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1 YEATS D AMICO HOLAN UNGARETTI MONTALE DE ANGELIS RIGONI BELLOSI MANETTI LEONARDO A MILANO BROODTHAERS A PARIGI di FRANCESCO FAVA Sebbene non sia uno scrittore che si lasci troppo guidare dall istinto, Ricardo Piglia dà un saggio della ostinata e minuziosa ricerca che anima i suoi racconti brevi già nella descrizione del lavoro di cesello praticata dall orefice protagonista del racconto con cui apre la raccolta L invasione, dove si parla di un uomo alla ricerca di un enigma microscopico, inseguito dentro il buio di una galleria sotterranea: «Sembrava un minatore che lavorava in una galleria sotterranea di un universo in miniatura. L intaglio è un lavoro che si fa senza quasi vedere niente, lasciandosi guidare dall istinto, mentre si cerca la rosa microscopica sul bordo della pietra, con il polso morbido e leggero». Finora Piglia è stato conosciuto solo come romanziere: la traduzione, a partire dal 2008, delle opere che lo hanno reso una voce imprescindibile delle letterature di lingua spagnola: Respirazione artificiale, La città assente, Soldi bruciati, Bersaglio notturno hanno rappresentato una scoperta tardiva per il lettore italiano, visto che Respirazione artificiale, il suo capolavoro, è del Del resto, Piglia condivide il destino degli altri due principali autori argentini della generazione successiva a Borges e a Cortázar, César Aira e Juan José Saer, a cui solo negli ultimi anni i cataloghi dei nostri editori hanno dedicato attenzione. Sebbene L invasione sia il primo libro di Ricardo Piglia, pubblicato già nel 1967, solo in parte è pensabile come un opera giovanile, perché l autore stesso ne ha curato a quarant anni esatti di distanza una nuova versione, rimaneggiando i testi in modo significativo e inserendovi alcuni racconti della stessa epoca, precedentemente apparsi solo su rivista. È dunque dal libro datato 2007 che è stata realizzata l edizione italiana proposta oggi da Sur (nella traduzione, non sempre impeccabile, di Enrico Leon, pp. 187, e 15,00). Al duplice statuto della sua redazione, questa raccolta d esordio in parte riscritta nella piena maturità, deve il paradossale effetto che sempre generano i romanzi dello scrittore argentino: più che rivelare le potenzialità di un grande autore in nuce, oggi i racconti assumono quasi l aria di una summa dei temi, delle modalità narrative e addirittura dei personaggi che caratterizzeranno la narrativa di Ricardo Piglia lungo tutta la sua traiettoria, uniti a una maturità di scrittura assolutamente sorprendente. Tra i temi ricorrenti e riconoscibili in questi quindici racconti, c è innanzitutto la dialettica tra Buenos Aires e l interno del paese. I protagonisti sono spesso appena arrivati nella capitale dalla provincia, oppure l hanno fatto in passato per poi ritornare sui propri passi, o ancora, oscillano tra i due spazi, comparandoli o facendosi riflesso di tensioni storiche e sociali più o meno esplicite. Una questione, quella del rapporto tra ciudad e campo, tra metropoli e provincia, che è cruciale non solo in tutta la storia argentina, ma anche nella biografia dello scrittore: nato nel 1941 ad Adrogué, a qualche decina di chilometri da Buenos Aires, si trasferì a Mar del Plata nel 1955 in conseguenza della caduta di Perón, del quale il padre era sostenitore. Arrivò nella capitale dieci anni dopo, per ripartirne nel Sarebbe poi vissuto a lungo negli Stati Uniti, insegnando a Harvard e a Princeton, prima di tornare definitivamente in Argentina nel L intersezione tra storia nazionale e vicende private è un tratto del Piglia romanziere che si ritrova ampiamente scandagliato anche in alcuni suoi racconti, concentrati su momenti fondativi della storia argentina: succede, per esempio, nello splendido «Gli atti della sentenza», o per quanto riguarda gli anni del peronismo, nel fulminante «Riparazione», il cui protagonista approfitta del caos generato dalle violenze del giugno del 1955 per regolare i conti con un ex-fidanzata. Del resto, per molti versi le storie dell Invasione gazione sia un delitto, un evento storico ruotano spesso proprio intorno a un regolamento di conti, perlopiù, interiore. Talzione su un amore appena concluso tor- o la fine di un amore. E se la concentravolta invece, quando dalle pieghe della na a echeggiare in vari racconti, più in generale la caratterizzazione dei personag- Storia lo sguardo si sposta verso i suoi margini, la resa dei conti si fa letterale. gi si affida a un qualche loro tratto ossessivo. Ossessivi, solitari, e perdenti, i perso- Margini urbani o della legalità, come nel paio di racconti di ambientazione carceraria che sembrano anticipare l incursiona Garro «avvolti nella sconfitta»: vinti naggi di Piglia sono come direbbe Elene nei territori del noir di Soldi bruciati. in partenza oppure seguiti dal narratore, Al noir Piglia deve molto, non soltanto per un tratto di strada, lungo la via del fallimento. In sottofondo, aleggiano le at- perché a cavallo tra gli anni 60 e 70 diresse la «Serie Negra», gloriosa collana di genere poliziesco, ma soprattutto perché le Lungo questa galleria di solitarie figure mosfere di Juan Carlos Onetti. sue narrazioni brevi si sviluppano quasi maschili, e del loro infelice vagheggiamento di figure femminili ormai perdute, sempre come un indagine, indipendentemente dal fatto che l oggetto dell investi- spicca il battesimo del personaggio di Emilio Renzi, scrittore e alter ego che sarà protagonista in quasi tutti i romanzi di Piglia (il cui nome completo è in effetti per l anagrafe Ricardo Emilio Piglia Renzi). Renzi compare qui nel racconto che dà il titolo al libro e in quello che lo conclude, «Un pesce nel ghiaccio», forse il più bello. La storia è ambientata tra Torino e le Langhe, dove Renzi è impegnato in una ricerca sui diari di Cesare Pavese e in una battaglia con il fantasma della donna che lo ha abbandonato. Come in questo racconto vengono intercalati numerosi passaggi del Mestiere di vivere, così in altri dell Invasione si ritrovano strategie narrative fondate sull intertestualità, sull interpolazione di documenti; altri racconti si presentano, invece, integralmente come trascrizioni di una registrazione su nastro («Mata-Hari 55») o di una testimonianza davanti a un giudice («Il mio amico»). Soluzioni che, a partire da Respirazione artificiale, diverranno quasi un marchio di fabbrica della scrittura di Ricardo Piglia. Lo sviluppo narrativo è qui però più rettilineo, lasciando intravedere l influsso di quegli autori statunitensi Fitzgerald, Hemingway, ma qua e là anche Salinger e Kerouac che sono stati i primi amori letterari dell argentino. Sebbene la struttura dei racconti sia meno articolata o forse, soltanto meno cerebrale di quella dei romanzi, la linearità di questi racconti è solo apparente. Viene già messa in pratica nell Invasione, infatti, un idea della narrazione breve che Piglia avrebbe elaborato, anni dopo, nelle magistrali «Tesi sul racconto» contenute nel saggio Formas breves. La tesi di partenza è che ogni buon racconto narra sempre due storie, ovvero «nasconde un racconto segreto». L arte di scrivere racconti, sostiene Piglia, «consiste nel saper cifrare la storia-2 negli interstizi della storia-1. Un racconto visibile nasconde un racconto segreto, narrato in modo ellittico e frammentario. L effetto di sorpresa si determina quando il finale della storia segreta affiora in superficie». Una concezione, questa, che tradisce qualche parentela con la teoria dell iceberg di Hemingway, ma che Piglia approfondisce esaminando le diverse tipologie di relazione tra le due storie parallele nei racconti di Cechov e di Poe, dello stesso Hemingway, di Kafka, di Borges. Ancora prima delle elaborazioni teoriche, però, la lezione di quei maestri del racconto si era tradotta in un dominio della costruzione narrativa che i testi dell Invasione mostrano già pienamente maturo. Come ha recentemente scritto Martín Caparrós, Ricardo Piglia si distingue anche per la lucidità con cui affronta un dilemma difficilmente aggirabile per un autore argentino della sua generazione: come scrivere dopo Borges. «Quando molti tentavano di riprendere o respingere la sua retorica e il suo parco tematico di specchi, sogni e labirinti segnala Caparrós Piglia ha capito che il materiale borgesiano più valido era il suo meccanismo». L osservazione può valere anche OSSESSIVI, SOLITARI E PERDENTI, I PERSONAGGI per il meccanismo narrativo dei racconti DELLO SCRITTORE ARGENTINO POPOLANO dell Invasione. Negli interstizi delle sue storie Piglia cesella un enigma e una tensione sotterranei, li fa espandere intorno I RACCONTI DEL SUO ESORDIO, RIVISTI DOPO al nucleo di un ossessione che il finale tende a suggellare, più che a sciogliere, lasciando al lettore una domanda in sospe- QUARANT ANNI E ORA TRADOTTI DA SUR so. E un senso di ineluttabilità: «la cosa più temuta accade sempre», come recita NELLA ANTOLOGIA TITOLATA «L INVASIONE» un passo del diario di Pavese citato nel racconto che chiude il libro. RICARDO PIGLIA, LUCIDI ENIGMI

2 (2) ALIAS DOMENICA «VERSO BISANZIO», COMPONIMENTI YEATS DA RACCOLTE TRA IL 1889 E IL 1939, A CURA DI DARIO CALIMANI PER MARSILIO Una tavola xilografica tratta da «More Celtic Fairytales» (1895) di J. Jacobs Tensioni visionarie di un pragmatico su sfondo irlandese di ENRICO TERRINONI «Ci stiamo preparando, si spera, al giorno in cui in Irlanda si parlerà gaelico, proprio come in Galles si parla gallese all interno dei suoi confini»: così scriveva Yeats in un articolo non troppo noto del A restituire nuova eco a queste parole è ora un libro che si rivelerà tra i più importanti nei cosiddetti Irish studies per le generazioni a venire, ovvero the Handbook of the Irish Revival (a cura di Declan Kiberd e P.J. Mathews, Abbey Theatre Press, pp. 227, e 18,99). Presentato per la prima volta al pubblico il 22 giugno scorso, proprio in quell Abbey Theatre di Dublino che Yeats contribuì a fondare, include quasi duecento interventi di grandi firme irlandesi appartenenti agli ambiti più disparati (letteratura, teatro, politica, sindacalismo), affiancate a nomi meno noti provenienti dal Revival irlandese. Per molto tempo concepito come un fenomeno di matrice protestante e quasi aristocratica, il Revival è qui declinato dai due curatori, in sintonia con tanti altri studiosi, in senso più apertamente inclusivo e nazionale, abbracciando quasi tutti gli scrittori e intellettuali irlandesi del periodo, senza divisioni settarie o confessionali. Tra queste pagine Yeats figura con ben sedici contributi: poetici, di critica letteraria, ma anche di riflessione culturale e politica. Del resto, l Irlanda di oggi è, per molti versi, un invenzione di Yeats, che non soltanto ne ha reimmaginato il passato, andando a scavare nei suoi miti, ma ne ha segnato con la sua opera il futuro, e ha contribuito al suo ruolo politico all interno del Senato dello Stato libero. Yeats è dunque, anche in una prospettiva internazionale, una figura chiave per la comprensione del novecento irlandese. Fu in contatto con Pirandello, di cui lesse molto, quasi tutto. E poi con Pound, Eliot, e innumerevoli altri, soprattutto dopo avere vinto il nobel per la letteratura, nel Gira ancora in Irlanda un aneddoto secondo il quale l allora potentissimo direttore dell Irish Times, Robert Smiley, chiamò Yeats per avvertirlo del Nobel, ma non riuscì a trovare le parole per l emozione. Al che il grande poeta gli venne in soccorso: «Per l amor del cielo, Smiley, tagli corto, mi dica a quanto ammonta il premio». Una importante rassegna di poesie di W.B. Yeats esce ora da Marsilio a cura di Dario Calimani, Verso Bisanzio (pp. 249, e17,00): vi figurano componimenti da ben tredici sue raccolte, le più significative, pubblicate tra il 1889 e l anno della morte, il Include gran parte dell opera poetica maggiore di Yeats, dalle prime prove della fase mistica e celticista («Il bimbo rapito», «L isola sul lago di Innisfree»), alle poesie più sperimentali del periodo modernista e estetizzante («Lapislazzuli», «Bisanzio»), passando per uno stadio più pronunciatamente politico e legato alle sorti della nazione nascente («Settembre 1913», «Pasqua 1916»). A ben vedere, l interesse per l azione politica percorre, nelle sue varie materializzazioni, tutta l opera di Yeats, e lo fa con incredibile apertura critica, mostrando tuttavia la sua ambivalenza: perché, se da una parte il poeta aborriva anche la sola vista della violenza, ne restava affascinato da un punto di vista estetico. Lo spiegava già Giorgio Melchiori nel suo primo libro inglese, mai tradotto in italiano, The Whole Mystery of Art, del Yeats era per natura un conservatore, ma come il conterraneo Swift il cui spettro non a caso infestò la sua tarda produzione poetica e teatrale potrebbe essere definito, almeno dal punto di vista caratteriale, un Tory anarchist; questo nonostante i suoi clamorosi e infelici abbagli, come la vicinanza al movimento fascista delle camicie blu, o la fascinazione per il testone di Predappio. Proprio questa ambivalenza ereditata dall altro irlandese suo coetaneo e conoscente, Oscar Wilde, che si interessava di magia nera e esoterismo quanto di riforma agraria e di legge di autogoverno, anima costantemente l opera di Yeats estendendosi persino alle sue «sistematizzazioni» teoriche. Basterebbe pensare alle teorie della maschera, del self e dell anti-self, oppure alle spirali storiche contrapposte, cui dedica il suo maggior libro occulto, Una visione, ma anche una nota poesia, «The Gyres», «Le spirali» appunto, inclusa nella preziosa raccolta di Calimani. Questo perché la suapredilezione per l incontro, l incrocio, l attrito degli opposti, quasi in sintonia con la materialista coincidentia oppositorum di Giordano Bruno, è di per sé un programma politico. Il drammaturgo Brendan Behan ricorda come, durante la famosa settimana di Pasqua del 1916, palcoscenico della rivoluzione anti-inglese poi soffocata nel sangue, una vecchietta provò in tutti i modi a convincere Yeats a prendere le armi. E per poco venne meno quando scoprì, a rivolta finita, che quello, invece di combattere, aveva scritto una poesia sulla insurrezione. Definito nel 1899 da uno dei padri della rivolta, Patrick Pearse (Pádraic Anraí Mac Piarais) un «poeta inglese di terzo o quarto rango», Yeats possedeva la personalità tipica dei visionari: non a caso, uno dei suoi modelli era Blake, di cui curò l opera. Era capace di assorbire ogni stimolo esterno, culturale o politico, senza pregiudizi. E quegli stimoli riusciva a tramarli in un sistema di più ampio respiro, storico ed estetico al tempo stesso, essendo in grado di partire, in maniera quasi scientifica, dal dato apparente fosse anche soltanto un allucinazione per poi restituirlo trasfigurato, cristallizzato, in una cornice di nessi. Ne è testimone il suo forse maggiore convincimento occulto, quello riguardante l esistenza di un anima mundi, una sorta di memoria eterna, ricettacolo di ogni stimolo, idea o pensiero mai pensato, percepito o prefigurato da mente umana. Un debito diretto di quei «registri akasici» di cui parlano e scrivono tanti sodali di Yeats nelle sette ermetiche di cui ha fatto parte. Ma sarebbe sbagliato non proiettare tutto ciò su uno sfondo irlandese. Nonostante in maniera un po schematica si sia talvolta inclini a distinguere la sua opera in periodi dando a intendere che la prima sua fase, quella celticista e mistica, sia stata poi superata Yeats, come Joyce, dall Irlanda non si distanzia davvero mai. Anzi, attraverso l attenzione per i fatti politici e i problemi sociali, vi torna assiduamente, nel ruolo di intellettuale pubblico, di fugura nazionale. E lo fa anche nelle poesie più eteree, sperimentaliste, e sfuggenti. Non a caso, nell accettare il Nobel, uno Yeats quasi sessantenne decise di declamare, e con una voce che pareva venire dall oltretomba, proprio quella sua «Innisfree» composta all età di ventitré anni, nel E pensare che nell ottobre del 1890 aveva scritto, in una rivista inglese, di provare conforto nel rendersi conto di come l Irlanda non avesse ancora incontrato le nefaste trasformazioni subite dall Inghilterra a causa del capitalismo industriale, reo d aver deprivato la società di mistero e immaginazione: «Il mondo, credo conservi molto più significato per un contadino irlandese che per uno inglese; e questo grazie al popolo di folletti e fate che vivono nelle colline, per i boschi e sui laghi. Infondono vita ai morti pendii, e circondano gli agricoltori, intenti ad arare e a scavare, di tenere ombre poetiche». Tenere ombre poetiche che rendono, di Yeats, quella complessità rispecchiata nelle tante, diverse, eppure complementari articolazioni della sua sterminata opera. L opera di un poeta tardo romantico e poi modernista, di un eterno innamorato della stessa donna, di un critico della società, e di un visionario che mai smise di credere in quell Irlanda che lui stesso aveva contribuito a forgiare. Dalle prove della fase mistica e celticista ai versi sperimentali del periodo modernista, fino a uno stadio più politico e legato alle sorti della nazione nascente FLORENCENIGHTINGALE «L infermiera inglese», una icona ottocentesca rivisitata sulle orme di Lytton Strachey da Masolino d Amico di VIOLA PAPETTI È meglio godersi un breve, piccante, saggio biografico o percorrere il lungo interessante iter che una biografia standard, informatissima, ci propone? Molto dipende da chi scrive e da chi è l oggetto della scrittura, ovviamente. Ma personaggi ardui, verticali come i vittoriani inglesi, tutti d un pezzo nelle loro pazzie e nelle loro virtù, anch esse sospette, è meglio servirli in piccole dosi: freddi, sepolti sotto una salsa esotica. Un biografo raffinato come Lytton Strachey cuoce a fuoco lento un soggetto durissimo, Florence Nightingale (nata nel 1820 a Firenze, da cui il nome), la segue nella sua lunga vita morì a novanta anni, illustrando le numerose imprese, mosse dalla sua potente vocazione infermieristica. Ora, Masolino d Amico sfida il grande biografo in un saggio ancor più breve del suo, ma che si avvantaggia di una prospettiva diversa, L infermiera inglese (Skira, pp. 92, e13,00). Strachey aveva a disposizione l ottima biografia di Edward Cook e una memoria ancora viva di quella che veniva chiamata la «dama con la lampada», mentre d Amico si avvale, oltre agli scritti lasciati da lei, di studi più recenti. Strachey sferra un colpo da maestro proprio all inizio: «Tutti conoscono la popolare figura di Florence Nightingale, la santa donna che si sacrificava per gli altri consacrando con lo splendore della sua bontà il giaciglio del soldato morente Ma la verità è un altra. Un dèmone la possedeva... Così accadde che la vera Nightingale fosse più interessante di quella leggendaria e anche meno gradevole». D Amico inverte i termini: la donna leggendaria oggi si rivela funzionale alla nostra mania igienica e salutista, mentre il suo dèmone, la sua magrezza, il suo vago misticismo, la sua sessualità ancor più vaga, non ci provocano. I due ragazzi che ne parlano, i consueti dialoganti di d Amico, il giovane De Witt III, americano sempre in cerca di un soggetto adatto alla televisione, e la sua informatissima fidanzata Saffron, al momento ricoverata in una clinica svizzera, la inquadrano con un linguaggio nuovo, agile e disinvolto, entro una visione tutta attuale della sua frenetica attività riformatrice delle strutture ospedaliere, militari, della stessa cultura assistenziale di tutto il paese. L icona ottocentesca, troppo ovvia, si è esaurita nei primi film su di lei all epoca del muto, due lungometraggi, del 1936 e del 51, una commedia data a Broadway negli anni trenta, uno sceneggiato televisivo inglese recente. La sua improvvisa apparizione nell ospedale di Scutari (Istanbul), il 4 novembre 1854, dieci giorni dopo la disastrosa battaglia di Balaclava, con un piccolo battaglione di infermiere, provvista di una congrua somma di sterline raccolte dal Times, con cui acquistò le attrezzature elementari per rimediare alle raccapriccianti condizioni in cui erano ammassati morti, morenti, feriti, aveva del miracoloso. E gettò luce non solo sulle responsabilità che portarono a quella disastrosa sconfitta, ma sull intera gestione della guerra e dell esercito. Alla fine della guerra «si calcolò che in sei mesi il 73 per cento dei caduti non erano morti in combattimento, ma per malattia». Quella di Florence Nightingale fu anche una esasperante battaglia contro l ostruzionismo delle gerarchie militari, la macchina amministrativa, le avversità politiche. Usò per le sue sacrosante battaglie amici e amiche e li ebbe accanto a sé fino alla fine. I suoi consigli o meglio i suoi dogmi si rivelarono sempre utilissimi, eccetto quando chiese agli ospedali militari indiani di tenere aperte le finestre. Ma a causa del caldo straordinario, tutto era tappato fino a sera, e solo allora si aprivano le finestre. «Glielo dissero, ma lei non volle sentire ragioni, e fu inflessibile».

3 ALIAS DOMENICA (3) «ADDIO?», PIÙ DI TRECENTO HOLAN POESIE DA ARCIPELAGO, ACCOMPAGNATE DALLA NOTA DI GIOVANNI RABONI, RIPROPOSTA Un ritratto di Vladimír Holan L ultimo tempo del grande solitario di Praga: versi fatti di parole scostanti, accordate alla musica atonale, cellule di suoni fra pensiero e distrazione di FABIO PEDONE GERENZA Il manifesto direttore responsabile: Norma Rangeri a cura di Roberto Andreotti Francesca Borrelli Federico De Melis redazione: via A. Bargoni, Roma Info: tel redazione@ilmanifesto.it web: Crampi di senso a somma zero Poco prima di morire, Jaroslav Seifert disse a un amico: «Io probabilmente rimango nella poesia ceca. Ma con me finisce un epoca Una nuova epoca ebbe inizio con Holan, il più grande tra noi, poiché aprì alla poesia ceca nuovi orizzonti, non ancora mappati, che neanch io comprendo ancora». Non solo nella poesia ceca, ma in quella europea e mondiale, Vladimír Holan ha aperto un territorio ignoto, i cui punti cardinali sono abissalmente diversi da quelli conosciuti. Si deve alla genialità di Angelo Maria Ripellino, suo ammiratore e amico, se il nome di questo solitario praghese ha fatto emigrare la sua fama dall Italia in tutto il mondo. Quando nel 1966 uscì Una notte con Amleto nella «bianca» Einaudi, tradotto da Ripellino, il mondo letterario italiano si accorse di trovarsi di fronte a un poeta al quale avrebbe poi sempre guardato con enorme rispetto se non con venerazione. Recensendo l Almanacco dello «Specchio» 1973, che ospitava traduzioni di Serena Vitale dalla raccolta In progresso, dedicata da Holan a Ripellino, Pasolini parlò del compiersi di un miracolo: «Holan è entrato nel novero dei poeti letti». In anni più vicini ai nostri, venne inaugurato un provvidenziale progetto di traduzione dall ultimo tempo della poesia di Holan, quello che fa riferimento grosso modo alle quattro raccolte finali. Si deve a Marco Ceriani, con la guida attenta di Giovanni Raboni, l insistenza su questo percorso scandito da diverse pubblicazioni in rivista e da volumi importanti, tra cui Il poeta murato (uscito nel 1991 per le edizioni del Fondo Pier Paolo Pasolini) e A tutto silenzio, apparso nel 2005 negli Oscar Mondadori. L approdo più recente, che negli auspici migliori dovrebbe reimmettere un gigante della statura di Holan nel circolo dei poeti letti in Italia, è un antologia autenticamente corposa, che comprende più di trecento poesie di Holan con traduzione dal ceco di Vlasta Fesslová riportata in versi italiani da Marco Ceriani, pubblicata dalle edizioni Arcipelago con il titolo Addio? (prefazione di Giovanni Raboni, pp. 708, e 38,00). La storia di Vladimír Holan divenne fin da subito leggendaria. Nella memorabile introduzione al libro con cui lo presentava, Ripellino parlò della «notturnalità» di questa poesia, divisa, almeno fino al dopoguerra, fra la sperimentazione barocca dell enigma e la demonìa narrativa di un teatro metafisico insonne, con cui questo nuovo Giobbe, «salmista di un epoca tragica», delimitava tra pietà e cupa ironia la condizione umana. Inviso al regime cecoslovacco per il suo rifiuto di ogni compromissione e le sue dichiarazioni non conformi, dal 1948 Holan fu praticamente impossibilitato a pubblicare per i quindici anni seguenti. È da allora che, complice la scomparsa degli amici più cari e la necessità di opporsi allo stato delle cose tutelando la concentrazione necessaria alla sua scrittura, partì il suo leggendario isolamento nella casa con le finestre perennemente chiuse sulla Moldava, nell isola di Kampa. «Incrocerò le parole». Nacque così nella sua cerchia il mito di Holanesia, il mondo onirico del poeta murato in una casa spoglia, in penombra, con il suono dell acqua del fiume a scorrere in sottofondo e la cantilena di Katerina, sua figlia, nata con la sindrome di Down. Furono anni di spaventose ristrettezze economiche. Seduto nelle notti praghesi alla luce della lampada, mentre scriveva e traduceva dicendo «non conosco nessuna lingua ma le capisco tutte», inflessibile nei confronti di qualunque concessione al potere vigente, con l immancabile sentinella di un fiasco di vino poggiato sul tavolo, Holan fu costretto per vivere a offrire anche trascrizioni a mano dei suoi versi, che vendeva con la dicitura Rhymes to be traded for bread. Gli amici si prodigavano per trovargli occasioni di guadagno. Si moltiplicano i racconti sulle visite al solitario di Praga, o sugli incontri storici, come quello del 1949 con Dylan Thomas: i due poeti rimasero in piedi tutta la notte a bere e a parlare in un idioma creato sul momento, con regole specifiche e una mimica singolarissima, una lingua nella intonazione della quale il ceco e l inglese si superavano a vicenda diventando inservibili e aprendo le porte a un oltrelingua. Mentre al cabaret Viola partivano, replicate per lunghi anni con successo, le recite del suo poema più celebre, Una notte con Amleto, con la morte della madre l isolamento di Holan si accrebbe e la sua poesia scartò lontano dai poli del «verticalismo» e della «laidezza» che ne avevano caratterizzato l avventura. Non sarebbe più uscito di casa per vent anni. Ed è da qui che l antologia di Arcipelago prende le mosse: da In progresso (scritta nel per esser pubblicata solo negli anni sessanta, che diventa così la raccolta di Holan più testimoniata nelle traduzioni italiane) e dagli ultimi due libri, elaborati fra il 1968 e il 1977 ma usciti dopo la morte del poeta nel 1980: Penultima e Addio? Parrebbero appunti presi in fretta nella forma disponibile e intima del diario, della nota di taccuino, ma sono anche tessuti di parole scostanti, immersi in quella «non parafrasabilità» che fu infallibilmente notata da Raboni nella sua prefazione del 1991, ora riproposta: «formulazioni e analisi, rigorose fino allo spasimo, del non formulabile e del non analizzabile» Tra queste pagine, enigmi in cui l ordito dei concetti non si fa concettosità, con una torsione barocca continuamente sconfessata e deviata dall uso ostinato dei puntini di sospensione; e in cui la chiusa sentenziosa non è un oracolo astratto e allineato a un idea di verità ma una constatazione accanitamente terrestre e umana, inchiodata al paradosso, che «conosce non conoscendo». Già negli anni quaranta, nel diario pubblicato con il titolo Lemuria, Holan scrisse: «Che sia la musica, là dove comincio a non capire! Sogno il diario perduto di Orfeo sulla navigazione con gli Argonauti, sogno le partiture smarrite di Pindaro e il ritratto scomparso di Cecilia Gallerani». L ultimo tempo della sua poesia è, nelle parole dei curatori, «l estrema propaggine di quel folle tentativo» che fu per lui l armonia atonale: richiamandosi alle tecniche della musica seriale, allineava e incrociava cellule di suoni minimi, groppi di fonemi, annodando crampi di senso sottratto in uno spazio reinventato fra pensiero e distrazione, scatenando cortocircuiti in una logica dell inconseguenza apparente che chiama il lettore a ripensarsi dentro le sue nuove dimensioni. «Sempre cerchiamo il centro Ma lui, come un punto, / è cieco Cercando il suo cuore, / cerchiamo la cecità E da tempo già ciechi, / siamo soltanto un tastare». La sua è una poesia non euclidea che porta in sé anche un tratto taoista, la cui via indica innanzitutto la non ricercare di una via; una voce volta a volta evanescente o convulsa, febbrile, attonita e spietatamente saggia, che commercia con i piani più sfuggenti e definitivi dell essere, dove il mondo e la presenza umana ormai non sono altro se non un fondale per le evoluzioni inafferrabili della coscienza che si scrive. La sua vocazione più forte, in cui precipitano anche la maledizione del sesso e dell infanzia irraggiungibile, è diretta alla scoperta della «morte prima della vita» come dimora primigenia ed eternamente perduta, sotto la sferza dell irrevocabile: «Quello che bramate, e cercate, / quello che servite, e amate, / e invocate, perché vivete / lo esaudirà per voi forse il destino, / ma voi non ci sarete». Estremo erede di Baudelaire e di Rilke, Vladimír Holan si interroga sull atemporalità come alternativa a un esistere materiato di muri (grande metafora ossessiva di Holan, così come la cecità e il buio). Ma la commedia tragica della conoscenza si risolve, negli ultimi vertiginosi testi, in un giro a vuoto, in un gioco a somma zero: «La vita è un ben leggibile mistero. / Meno male che non sappiamo leggere!». impaginazione: il manifesto ricerca iconografica: il manifesto concessionaria di pubblicitá: Poster Pubblicità s.r.l. sede legale: via A. Bargoni, 8 tel fax poster@poster-pr.it sede Milano viale Gran Sasso Milano tel fax tariffe in euro delle inserzioni pubblicitarie: Pagina ,00 (320 x 455) Mezza pagina ,00 (319 x 198) Colonna ,00 (104 x 452) Piede di pagina 7.058,00 (320 x 85) Quadrotto 2.578,00 (104 x 85) posizioni speciali: Finestra prima pagina 4.100,00 (65 x 88) IV copertina ,00 (320 x 455) stampa: LITOSUD Srl via Carlo Pesenti 130, Roma LITOSUD Srl via Aldo Moro Pessano con Bornago (Mi) diffusione e contabilità, rivendite e abbonamenti: REDS Rete Europea distribuzione e servizi: viale Bastioni Michelangelo 5/a Roma tel Fax AMERICA Dodici autori, tra cui Howells e Henry James per raccontare «La grande famiglia» di LUCA SCARLINI L autorialità collettiva, di cui il mercato non manca di proporre esempi a cicli regolari, data dal momento in cui l impresa editoriale è divenuta un fenomeno di massa. Specialmente il mercato statunitense sembrò apprezzare questa formula, a partire da un volume intitolato Six of One by Half a Dozen of the Other. An Everyday Novel, un opera uscita prima a puntate e poi in volume nel 1882, in cui spiccava l autrice della Capanna dello zio Tom, Harriet Beecher Stowe. Sulla scia di questa fortunata realizzazione editoriale, arrivò il curioso esperimento che oggi Marsilio propone per le attente cure di Giovanna Mochi, già autrice di una bella versione del Giro di vite nel 2007). La grande famiglia è infatti un romanzo di dodici autori (traduzioni dei partecipanti al master in traduzione letteraria della Università di Siena, coordinati dalla stessa Giovanna Mochi, pp. 313, e18,00). La dinamica del volume ricorda, da lontano, il bizzarro esempio di fantapolitica postfuturista Lo zar non è morto, orchestrato nel 1929 da Filippo Tommaso Marinetti e riproposto qualche anno fa da Sironi. Qui invece l obiettivo è una indagine sulla quotidianità nei suoi più diversi aspetti, all interno di una prospettiva precisamente seriale. The Whole Family uscì a puntate sulla popolare Harper s Bazar per dodici mesi, dal 1907 al 1908, da un dicembre all altro: l idea era stata proposta da William Dean Howells, decano delle lettere americane e autore di quel delizioso romanzo di amori tardivi su sfondi italiani, L estate di San Martino, riproposto da Fazi nel Dodici figure connesse a un ambiente familiare unico debbono narrare, dal loro punto di vista, un evento assolutamente comune: il fidanzamento della seconda figlia dei Talbert, una famiglia, dignitosa, un po conservatrice, e benestante collocata nel New England in una dimora antica e un po affaticata dagli anni. Naturalmente, come in ogni microcosmo che si rispetti, a questo spunto fanno seguito, per comprensibili necessità di variazione, molti affondi di costume, che concernono un epoca ancora assai formale, ma in cui tensioni sotterranee sfoceranno in una vera e propria rivoluzione del way of living. Si discetta, in queste pagine, se sia migliore l omeopatia o la medicina tradizionale e si affrontano i pro e i contro del mandare le rampolle al college misto, da poco aperto, con un certo scandalo per i benpensanti. La curatrice presenta gli autori, diversissimi tra loro, di questo romanzo che spesso divaga dal filo della narrazione, secondo i diversi stili degli scrittori, e avanza il paragone con un attuale forum digitale; ma sembra anzi di leggere la «bibbia dei personaggi» di una serie televisiva in costume. Elizabeth Jordan, intraprendente redattrice di Harper s Bazaar narra la vicenda nella sua autobiografia Three rousing cheers spiegando il meccanismo della «strangely exciting story», per cui aveva scelto una forma inedita di pubblicazione. Le storie recavano infatti il nome del personaggio, ma non quello dell autore: il pubblico era invitato a scoprirlo. Howells prese per sé l apertura: il padre, disegnando una figura demodé, ma solida. Henry James spicca senza dubbio nel disegno del Figlio sposato, in cui il segreto della vita quotidiana si svela per gradi sotto la spietata lente dello scrittore. Notevole è anche il ritratto della Zia Zitella di Mary Wilkins Freeman, vigorosa autrice femminista, di cui da noi sono comparse varie prose (incluso il magnifico racconto Mamma si ribella). In copertina di Alias D: Buenos Aires in una fotografia di Horacio Coppola. In alto, un ritratto di Ricardo Piglia

4 (4) ALIAS DOMENICA «DA UNA LASTRA DI DESERTO», UNGARETTI LETTERE DAL FRONTE NEI MERIDIANI PAPERBACK Nuovi documenti e missive a Pea, Papini, Carrà, Soffici, Prezzolini, si aggiungono al carteggio fra Ungaretti e Gherardo Marone di «La Diana» di CECILIA BELLO MINCIACCHI «È straordinario come fanno la guerra alcuni nostri amici: Giuseppe Ungaretti soldato del 19 fanteria mi manda con naturale semplicità una sua stupenda lirica e mi vuole bene». Così scriveva Gherardo Marone (Buenos Aires Napoli 1962) in Idee, nella rubrica Bancarella della rivista napoletana «La Diana». Era il giugno del 1916: la Grande Guerra e «La Diana» affrontavano, in Italia, il loro secondo anno di vita. Marone, che della rivista era instancabile e intraprendente animatore, raccoglieva in quell articolo brani di lettere ricevuti dagli scrittori al fronte, amici e collaboratori già attivi o potenziali. Ungaretti era ancora poeta poco noto l esordio su «Lacerba» nel 1915, poi un altra poesia su «La Voce» l anno dopo ; alle prime ottanta copie numerate del Porto Sepolto mancavano, nel giugno del 1916, ancora sei mesi. Tra Ungaretti e Marone, lettore sensibile e avvertito, nasceva un dialogo intellettuale, di poesia e di estetica, destinato in breve a diventare amicizia: «amico Marone, fratello Marone». Testimonianza dello scambio intenso, vivace e proficuo, sono le lettere e le cartoline che Ungaretti gli scrisse dalla Zona di guerra tra il 1916 e il Di questi documenti, in parte pubblicati da Armando Marone nel 1978 in Lettere dal fronte a Gherardo Marone, introduzione di Leone Piccioni, appare un edizione nuova, significativamente accresciuta e filologicamente accertata ed emendata, Da una lastra di deserto Lettere dal fronte a Gherardo Marone (a cura di Francesca Bernardini Napoletano, Mondadori, «I Meridiani» paperback, pp. 268, e 15,00). Il corpus delle missive è ora arricchito dall incrocio di tre fonti diverse. L edizione del 1978 era stata condotta solo sui materiali conservati presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, quella attuale, invece, aggiunge ventidue, tra lettere e cartoline, custodite dall Archivio del Novecento della Fra vita e poesia, emotive urgenze di condivisione Félix Vallotton, «Verdun», Parigi, Musée de l'armée. Nella foto, Giuseppe Ungaretti in guerra Sapienza, e due documenti oggi perduti ma riprodotti dal poeta argentino Nicolás Cócaro in Ungaretti soldado (Buenos Aires, 1975). L edizione nuova, inoltre, si è valsa anche delle lettere di Ungaretti a Papini, a Pea, a Carrà, a Soffici, a Prezzolini, inedite nel 1978 e ora efficacemente messe a frutto dalla curatrice nelle note e nella bella introduzione. Il primo documento della corrispondenza con Marone data 18 aprile 1916, e per Ungaretti è tutta una festa: ricevuto sotto le armi un numero della «Diana», risponde con entusiasmo vitale. Benché sminuisse i testi già pubblicati «qualche poesiola», scriveva, «roba minuscola, nulla», e benché si mostrasse gentilmente riservato, Ungaretti fu subito invitato a pubblicare sulla rivista napoletana d avanguardia aperta a influenze plurali e temperamenti diversi. «Troppi personaggi», confessava a Papini, pur segnalandogli Marone per il suo «molto cuore», per il suo non essere «volgare». E se nel 1917 quella rivista gli sembrava «ancora una cosa un po fatua, un po disordinata», Marone gli appariva «un giovine che s appassiona», «di vocazione». Ungaretti non gli fu avaro: già nel maggio 1916 su «La Diana» stampò Fase, pur sentendo il tempo di guerra non consono alla pubblicazione, non a quella commerciale o diffusa. Lo tratteneva il «pudore», a più riprese affiorante, nelle condizioni estreme della trincea: «Ho deciso oggi dopo aver molto pianto quel terribile pianto che non si scioglie che sempre più si pietrifica dentro di rimanere in silenzio», aveva scritto nell aprile del L immagine, annota Francesca Bernardini, tornerà nel Porto Sepolto, in Sono una creatura, «dove la percezione tutta interiore del pianto che «si pietrifica dentro» viene rivolta all esterno, attribuita al destinatario («Come questa pietra / è il mio pianto / che non si vede»)». Solo qualche mese più tardi, a Papini, interlocutore importante, intellettuale ammirato, venerato, scriverà: «no, niente esibizioni più; a che prò?; non ho nessuno da convertire; ho da vivere; ( ) dieci copie manoscritte delle mie cose a dieci amici miei; con l obbligo per loro e per me del segreto». È lo stato d animo in cui nasce l edizione in tiratura limitata del Porto Sepolto: un dono di poesia «di arte» avrebbe detto, una comunicazione-comunione con pochi affezionati, con pochi lettori all altezza. Ungaretti, infatti, di là dagli schermi, è ben consapevole del valore dei propri versi: mentre il Porto Sepolto è ancora in tipografia, annuncia a Marone che «sarà il miglior libro dell anno anche se pochi ci si fermeranno». Prova amara sorpresa quando Jahier e Carrà tardano a scrivergli del libro, apprezza con gratitudine i commenti che gli giungono diretti o riferiti, e vive commosso «l ora più bella» che s aspettava dal Porto quando Papini per primo, con acume e lungimiranza, recensisce la raccolta sul «Resto del Carlino» il 4 febbraio Le lettere testimoniano il labor limae che fin dall inizio ha contraddistinto la poesia ungarettiana, e il proliferare delle varianti che si succedono immediate, anche non appena il plico con i testi in bella copia sia stato inviato dalla Zona di guerra. Così accade per Il ciclo delle 24 ore, dedicato a Papini e destinato all Antologia della Diana: spedito da pochissimo, è subito seguito da correzioni, che generano più di un edizione «definitiva», tutte inviate lo stesso giorno con apprensive richieste di riscontro. Emblema delle diverse strade imboccate dai documenti e della necessità di ricomporre da queste l itinerario biografico e letterario, come fa Da una lastra di deserto, è l incrocio tra versioni conservate in Fondi separati attestato dal Ciclo delle 24 ore. Altre varianti di rilievo interpretativo compaiono nella tranche di corrispondenza ritrovata più di recente e più fortunosamente una busta con centoquarantasei lettere di mittenti diversi finita su una bancarella di Porta Portese ; tra gli esempi, titoli di componimenti poi mutati, attestati qui da unico testimone manoscritto: Vivere poi divenuto Distacco e Torbido poi Attrito. Oltre alle preziose citazioni di inedite lettere di altri corrispondenti della «Diana», conservate presso l Archivio del Novecento e offerte in nota, uno dei contributi filologici più notevoli dell edizione scientifica e al tempo stesso affabile approntata da Francesca Bernardini Napoletano, è la scoperta di un attribuzione erronea. All esame materiale delle carte, la poesia Notte, attribuita a Ungaretti nelle lettere pubblicate più di trentacinque anni fa, e nella recente edizione commentata di Vita d un uomo (Mondadori, 2009), si rivela autografo ungarettiano, sì, ma di quattro versi di Gino Chierini. Da una lastra di deserto titolo nato dalla suggestione di uno splendido sintagma d autore è racconto vibrante di umanità e ininterrotta riflessione di poetica, elaborazione comune di prosa e poesia. Nell Allegria, ha osservato Guido Guglielmi, Ungaretti «ha vissuto la propria autobiografia come autobiografia della poesia». In queste lettere vita e poesia s intrecciano, si specchiano con evidenza anche più nitida, e non in risposta a narcisismi estetizzanti ma a urgenze emotive e intellettuali aperte alla condivisione. Si guardi alla coincidenza, nell animo del «dolorante poeta», di affetto e stima per Papini, Pea, Cestaro, Apollinaire, si congiunga come anello perfetto il desiderio di ricostruzione psicologica e letteraria, la lucidità di analisi e di programmazione culturale delle ultime missive dal fronte con la prima lettera a Marone: «Amiamo la vita; lasciamoci prendere dalla vita; non resistiamo alla vita. E verrà su la più vera poesia». MONTALE Tra effetti di eco e di rimuniginio il «Quaderno di quattro anni», raccolta uscita nel 77 di NICCOLÒ SCAFFAI Quando si tratta dell ultimo Montale c è spesso un rischio: che qualcuno approfitti dell involuzione della sua poesia per revocare in dubbio la totalità dell opera, attribuendosi in buona o cattiva fede critica la missione di paladino dell anticanonico. Ben vengano, contro questo rischio, gli studi che approfondiscono anche le raccolte montaliane tarde (quelle certamente autentiche almeno), per mostrarne le qualità e illustrarne i significati al di là del confronto tra il prima e il dopo, tra il giovane e il vecchio poeta. Un confronto occorre dirlo insostenibile, nel senso che l ultimo Montale non può essere paragonato al primo; ma l inevitabile giudizio non autorizza l indistinzione. È per questo che si apprezza l uscita di un edizione commentata della raccolta che il poeta pubblicò nel 1977, l ultima sua autonoma prima dell uscita dell Opera in versi: Eugenio Montale, Quaderno di quattro anni (a cura di Alberto Bertoni e Guido Mattia Gallerani. Con uno scritto di Cesare Garboli e un saggio di Giorgio Orelli, Mondadori, pp.383, e18,00). Il commento esce nella collana «Oscar», dove è già apparsa la maggior parte dei libri del poeta, annotati e introdotti in genere da specialisti della sua opera. Se la struttura degli apparati si adegua al canone della serie mondadoriana, avviata nel 2003 dal commento agli Ossi di seppia di Cataldi-D Amely, i problemi interpretativi che quest edizione affronta sono peculiari. A cominciare dalla necessità di trovare in una raccolta come il Quaderno, apparentemente debole nella tenuta d insieme, motivi d interna coesione. È evidente che nel Quaderno sono presenti requisiti sufficienti a farne ancora un libro, un macrotesto: possono essere le tracce del «rapporto diretto di lettura e d interpretazione critica che Montale riprende dai propri primordi con l opera di Svevo», su cui scommette Bertoni nella sua Introduzione (ma il nesso eventuale tra la raccolta montaliana e La coscienza di Zeno resta una suggestione da mettere a fuoco); o saranno piuttosto le ricorrenze di temi e soggetti da un testo all altro, anche con funzione connettiva. Mancano, è vero, o sono esili le classiche strutture, altrove portanti, della testualità montaliana, come la progressione di senso o la netta divisione formale e funzionale tra una sezione e l altra. Non mancano però le poesie che, collocate in posizione eminente, assumono un particolare rilievo nell espressione della poetica: è il caso del testo di apertura, L educazione intellettuale, che «si erge a introduzione delle tematiche che progrediranno lungo il volume: la prospettiva nichilista rispetto all esistenza, alla salvezza divina, al progresso umano». Così si legge nel primo dei cappelli introduttivi, curati da Gallerani, cui si deve anche l annotazione dei testi (e che, proprio per L educazione intellettuale, avrebbe potuto giovarsi anche delle Chiose del 2006 di Luigi Blasucci). Bertoni, oltre a firmare l introduzione, ha contribuito alla stesura delle note metriche, che danno sempre un efficace caratterizzazione formale del testo. (Qualche dubbio: è appropriato chiamare ipometro, nel contesto metricamente così vario del Quaderno, un regolare decasillabo manzoniano, sottintendendone l irregolarità rispetto alla misura dell endecasillabo? In qualche altro caso, poi, il calcolo sfugge, come per il v. 1 della poesia Il pieno, «Non serve un uragano di cavallette», classificato come «endecasillabo regolare»). Quanto all annotazione, si evita qui il rischio corso in altri recenti commenti montaliani: quello di accumulare riscontri non sempre pertinenti o necessari all esplicazione o alla connotazione di un passo. Il rilievo da fare è semmai di segno opposto, data l essenzialità delle note a piè di pagina. L accessibilità della lettera giustifica la parsimonia delle chiose; talvolta però si farebbe a meno di qualche sinonimo (anche tenendo presente il pubblico ampio di un «Oscar», è necessario ricordare che lambire significa sfiorare?), per avvantaggiare l interpretazione di certi passi e approfondire alcuni temi e aspetti che il commento stesso suggerisce. Uno di questi aspetti è la relazione allusiva con le raccolte montaliane più antiche. Per esempio, in I pressepapiers si accenna a un

5 ALIAS DOMENICA (5) di MASSIMO NATALE «Insegnatemi il cammino, voi che siete/ stati morti, attingete la nostra/ verità dal pozzo sigillato, staccatevi dal tempo/ ( ) torneremo a casa, vi diremo». Così si chiudeva, nel 2010, l ultimo libro di versi di Milo De Angelis, Quell andarsene nel buio dei cortili, con un appello agli scomparsi a fare da guida all io, perché questi potesse dirli, restituendo loro in qualche modo una presenza. Sono versi che al lettore potevano far pensare a certi momenti precedenti della sua poesia, da sempre occupata, in effetti, da un «pensiero ultimo» capace di farsi totalità, fino alla paradossale coincidenza di opposti (penso a certe uscite memorabili, già nel lontano esordio del 1976, in Somiglianze: «questa morte non è solo svanire/ ma insieme, un poco, esserci»). Ora quegli stessi versi appaiono anche un ponte che si affaccia sulla nuova raccolta di De Angelis, Incontri e agguati (Mondadori «Lo specchio», pp. 69, e18,00), nella quale proprio Thanatos è convocata a celebrare una sua «cerimonia incessante». Qui, tuttavia, il rapporto fra parola e morte subisce nella prima delle tre sezioni che compongono il libro una torsione decisiva. L io non farà infatti soltanto da tramite per la rievocazione dei perduti, ma incontrerà lui stesso frontalmente una morte diventata onnipresente personaggio, una «figura plenaria» che allunga la sua ombra su ogni dettaglio, e con cui l io entra in una Guerra d assedio, come recita appunto il titolo della sezione d avvio. Che «nostra inimica mors» come la battezzava un verso di Distante un padre sia il perno del libro lo testimonia, da subito, il testo iniziale, uno dei più intensi dell insieme: «Questa morte è un officina/ ci lavoro da anni e anni/ conosco i pezzi buoni e quelli deboli, i giorni propizi, la virtù/ di applicarsi minuto per minuto e quella/ di sostare, sostare e attendere/ una soluzione nuova per il guasto./ Vieni, amico mio, ti faccio vedere,/ti racconto». Tuttavia quella di De Angelis non è mai stata una poesia di confidenze, di domestica intimità con il suo lettore. Anche quando si prova nel «racconto» di sé e della propria esperienza, questa voce diamantina affida la propria urgenza a un dettaglio sviato, non all intero, e l immagine non può che risultarne frantumata, ogni eventuale biografia deve farsi ci avvertiva un altro suo grande libro sommaria. Dunque non inganni quell invito frugale, perché l apostrofe-proemio a un lettore-amico finisce col proiettare comunque una luce anche più straniata su quanto segue, dentro un andamento poematico in cui nessuna fra le singole liriche assume un titolo proprio il che accadeva anche nelle ultime due raccolte e in cui ciascun testo assomi- DEANGELIS glia così a una specie di scheggia, colta è l abolizione dei nessi temporali fra le liriche, che emergono di frammento rubato al silenzio. Dentro una ininterrotta meditazione interiore, giocata appunto «mi- enigmatiche («Poi, di colpo, un lu- solo per illuminazioni improvvise, nuto per minuto» dove la morte è nedì di febbraio/ tutto è tornato come prima è uscita/ dal suo feu- un implacabile guerriera, «astuta e discontinua», con cui si cerca «un do,/ ha fatto incursioni, all alba»). patto» o «una trattativa» si intravede dunque un qualche pur tegrato degli ospiti l io lirico non E intanto alle prese con il più innue intento narrativo. può che arretrare debolmente, mostrarsi in tutta la sua mancanza, di- Se il nesso analogico ardito è uno stilema tipico di De Angelis ventando anzi «l incarnazione/di («quel mormorio/ di indizi e milligrammi», «un sussurro di quader- di un sé «invaso dalle domande». ciò che perdiamo», il «precipizio» ni», «il sibilo/ di un ricordo»: il discorso sottovoce è forse uno dei minciava a mostrarsi per la verità Percorrendo un sentiero che co- modi più efficaci e suggestivi di sin dall inizio (basta tornare, ancora una volta, a Somiglianze: «se ti questa poesia), il suo corrispettivo quanto all architettura della rac- togliamo ciò che non è tuo/ non ti MILO DE ANGELIS, «INCONTRI E AGGUATI», DA MONDADORI Nella nuova raccolta, il poeta milanese torna a parlare di Thanatos: ma l io, adesso, affronta di petto il nemico rimane niente») e sembrava in qualche modo diventare esplicito proprio con Quell andarsene nel buio dei cortili (anche lì il soggetto era dentro un incertezza fondativa, capace di diventare riflessione sul proprio fare poesia: «Non ho saputo capire/ non so ancora (...) se i baci sono freddi/ nella mia poesia»), l autore di Incontri e agguati non può che affidarsi a un immagine minimale per ritrarre infine se stesso come «un povero fiore di fiume/ che si è aggrappato alla poesia»: un io caparbio, insomma, e insieme spoglio, costitutivamente fragile. Nella seconda sezione che dà peraltro il titolo al volume il clima di assoluto ha stavolta per «idea centrale» il Niente (e niente o nulla sono pure due emblemi di cui si potrebbe ricostruire una lunga storia dentro la scrittura deangelisiana), cui è anche dedicato una sorta di celaniana invocazione: Questa morte è un officina... Marco Petrus, Corso Sempione, 1998, collezione privata; nella foto, Milo De Angelis «Dolce niente/ che mi hai condotto negli anni/ del puro suono, quando tutto si diffondeva/ dalle vaste novelle dei genitori/ e il mondo sconosciuto ci chiamò». Eppure il tono di mite cupezza è come attenuato, nei testi circostanti, dal battere della memoria su volti e luoghi conosciuti, ritrovati improvvisamente nel ricordo, dalla dolcezza appena accennata senza comunque cedere all elegia dei nomi di persona e dei luoghi. Ed è infine un luogo milanese quel carcere di Opera dove De Angelis insegna a fare da ambientazione e insieme secondo protagonista, potremmo dire per l ultima parte di Incontri e agguati, cioè Alta sorveglianza, sezione dedicata all omicidio di una «giovane sposa» da parte del suo uomo, cui il lettore è avviato da un esergo preso a prestito dall Oscar Wilde della Ballata del carcere di Reading: «Ognuno uccide ciò che ama». Alla Morte e al Niente si aggiunge dunque, in questo congedo, il terzo demone della scrittura di De Angelis, ovvero la Reclusione (che sembra anche diventare, non a caso, pertinenza stretta dell io lirico, oltre che del ragazzo omicida di cui si racconta: «In carcere bisogna parlare/ lo sanno anche i taciturni come te»; «Quando hai cominciato l opera/ eri chiuso nel quadrilatero della tua voce»). Lo spazio-carcere è in effetti continuamente demarcato, toccato, alluso e inevitabilmente interiorizzato («Ma le mura le avevamo già dentro»), mentre il tempo sembra piuttosto sfrangiarsi, perdere consistenza («qui ogni mese può essere infinito»), così che ancora di più la voce lirica può assumere una sorta di potenza visionaria, indispensabile alla trasfigurazione violentemente rastremata del crimine; anche se è una trasfigurazione comunque colma di oggettività, di concretezza, talvolta di raggelati dettagli: «Nella punta di questa matita/ c è il tuo destino, vedi, nella punta aguzza e fragile che scrive sul foglio». Un destino, appunto, è il crimine qui evocato, molto più che un fatto di cronaca, un misterioso «destino che nessun diario/ raccoglie, nessun giornale, cronaca/ o storia», ma che ha bisogno della radicalità della poesia per poter essere detto (e una volta di più si lega così la sorte dell omicida a quella dell io lirico che le dà forma). Una poesia circolarmente ossessiva, frutto di una sorta di metafisica asciutta o negativa sul rovescio e per così dire senza fondamenti («sei tornato/ dall aldilà, hai risposto che dio non esiste/ ma le anime sì»), come quella di Milo De Angelis, che torna qui a regalarci versi che accogliamo fra i suoi più alti: «Riappare quel giorno immobile/ sul sentiero dell estinzione/ e noi siamo la forma destinata/ a quel gesto magistrale:/ ricordo solo il bacio/ che diventò strage cieca e senza tempo». «critico illustre» che aveva decretato «carenza di sentimento» in Buffalo e Keepsake (due poesie delle Occasioni); deve trattarsi, come spiegano le note, di Alfredo Gargiulo, che non apprezzò il secondo libro di Montale e a cui il poeta rispose in una lettera importante, di recente rinvenuta. Non molto diverso sembra il legame tra Carnevale di Gerti (un altra lirica celebre delle Occasioni) e la poesia del Quaderno intitolata Dall altra sponda, in cui si cita proprio «questa Gerti che ormai si rifà viva / ogni morte di papa» e che si conclude così: «Ma come la mettiamo se al tempo degli oroscopi / parve del tutto implume?». Qui non è allusivo solo il titolo, che richiama un verso del Carnevale («Con un segno / della mano additavi all altra sponda»); lo è anche il riferimento agli «oroscopi»: un emblema, forse sì, del «tempo biografico di Montale» (così il commento), ma soprattutto un ironica e volutamente banalizzante riformulazione del rito cui si accenna nell antica lirica per Gerti, con il «piombo fuso a mezzanotte», attraverso cui i protagonisti divinavano per gioco il futuro che li avrebbe attesi nel nuovo anno. Una parte del fascino che alcune poesie del Quaderno riescono a emanare, nonostante la loro apparente facilità e l effettiva prosasticità, risiede proprio in questo effetto di eco, talvolta quasi di rimuginazione. Di qui anche l impegno richiesto al commento: non fermarsi alla chiarezza delle singole parole, ma sfidare l opacità che scherma la logica complessiva del discorso e ne dissimula le premesse, spesso rintracciabili nei testi (come i versi del Montale precedente) e nei contesti (la storia e la cronaca contemporanee, che pure lasciano un segno discreto in queste tarde poesie). M. ANDREA RIGONI Tra l arte e la letteratura un corridoio labirintico: «Scorciatoie per l abisso» di GRAZIELLA PULCE Le Scorciatoie per l abisso di Mario Andrea Rigoni (Aragno, pp. 123, e 12,00) si inseriscono di diritto e in modo del tutto naturale nella illustre tradizione della saggistica italiana e europea. Gli scritti di apertura sono dedicati a Giuseppe Flavio e Isabella di Morra, gli altri riguardano autori e temi dell Ottocento e del Novecento. Sono elzeviri di varia natura e di fattura scintillante su autori come Hawthorne, Browning, Melville, Kafka, Malaparte. L idea di fondo è che la letteratura e l arte siano il territorio di contatto tra due sfere distinte, reciprocamente opposte e incompatibili, due mondi intrecciati e dominati da due principi parimenti diabolici. Un corridoio li separa e questo corridoio non è mai rettilineo ma riproduce le spire di un labirinto inestricabile nel quale si può finire per un caso imprevisto. Transitarvi, orientarsi e muoversi risulta estremamente difficile, ma solo quel transito permette la contemplazione della pervasività e dell inesplicabilità del male. La scrittura di Rigoni, collocata lungo la linea che passando per la gnosi giunge via via fino a Leopardi, Borges e Cioran, si condensa in riflessioni improntate a rapidità e leggerezza di tratto, sostenute da una vertiginosa densità di pensiero che non indulge mai alla descrizione o alla esplicazione. Cultore dell aforistica e aforista egli stesso (oltre che saggista e narratore), l autore presenta il tracciato ellittico di una mente mobilissima, che connette in un lampo punti distanti nel tempo e nello spazio. Tanta velocità e tanta libertà segnano il profilo dell essere prometeico (esplicitamente evocato a proposito dell Achab melvilliano e del Kafka aforista), i cui tratti distintivi di coscienza e orgoglio risuonano netti in questo breve libro che, come una mappa, è in grado di condensare e rendere percepibili estensioni vastissime. Come la bambola di Kokoschka o il mostro creato da Frankenstein, oggetto di due saggi qui compresi, ma anche come l icona di Marilyn o Hester, la protagonista della Lettera scarlatta, ogni configurazione umana in definitiva viene sorpresa nella sua natura di epifania dell inesplicabile, burattino animato al cui interno si muove una corda intangibile e indecifrabile. La scena del mondo consegnata da questo testo è specificamente antilirica e suona quale rifiuto definitivo di qualsivoglia illusione o autoinganno.

6 (6) ALIAS DOMENICA RITORNA «LA BELLOSI PECORA DI GIOTTO» di MARCO MASCOLO È stato finalmente ripubblicato uno dei libri più belli di storia dell arte degli ultimi trent anni: cade proprio quest anno, peraltro, il trentennale de La pecora di Giotto di Luciano Bellosi ( ), uscito per la prima (e unica) volta nel 1985 da Einaudi. Spiace davvero che la Einaudi abbia così ostinatamente evitato di riproporre un testo di tale portata: il libro di Bellosi era comparso nei «Saggi», nella casa editrice «di» Paolo Fossati e Giulio Bollati, quella stessa che ha segnato la cultura italiana proponendo ai suoi lettori testi fondamentali, non solo, evidentemente, nell ambito della critica d arte. Una tradizione certo ormai fuori moda, poco patinata e à la page, alla quale però, oggi più che mai, gioverebbe ispirarsi. Adesso il libro di Bellosi esce per i tipi di Abscondita (pp. 398, e 35,00) che già nel novembre 2014 aveva riproposto un altro testo di Bellosi, il Michelangelo pittore, uscito nel 1970 nella collana «I diamanti dell arte» della Sadea-Sansoni. Roberto Bartalini, in una corposa postfazione, dà conto della genesi del libro e degli sviluppi successivi degli studi, dal 1985 in qua. Nei «Saggi» arancioni Einaudi Bellosi aveva già pubblicato, nel 74, un altro saggio, anch esso molto importante: Buffalmacco e il Trionfo della Morte. Proprio in quello studio è rintracciabile il nocciolo delle argomentazioni riguardo al rapporto tra moda e cronologia, che sarebbero state sviluppate dallo studioso negli anni successivi. Insieme alle considerazioni riguardo alla rappresentazione di san Francesco con o senza barba (originariamente consegnate a un articolo uscito su «Prospettiva» nel 1980), esse sarebbero diventate il primo capitolo de La pecora di Giotto. Da osservazioni apparentemente semplici come il cambiamento della raffigurazione delle vesti femminili, alle quali però Bellosi per primo rivolse la giusta attenzione, iniziano a dipanarsi conseguenze quasi incommensurabili per la datazione delle opere e, di riflesso, per la giusta collocazione cronologica della decorazione della Basilica Superiore di Assisi. In quella Basilica ci si trova di fronte a un immenso spazio, decorato su ogni centimetro quadrato, in cui si sono avvicendate botteghe guidate da vari artisti, che hanno lasciato sulle pareti una delle più impressionanti e straordinarie testimonianze figurative dell arte occidentale. Lì, fianco a fianco, figurano gli affreschi dei pittori oltremontani attivi nelle parti alte del transetto, di Cimabue, del romano Jacopo Torriti, di Giotto. Se si tiene conto che proprio dalle pareti di quella Basilica erano state gettate le basi per il completo rinnovamento della pittura italiana si comprenderà, allora, la centralità di molti dei A trent anni dalla prima edizione Einaudi, adesso per Abscondita a cura di Roberto Bartalini: un libro che ha cambiato il modo di intendere l arte italiana delle origini e anche la disciplina Questione giottesca con occhi puliti: moda, dettagli, rapporti problemi che ruotano attorno a questa decorazione, primo tra tutti quello della paternità delle Storie di san Francesco, l ultima parte del ciclo a essere realizzata. Ma non solo. La necessità di considerare la decorazione della Basilica tutta insieme, dal transetto alla controfacciata, come un progetto unitario, organico, e realizzato quasi à bout de souffle dalle équipe di artisti lì attivi; la capacità di cogliere gli elementi che dimostrano questa sostanziale unitarietà nella concezione, portando avanti i ragionamenti avviati da Hans Belting in un suo importante volume del 1977 (come ben evidenziato da Bartalini nella sua postfazione); l intuizione di individuare in Niccolò IV ( ), primo papa francescano, il committente della decorazione della Basilica, e di conseguenza la necessità di datarla negli anni del suo pontificato o poco dopo: tutto questo costituisce un grande sforzo di ripensamento, in primis rispetto al Giudizio sul Duecento di Roberto Longhi, di cui Bellosi era stato allievo a Firenze. E tuttavia il confronto con le posizioni di tanto maestro, così come era avvenuto già nel Buffalmacco, è libero, aperto, e in molti casi Bellosi ne contraddice le posizioni. Se certo la questione giottesca costituisce il centro, l asse portante del volume, non meno importanti sono le considerazioni che vi ruotano attorno. Nei ragionamenti di Bellosi, infatti, c è spazio anche per una completa riconsiderazione, proprio a partire dai problemi che lo storico dell arte si trova ad affrontare studiando la Basilica Superiore, di alcuni grandi maestri del Due e del Trecento italiani: i rapporti tra Cimabue e il suo geniale allievo Giotto; o, ancora, il ruolo giocato dal senese Duccio di Buoninsegna nel cogliere prontamente le novità proposte da Cimabue tra Firenze e Assisi. Forse in nessun altro studio di Bellosi si coglie così da vicino la sua capacità di evocare contesti storici: basti pensare a come tratteggia i rapporti tra Assisi e Roma o tra Assisi e Firenze, che è a dire i rapporti tra le grandi personalità artistiche che in quelle situazioni si trovarono a operare. E questi contesti sono ricostruiti sempre a partire dall evidenza dello stile, da considerazioni filologiche, che se ben intese e connesse tra loro danno allo storico dell arte una solida base per appoggiare i suoi argomenti. Era, La pecora di Giotto, anche l avvio di una profonda rimeditazione su Cimabue e sui problemi posti dalla sua opera, i cui risultati sarebbero confluiti nella monografia del 1998; e le fila dei ragionamenti su Duccio avrebbero trovato sbocco nella stupefacente mostra senese del 2003, curata da Bellosi, Alessandro Bagnoli, Bartalini e Michel Laclotte. Un confronto «giottesco» stabilito da Luciano Bellosi nel suo storico saggio: in senso orario, Giotto e bottega, «Predica ad Onorio» (part.), Assisi, San Francesco, Basilica Superiore; «Presentazione al Tempio» (part.), Padova, Cappella degli Scrovegni; «San Francesco riceve le Stimmate» (part.), Parigi, Louvre La capacità di Bellosi di porsi di fronte ai problemi senza preconcetti, scansando il pericoloso principio d autorità, gli aveva permesso di impostare su basi nuove proprio il complesso problema delle relazioni tra Cimabue e Duccio, e di rintracciare l evolvere del dialogo che, negli anni ottanta del Duecento, toccò i due (un problema sul quale tornerà in modo più esteso sia nella monografia cimabuesca del 1998 che nella mostra duccesca del 2003), giungendo a proporre una sostanziale revisione della cronologia del più anziano pittore fiorentino. «Gli occhi puliti» di Bellosi (la definizione è di Giovanni Agosti) ci hanno insegnato a guardare le opere senza mai dare nulla per scontato, sottoponendo a una attenta valutazione ogni particolare; e proprio in questa direzione (di cui Bellosi era ben consapevole) dal particolare al generale, si muove il fil rouge de La pecora di Giotto, in cui dal capitolo iniziale dedicato, come detto, ai problemi della rappresentazione della moda e del suo rapporto con la cronologia o al problema della raffigurazione di san Francesco con o senza barba, si giunge, nell ultimo capitolo, a riannodare i fili sparsi, e a proporre un convincente affresco di una delle congiunture più emozionanti per lo storico, quella che ha cambiato le sorti della pittura italiana, influenzandone gli esiti almeno sino al Cinquecento. In questo senso vanno intese anche le tavole che accompagnano il testo e che, come mostra una lettera citata da Bartalini nella postfazione, Bellosi considerava quasi più importanti del testo stesso. Pagina dopo pagina il lettore è condotto, grazie alla scelta delle tavole, sui particolari messi a confronto: all interno dei problemi, proprio all interno. Perché Bellosi sapeva bene come rendere evidente ciò che invece non lo era affatto, come invitare a considerare i dettagli in relazione all insieme dell opera, sapendoli scegliere, quei dettagli, in modo significante, in modo da farli parlare quasi da soli, e non, come è oramai costume corrente, in modo patinatamente irrelato, cioè senza alcun legame interpretativo, neanche con il testo scritto. Proprio la necessità di chiarezza, che si esplicava anche nella limpidezza del dettato, ha permesso a Bellosi il recupero o la ridefinizione di tratti sostanziali delle vicende artistiche italiane e non; semplicemente, ha fatto andare avanti gli studi. La pecora di Giotto è anche un grande libro di metodo; un libro in cui, nel modo limpido che si è detto, sono squadernati sul tavolo gli strumenti dello storico dell arte, i ferri del mestiere. È un libro che spiega le regole del gioco, che aiuta a comprendere un metodo, quello proprio dello storico dell arte, metodo che varrebbe la pena di recuperare in tempi di sbandierata e ancor più spesso malintesa interdisciplinarietà. Più umilmente si dovrebbe ripartire dai dettagli che Bellosi aveva scelto per illustrare il suo libro, e tornare a rifletterci su, per coglierne i nessi, i rimandi, gli scarti. Del resto, come è ben noto, anche un grande storico dell arte come Aby Warburg era convinto che «der liebe Gott steckt im Detail». CLASSICI ITALIANI Giallo dell io in un inverno fiorentino. «Il Grasso legnaiuolo» entra nella Bur di RAFFAELE MANICA Le vicende dei classici italiani nell editoria sono talvolta coperte dal mistero. Nulla da ridire, ci mancherebbe, sul fatto che ogni collezione economica tenga in catalogo tutti i classici maggiori; però è davvero inspiegabile che altri titoli degni di fama facciano comparsa poco e di rado, o mai. Solo oggi esce per la prima volta in edizione economica un titolo straordinario della nostra tradizione, La novella del Grasso legnaiuolo che, in economica e no, dal 1990 (un quarto di secolo fa, ahi) non si vedeva più a stampa: da quando ne procurò un eccellente edizione Paolo Procaccioli per la Fondazione Bembo. Ci si chiede perché senza saper rispondere, visto che non si tratta di una semplice curiosità da eruditi, di uno di quei titoli non ingiustamente rari per la noia cui inducono e destinati ormai ai soli specialisti, che la noia tengono tra i rischi del mestiere, sovente beandosene, giacché maggiore è la noia e maggiore è lo specialista. La Novella del Grasso ha origine in una vicenda datata inverno1410 (il testo dice 1409, secondo il calendario fiorentino) e ha avuto varie redazioni dopo essere stata tramandata a Firenze di bocca in bocca, un mormorare da far ridere tutta la città per più generazioni. Negli anni ottanta del Quattrocento fu fermata nella versione poi più diffusamente corrente da Antonio Manetti ( ), dunque autore del rifacimento e non copista corruttore. Contini, pubblicando la Novella integralmente nella Letteratura italiana del Quattrocento (1976, dall edizione curata a metà Ottocento da Pietro Fanfani), inaugurava così, senza esitare, la scheda introduttiva: «un capolavoro della nostra narrativa, non solo quattrocentesca», riconducendone «la competente fama» solo recente al motivo che «trattandovisi un problema d identità, è abbastanza comprensibile che la si sia voluta leggere in chiave pirandelliana ( un Pirandello per ridere la chiamò il Pompeati)», tratto che deve aver attirato anche Sciascia e Camilleri. Ora la sezione classici della Bur (pp. 109, e 10,50) rimette in circolazione la breve opera: Antonio Manetti, La novella del Grasso legnaiuolo, a cura di Salvatore Silvano Nigro e Salvatore Grassia (quest ultimo curatore della funzionale e precisa annotazione e degli apparati). Con l introduzione Nigro, intrecciando dati eruditi e interpretazione, costruisce una sorta di giallo critico, infine sciogliendo uno dei sensi riposti della Novella in un meccanismo retorico, un anagramma, che sembra moltiplicarne le possibilità di lettura. Vedrà il lettore: come per tutti i gialli non si svela qui la soluzione. Che cosa racconta la Novella? Stiamo alla sintesi di Nigro: «venne fatto credere, al Grasso, di essere diventato all improvviso un tal Matteo. Reso periferico a se stesso, non solo il Grasso precipitò nella bufera di una crisi d identità, con un io costretto a confondersi con un lui abusivo, ma si trovò a vivere per davvero, per pochi giorni, la vita di un estraneo». Il Grasso, malinconioso, ci ispira subito simpatia; scrive Manetti: «Questo legnaiuolo faceva la bottega in su la piazza di San Giovanni, e era in quel tempo in quella arte nel numero de buoni maestri di Firenze; e infra l altre cose egli aveva fama di fare molto bene e colmi e le tavole d altari e simili cose, che non era per allora atto ogni legnaiuolo; ed era piacevolissima persona, come sono la maggiore parte de grassi, e invero più presto aveva un poco del semplice che no; d età di anni circa ventotto, grande di persona e compresso; onde nasceva che generalmente da ogni uomo egli era chiamato el Grasso». Più che artigiano quasi artista, tra gli amici è colui di minor reputazione; e solo costoro, alti d ingegno, ne colgono il tratto di

7 ALIAS DOMENICA (7) AL PALAZZO REALE CASI DI MILANO CRITICI Mostra leonardesca disavventura Expo di GIOVANNI AGOSTI MILANO Si è molto discusso nella primavera milanese di quest anno quale fosse più brutta tra la mostra sull Arte lombarda dai Visconti agli Sforza e quella su Leonardo da Vinci, entrambe a Palazzo Reale. Molti sono i punti di contatto tra le due manifestazioni, impiantate da parecchio: in agenda fin dai tempi della giunta Moratti e quindi per magagne e mancanze, per quelle di pensiero almeno, non si può chiamare in causa la scarsità del tempo a disposizione. Le due mostre hanno inoltre in comune il produttore, l editore, l architetto-allestitore Verrebbe da dire la filosofia della vita. Sono in perfetta continuità, l una e l altra, sia pure per ragioni differenti, con quanto si è visto a Milano per tanti anni: dagli anni ottanta in sostanza, da cui provengono anche i loro curatori (con una sola eccezione). Nonostante le aspettative e le fatiche, i tentativi di provare a organizzare diversamente le manifestazioni culturali gestite dall ente pubblico si sono purtroppo rivelati vani anche nella Milano di Pisapia. E quindi è inevitabile che oggi in città la mostra più progressiva per intelligenza, qualità dell allestimento, sforzo di restituzione di un problema culturale e persino poesia sia quella organizzata da Salvatore Settis sulla riproducibilità delle opere d arte nel mondo classico in una struttura privata: la Fondazione Prada. Solo in quel circuito di mura, in una zona periferica, tra edifici giustapposti con la naturalezza dei vecchi oratori, si rintraccia il filo di un utopia democratica, che mescola livelli altissimi di qualità, nel rispetto pieno dei visitatori. Basta prendere in considerazione le didascalie o i dépliant gratuiti o la cortesia dei custodi. E negli spazi della Fondazione, anche fuori dalla mostra, gli incontri sono stordenti e qua e là memorabili: il Barnett Newman, i Pascali, il tombino con il cuore che sanguina di Robert Gober mentre l acqua scorre, nella Haunted House tinta d oro, o il Lost Love di Damien Hirst con i pesci colorati che volteggiano nello studio del ginecologo, installato nella vecchia cisterna dell antica distilleria. O la caverna di Thomas Demand, nella cantina del nuovo, magnifico cinema. E chi più ne ha più ne metta, in un intreccio tra semplicità: se la Novella è boccaccianamente calandriniana, il Grasso non è Calandrino: non è insomma del tipo del quale serba ancora memoria la vicenda ordita al popolano Gasparino dal Marchese del Grillo, suo sosia, nel film di Monicelli. Tanto è vero che, tornato a Firenze dopo fuga per incazzatura, diventato «maestro ingegneri», fissando in faccia Brunelleschi che chiede la «cagione della partita» risponde: «Voi lo sapete meglio di me». Tanto simpatico il Grasso tanto, diciamo la verità, antipatica la beffa: stordire l identità di uno che non ha avuto voglia di andare a cena. Ma per quanto antipatico, perché induce un asimmetria irrimediabile, lo stratagemma ideato da Brunelleschi e sorretto da Donatello (l eletta compagnia) è una bomba a orologeria, infallibile anche per chi legge. Comincia così: metti una sera a cena, dunque, che il Grasso non si presenti. Gli amici vogliono fargli pagare l assenza cassandone l identità. Il presente, passato e futuro in cui capita persino d incontrare un gruppo di arazzi con storie mitologiche su cartone se non ci sbagliamo io e Jacopo Stoppa dei fratelli Dossi E ci sarà da ritornarci con calma per verificare la plausibilità dell attribuzione. Grasso, Manetto, vive con la madre, che però al momento sta fuori per commissioni, «a fare bucato ed a fare insalare carne». Via: Brunelleschi si chiude in casa di Manetto che, tornando, non riesce a entrare, insiste e infine sente da dentro una voce che sembra la sua, proprio di lui Manetto: «Deh, Matteo, vatti con Dio, ch io ho briga un mondo», gli dice. L intenzione di Brunelleschi, s è accennato, è far credere a Manetto Ammannatini d essere Matteo Mannini, e significa qualcosa che i personaggi si chiamino quasi allo stesso modo: i nomi, nella Novella, portano quasi più a sperdersi che a identificarsi. Passa di lì Donatello, come per caso così rivolgendosi a Manetto, già dubitoso: «Buonasera, Matteo, cerchi tu el Grasso?». Di snodo in snodo, cruciale la stranita meditazione davanti al giudice co-beffatore: «Ora ditemi, se io che era el Grasso sono diventato Matteo, di lui che ne debbe essere?»; e strepitosa la replica del Invece il match tra le due mostre interferenti di Palazzo Reale tasta il polso della cultura media, nei suoi aspetti ufficiosi e ufficiali, di Milano, quella con i piedi per terra e che ha rinunciato, a differenza di quanto fatto da Prada, a un pensiero politico. Prima di visitarla, pensavo che l esposizione leonardesca, nel suo carattere decisamente da parata, adatto alla coincidenza con un esposizione universale, secondo un vecchio schema che nessuno si è sentito di mettere in discussione, dovesse essere giudicata con più benevolenza di quella giudice, con aggettivazione pre-azzeccagarbugliesca: «È necessario che e sia diventato el Grasso; questo è caso scambievole». Per il Grasso Segre parlò, dentro il comico, di «tragica crisi epistemica», e la complessità del racconto, velata dalla superficie tutta narrativa, non vorrebbe termini meno impegnativi; anzi le letture che si sono posate sulla Novella dicono che, da dove la si guardi, essa ha diversa faccia, sovranamente ambigua nella sua strutturazione farsesca. Una campionatura di tali sguardi sta in coda al volumetto. Qualche lacerto: Cecchi: Brunelleschi e Donatello, «distraendosi dalle speculazioni della cupola, si direbbe che avessero voluto prendersi il gusto di costruire lo scacchiere di una città tutta a specchi, dove la gente batte il capo in sé stessa o cammina a piedi in aria. La burla dilaga e si rifrange in una proiezione di mille spigoli ed assi, creando un moto di capogiro lentissimo, colossale, e intollerabile nella sua che ha occupato per tre mesi le sale basse, e tanto infelici, del Palazzo. Infatti l Arte lombarda dai Visconti agli Sforza del 2015 mi era sembrata come un remake, non necessario, di Rocco e i suoi fratelli o della Dolce Vita o del Gattopardo; perché scomodare quella suprema costruzione storiografica inventata da Roberto Longhi nel 1958 proprio per l allora invidiato Palazzo Reale di Milano e riproporla, aggiornata, al pubblico di oggi con tanta minore qualità nello stile espositivo e in quello della ricerca? Perché non scegliere un altro taglio cronologico, meno compromesso da quel modello illustre? Bastava una passeggiata nelle sale per rendersi conto della distrazione e del poco rispetto per il senso civile che una mostra, a maggior ragione in uno spazio pubblico, dovrebbe avere: cartellini avari, senza spiegazioni di sorta, secondo lo stile del limitrofo Museo del Novecento; le date delle opere qualche volta presenti e qualche volta no, persino riferimenti generici come «seconda metà del XV secolo». E chi s è visto, s è visto. In compenso, tra musiche d epoca che avrebbero dovuto «fare atmosfera», stendardi di gusto neorinascimentale con indicazioni genealogiche su agnazioni e parentele tra rami maggiori e minori dei Visconti e degli Sforza del tutto irrelate a quanto si vedeva nelle sale. E intanto, senza colpo ferire, capitava persino di incontrare il ritratto di Bernardino dei Conti raffigurante il duchetto, cioè lo sfortunato figlio di Gian Galeazzo Sforza e di Isabella d Aragona, accompagnato da un cartellino che lo indicava come l effigie di Francesco II Sforza, l ultimo duca di Milano, figlio di Ludovico il Moro e di Beatrice d Este. Lo standard del catalogo è improntato agli stessi criteri, almeno per quanto riguarda le scelte grafiche. Ma tutto questo potrebbe sembrare un peccato veniale, se non fosse che dall Arte lombarda 2015 non era possibile comprendere, secondo un racconto serrato, la grandezza del Trecento e del Quattrocento in Lombardia, lo scopo cioè della mostra del 1958: «sciogliere la cultura lombarda dagli ultimi ma ostinati residui del lungo complesso d inferiorità che l ha ostinatamente tenuta in soggezione al confronto d altre regioni d Italia; della Toscana, soprattutto». Giovanni da Milano o Giusto de Menabuoi erano del tutto sottorappresentati, il carattere dorsale di Vincenzo Foppa per questa vicenda era completamente sottaciuto, del Bramantino non c era neanche un dipinto, di Leonardo neanche un disegno. E si potrebbe continuare per un po, con l amarezza nel pensare alle persone brave che hanno preso parte a un impresa tanto scombinata, così priva di regia: perché ci sono state? Perché non hanno saputo dire un «no, grazie», «magari, un altra volta»? E non è una giustificazione ripetere che a Palazzo Reale c erano oggetti bellissimi; non bastano a fare la qualità di una mostra. È semmai vero il rovescio: si possono fare mostre bellissime, anche senza oggetti bellissimi. Così come, a teatro, ci sono spettacoli meravigliosi anche a partire da testi mediocri. Ma quando ho poi visitato la mostra Leonardo da Vinci Il disegno del mondo, non ho più avuto dubbi su a quale delle due esposizioni, così interconnesse, spettasse la palma. Difficile è superare il record di Leonardo. Quanto matematica consequenzialità»; Parronchi: «l obbiettivo ( ) non era la realtà, bensì l io soggettivo, l idea che il Grasso aveva di sé»; Borsellino: «Filippo e il Grasso sono congiunti a distanza da un contatto di simulazione. L uomo di genio sta tentando l impossibile della metamorfosi simulata e deve contare, se non sull intelligenza, sulla prudenza del suo antagonista»; Manganelli: «uno dei testi più singolari della nostra letteratura», inquietante capolavoro di «lievità e ferocia dell intelligenza». Servisse un altro blurb, si darebbe corso al seguente: ambientata in un inverno fiorentino, raccontata chissà quante volte sbucciando castagne e bevendo Chianti, è una novella buona in ogni stagione, specialmente nel vuoto d identità di una vacanza, prima di rivedersi Rita Hayworth bionda coi capelli corti tra acquario e specchi nella Signora di Shangai di Welles o Mr. Klein di Losey: qui, scrive Praz, il Grasso entrerebbe nell età dell ansia. Pittore lombardo, «Gioconda nuda», collezione privata Nella sfortunata primavera milanese (unica eccezione, Prada), «Leonardo» è un apice e ricorda il si era paventato fin dall annuncio, al tempo di Letizia Moratti, di una mostra leonardesca per l Expo, si è puntualmente verificato: l esposizione ha aggiornata ai tempi d oggi la cadenza e l impegno e i risultati di quella del 1939, quella congerie di opere, fortemente voluta dal Duce, che aveva occupato per alcuni mesi il Palazzo dell Arte. Longhi l aveva definita «abominevole»; oggi ce ne ricordiamo soprattutto per la recensione di Carlo Emilio Gadda e per l allestimento, che dalle foto sembra qua e là bellissimo, con prove di Giuseppe Pagano e Lucio Fontana. Nella Milano di oggi non si può dire altrettanto della messinscena: ma certo è più discreta di quella dell Arte lombarda. Qui niente vetrine a forma di flaconi di profumo; ci sono invece cartellini provvisti di indicazioni sulle date di nascita e di morte degli artisti; luci ben puntate sui disegni, che si vedono con agio, anche perché, a differenza delle aspettative, la mostra è affollata ma non gremita. Niente a che vedere con le code per Klimt o Chagall, almeno le volte in cui ci sono stato io. I problemi sono nell impianto dell esposizione che rifiuta a priori l ordinamento cronologico, distribuendo i tanti disegni di Leonardo, generosamente prestati dalle maggiori raccolte, e i pochissimi dipinti in sezioni intercambiabili e dai titoli generici e vani: «Il disegno come fondamento», «Il sogno», «L unità del sapere», «Realtà e utopia» ; c è persino un «De coelo e mundo» (sic, p. 397). Quanti di questi fogli meravigliosi potrebbero migrare da una sala all altra senza colpo ferire, senza togliere o aggiungere nulla. Su questo traliccio opinabile si innestano confronti, di rado perspicui, con opere di altri artisti, da Botticelli ad Antonello da Messina. Sorprende, in questa miscellanea, la sicurezza con cui la Madonna Dreyfus, giunta dalla National Gallery di Washington, è esposta come una primizia di Leonardo, quando a rivederla pare proprio un apice del giovane Lorenzo di Credi nella bottega di Verrocchio, e altrettanto si deve dire per lo scomparto di predella del Louvre con l Annunciazione. Perché aprire la mostra con un tondo del Ghirlandaio dipinto a Firenze nel 1487, quando Leonardo era ormai già da anni a Milano? Viene in mente la recente, e pretenziosa, esposizione su Bramante a Brera, dove, per dare conto dell Urbino cruciale in cui si è formato l artista, era presentato un malandato Cristo benedicente con l attribuzione a Bartolomeo della Gatta, che qualora si ammetta la bontà del riferimento dovrebbe toccare almeno agli anni ottanta del Quattrocento; peccato che Bramante fosse già a Bergamo nel 1477, e quindi quel dipinto nulla gli avrebbe potuto insegnare. Queste non sono questioni di lana caprina, sono precondizioni quando si inventa una mostra che pretende di avere una base storica e che si rivolge a un pubblico ampio che ha il diritto di imparare cose giuste. Nell esposizione leonardesca non è impeccabile la conoscenza degli studi recenti e anche tra quelli del passato non sono certo i mi - SEGUE A PAGINA 8

8 (8) ALIAS DOMENICA ALLA MONNAIE L ARTISTA DA CONCETTUALE PARIGI BELGA SCOMPARSO NEL 1976 Unione di arte e critica, codice figurativo e alfabetico: un détournement istituzionale che amalgama Magritte e Duchamp di RICCARDO VENTURI PARIGI «Ci sono tante aquile», rispondo a chi mi chiede un giudizio conciso sulla mostra di Marcel Broodthaers alla Monnaie di Parigi, così come direi «tanti specchi» per una di Pistoletto o «tanto ketchup» per una di Paul McCarthy. Con la mostra L aquila dall Oligocene ai nostri giorni tenuta a Düsseldorf nel 1972, con oltre 270 rappresentazioni del rapace, Broodthaers strappò l aquila dai cieli della mitologia, della simbologia evangelica, dell imperialismo degli stati-nazione per farne il feticcio della sua impresa artistica. Chi osò tanto? Un poeta che a quarant anni, alla fine del 1963, decise di diventare artista. Non lo fece per ispirazione, per placare qualche demone interiore che gli tormentava l animo, ma in modo del tutto deliberato, pianificandolo «a tavolino» come si risolve un equazione. I lettori dei libri di poesia, si sa, sono scarsi, troppo parchi e astratti da immaginare. Il poeta si chiese così se anche lui poteva conferire una dimensione collettiva al suo lavoro, conquistare un vero pubblico, inventarsi qualcosa d insincero, insomma vendere qualche cosa. Diventando artista a quarant anni, Broodthaers scoprì non tanto le belle arti ma l audience e lo spettacolo, al punto che anziché produrre opere d arte come altri artisti che sono saltati dalla parola all immagine, dalla pagina all ambiente realizzò un museo. Non un museo come tanti ma un museo d artista, il cui destino è scisso dall agenda istituzionale e dalla sua logica capitalista. Un museo che è assieme opera d arte e discorso sul sistema museale, un «détournement istituzionale», una «critica dell industria culturale» (Rosalind Krauss), un «luogo di contestazione poetica» (Michel Draguet). Di questo museo Broodthaers è il direttore quanto il primo spettatore, l artista e il critico, il conservatore e il gallerista. Amplissimo è il suo margine di manovra: del suo museo l ex poeta dichiara a piacimento l apertura e la chiusura, esercita pieno controllo sulla collezione e sull installazione, ne elabora il materiale promozionale, la corrispondenza, i cataloghi (pensati come abbecedari o dadi a 26 facce), le affiches, i comunicati ufficiali e altri documenti, ne orchestra i Marcel Broodthaers tra museo e Museo rituali e le convenzioni burocratiche che diventano a loro volta artefatti da esporre. Unione di arte e critica, immagine e parola, logica visiva e logica concettuale, codice figurativo e codice alfabetico, Broodthaers amalgama Magritte e Duchamp. Il linguaggio poetico dei suoi esordi incontra il linguaggio della comunicazione, in una tensione tra slanci letterari e impellenze burocratiche, tra estetica spettacolare e logica dell amministrazione (Benjamin Buchloh), tra ragione speculativa o logico-matematica e dimensione dell assurdo. Non sorprende che in questo contesto una teoria dell arte potesse servire da pubblicità per un prodotto artistico. Broodthaers usa la storia del museo e del collezionismo come un reservoir, un materiale artistico. Anziché esporre delle opere fa dell esposizione stessa un opera. Un arte dell esposizione che anticipa il post-modernismo e che, a partire dagli anni settanta, chiamiamo Institutional critique. Il Musée d Art Moderne Département des Aigles nasce nel 1968 in seguito all occupazione della Salle de Marbre del Palais des Beaux Arts di Bruxelles e alle proteste contro la gestione della cultura belga come se fosse un brand da consumare. Delle dodici sezioni del Museo, le prime due (Section XIXeme siècle e Section Littéraire) vengono installate nello spazio domestico dell appartamento brussellese di Broodthaers. Tra queste restano celebri la Section Financière (Colonia 1971) che dichiara il fallimento del museo e ne sancisce la vendita, e la Section des Figures (Düsseldorf 1972), quella con tante aquile ora esaustivamente ricostruita alla Monnaie. Ma che cosa è una Sezione? Rispetto all installazione che rimanda alla mera disposizione di materiali eterogenei in uno spazio determinato, la Sezione fa i conti con un ordine soggiacente. Alla lettera, una sezione è anzitutto un incisione, un intersecazione, un taglio trasversale che permette di vedere dentro alle cose, di metterne alla luce la struttura interna, di offrirne uno spaccato, un piano di sezione. Una sezione è inoltre una suddivisione, una ripartizione o, nel linguaggio militare, un reparto. Una sezione indica infine non un insieme ma una singolarità, uno specimen, come le lamine sottili poggiate sui vetrini di un microscopio per essere esaminate. La sezione manifesta così un doppio impulso per la classificazione e per il frammento. È agli antipodi dell unicità dell opera d arte, perché può essere moltiplicata, rendendo visibili le condizioni di produzione dell opera d arte e la sua istituzionalizzazione. Allo stesso modo, quella di Broodthaers è un opera la cui piena realizzazione, la cui totalità è costantemente differita. Le sezioni sono virtualmente inesauribili, come lo è la collezione di aquile. Di cosa esattamente il museo di Broodthaers è la sezione? a quale insieme alludeva: a quello della storia dell arte, della storia dei musei o a quello più circoscritto e intimo dell esistente? Nella sezione mi sembra di riconoscere il cuore pulsante dell opera di Broodthaers, ovvero il frame della forma-museo, soprattutto a partire dalla scomparsa dell artista, avvenuta nel 1976, il giorno del suo compleanno, e dall organizzazione di esposizioni postume. Come esporre un museo all interno di un museo? dove passa lo scarto tra il museo di Broodthaers e l istituzione che lo accoglie? come lavorare, celare, colmare, attraversare quella soglia sottile ma affilata come una lama? Sottile come i terreni angusti acquistati da Gordon Matta-Clark nel Queens, vialetti d accesso, marciapiedi, lastre per pavimentazioni stradali, grondaie, canali di scolo: proprietà in vendita ma per la maggior parte fisicamente inaccessibili. Cosa accade quando il museo (m) immaginifico di Broodthaers entra in un museo (M) vero e proprio? Non basta mettere m dentro M, fare di m una parte del tutto M, farne una sezione perché, lo abbiamo accennato, m è già in sé una sezione. Non c è il rischio che m si mangi M (il contrario della storia del pesce piccolo e del pesce grande), che la stramba collezione privata di un poeta-artista diventi l anamorfosi che riflette e distorce l istituzione museale? Verosimilmente M e m restano in una tensione irrisolta, in una zona di indecidibilità, a volte inavvertita altre volte lancinante: mi sento evolvere all interno della Monnaie e, un attimo successivo, all interno del Département des Aigles; transito senza soluzione di continuità da m a M e da M a m quasi senza accorgermene. Tutto è frame in Broodthaers. Le vetrine, con la loro trasparenza e la loro messa a distanza dell oggetto esposto, con la loro accessibilità controllata. Il vasetto di vetro da marmellata in cui è rinchiusa la foto di un occhio presa da una pubblicità di cosmetici (L oeil, 1966). Le casse da imballaggio in legno, sarcofagi resi viventi dalla proiezione di diapositive di opere d arte di un museo immaginario. La didascalia Questa non è un opera d arte o il magrittiano Fig. da cui, a detta di Broodthaers, si sarebbe potuta ricavare una teoria dell immagine che non esplicitò mai. La Salle utilizzata nel 1975 all Hôtel de Rotschild di Parigi, dove gli spazi si embricano uno nell altro: la Salle Blanche ricostruisce l interno del suo appartamento-museo brussellese, infittendo così la confusione tra m e M. Broodthaers ha messo il paratesto museale al cuore della sua pratica artistica una gioiosa messinscena del fenomeno artistico. Museo, Dipartimento, Sezione: una tassonomia culturale, ordinata in modo gerarchico, che rende visibile l equazione tra l idea dell arte e l idea di potere (Thierry de Duve). E che non dimentica le ragioni della poesia: a Broodthaers bastò cancellare qualche lettera per trasformare una Carte du monde politique in una Carte du monde poétique (1968). Il poeta che diventò guardiano del suo museo ci ha lasciato un lavoro inclassificabile che non si risolve né nell immaginifico surrealista né nelle fredde tavole dell arte concettuale ma si situa in un entre-deux visivo e linguistico inesplorato. Una gerenza poetica dell esistente, dall Oligocene ai nostri giorni perlomeno. Una delle stanze della mostra su Marcel Broodthaers alla Monnaie di Parigi; in foto, l artista belga AGOSTI DA PAGINA 7 Nel finale l infilata delle Gioconde nude, per fortuna non c è Botero gliori a fare da bussola: dalla bibliografia generale manca persino il Leonardo uomo di lettere di Carlo Dionisotti; solo qualche esempio di magagne di tipo diverso: nella questione, che occupa tanto spazio, delle teste di Alessandro Magno e di Dario realizzate da Verrocchio e donate da Lorenzo il Magnifico al re d Ungheria Mattia Corvino è completamente ignorato lo studio risolutivo di Francesco Caglioti; un codice del British Museum con studi di ingegneria civile e militare è presentato con la data « circa» e con l attribuzione a Giacomo Cozzarelli, i cui estremi biografici sono La stessa cronologia, « circa», è accolta per un manoscritto della Biblioteca Nazionale di Firenze, i cui disegni spettano, lo si sa da tempo, al Maestro di Stratonice, con tutto quello che ne consegue. Idem dicasi per i due dipinti di Filippino Lippi, uno da Londra e uno da Budapest, che sono esposti entrambi con la data «1470 circa», tenendo per buona la nascita del pittore nel 1457, così che li avrebbe realizzati da tredicenne. Ma che cosa dire degli Este considerati i signori di Mantova (p. 572)? Della Danae di Baldassarre Taccone definita «opera musicale in rima» (p. 554)? Leggendo il ponderoso catalogo, così poco accessibile tra ripetizioni e divagazioni, si potrebbero riempire pagine di annotazioni del genere: limitiamoci ancora a una. Il San Gerolamo della Pinacoteca Vaticana, su cui si può discutere (io non ci credo) se spetti al 1490 circa come recita il cartellino, è detto «acquistato dallo Stato italiano nel 1856 per i Musei Vaticani» (p. 527): nel 1856? Lo Stato italiano? E fermiamoci qui. Non c è un calmiere qualitativo nell esposizione leonardesca, dove accanto ad autentici capolavori, non mancano opere sotto il livello minimo che un esposizione del genere richiederebbe. Questo è particolarmente evidente nelle più infelici sezioni della mostra, quelle dedicate ai seguaci di Leonardo e alla sua fortuna. Per volontà dell assessore si sono evitate alcune presenze contemporanee più che discutibili, già annunciate in una conferenza stampa della scorsa estate, dalla Gioconda grassa di Botero al Cavallo di Aceves. Nonostante questo il livello del finale della mostra è davvero basso: e l infilata di Gioconde nude, di cui una di proprietà privata insignita del cartellino «Ambito di Leonardo da Vinci», è indimenticabile. Particolarmente disonorevole è l esposizione come un autografo di Francesco Napoletano (in mostra, ma non in catalogo, a sancire una doppia verità) di una Madonna, ancora una volta di collezione privata, che non è altro che una tarda copia dal dipinto posseduto dal Castello Sforzesco e presentato lì accanto: incidenti del genere erano comuni al tempo del Cinquecento lombardo, la fortunatissima esposizione del 2001 a cui, non a caso, uno dei due curatori della mostra odierna aveva partecipato.

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