro delle successioni, ma dovessero essere gli odierni ricorrenti a dare prova della avvenuta inserzione in quel registro. Con la conseguenza, che non essendosi gli odierni ricorrenti costituiti nel giudizio di appello, la loro contumacia è stata interpretata dal giudice di merito come "non contestazione" della pretesa mancata inserzione dell'atto di rinuncia nel registro delle successioni, e, quindi, come "prova" che effettivamente tale inserzione non vi fosse stata. Il motivo è fondato. Secondo l'orientamento, che può dirsi consolidato, di questa Suprema Corte "la delazione che segue l'apertura della successione, pur rappresentandone un presupposto, non è di per
sé sola sufficiente all'acquisto della qualità di erede, perché a tale effetto è necessaria anche, da parte del chiamato, l'accettazione mediante aditio oppure per effetto di pro herede gestio oppure per la ricorrenza delle condizioni di cui all'art. 485 del codice civile" (Cass. n. 6479/2002: n. 11634/1991; n. 1885/1988; n. 2489/1987; n. 4520/1984; n. 125/1983). In considerazione di ciò spetta a colui che agisca in giudizio nei confronti del preteso erede per debiti del de cuius, l'onere di provare, in applicazione del principio generale contenuto nell'art. 2697 del codice civile, "l'assunzione da parte del convenuto della qualità di erede, qualità che non può desumersi dalla mera chiamata all'eredità, non essendo prevista alcuna presunzione in tal senso, ma consegue solo all'accettazione dell'eredità, espressa o tacita, la cui ricorrenza rappresenta un elemento costitutivo del diritto azionato nei confronti del soggetto evocato in giudizio nella sua qualità di erede" (Cass. n. 6479/2002; n. 2849/1992; n. 1885/1988; n. 2489/1987; n. 5105/1985; n. 4520/1984; n. 125/1983). Peraltro l'onere di provare che vi sia stata in concreto l'accettazione della eredità non comporta "una prova impossibile in conseguenza della previsione, per detta accettazione, del termine di dieci anni e della forma espressa o tacita, in quanto l'art. 481 del codice civile consente a chiunque vi abbia interesse di acquisire in qualsiasi momento la certezza circa l'accettazione o meno della eredità da parte del chiamato" (Cass. n. 2489/1987). Rispetto a questo chiaro principio, sembrerebbe fare eccezione la disciplina relativa all'imposta di successione nel prevedere (art. 5 del D.P.R. n. 637/1972) una rilevanza della mera chiamata all'eredità ai fini della individuazione del soggetto passivo (cfr. Cass. n. 11320/1995), eccezione che sarebbe stata, tuttavia, superata con l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 346/1990. Nella nuova disciplina, infatti, nonostante nell'art. 5, sia stata ripetuta la formula dell'art. 5 del D.P.R. n. 637/1972 e nonostante l'art. 7, comma 4, esplicitamente equipari i chiamati agli eredi stabilendo che "fino a quando l'eredità non è stata accettata, o non è stata accettata da tutti i chiamati, l'imposta è determinata considerando come eredi i chiamati che non vi hanno rinunziato", è chiarito dall'art. 36, comma 3, che "fino a quando l'eredità non sia stata accettata, o non sia stata accettata da tutti i chiamati, i chiamati all'eredità, o quelli che non hanno ancora accettato, e gli altri soggetti obbligati alla dichiarazione della successione, esclusi i legatari, rispondono solidalmente dell'imposta nel limite del valore dei beni ereditari rispettivamente posseduti". Il senso del cambiamento è chiaramente espresso anche dalla circolare ministeriale n. 17 del 15 marzo 1991, nella quale, proprio commentando il citato art. 36, si afferma che "fino all'accettazione dell'eredità, chi non è in possesso di beni ereditari non deve rispondere dell'imposta e chi ne è possessore non deve risponderne oltre il limite del valore dei beni posseduti". La riforma supera le conseguenze ritenute inique della precedente legislazione, vigente la quale il chiamato all'eredità per questo solo fatto assumeva ai fini dell'imposta di successione la qualità di soggetto passivo: ma anche nella vigenza del D.P.R. n. 637/1972 solo l'erede (cioè il chiamato all'eredità che abbia poi accettato) è l'obbligato in via definitiva al pagamento dell'imposta di successione, mentre il chiamato all'eredità può considerarsi responsabile dell'imposta solo in via provvisoria, come è possibile argomentare anche dalla disposizione di cui all'art. 47, comma 3, D.P.R. n. 637/1972, la quale prevede che nell'ipotesi in cui sia mutata la devoluzione dell'eredità l'imposta pagata debba essere rimborsata. Ma se con riferimento all'applicazione dell'imposta di successione il sistema normativo sembra dare prevalenza - sia pur provvisoria - alla delazione sull'accettazione, è più difficile pensare che tale prevalenza valga anche quando non dell'imposta di successione si tratti, ma, come nel caso di specie, di debiti del de cuius, sia pure di natura tributaria: in questo caso l'accettazione dell'eredità deve tornare ad essere una condizione imprescindibile affinché possa affermarsi l'obbligazione del chiamato all'eredità a rispondere dei debiti ereditari. È certo comunque che non può ritenersi obbligato a rispondere né dei debiti del de cuius né dell'imposta di successione (nemmeno a titolo provvisorio) il chiamato che abbia rinunciato all'eredità ai sensi dell'art. 519 del codice civile: di tanto è convinta la stessa Amministrazione finanziaria,
tant'è che la Risoluzione ministeriale 5 novembre 1980, prot. 3801 afferma esplicitamente che "va ritenuta illegittima la notificazione degli atti dell'accertamento al chiamato all'eredità che abbia rinunciato all'eredità stessa non essendosi verificata fra i due soggetti "de cuius" e "chiamato all'eredità" - quella confusione patrimoniale che fa sorgere in capo al secondo la legittimazione passiva per le obbligazioni riferibili al primo". La questione che sembra aver costituito materia di discussione nel giudizio de quo è il valore da attribuire, nel contesto delle formalità previste dall'art. 519 del codice civile, alla inserzione dell'atto di rinuncia all'eredità nel registro delle successioni. Sul punto non esiste, né in dottrina né in giurisprudenza, concordanza di opinioni, alcuni ritenendo che l'inserzione nel registro delle successioni sia una formalità essenziale per l'esistenza di una valida rinuncia (così Corte dei Conti 3 dicembre 1940; Cass. 26 febbraio 1950; Corte Conti 3 novembre 1955, n. 50), altri che sia una forma di pubblicità la cui mancanza non determina l'invalidità della rinuncia, ma rende quest'ultima non opponibile ai terzi, nel senso che la mancanza di pubblicità farebbe considerare il rinunziante come ancora obbligato verso i terzi per i beni ereditari (in questo senso, Cass. 2 marzo 1950). Non manca una posizione più radicale, avanzata da una autorevole dottrina, la quale attribuisce all'inserzione della rinunzia nel registro delle successioni una funzione di mera "pubblicità-notizia", negando che tale formalità possa avere natura costitutiva o integrativa dell'atto di rinunzia e costituire requisito necessario per l'opponibìlità della rinunzia ai terzi. L'opinione che l'inserzione della rinunzia nel registro delle successioni sia condizione (non per la validità ma) per l'efficacia della rinunzia stessa rispetto ai terzi, sembra esser stata ribadita più di recente, seppur non a livello di enunciazione di principio, dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte con la sentenza n. 11634/1991, nella quale nello statuire, alla luce dell'art. 485 del codice civile, l'erroneità "dell'affermazione del ricorrente secondo cui gli effetti giuridici della rinunzia all'eredità sarebbero subordinati al successivo compimento dell'inventario "nel termine prescritto"", rileva che "tale formalità, peraltro logicamente e giuridicamente incompatibile con l'essenza e le finalità proprie del negozio di dismissione del diritto di eredità, non è prevista dalla norma di cui all'art. 519 del codice civile, a termini della quale uniche condizioni per la validità e l'efficacia (rispetto ai terzi) della rinunzia all'eredità, sono la sua forma solenne (dichiarazione resa davanti ad un notaio od al cancelliere della pretura del mandamento in cui ai è aperta la successione) e la sua inserzione nel registro delle successioni". Peraltro, anche nella prospettiva favorevole a vedere l'inserzione nel registro come condizione di validità della rinunzia, è stato tuttavia sostenuto che non con-seguendo alla nullità della rinunzia l'accettazione dell'eredità, nulla vieti all'erede irritualmente rinunziante che non sia nel possesso dei beni ereditari, di rinnovare la rinunzia qualora non abbia già compiuto atti che gli precludano la facoltà di rinunziare (in questo senso Casa. 15 gennaio 1941). Si potrebbe, tuttavia, argomentare sulla base della disciplina di cui al D.Lgs. n. 346/1990, che ai fini dell'imposta di successione l'atto di rinunzia sia, in quanto tale, idoneo ad escludere il chiamato dagli obblighi relativi alla dichiarazione: l'art. 28, comma 5 stabilisce, infatti che "i chiamati all'eredità e i legatari sono esonerati dall'obbligo della dichiarazione se, anteriormente alla scadenza del termine stabilito nell'art. 31, hanno rinunziato all'eredità o al legato o, non essendo nel possesso di beni ereditari, hanno chiesto la nomina di un curatore dell'eredità a norma dell'art. 528, comma 1, del codice civile, e ne hanno informato per raccomandata l'ufficio del registro, allegando copia autentica della dichiarazione di rinunzia all'eredità o copia dell'istanza di nomina autenticata dal cancelliere della pretura". La copia autentica dell'atto di rinuncia, portata a conoscenza del 'ufficio a mezzo raccomandata, è titolo sufficiente, senza che occorra la prova dell'inserimento nel registro delle successioni, per escludere per il chiamato (che abbia rinunciato) all'eredità gli obblighi che su di lui graverebbero secondo la normativa sull'imposta di successione. Il fatto che l'art. 28, comma 5, D.Lgs. n. 346/1990 non abbia modificato l'art. 519 del codice civile nella parte in cui tale ultima disposizione si riferisce all'inserimento dell'atto di rinunzia nel registro delle successioni può costituire un convincente indizio che l'inserimento de
guo non costituisce una formalità richiesta ad substantiam per la validità (ed efficacia) della rinunzia: si tratta di una forma di pubblicità, che, per quanto concerne l'imposta di successione, può essere supplita, a norma dell'art. 28, comma 5, D.Lgs. n. 346/1990 da altre forme idonee a portare a conoscenza dell'ufficio l'esistenza della rinunzia. Peraltro anche nella previgente disciplina era prevista, sia pure impropriamente, una analoga forma di pubblicità dell'atto di rinunzia all'interno del sistema dell'imposta dì. successione, essendo stabilito che tale atto dovesse essere allegato alla dichiarazione, all'evidente scopo di escludere l'obbligo del chiamato che avesse rinunciato a rispondere dell'imposta. Questa specialità di forme di pubblicità diverse da quella stabilita dall'art. 519 del codice civile può trovare una sua ratio proprio nella situazione eccezionale nella quale viene (e molto di più veniva) a trovarsi il chiamato all'eredità ai fini dell'imposta di successione, nel cui sistema normativo prevale (ora limitatamente, ma per il passato maggiormente) la delazione sull'accettazione. In realtà, a prescindere dall'opinione che si possa a-vere in ordine alle conseguenze derivanti dalla mancata inserzione della rinunzia nel registro delle successioni (inserzione che, peraltro, non sembra soggetta ad un termine perentorio entro il quale debba esser eseguita), resta il fatto che debba comunque sussistere il dato obiettivo che la inserzione nel registro delle successioni dell'atto di rinunzia all'eredità di cui si tratti effettivamente manchi. Il registro delle successioni è un registro pubblico che può essere esaminato da chiunque ne faccia domanda, il quale può ottenere anche estratti e certificazioni relativi a quanto risulta dal registro stesso (art. 53 disposizioni attuative del codice civile): è la stessa Amministrazione finanziaria a sollecitare i propri uffici alla consultazione del registro de quo, prevedendo, sia pure al fine di individuare sollecitamente possibili eredità giacenti, l'opportunità di istituire presso gli uffici del territorio appositi servizi per l'acquisizione dei dati conservati nel predetto registro per venire a conoscenza di "dati relativi a dichiarazioni di accettazione dell'eredità con beneficio di inventario, a dichiarazioni di rinunzia all'eredità e provvedimenti di nomina dei curatori delle eredità giacenti, nonché a atti relativi alla curatela" (Circolare Min. finanze, Dipartimento del Territorio, n. 22/T dell'11 febbraio 2000). Il fatto che l'atto di rinunzia debba essere inserito (a fini evidenti di pubblicità) in un pubblico registro, se comporta un onere di curarne l'inserimento da parte del rinunziante, comporta anche un onere di conoscenza (mediante la consultazione del registro in cui l'atto è inserito) da parte dei terzi. In questa prospettiva solo l'effettivo mancato inserimento dell'atto nel registro - che nel caso di specie non è provato, ma è solo affermato dall'ufficio - può determinare le conseguenze (che sì ritengano) connesse al difetto di inserzione, ed è, quindi, questa circostanza obiettiva che deve costituire oggetto dell'accertamento nel giudizio nel quale sia stata sollevata, di fronte alla produzione di atto di rinunzia all'eredità, l'eccezione relativa al mancato inserimento di quest'ultimo nel registro delle successioni: eccezione il cui fondamento deve essere provato dalla parte che l'abbia sollevata. Trattandosi di atto che deve essere inserito in un pubblico registro, la prova del mancato inserimento può essere data solo mediante l'acquisizione, anche d'ufficio, di una certificazione della cancelleria del tribunale competente attestante che l'atto de quo non risulti dal registro delle successioni. Ma a tutto voler concedere, quand'anche fosse positiva-mente provato che l'atto di rinunzia non sia stato (effettivamente) inserito nel registro delle successioni (e nel caso di specie non lo è stato, anzi i ricorrenti contestano decisamente la mancata inserzione dell'atto di rinuncia, offrendone qui, sia pur inammissibilmente, documentale dimostrazione), ciò non potrebbe comportare per il chiamato che abbia rinunciato irritualmente all'eredità una posizione diversa da quella in cui si trovi il chiamato che non abbia ancora accettato l'eredità, dato che in ogni caso l'eventuale inefficacia della rinunzia rispetto ai terzi non può valere di per sé come accettazione (in difetto delle condizioni specifiche che il codice richiede allo scopo): resterebbe comunque la necessità per il creditore del de cuius di provare l'accettazione dell'eredità da parte del chiamato per poterne esigere l'adempimento dell'obbligazione del suo dante causa, prova che, nel caso di specie, non è stata data da parte dell'ufficio che ne aveva l'onere.
Pertanto deve essere accolto il primo motivo di ricorso, nel cui accoglimento resta assorbito il secondo motivo. La sentenza impugnata deve essere cassata e, ricorrendone le condizioni, la causa può essere decisa nel merito con l'accoglimento del ricorso introduttivo e il conseguente annullamento dell'atto impositivo. Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese dell'intero giudizio. P.Q.M. - la Corte suprema di cassazione accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso introduttivo. Compensa le spese dell'intero giudizio.