Donne: quali diritti?
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1 Donne: quali diritti? Avv. Simona Molisso A partire dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo del 1948 fino al recente Protocollo aggiuntivo alla Convenzione per l eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, i diritti delle donne sono stato oggetti di un lento processo di espansione e ridefinizione. Sia la Dichiarazione Universale del 1948 che i successivi patti attuativi sui diritti civili e politici e su quelli economici sociali e culturali, sancendo il divieto di discriminazione di sesso e l uguaglianza di diritti individuali di uomini e donne, formulano i diritti in modo quanto più possibile neutro, sì che le violazioni possano essere parimenti perseguite nel caso che la vittima sia donna o uomo. Successivamente la Convenzione per l eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Convention for the Elimination of all forms of Discrimination Against Women- Cedaw) approvata nel 1979 ha costituito la più estesa carta mondiale dei diritti delle donne e stabilito gli standard di uguaglianza a cui si riferiscono le donne del mondo. Identificando le discriminazioni più evidenti in tutte le principali aree di diritti civili economici sociali e politici, essa impegna gli Stati membri ad eliminarle e a promuovere, in aggiunta, l uguaglianza di opportunità attraverso misure positive. Nonostante sia una delle Convenzioni più ratificate dagli Stati (179 ratifiche), le riserve, le inadempienze e le violazioni sono così generalizzate che s e reso necessario aggiungervi un Protocollo opzionale, che, dalla sua entrata in vigore nel 2001, consente ad associazioni non governative e ad individui di denunciare le violazioni esistenti nei diversi stati alla apposita Commissione, la quale è, a sua volta, abilitata a condurre indagini sul caso e a formulare raccomandazioni al governo responsabile. La Costituzione Italiana all art. 3 sancisce il principio dell uguaglianza sostanziale di tutti i cittadini senza distinzione di sesso e l uguaglianza giuridica e morale dei coniugi nel matrimonio. In Italia la modifica del diritto di famiglia del 1975 inizia un processo di evoluzione positivo con l introduzione della parità giuridica tra i coniugi: la patria potestà diventa potestà
2 genitoriale. Di fatto viene meno la possibilità da parte del marito di utilizzare mezzi di correzione, talvolta violenti, nei confronti della moglie e dei figli. Nel 1981 scompare il delitto d onore, che consentiva sconti di pena al marito tradito o presunto tradito e con l abrogazione dell art. 544 del Codice Rocco scompare il matrimonio riparatore, susseguente ad uno stupro, con l effetto di estinguere il reato Tale articolo viene abrogato con l art.1 della Legge 442/1981. Fino alla Conferenza di Vienna del 1993, i diritti umani garantiti dalla Dichiarazione Universale e dalle principali Convenzioni Onu sono stati, tuttavia, interpretati in modo tale che le violazioni dei diritti delle donne che avvengono in famiglia tra "privati" individui sono state rese invisibili e considerate come al di là della supervisione dello stato. Dopo la conferenza mondiale sulle donne nel 1995, il Governo Italiano in adeguamento ad una direttiva del 1997, propugnava una politica di prevenzione e contrasto di tutte le forme di violenza fisica sessuale e psicologica contro le donne, a partire dai maltrattamenti familiari al traffico di donne e bambini per sfruttamento sessuale. Un cambiamento fondamentale nella cultura giuridica italiana si ha con la Legge 66 del 1996: il concetto di violenza sessuale da reato contro la morale e il buon costume si evolve in reato contro la persona e la libertà individuale. La legge 15 febbraio del 1996 n. 66, oltre a modificare sostanzialmente le ipotesi incriminatici in materia, sposta i delitti sessuali all interno del codice penale dagli artt. 519 ss. agli artt. da 609 bis a 609 decies, e dal libro nono riservato ai delitti contro la moralità pubblica e il buon costume al libro secondo dedicato ai delitti contro la persona. La legge 18 marzo 2001 n. 149, benché volta principalmente a modificare la disciplina dell'adozione e dell'affidamento dei minori, ha introdotto anche alcune modifiche al titolo VIII del libro I del codice civile. Risolvendo uno spinoso dibattito, la legge ha chiaramente dato al giudice il potere di emettere un ordine di allontanamento del genitore violento dalla casa familiare. La ratio della modifica apportata dalla legge è quella di evitare la condizione di peregrinazione da parte di tutto il restante nucleo familiare, quando vi sia invece la possibilità, con il semplice allontanamento di colui che ha posto in essere i fatti pregiudizievoli, di mantenere unita la famiglia nel luogo dove
3 essa ha i propri interessi (ad esempio il luogo di lavoro per un coniuge), le proprie relazioni (ad esempio la scuola e gli amici dei minori) e gli affetti indispensabili per mantenere un contatto positivo con la realtà. Si consideri, infine, che questo tipo di provvedimento, oltre ad evitare il disagio per tutti i componenti della famiglia, comporta anche per la pubblica amministrazione un minor onere economico, non dovendo il servizio competente ricorrere ad idonea struttura/comunità di tipo familiare per accogliere il coniuge maltrattato ed i figli minori. L'esplicita previsione normativa dell'allontanamento del genitore è di grandissimo valore: infatti, più volte si era cercato di sostenere che l'art. 333 c.c. potesse includere, tra i provvedimenti convenienti che il giudice poteva emettere a tutela del minore, non solo l'ordine di allontanamento del minore vittima di abuso, ma anche l'ordine di allontanamento del genitore violento. Nonostante ciò, la giurisprudenza si era sempre mostrata contraria a qualsiasi interpretazione estensiva, escludendo appunto che l'art. 333 c.c. potesse includere forme di allontanamento coattivo del genitore cui fosse addebitabile la situazione di pregiudizio per il figlio. Al contrario, in una fattispecie in cui i coniugi non agivano per la separazione personale, il giudice della potestà genitoriale (che non può applicare le norme sull'assegnazione della casa coniugale, mancandone i presupposti giuridici) poteva solo ritenere il grave pregiudizio inflitto al minore dal protrarsi della sua convivenza con i genitori e disporne l'allontanamento affidandolo ai servizi sociali per il più idoneo collocamento, attribuendo però al genitore che paia sufficientemente adeguato la facoltà di continuare la convivenza con i figli minori nel nuovo ambiente. (...). Secondo dottrina e giurisprudenza, il giudice minorile era legittimato ad adottare, qualora ne ravvisava gli estremi, tutti i provvedimenti più opportuni nell'interesse del minore, così limitando e comprimendo (fino ad escluderne l'esercizio) la potestà genitoriale. Quel giudice, peraltro, non aveva il titolo per incidere su posizioni di diritto soggettivo del genitore, non già in quanto tale, bensì come cittadino. L'art. 16 della Carta Costituzionale riconosce e garantisce ad ognuno, quale espressione di fondamentali principi di libertà, il diritto di soggiorno e di dimora in qualsiasi parte del territorio nazionale. Tale diritto può essere limitato solo per motivi e finalità che trascendono la situazione personale dell'interessato, in funzione della tutela di interessi collettivi, nei soli casi e con le modalità previste dall'ordinamento giuridico, in base alla riserva di legge. Pertanto in mancanza di una esplicita disposizione che legittimi espressamente
4 il Tribunale minorile a disporre l'allontanamento del genitore dalla casa familiare, deve escludersi l'adottabilità di un provvedimento di tale contenuto. Come si può vedere, nonostante la necessità di dare un'interpretazione estensiva al contenuto dei provvedimenti ex art. 333 c.c., dottrina e giurisprudenza erano concordi nel non ritenere possibile l'allontanamento del genitore dalla casa familiare. L'intervento del legislatore in proposito, tramite le modifiche introdotte con la legge 149/2001, è stato tanto utile quanto chiarificatore. Nel 2001 con la legge 154 Misure contro la violenza nelle relazioni familiari viene introdotta la misura dell allontanamento del familiare violento e misure di protezione sociale per le donne che hanno subito violenza. Davanti a condotte civilmente rilevanti sono previste delle misure dette ordini di protezione contro gli abusi familiari (art. 342 bis c.c. e l. 2/4/2001 n. 154): si può richiedere un ordine di protezione presentando ricorso al Tribunale Civile di residenza o domicilio dell'istante quando la condotta del coniuge o compagno o altro componente del nucleo familiare adulto sia causa di grave pregiudizio all'integrità psicofisica o alla libertà dell'altro coniuge o convivente o membro del nucleo familiare, sempre che il fatto non costituisca reato perseguibile d'ufficio (nel qual caso sarà competente il giudice penale) e non sia stato presentato ricorso per separazione o divorzio (casi in cui è competente il giudice della separazione o del divorzio). Nel caso in cui vittime della violenza siano i figli minori, in ragione del tipo di diritto tutelato la competenza è attribuita al giudice penale e/o al Tribunale per i minorenni. In pratica il giudice ordina, con decreto, la cessazione della condotta pregiudizievole, stessa; dispone l'allontanamento dalla casa familiare della persona maltrattante, prescrivendole, inoltre, di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dal richiedente ed in particolare al luogo di lavoro, al domicilio della famiglia di origine, al domicilio di altri prossimi congiunti o di altre persone ed in prossimità dei luoghi di istruzione dei figli della coppia, salvo che questi non debba frequentare gli stessi luoghi per esigenze lavorative. Il giudice può anche disporre l'intervento dei servizi sociali territoriali o incaricare un centro di mediazione familiare e il pagamento periodico di un assegno a favore delle persone conviventi, rimaste prive di mezzi adeguati. La durata dell'ordine di protezione non può superare i sei mesi ma può essere prorogata, su
5 istanza di parte, se ricorrono gravi motivi per il tempo strettamente indispensabile. I procedimenti relativi agli ordini di protezione, sono esenti dall'imposta di bollo e da ogni altra tassa, nonché dall'obbligo della richiesta di registrazione (art. 7 l. 2/4/2001, n. 154). La Legge n. 38 del 23 aprile 2009, pubblicata su G.U. n. 95 del 24 aprile 2009 prevede pene più severe contro i reati di violenza sessuale. Vengono inasprite le pene contro la violenza sessuale e apportate modifiche al codice penale in modo da poter applicare la condanna dell ergastolo in caso di omicidio effettuato in occasione di violenza sessuale, atti sessuali con minori o di violenza sessuale di gruppo, nonché da chi compie atti persecutori. Tale Legge prevede la custodia cautelare obbligatoria per un maggior numero di reati tra i quali violenza sessuale, atti sessuali con minorenne e violenza sessuale di gruppo, "salvo che ricorrano le circostanze attenuanti dagli stessi contemplate". È previsto anche l arresto obbligatorio in flagranza per la violenza sessuale (esclusi i casi di minore gravità) e la violenza sessuale di gruppo. Diventa inoltre, più difficile l accesso ai benefici penitenziari quali le misure alternative, permessi premio e l assegnazione al lavoro esterno per chi è condannato per alcuni reati a sfondo sessuale. Viene concesso il gratuito patrocinio alle vittime di violenza sessuale, atti sessuali con minorenne, violenza sessuale di gruppo anche in deroga ai limiti di reddito previsti. La Legge 38/2009, inoltre, introduce nuove forme di tutela per l omofobia e a una nuova figura di reato, lo stalking. Lo stalking ricomprende le molestie e tutte quelle condotte insistenti ed ossessive che mirano a ridurre la vittima in uno stato di soggezione psicologica, con ansia, paura, per costringerla ad accettare un contatto intrusivo nella propria vita privata, con conseguenze gravi di diverso tipo. In genere la persecuzione si realizza con la combinazione di più azioni moleste
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