2. FLAVIO PORTALUPPI

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1 1. PROLOGO Innocent climbing. Secondo Pat Riley, il grande guru del basket NBA, succede alle squadre ben allenate e ben costruite quando improvvisamente come per magia gli errori si riducono, la mentalità diventa quella predicata per settimane invano dal coach e i risultati assumono contorni sorprendenti, i giocatori maturano il piacere, la voglia di stare in campo, assieme, di tradurre in pratica quello che prima era sacrificio. Era fatica. Difficile dire quando l'olimpia abbia spiccato il balzo in avanti, quando abbia smesso di essere un progetto, un'idea e invece è diventata una squadra, quasi una macchina da guerra, da record, da vittorie. Quella che racconteremo è la storia entusiasmante di una stagione entusiasmante, di un progetto diventato in fretta, ma improvvisamente, un modello. Potete leggere questa storia accompagnandoci tra aneddoti, ricordi, gioie, momenti brutti, accenni di crisi e decidere voi stessi quando è successo. Quando c è stato l Innocent Climbing? Forse a Cantù, subendo la lezione di basket di cui parlò Alessandro Gentile? Forse a Istanbul dopo la prima batosta al debutto in Eurolega o magari il giorno del suicidio di Roma, della crisi di Coppa Italia. Forse invece nella grande notte del Forum quando i bicampioni d'europa dell'olympiacos vennero annientati. Ognuno ha la sua idea. Forse tutto è nato in tante piccole tappe. Durante il viaggio. Perché in ogni percorso quello che conta non è il momento in cui tagli il traguardo ma tutto quello che ti ha portato fino lì. Il viaggio. E il viaggio è cominciato davvero nel mese di agosto, nella sala riunioni della sede del Lido, quando ai giocatori fu mostrato un video che ripercorreva un pizzico di storia dell'olimpia ma soprattutto i tratti somatici del vero giocatore Olimpia. Uno che - era scandito nel video - non ha paura di niente. L'immagine simbolo per rappresentare il concetto era quella di Roberto Premier nella finale per lo scudetto di Livorno nel Premier, a fine gara, circondato dal pubblico avversario, solo contro tutti, a menare pugni, senza paura. Quella clip venne cancellata perché era troppo forte, perché a troppi giocatori cui il nome Premier avrebbe detto poco o nulla, avrebbero potuto interpretare male. Ma Premier sarebbe stato orgoglioso di far parte di questa squadra, capace di riemergere dal nulla, dalle difficoltà, di vincere lo scudetto rimontando da meno 8 nel quarto periodo. Quando i giocatori subito dopo misero piede in laboratorio, ovvero nella palestra secondaria del Lido, dove la squadra si allena nel 90% dei casi, trovarono una scritta che sarebbe stata destinata a suscitare grande curiosità. In inglese recita: se non sei qui per vincere sei nel posto sbagliato. La frase è stata copiata dallo spogliatoio dei New York Knicks ma non voleva essere solo uno slogan. Voleva essere un messaggio chiaro, martellante. Conta solo vincere, provarci, non conta nulla di altro. Statistiche, soldi, contratti. Solo vincere. Quindi solo la squadra. Non era una banalità. Vincere non è mai facile, non lo è mai stato. L Olimpia è partita da una squadra tutta nuova, con uno staff tecnico rivoluzionato, metodi diversi, attraverso un processo di crescita straordinario. La squadra che perse al debutto a Brindisi non era certo la stessa destinata ad avere un ruolo da protagonista in Europa. E i momenti difficili non sono mancati, alcuni già menzionati. Persino nei playoffs, affrontati sulla scia dell eliminazione dai quarti di Eurolega per mano della squadra che poi avrebbe vinto il titolo, il Maccabi Tel-Aviv. Quell eliminazione, causata anche da una rocambolesca sconfitta in gara 1, aveva elevato il livello di tensione attorno alla squadra trasformando un Eurolega importante, bellissima, divertente in un Eurolega percepita talvolta erroneamente come quella dell occasione sprecata. Il peso della responsabilità è andato in campo con l Olimpia nei playoffs italiani, soprattutto contro Pistoia in un primo turno rivelatosi durissimo e rispettoso del fattore campo. Ci sono stati altri momenti complicati: la sconfitta con Sassari in gara 5 e l obbligo di giocare, senza Daniel Hackett, in gara 6 la miglior partita dei playoffs. E

2 naturalmente quella, sempre in gara 5, con Siena che ha portato la squadra immeritatamente sull orlo del baratro, un baratro dal quale è riemersa vincendo gara 6 in trasferta, l ultima partita casalinga della storia della Mens Sana, con una partita mostruosa di Alessandro Gentile e il canestro risolutivo, sulla sirena, liberatorio, di Curtis Jerrells. Lo scudetto è stato il frutto di un progetto, nato nel 2008 quando l Olimpia venne rilevata dalla Giorgio Armani SpA diventandone un espressione diretta. A quei tempi, Livio Proli, presidente designato, decise di costruire non solo una squadra con un marchio prestigioso stampato sulle maglie ma un progetto vero, basato su sponsor, ricavi, attività sociale, affiliazione dei club della zona e non solo per radicare il nome Olimpia sul territorio (l Armani Junior Program), un certo stile, trasparenza, per vincere ma in modo sano con un club che fosse riconoscibile e destinato a durare nel tempo, con radici solide. Proli ha coronato il suo obiettivo il 27 giugno 2014 quando solo dentro lo spogliatoio, davanti alla sua gente, si è lasciato andare alla gioia. Per anni, ha combattuto contro diffidenza, critiche, molte delle quali ingiuste e moltissime assurde, ingoiando bocconi amari per costruire una società che fosse un esempio, che avesse radici solide oltre che una squadra, combattendo contro la perversa tendenza dello sport italiano di incensare solo i vincitori e considerare tre secondi posti solo altrettante occasioni perse, accettando la logica secondo cui conta solo quello che fai in campo non quello che costruisci attorno nel valutare un manager. Il 27 giugno 2014, assediato in fondo alla panchina e poi rapido nel guadagnare lo spogliatoio, Livio Proli ha potuto urlare tutta la sua gioia, due giorni dopo essere stato il primo, negli spogliatoi di Siena nei secondi successivi alla vittoria di gara 6 quando era importante non sprecare energie nervose vitali. Lucidità innanzitutto.

3 2. FLAVIO PORTALUPPI Flavio Portaluppi è uno dei più grandi lavoratori che esistano al Mondo. La sua forza è la capacità sovrumana di autodisciplinarsi. Quando si mette in testa un obiettivo, lo fissa, lo guarda negli occhi, nulla lo distoglie dal desiderio feroce di perseguirlo. Conoscendo Portaluppi il dirigente, non è difficile comprendere come abbia fatto, contro tutti i pronostici, a diventare un giocatore di successo, un giocatore non protagonista ma efficace di una squadra come l Olimpia anche in epoche importanti come nella stagione del piccolo slam di Boscia Tanjevic. Portaluppi è un lavoratore infaticabile, è serio nell approccio e aperto di mente. Facile immaginare che ad un certo punto della sua carriera si sarà reso conto di poter sfondare solo se il suo proverbiale tiro da fuori fosse stato usabile, quindi accompagnato da una grande rapidità di esecuzione. Che si è costruito fino a farla diventare il proprio marchio di fabbrica. Da un ex giocatore di lungo corso ti aspetteresti in effetti che come dirigente fosse in sostanza totalmente rapito dall aspetto tecnico della professione: scelta di giocatori, scouting, indirizzi programmatici. Invece a tutto questo ha aggiunto una straordinaria disponibilità a imparare ed essere competitivo in tutto: gestione finanziaria, comunicazione, pubbliche relazioni, ticketing, l ultima grande passione assieme alle corse di lunga durata, scoperte oltre i 40 e aggredite con la disciplina mentale del fachiro (chi lo conosce sa di cosa stiamo parlando). Per svelare un aneddoto: ad un certo punto la passione per la corsa dentro lo staff dell'olimpia è diventata una pratica anche scaramantica. Protagonisti principale, ovunque e dovunque, a Sassari o Siena, ad Assago o Tel-Aviv con Portaluppi anche il team manager Simone Casali, qualche volta Giustino Danesi e spessissimo il presidente Livio Proli. Viene da Corsico, Flavio Portaluppi, e arrivò all Olimpia da bambino. Il primo allenamento? Mi sentivo del tutto inadeguato, confessa. Ma era piccolo, leggero e bravo. Lo presero e lo tennero all Olimpia, dove ogni anno scalava il ranking della considerazione e abbatteva pronostici fino ad arrivare alle nazionali giovanili e infine in prima squadra. Dicevano non avesse il fisico per fare la serie A, poi per giocare nell Olimpia, poi per giocare in Eurolega. E riuscito a fare tutto ed è il secondo bomber nella storia del club. Nel 1996 segnò il canestro da tre punti dello scudetto, in realtà quello della staffa perché quello vero lo segnò Dejan Bodiroga in gara 3 a Bologna, sull 1-1: quel canestro ci riportò a Milano per chiudere in gara 4 ed è quanto facemmo. Cresciuto nel settore giovanile dell Olimpia, quando il club venne acquistato da Bepi Stefanel che portò a Milano in massa i giocatori della Trieste di allora, lui fu tra i pochi superstiti. Andarono via Montecchi e Antonello Riva, ad esempio, ma non lui. Tanjevic, allenatore innamorato dei progetti e del fisici sensazionali, scelse il suo tiro. E non se ne sarebbe mai pentito. La stagione chiave della sua carriera fu quando, giovanissimo, venne ceduto in comproprietà ad Arese in Serie A2. Devastò un campionato nel quale ci si chiedeva se sarebbe stato competitivo, obbligò l Olimpia a ricomprarselo e capì quanto è importante nell evoluzione di un atleta mettersi in discussione ad un livello inferiore. Quando da dirigente fece la spola tra Cremona e Milano salvo tornare da general manager nell estate del 2012 Gianluca Pascucci lasciò per andare nella NBA a Houston disse che Cremona potrebbe essere per me da dirigente quello che Arese è stata da giocatore. Se la prima stagione da general manager è stata difficile per i risultati inferiori alle aspettative, le tante crisi vissute da un gruppo, la seconda l ha toccato dal punto di vista personale. Per la prima volta nella sua vita si è trovato discusso non tanto come capacità ha sempre avuto la forza mentale per reggere l urto dell indifferenza o dello scetticismo quanto come statura morale. Portaluppi, sempre educato, amante dei toni bassi, duro quando serve ma mai sgarbato, marito e padre modello di due ragazze meravigliose, lavoratore indefesso. Accusato in modo tanto ingiusto da sembrare surreale da una frangia di tifosi dopo l episodio che comunque ha segnato una parte di stagione, quello dell allenamento ritardato per il "confronto" tra una quarantina di tifosi. I cori, gli attacchi

4 personali l hanno turbato. Probabilmente ha trovato nel sostegno di chi lavora con lui tutti i giorni il conforto per attribuire a quanto accaduto il giusto significato, il peso che meritava. La partita interna con Pesaro in un Forum occupato da meno di 6000 persone, una rarità da un certo momento in poi, è stata la più difficile perché il suono dei contestatori si è sentito meglio. A fine gara Alessandro Gentile con un gesto di grande generosità corse verso il tunnel per portarlo in campo insieme alla squadra a salutare la parte a favore del tifo biancorosso. Portaluppi rifiutò l invito per dignità, buon senso, perché ama i toni bassi. Fu il giorno dopo che nacque l idea, di Gentile, di andare in campo contro il Barcellona con le t-shirt e il suo nome sulle spalle, per manifestargli sostegno (l Eurolega obbligò a rispettare le sue norme di fatto cancellando l iniziativa, rinviata per la gara seguente contro Cantù: qui possiamo ribadire che fu totalmente un idea dello spogliatoio e che Portaluppi non ne era minimamente al corrente. Fu il presidente Livio Proli con una spintarella a cacciarlo fuori dal tunnel perché vedesse cosa stesse accadendo in campo). Lo scudetto da dirigente è stato un sollievo, il premio per due anni vissuti sempre sul filo del rasoio, fino alla fine, superando anche difficoltà di mercato, inevitabili quando una squadra viene ricostruita da zero come l'olimpia dello scudetto numero 26. Sfumata - questa era la situazione estiva - la pista Hackett, il viaggio a Las Vegas per la summer league aveva proposto la candidatura dell'esplosivo realizzatore passato anche per i Lakers, Andrew Goudelock. Era tutto pronto per l'annuncio ma mancava la firma. Solo la firma come amano scrivere i giornalisti che fanno mercato. Sottintendono che l'accordo è raggiunto e restano da preparare solo i documenti. Ma in una trattativa la firma è tutto. E Goudelock la mise sotto il contratto scritto dall'unics Kazan. A Milano avrebbe giocato playmaker, particolare importante per la sua carriera NBA futura e avrebbe giocato in Eurolega, vetrina migliore. Ma Kazan offriva il 40% in più di soldi. E i soldi vinsero. Così la scelta cadde su Curtis Jerrells. Il general manager Flavio Portaluppi lo seguiva da tempo. Era stato in procinto di venire a Milano già l'inverno precedente, quando venne rilasciato Omar Cook e venne preso Marques Green. Banchi era attratto dal talento realizzativo e dalla personalità forte, necessaria per farsi largo in una squadra con giocatori dal carattere forte come Langford, Gentile. L'estate scorsa c'era una grande voglia a Milano di avere una squadra operaia. La definizione spaventava Banchi perché il termine, utilizzato in senso positivo, generalmente significa carenza di talento. E il Coach temeva che nelle difficoltà passasse il concetto che la squadra non avesse abbastanza talento "quando invece giocatori come Langford e Gentile per me sono due fuoriclasse". Quindi l'idea era che la squadra fosse operaia nella mentalità ma ricca di talento, pronto a essere utilizzato. Infatti quando è nata la possibilità di prendere Hackett la scelta è stata quella di tenere il giocatore più dotato di talento, Jerrells, non MarQuez Haynes, buon giocatore come ha dimostrato a Siena ma bisognoso di briglie sciolte, di libertà, bisognoso di giocare a Texas-Arlington non al Boston College come infatti era accaduto nella sua vita precedente. Anche perché Jerrells nel frattempo stava spedendo importanti segnali di crescita, anche come atteggiamento. Quindi il concetto di squadra operaia venne scelto fin dall inizio come un concetto da combattere: operaia nell atteggiamento, nell etica, nell attenzione ai dettagli, non operaia in termini di talento. Banchi poteva scegliere Malik Hairston invece scelse Keith Langford e poi un playmaker di un certo tipo invece scelse un realizzatore come Jerrells. Ma la costruzione della squadra è stata lenta forse, graduale, ma portata avanti con enorme attenzione. Quando qualcuno sostiene di aver centrato tutti gli obiettivi di mercato spesso mente, perché nessuno prende tutte le sue prime scelte e comunque raramente la squadra che pensi è quella che costruisci. L importante è non deviare dalla strada maestra, avere soluzioni alternative, capacità di flessibilità e adattamento. Daniel Hackett era la prima scelta come playmaker, ma quando decise di rimanere a Siena a luglio, l Olimpia andò su un altro tipo di squadra. Banchi non voleva un playmaker tradizionale semplicemente perché non c era sul mercato, non lo era il suo Bobby Brown a Siena e Hackett andava benissimo. Ma Hackett non venne, e si puntò su Goudelock, poi su

5 Jerrells. E come centro la prima scelta tutti lo sapevano, la Gazzetta dello Sport lo scrisse a caratteri cubitali era Bryant Dunston, in uscita da Varese. Anche su Dunston vinse la miglior offerta dell Olympiacos campione d Europa e con Joey Dorsey, altro candidato, al Barcellona, emerse la candidatura di Samardo Samuels: giovane, un talento sul quale lavorare, che voleva l Europa perché nella NBA stava troppo seduto in panchina e si sentiva troppo ricco di energia e desiderio per rimanere lì, seduto. David Moss fu preso abbastanza in fretta. Bruno Cerella anche: doveva completare il reparto, impegnarsi, sbattersi, non avere pretese. Alla fine ha dato più di quanto ci si aspettasse. CJ Wallace venne scelto perché serviva un 4 con tiro da fuori e lui era anche navigato, esperto, un uomo spogliatoio e con il passaporto congolese necessario per non bruciare un posto da americano. Purtroppo quando cominciò ad allenarsi per i Campionati Africani con il Congo, Wallace scoprì di avere un problema alla schiena e dovette operarsi. Fu allora che si decise di prendere anche Kristjan Kangur, reduce da un estate pesante con la Nazionale estone. Purtroppo anche lui subì stessa sorte: ernia e operazione. La maledizione del numero 4 servì a Nicolò Melli, esaltato dall estate azzurra, per prendere possesso con energia del ruolo di titolare. Angelo Gigli fu preso per fare il cambio di Samuels. Tornò a Milano, dall attività azzurra, che era in difficoltà fisicamente. Si è fatto apprezzare tantissimo, un esempio di serietà, ma non è riuscito a ritagliarsi spazio perché questa squadra non poteva aspettare nessuno e nel momento di massima difficoltà fisica ha aggiunto al roster anche Gani Lawal. Una serie di infortuni che hanno devastato il settore lunghi e costretto Portaluppi e Banchi a rispondere, con lucidità, fermezza. Ma ovviamente la mossa più significativa è stata il ritorno di fiamma per Daniel Hackett, concretizzatosi a dicembre, poco prima di Natale. Mossa coraggiosa perché a quei tempi Hackett, visto come l emblema della squadra di Siena, era considerato un nemico a Milano. In realtà, conquistare la folla non è stato né difficile né lungo. E accaduto tutto in fretta, fin dalla prima partita, del 26 dicembre, contro Cremona, il cosiddetto Welcome Daniel Hackett Game. L arrivo di Hackett ha permesso di correggere gli equilibri, togliere un po di pressione da Jerrells, garantire taglia fisica al reparto almeno nel campionato italiano. Basti pensare che dopo l'arrivo di Hackett, la squadra costruita da Portaluppi e Banchi ha vinto tutte le gare della regular season rimanenti vincendo il campionato con cinque vittorie di vantaggio sulla seconda classificata, Siena. "Da dirigente - dice Portaluppi - apprezzi molto di più le tante sfaccettature di un risultato o come incide sul resto della società, concetti che da giocatore magari ti sfuggono perché sei più concentrato su te stesso. Anche per questo considero questo scudetto più gratificante di quello vinto in campo nel 1996". E il giorno dopo ha ricominciato a lavorare per confermarlo.

6 3. LUCA BANCHI Luca Banchi non è stato un grande giocatore e non viene da una città di basket. Grosseto non è un luogo cestisticamente rilevante. Il giocatore più famoso di Grosseto, Massimiliano Aldi, in realtà viene dall'isola del Giglio, anche se vanta uno scudetto e una Coppa dei Campioni proprio a Milano. Ma è riuscito lo stesso a diventare un grande tecnico, ad esempio secondo nella classifica del "coach of the year" in Eurolega dove a votare sono gli allenatori stessi. E Coach Banchi fa già parte della storia del nostro club. Le sue esperienze di basket giocato risalgono a quando viveva a Montecatini, poi lo convinsero giovanissimo a provare come allenatore e scoprì più che una passione una vocazione. La sua vita. Grosseto, Affrico Firenze poi la grande chance a Livorno, Livorno sì una vera città di basket, specie a quei tempi. Lo chiamò il Don Bosco, club specializzato nel lavoro sui giovani, una specie di serbatoio di livello nazionale. Banchi passo dopo passo ne diventò il braccio armato come il motore Massimo Faraoni era il braccio operativo. Livorno aveva avuto due squadre in serie A fino a pochi anni prima e una, la Libertas, era arrivata fino alla storica finale scudetto con Milano nel L'estate seguente Banchi sbarcò al Don Bosco. Dopo la fusione tra i due principali club locali e il fallimento dell' operazione, il Don Bosco raccolse il testimone cittadino. Banchi venne allevato come allenatore del futuro, vinse tre titoli juniores consecutivi e infine promosso in prima squadra. Arrivò fino alla finale per la promozione in serie A, poi venne chiamato dalla stessa squadra che l'aveva battuto in finale, Trieste. Due anni, il ritorno a Livorno, poi Trapani e Jesi. Una carriera partita forte, tutti i passi ben ponderati, sembrava entrata in un vicolo cieco. Venne chiamato a Siena, per sostenere la promozione di Simone Pianigiani come capoallenatore. Fu allora, vincendo da assistente che la reputazione di Luca Banchi tornò ad essere quella corretta. Quando Pianigiani lasciò Siena per Istanbul, lui ne ereditò la panchina continuando a vincere, senza le stesse risorse, la stessa squadra. Eliminando Milano nei playoff del 2013 dominando tatticamente si conquistò il diritto di diventare il prescelto per la resurrezione dell' Olimpia. Chuck Daly, grande allenatore NBA e anche della versione originale del Dream Team, era soprannominato il Principe del Pessimismo. Forse è nella natura degli allenatori essere percorsi da una vena di pessimismo. Ma chiunque abbia affibbiato quel soprannome a Daly non ha mai conosciuto Luca Banchi. Il team manager Simone Casali, uno che invece si nutre di ottimismo, coniò per lui il soprannome di Giacomino, da Giacomo Leopardi e il suo pessimismo cosmico. Ad Atene, il giorno del debutto nelle Top 16, dopo pranzo, Casali bloccò Banchi. Pochi minuti prima il coach aveva chiesto al tavolo quale fosse il ranking dei valori nel nostro girone. Che avesse identificato nell'avversario del giorno, il Panathinaikos, il più forte era perfettamente in linea con il personaggio. Casali chiese al coach di pronosticare realisticamente il numero di partite che Milano avrebbe vinto nel girone. "Penso che finiremo 1-13, vinceremo solo la gara finale a Malaga". Ovviamente Banchi fu felice di aver sbagliato pronostico e a dire il vero nessuno pensò neanche per un attimo che fosse sincero. Il pessimismo di Banchi è anche un meccanismo di autodifesa: aspettandosi sempre il peggio gestisce meglio avversità, crisi e anche benessere. Ma Banchi è anche un perfezionista, maniaco dei dettagli, dello studio, del lavoro, attento a tutto ed esigentissimo, incontentabile. Questo è il suo pregio più grande. L'incapacità di essere soddisfatto forse non gli permette di godere totalmente dei momenti migliori ma è il motivo per cui le sue squadre migliorano, non smettono di farlo. Come sarebbe successo a questa Olimpia, attraverso vittorie interpretate come sconfitte, come se fossero collassi epici, come successe a Pesaro ad esempio, partita vinta largamente ma giocata male. Attraverso vittorie importanti cancellate dopo due secondi come a Bamberg. Il primo commento fu: "Adesso se abbiamo le palle vinciamo anche a Bologna" (non successe per la cronaca). E dopo la strepitosa rimonta sull'efes, la prima di tante grandi notti di

7 Eurolega al Forum, il pensiero volò subito verso la gara di campionato 48 ore dopo contro Reggio Emilia (vinta nettamente). Nel momento più complicato della prima parte della stagione, chiacchierando a tavola come si fa spesso in trasferta, Banchi disse una cosa che fin da quel momento apparve al tempo stesso profetica e promettente. Il Coach raccontò che negli anni dei tre titoli giovanili in fila vinti a Livorno gli capitasse spesso, nel corso della prima fase, di perdere partite in modo anomalo. "Provavo quintetti strani, atipici, sperimentavo e capitava di perdere. Poi a metà anno cambiavamo passo e non perdevamo più, fino allo scudetto". Appunto: la squadra migliorava, come i singoli, nessuna strada restava inesplorata e ad un certo punto, magicamente, tutto sembrava mettersi a funzionare. Gioco, meccanismi, difesa, mentalità. Come è successo a Milano. Dopo la sconfitta di Cantù del 23 dicembre, criticatissima ma subita giocando senza Samardo Samuels, senza David Moss e ancora senza Daniel Hackett (che si trovava in sede nel suo primo giorno milanese), l'olimpia avrebbe vinto in campionato 21 partite di fila, tutte quelle del girone di ritorno, chiudendo la regular season imbattuta. Ma forse hanno un peso maggiore due altre statistiche: in due anni nei playoffs italiani Luca Banchi non ha mai perso un' "elimination game" (6-0 fronteggiando l'eliminazione) e in Eurolega l'olimpia ha vinto anche otto gare consecutive nelle top 16 sbancando il Pireo, Vitoria e Istanbul (il coach è stato anche il primo allenatore dell'olimpia a vincere il titolo al primo colpo e il secondo dopo Carlo Recalcati a vincere due scudetti consecutivi con due squadre differenti). "Le vittorie, i trofei migliorano le carriere di tutti noi - ha detto il Coach nell'ultima cena con la squadra - ma quello che conta veramente sono i valori e sono i valori che hanno reso questo gruppo speciale". Il giorno di gara 7 i membri della sua vivace famiglia indossavano tutti delle t-shirt rosse con scritto "Alla Finale Vince Sempre Luca Banchi", con riferimento ai suoi otto scudetti consecutivi inclusi sei come assistente. La notte del trionfo, in piedi sopra i tavoli del Nobu, incurante del mal di schiena, fedele ma sgradito compagno di una stagione, Luca Banchi ha anche offerto una perla di saggezza: "Le vittorie bisogna saperle celebrare". Lui l'ha fatto mettendosi in viaggio tre ore dopo per San Patrignano a partecipare ad un clinic per allenatori.

8 4. LIVIO PROLI Livio Proli cominciò ad occuparsi di basket nel 2004 quando il gruppo Armani diventò sponsor dell Olimpia con il marchio Armani Jeans. In quel momento era un semplice membro di un consiglio di amministrazione variopinto che includeva anche i due colossi del calcio locale, Milan e Inter. L Olimpia raggiunse una finale scudetto nei quattro anni di sponsorizzazione Armani, ma nel 2008 il club era considerato sull orlo del fallimento, la cordata che l aveva salvato la prima volta si era sgretolata e serviva un nuovo proprietario. Il Signor Armani mi disse di rilevare l Olimpia dice il presidente Proli Confesso che vista la situazione del club e i tempi stretti, sarebbe stato consigliabile armarsi di pazienza. Invece lui volle agire in fretta, evitare il rischio fallimento. E fu così che l Olimpia diventò una delle società del gruppo. Il problema dell Olimpia nei sei anni di proprietà Armani è stato quello di essersi imbattuta, scontrata, contro il sistema Siena al massimo del suo splendore. Siena fortissima in campo, con un budget importante, esperienza in ogni settore e un peso specifico altissimo. Sono stati sei anni di lotte, spesso ad armi impari. L Olimpia raggiunse la finale scudetto subito nel 2009 rimontando da un girone di andata negativo, in cui non raggiunse neppure le Final Eight di Coppa Italia. Ma la finale fu senza storia e lo fu anche quella successiva, nel 2010, dopo una stagione migliore. Il divario restava ampio. Abnorme. Nel 2011, l Olimpia fu eliminata in semifinale da Cantù, nel 2012 tornò in finale ma ottenne come unico risultato quello di perderla 4-1 con quattro sconfitte tutte onorevoli. Ma intanto la società cresceva, il progetto si sviluppava, il sistema Olimpia prendeva forma, come quello di un club che protegge il proprio allenatore, permette di lavorare, è serio, sano e pianta le sue radici. Forse siamo arrivati allo scudetto con un anno di ritardo ammette Proli -, è una gioia che il Signor Armani meritava. Sono contento soprattutto per lui, ma la società era cresciuta lo stesso tanto, tantissimo. Era diventata negli anni una società strutturata, ben organizzata. Come manager, Livio Proli è giovane, giovanile, in forma, infaticabile. Si alza presto e va a dormire tardi. Quando è diventato direttore generale del Gruppo Armani ha continuato a considerare Modena la sua casa e il suo personale quartier generale, confermando la sua vocazione itinerante (cresciuto a Predappio, ha vissuto anche in Trentino, si è laureato a Urbino in scienze della comunicazione, ha lavorato ad Ancona, in Austria e a Bergamo prima di Modena e Milano). Ma nonostante il successo nel mondo degli affari e dello sport è uno del gruppo. Può cenare in un fast-food dopo una partita o mangiare un panino all autogrill, fare merenda con la squadra o andare a correre insieme ai membri dello staff. Presidente, uomo di successo, ma uno del gruppo appunto. Quando abbiamo rilevato l Olimpia racconta Proli capii subito di cosa si trattasse. Io da manager abituato a lavorare nell ombra mi trovai davanti ad una folla di giornalisti, in una conferenza stampa in cui venni subito attaccato, e mi trovai a rispondere di istinto. Ma abbiamo perseverato, senza deviare dalla strada che abbiamo scelto. La svolta la scorsa estate con la scelta di Luca Banchi. Ci incontrammo in una birreria come ormai sanno tutti, per conoscerci. Dopo pochi minuti entrarono due pullman di giocatori di basket delle serie minori. Eravamo a Como. Fummo scoperti. E la notizia dilagò sul web diventando un gossip attendibile. Il giorno del trionfo, il 27 giugno 2014, Proli ha menzionato sorridendo quell episodio. E ha ricordato quanto fosse orgoglioso di aver puntato su Alessandro Gentile fin da quando era poco più che un bambino. La scelta di nominarlo capitano, a dispetto dell età, è stata la migliore che potessimo fare. Quando lo acquistammo da Treviso non aveva neppure 19 anni. E uno vero, diventerà migliore del padre ed è tutto dire. Mi ha trattato come un figlio, gli devo molto, è sempre stato giusto, corretto, severo quando serviva: lui c è dal primo giorno, ha ingoiato critiche, molte ingiuste, e oggi può sentirsi campione. Nessuno lo meritava più di lui, ha detto proprio Gentile all indomani del successo.

9 Per l Olimpia, Proli ha fatto cose folli come quando ha lasciato una sfilata domenicali per volare a Reggio Emilia e vedere la squadra in una partita iniziata alle 12, solo nell ultimo quarto. Ha fatto Milano-Avellino andata e ritorno in giornata o sbirciato l ipad durante importanti riunioni esultando per la vittoria sul Barcellona, collegato via internet. La vittoria è stata una liberazione ma anche la conferma che un certo modo moderno, all avanguardia di interpretare un club sportivo, era corretto. Sotto la gestione Proli (nominato executive dell'anno di Eurolega nel 2014), l Olimpia non ha solo vinto, conquistando Milano e un pubblico esigente, ha anche ottenuto riconoscimenti ovunque inclusa la licenza A di Eurolega, la possibilità di ospitare due squadre NBA tra le più prestigiose a Milano, oltre alle Final Four, ha vinto due scudetti giovanili e due giocatori italiani dell Olimpia sono stati scelti da squadre NBA.

10 5. THE CAP Flavio Portaluppi e Luca Banchi andarono fino a Trento, durante il ritiro della Nazionale, per parlare con Alessandro Gentile. La notizia più importante fu la scelta di nominarlo capitano della squadra, un gesto dal grande valore simbolico. Gentile, non ancora 21enne, diventò automaticamente il più giovane capitano nella storia dell Olimpia, il più giovane capitano di una squadra di Eurolega (lo sarebbe stato anche del campionato se subito dopo la Virtus Bologna non avesse nominato Matteo Imbrò, classe 1994) e soprattutto il primo capitano dell Olimpia figlio di un altro capitano dell Olimpia, Nando Gentile. Ma la scelta aveva un valore anche pratico, era una sorta di investitura, un messaggio di quanto la società credesse nel suo giovane talento, di come avesse deciso di investire non solo nei suoi progressi ma anche nel suo carattere. La notizia venne data alla squadra il primo giorno di preparazione. Con Gentile assente per l impegno con la Nazionale, Keith Langford vicecapitano assunse la carica ad interim. Fu lui, Langford, con la complicità di David Moss, a correggere l urlo della squadra dopo ogni huddle. One, two, three e poi una lunga o prima che tutti completassero la parola Olimpia. Alessandro Gentile ha un carattere forte, di personalità, ha la faccia che inganna, perché sembra sempre di cattivo umore e, benché abbia la tendenza a non nascondere mai ciò che pensa, in realtà è sempre il primo a scherzare, ridere, da ragazzo giovane e solare. Ha solo bisogno di aprirsi davanti alle persone di cui si fida, ma Gentile è come lo vedi. Non ha mai secondi fini, non deve dire una cosa pensandone un altra. Quello che pensa lo dice, appunto, e rende tutto più semplice. Nato in una famiglia old style, i genitori cresciuti insieme e sposatisi prestissimo, una zia giocatrice, un fratello maggiore giocatore, è nato con una sorta di rifiuto del basket. Quando il padre Nando portò tutti ad Atene per giocare nel Panathinaikos quando la sua Olimpia, nella quale immaginava di finire la carriera, si sciolse, Alessandro era piccolo ma anche disinteressato allo sport. Provai tutto, calcio, persino hockey su prato ma la verità è che ero pigro, racconta. Il fratello Stefano cominciò a giocare a basket ad Atene ma non lui. Quando Nando tornò in Italia per giocare a Udine, la mamma Maria Vittoria lo mise alle strette: Alessandro mangiava, aveva un fisico imponente ma non bruciava calorie, dunque qualcosa doveva fare. Almeno per una questione di salute. Fu allora che concesse al basket un altra chance. E fu amore vero. Nando lo prese sotto la sua ala nella squadra di Maddaloni, provincia di Caserta, una squadra fantastica in rapporto al potenziale che andò alle finali nazionali Under 14. Alessandro era più grosso, forte e bravo di tutti. Quanti punti segnava? Tanti dice lui 30, 40 a partita. Quando Nando andò ad allenare a Imola, lo mandò a giocare alla Virtus Bologna, in uno dei migliori settori giovanili italiani, con istruttori di qualità come Giordano Consolini. Gentile non era di proprietà Virtus ma avrebbe potuto diventarlo se la Virtus avesse mostrato interesse. Invece non giocavo mai, ero la riserva delle riserve, ricorda. Storia misteriosa, fatto sta che la Virtus per costruire un gruppo che avrebbe vinto due titoli italiani scelse di puntare nel suo ruolo su ragazzi locali e riservare la foresteria ad un lungo, Luca Fontecchio da Pescara. Per Gentile non c era posto. Non c era neanche grande interesse. Venne interpretato male. Fu ovviamente un errore colossale. A fine stagione, con Nando diretto a Roma per fare l assistente di Jasmin Repesa e successivamente anche il capo allenatore Alessandro venne mandato nell altro grande settore giovanile italiano, quello di Treviso. Treviso fu la svolta: titoli italiani, nazionali giovanili, la prima convocazione in prima squadra con Oktay Mahmuti come allenatore, poi un posto in rotazione con Frank Vitucci, la prima gara da 20 punti in serie A, la chiara ascesa di un talento enorme che stava gradualmente migliorando anche sul piano atletico. La Benetton però era un progetto in fase di declino per i disinvestimenti, mentre Alessandro era un giocatore in forte ascesa, quasi incontenibile ascesa. L Olimpia aveva già provato a prenderlo senza trovare un accordo sul buy-out. La stagione 2011/12 fu marchiata, condizionata

11 dal lock-out NBA. Milano trovò le condizioni per far rientrare Danilo Gallinari e dopo un mercato esplosivo (Fotsis, Bourousis, Cook, Nicholas, Hairston) aveva una squadra potenzialmente devastante. Ma quando la NBA risolse la sua impasse, Gallinari dovette tornare a Denver e serviva un giocatore italiano in più, serviva anche un esterno con punti nelle mani. Ed ecco Alessandro Gentile. Gentile debuttò a Belgrado in una partita di Eurolega da dentro o fuori. Non fece nulla di particolare ma fu utile, l Olimpia vinse e volò nelle Top 16 dove perse tre gare di fila e poi ne vinse tre di fila rimanendo fuori dai playoff. Gentile continuò a crescere. Giocò una grande partita contro Cantù in campionato che sarebbe stata decisiva per l assegnazione del secondo posto, dietro Siena. Nonostante l età, in quel momento 19 anni, ebbe la soddisfazione di partire in quintetto nella finale scudetto contro il Montepaschi, persa 4-1. L estate successiva arrivò Keith Langford accanto a Malik Hairston, due potenziali prime punte, ma lui riuscì a ritagliarsi spazio, infine a conquistare la maglia azzurra e ritoccando tutti i suoi primati arrivò a conquistare l azzurro. Agli Europei in Slovenia a parte una partita ebbe un rendimento strepitoso e costante. Nel frattempo Luca Banchi maturò la decisione di nominarlo capitano. La stagione di Gentile è stata condizionata da qualche malanno e qualche infortunio. Il più brutto, alla caviglia, contro Cantù nel suo momento di forma migliore. Gentile stava giocando come se fosse indemoniato: a Montegranaro stabilì il suo record di punti, 29, e rimbalzi, 10. Contro il Barcellona fece 25 punti in Eurolega, altro record carriera. Assente Langford, che si infortunò a Vitoria nel finale, fu lui a prendere in mano la squadra. Ma proprio mentre Langford stava per rientrare, fu Gentile a fermarsi. "Capii subito che sarebbe stata una cosa relativamente lunga - dice Luca Banchi - e avrei voluto tanto averlo in campo nella serie con il Maccabi". Invece non fu possibile e fu una disdetta. "Come allenatore vorresti sempre giocare le partite più importanti con la squadra in salute. Qualche volta non succede", aggiunge il Coach. Keith Langford, che contro il Maccabi nei playoffs di Eurolega, non era ancora al top (tranne nell'ultima, spettacolare, partita), sottolineò subito, alla faccia di chi li riteneva difficilmente compatibili, che l'assenza di Gentile avrebbe condizionato la serie: "Gentile rende difficile per ogni avversario preparare la partita perché è un incubo accoppiarsi con lui. Senza di lui gli accoppiamenti sono più tradizionali". Con Gentile assente, l'olimpia ha perso la serie con il Maccabi: non sarebbe giusto dire che è successo per quel motivo ma di sicuro sarebbe stato giusto potersela giocare con tutto l'organico a pieno regime. Ma per il Capitano è stato solo un piccolo problema. Perché ha subito ripreso a macinare spettacolo, risollevandosi ogni volta che una sconfitta l'ha sbattuto nella centrifuga mediatica: l'espulsione di Pistoia che lo costrinse a non giocare gara 5, le critiche di Sassari dove oltre a beccarlo gli diedero, sui giornali, dell'antipatico. E il tecnico di Siena. E tuttavia nel momento del bisogno Gentile ha fatto il Gentile: tre gare consecutive oltre i 20 punti contro Sassari, terzo italiano a riuscirci in semifinale, la scalata della classifica dei marcatori dell'olimpia nei playoffs (superando Dejan Bodiroga, Piero Montecchi, Flavio Portaluppi ad esempio), fino allo show di gara 6 a Siena, 23 punti e 7 rimbalzi, la schiacciata a difesa schierata in testa a Othello Hunter e Tomas Ress. Poi gara 7, la sua schiacciata liberatoria e il titolo di Mvp. Il più giovane Capitano dell'olimpia è anche il più giovane Mvp di sempre. "Dopo gara 5, per venti minuti ho smesso di crederci poi mi sono ribellato, ho pensato che non poteva essere così, non poteva finire ancora così, non era giusto. E ho reagito. Sono andato a trovare i miei al ristorante: ho chiesto che venissero a Siena, perché avevo bisogno di loro. E perché sapevo cosa sarebbe successo. In gara 7 abbiamo completato l'opera", racconta. Tra gara 6 e 7 è stato scelto dagli Houston Rockets al numero 53 dei draft NBA, un onore - "la prova che qualcosa di buono ho fatto" - ma anche un insulto, la posizione, al talento, al rendimento, a quanto già oggi sposta, un po' come lo è stato non essere finito tra i primi tre Under 21 di Eurolega. Eterna maledizione: sottovalutato, snobbato ma travolgente. Irresistibilmente travolgente.

12 6. BIG CURT AND THE SHOT Il tiro di Matt Janning in gara 6 della finale scudetto toccò un ferro, poi l'altro e infine finì fuori. Grande rimbalzo di Nicolò Melli e palla a Curtis Jerrells. Situazione di parità, la stagione sul filo. Big Curt è tante cose e non è molte altre cose. Ma di sicuro non è carente di personalità e non è necessariamente condizionabile dalla pressione. Jerrells portò avanti la palla, poi si arresò facendo trascorrere un paio di secondi. "Volevo la palla - ammette Alessandro Gentile - gliel'ho chiesta, non me l'ha data. Allora gli ho fatto notare che mancava poco alla fine". Jerrells lo sapeva. Gentile aveva giocato una gara 6 stratosferica, aveva 23 punti all'attivo. Jerrells aveva segnato un solo canestro, in entrata, ma era successo pochi attimi prima. Si sentiva caldo. Fece il suo classico movimento, in avanti, saltello all'indietro, palla raccolta e tiro dalla lunga. "Ho capito subito che sarebbe entrata", dice Jerrells. Ha cominciato ad esultare prima che la palla entrasse, ma a modo suo, un ringraziamento al cielo e uno alla panchina, al fido amico Simone Casali. Poi è stato l'inferno. Nessun canestro identifica la stagione meglio di quello della vittoria in gara 6. "Se riusciremo ad aprire un ciclo, non dimenticatevi quel momento",riflette Luca Banchi. La storia di Curtis Jerrells a Milano è stata una lunga onda, alterna, momenti difficili, critiche aspre e il suo sguardo scambiato ogni tanto per arroganza che nascondeva invece un'incrollabile fede in se stesso. Jerrells, riemerso dalle ceneri, in gara 6 a Sassari quando Hackett non c'era. Jerrells devastante in gara 1 di finale, 26 punti, record personale, la difesa di Siena smantellata, sbriciolata, devastata. Jerrells e "The Shot" in gara 6. Jerrells. Il precampionato non fu né facile né scevro di problemi per l'olimpia. Infortuni, l operazione di CJ Wallace, il ritorno tardivo dei nazionali Melli e Gentile. La squadra per la prima volta abbastanza al completo vinse il torneo di Wroclaw in Polonia battendo Zielona Gora, che avrebbe giocato l Eurolega, e Turow che avrebbe poi vinto il titolo polacco. Ma il debutto in campionato, a Brindisi, fu negativo. L Enel era già stata vista da vicino in prestagione, proprio a Brindisi, nel primo torneo estivo. Ed era sembrata più ricca di talento di quanto venisse accreditata e come poi avrebbe dimostrato durante l anno. Il Coach se n era accorto e non era per nulla tranquillo. L Olimpia era in ritardo di condizione e con equilibri tutti da costruire. Brindisi con il talento offensivo di Jerome Dyson, la disciplina difensiva di Piero Bucchi, il dinamismo di Delroy James mise subito alla corda l EA7. Ci fu un momento favorevole, nel secondo quarto, e un terzo periodo devastante di Keith Langford, che quella sera segnò subito 29 punti, uno in meno del suo record in maglia Olimpia, stabilito a Montegranaro l anno precedente. Ma l Enel controllò la partita, resistette al tentativo di rimonta finale, Gentile venne espulso per proteste dopo una serie di non chiamate che ebbero come risultato quello di non fermare mai il cronometro sul pressing finale. Ma Brindisi meritò di vincere e la partita confermò sia le problematiche iniziali che le difficoltà di Curtis Jerrells che in quella gara non segnò. Quattro giorni dopo, il debutto in Eurolega a Istanbul non fu tanto diverso. La larga sconfitta sarebbe servita in seguito come metro di paragone per i progressi mostrati dalla squadra. In sei mesi di Eurolega sarebbe passata dal disastro di Istanbul all esordio europeo a giocarsi le Final Four con il vantaggio del fattore campo. Lo specchio di quei progressi sarebbe stato proprio Jerrells. Dalla doppia sconfitta di Brindisi e Istanbul, lui uscì bersagliato dalla critica e considerato più o meno da tutti in discussione se non già sull orlo del taglio. Quella che nessuno vedeva in quei giorni era però la forza mentale di Curt, capace di ignorare la critiche, di non farsene condizionare così come in campo non è un errore a poterlo condizionare nei possessi successivi, e poi la condizione fisica in costante miglioramento e gradualmente la sua voglia, travolgente, di essere utile alla squadra e di integrarsi nei suoi meccanismi, di farsi capire. In quei giorni il team manager Simone Casali è stato il suo più grande alleato. Jerrells l ha capito al punto da dedicargli, in ogni partita, il primo canestro. Il momento più interessante della stagione di

13 Curtis è stato la gara di ritorno con l Efes, una partita in cui non fece neppure un canestro ma che l Olimpia vinse rimontando da meno 15 nel terzo quarto. Banchi a fine gara, elogiando la grande prova di carattere della squadra, forse alla sua prima partita di totale simbiosi con il pubblico, elogiò la grande volontà di Jerrells, nel finale di partita, di andarsi a conquistare il pallone lottando contro i lunghi dell Efes sotto canestro. Vinta la partita, mentre la squadra completava il suo tour di applausi e high five in un Forum delirante, Jerrells esultava come nessun altro, totalmente ebbro di gioia per la vittoria, per la rimonta e totalmente incurante degli zero punti segnati che per un realizzatore nato come lui devono essere stati un anomalia se non un affronto personale, autoinflitto. Quello fu il momento in cui Jerrells diventò senza dubbio un uomo squadra. Texano di Austin, terra di football come potrebbe spiegare Keith Langford, Jerrells ha il fisico del culturista, grandi spalle, grandi pettorali, gambe muscolose ma ha sempre sognato di diventare un giocatore di basket. Nella storia della Baylor University di Waco, in Texas, Jerrells diventò a suo modo un giocatore storico. La scuola era uscita da un disastro, una storia bruttissima culminata con un omicidio addirittura dentro la squadra, che lo staff aveva cercato di coprire gettando discredito sulla vittima. Smascherata la vicenda, il programma cestistico era stato raso al suolo tra sanzioni, squalifiche, cattive abitudini, autodisciplina. Il coach, Dave Bliss, venne ovviamente licenziato e al suo posto arrivò Scott Drew, figlio del coach di Valparaiso, fratello del Bryce Drew che giocò nella NBA e anche in Italia a Reggio Calabria. Drew doveva ricostruire il programma di Baylor, ripulirlo, ritrovare credibilità e aveva bisogno di reclutare qualcuno che accelerasse il processo. Lo individuò in Jerrells e fu così che per Baylor, Curtis si trasformò in una figura in un certo senso decisiva anche al di là delle sua comunque strepitosa carriera universitaria. Finito il college, lasciata Baylor in buone mani e destinata a stagioni superbe, Jerrells transitò per i San Antonio Spurs ma senza resistere fino in fondo. E così nacque la sua carriera europea, al Partizan, al Fenerbahce, al Besiktas (più una brevissima apparizione spagnola) e infine Milano. Io ho questa capacità di segnare spiega che non tutti hanno ma da professionista ho cercato di migliorare il playmaking, la difesa, le letture. E di essere meno prevedibile: il mio coach al Partizan mi disse che ero scontato perché, da mancino, se andavo a sinistra lo facevo per attaccare il ferro e se andavo a destra lo facevo per poi arrestarmi e tirare da fuori. Aveva ragione. Jerrells ha fisico da guardia, ama avere la palla in mano e ha una statura più da playmaker. Tira meglio dal palleggio, in step-back, che sugli scarichi, da fermo. Ad un certo punto si è sbloccato e ha finito la stagione di Eurolega con una striscia aperta di 21 gare con almeno una tripla a segno. Quando l Olimpia ha vinto gara 2 dei playoff con il Maccabi, lui è stato Mvp di giornata in Eurolega. Un bel salto in avanti per un giocatore che sembrava destinato al taglio, che molti aspettavano al varco e non si aspettavano di vedere a Milano dopo Natale. Sicuramente Jerrells ha beneficiato dell'arrivo di Hackett, che gli ha tolto un po' di obblighi e permesso di giocare un po' di più senza la palla in mano, da realizzatore. E in queste vesti ha giocato le sue partite migliori, salvo precipitare in crisi proprio durante i playoff. E risollevandosi quando serviva. "Il basket è una questione di ritmo, di fiducia. Mi ero un po' perso ma la fiducia avvertita attorno a me mi è stata utile e quando è stato importante risollevarsi l'ho fatto", dice. Ha finito la stagione da grande protagonista, da primattore. Playmaker o guardia, attaccante e anche un po' difensore, grande fisico, grande petto "The Big Chest" appunto, grandi palle come gli hanno detto i compagni dopo il canestro di gara 6. Lui con il suo motto "Respond", "perché nella vita non conta come vai giù ma come rispondi alle avversità". Lui e il suo fisico scolpito nei mesi di lavoro, sempre meno pesante, sempre più asciutto. Curtis Jerrells, dal nulla, dalle critiche ad un ruolo che resterà per sempre scritto nella storia dello scudetto numero 26.

14 7. SAM SAM La partita con Varese, seconda giornata di campionato, non poteva seguendo la logica assumere i contorni della gara decisiva, eppure, date le circostanze, il contesto, non poteva che essere affrontata con una buona dose di nervosismo. Intanto l'olimpia veniva da due sconfitte in trasferta e la consapevolezza di affrontare una squadra già testata dal preliminare di Eurolega e soprattutto reduce da una grande stagione oltre che capace l'anno prima di strapazzare l'olimpia quattro volte su quattro. La gara con Varese, dopo quella con Cantù, è sempre la più sentita della stagione e si rivelò ancora una volta difficile, complice nel secondo tempo una spettacolare serie di canestri di Achille Polonara, ma infine controllata grazie ad una prova maestosa di Samardo Samuels, che oltre a produrre una doppia doppia, con 21 punti, ovvero quello che sarebbe rimasto il suo primato stagionale fino all ultima di regular season, completò il gioco da tre punti risolutivo con tanto di schiacciata. Per tutto l'anno Sam ci avrebbe abituato a questo genere di esplosioni atletiche improvvise alternate a momenti di difficoltà nel finire un movimento vicino al ferro, ovvero ciò che lo separa dallo status di giocatore dominante, ampiamente alla sua portata. Samardo Samuels viene da Trelawny in Giamaica, luogo noto nel mondo dello sport per aver dato i natali a Usain Bolt, il re dello sprint mondiale. Ma Sam aveva altre idee, era cresciuto con la passione per il calcio, giocava e lo guardava in tv, calcio inglese ma anche italiano con tanto di amore mai nascosto per i colori rossoneri. Ma un giorno lo convinsero a provare con il basket, di cui sapeva pochissimo. "La ragione è che la squadra della mia scuola aveva bisogno di un ragazzo alto e io ero il più alto e il più grosso". Poco dopo venne invitato ad un camp per ragazzi giamaicani promettenti e con la realistica possibilità di andare a studiare negli Stati Uniti. Lo scelsero subito. La mamma, cui è legatissimo e che l'ha accompagnato nelle prime settimane della sua avventura milanese, non l'avrebbe lasciato andare ma ebbe la meglio il padre taxista. In breve Samuels si trovò a New York, meglio a Long Island, con i suoi ritmi stressanti, lontani dalle sue abitudini e dalla sua cultura. Ma fin da allora Sam mostrò la grande capacità di adattarsi o di adattare il suo stile di vita ad ogni tipo di contesto. Giocò due grandi partite contro la St.Benedict s High School allenata dal quotatissimo Danny Hurley. Questi lo convinse a trasferirsi per giocare ad un livello superiore. Samuels diventò il miglior centro liceale d'america, improvvisamente tutti i college avevano una borsa di studio, un posto in quintetto e la corsia giusta per andare nella NBA, da offrirgli. Prevalse Rick Pitino spiegandogli come fosse stato capace di allenare un altro giamaicano, Patrick Ewing a New York. Fu allora che Sam scopri le origini di Ewing anche se il suo idolo continuava ad essere Tim Duncan. A Louisville, Samuels rimase solo due anni, giocò una Final Four, rimase legato a Pitino ma se ne andò per la NBA troppo presto. Nei draft non venne scelto ma subito dopo Cleveland gli propose un contratto triennale garantito. Samuels ebbe una promettente prima stagione, una seconda in calo e durante la terza si ritrovò in Israele all Hapoel Gerusalemme. Nella NBA fece in tempo a giocare una grande partita contro l idolo Tim Duncan. Era la mia prima volta in quintetto, contro il mio idolo. Ero ispirato e segnai 21 punti. A fine gara si attaccò al telefono per raccontarlo alla mamma. Quello resta il momento più alto della carriera di Samuels. Ma nell estate del 2013, Samuels, appena 24enne, aveva soprattutto un desiderio, che era quello di giocare. Alla mia età non mi vedo in panchina, voglio stare in campo e giocare. Così nacque la volontà di sbarcare a Milano. Dove Sam ha mostrato tutte le luci del suo carattere, ad esempio la scelta di colorare i capelli di rosso, alla Dennis Rodman, o di acquistare una bicicletta per venire al Lido, ad allenarsi, su due ruote. Ma questi tratti effervescenti alle volte nascondono un talento non indifferente, la capacità di passare la palla per battere i raddoppi o una mano educata, che l ha spinto a costruirsi un discreto tiro da tre punti, a metà stagione diventato quasi parte del suo repertorio a patto che non ne abusasse.

15 Dopo la doppia doppia della partita di Varese, Samuels avrebbe giocato le sue partite migliori nei playoffs, a costo di arrivare stanco alle ultime battute della finale. Quando all'ultima di regular season, l'olimpia vinse a Siena lui fece 8/8 dal campo. Poi ci furono 23 punti e 8 rimbalzi in gara 1 contro Sassari; i 13 punti e 13 rimbalzi di gara 4 a Sassari; i 20 punti e 15 rimbalzi di gara 2 di finale contro Siena. "Samuels ha sfruttato solo una parte del suo enorme potenziale", è l'opinione di Coach Luca Banchi. Dicono che Othello Hunter, il centro di Siena, abbia visto tutte le clip di Samuels prima di affrontarlo in finale, memore di quanto accaduto in regular season. Ma il Samuels delle ultimissime partite era un giocatore che aveva tirato la corda, ma dopo aver disputato tante partite da vero gladiatore d'area, uno dei pochi centri capaci di avere un ruolo fondamentale in attacco, dal post basso. "Il tiro da fuori mi aiuta - dice - ma io mi sento un giocatore d'area, adoro l'aspetto fisico della competizione. Mi sento un centro". In Eurolega contro il Maccabi ha sperimentato la battaglia contro un elemento devastante dal punto di vista fisico come Sofo Schortsianitis, "duelli che mi hanno insegnato tanto". Così fuori dal campo l'ambientamento è stato rapido, quasi indolore a parte qualche difficoltà nel capire dove si può e non si può parcheggiare l'auto. "La mia stagione? Non sapevo a cosa sarei andato incontro ma è andata molto meglio di quanto pensassi. Ho trovato una famiglia, amici". Leggendaria la sua passione per l'acqua, il mare. A Sassari, in semifinale, con un tempo stupendo, per lui fare check-in e tuffarsi in piscina erano eventi praticamente contemporanei. "I love the water", una delle sue frasi preferite. Ma in campo ha onorato il suo soprannome di guerriero. Si era visto fin da quella partita con Varese. Il momento peggiore fu nella freddissima e nevosa notte di Kaunas quando l'eurolega continuava a sembrare un'animale difficile da addomesticare nonostante fosse arrivata la vittoria esterna di Bamberg e la squadra avesse già confezionato una memorabile rimonta da meno 15 contro l'efes esattamente una settimana prima. Nel primo tempo, in un'entrata, Samuels lasciò la mano destra sul ginocchio di Lavrinovic. Nella ripresa tentò di rientrare ma con risultati pessimi. Coach Banchi lo rimise in panchina. A fine gara venne trasportato in ospedale dal dottor Acquati. Il verdetto fu spietato: frattura. Samuels dovette rientrare in Italia mentre la squadra si dirigeva a Roma, operarsi, fermarsi. Il peso della sua assenza non è mai stato considerato ma l'olimpia senza Samuels perdeva profondità in attacco, il suo miglior giocatore di post basso. In più l'assenza ha rallentato Samuels nel momento dell'adattamento alla nuova realtà. Per rivedere il Samuels della gara di Varese sarebbe servito ancora qualche tempo. Ma l'avremmo rivisto. E tanto.

16 8. NICK LO SCATENATO La prima vittoria stagionale di Eurolega, contro lo Zalgiris Kaunas, una partita che Coach Banchi non ebbe problemi a definire subito uno spareggi, fu firmata da Nicolò Melli, il giocatore dell'olimpia da più tempo in biancorosso. Contro i lituani, la partita non venne dominata ma fu vinta comunque in modo inequivocabile. Se la prima vittoria di campionato fu siglata da Samardo Samuels, contro lo Zalgiris ci fu un altro protagonista diverso e solo in parte inatteso: Nicolò Melli appunto. In quella gara segnò 20 punti con 9/10 dal campo e catturò 9 rimbalzi. Nicolò Melli non è un realizzatore ma ha abbastanza talento da poter esplodere in prestazioni rilevanti anche statisticamente. E successo per tutto l anno: se le medie parlano di un giocatore da 7-8 punti, 5-6 rimbalzi di media, occasionalmente è stato capace di fare molto di più. Contro Roma, in campionato, segnò 24 punti. Contro Pistoia, in gara 1 dei playoffs, ne fece 18 in 22 minuti. Nelle ultime due partite della stagione Melli ha ritrovato il suo tiro da tre nei momenti decisivi. Due bombe in gara 6, 11 punti e 13 rimbalzi in gara 7, l'ultimo dato record carriera. Melli ha tiro da tre, statura, può riempire le corsie, salta, se prende un rimbalzo può anche partire in palleggio e dati statistici alla mano è un difensore di alto livello. Solo che tutte queste cose non si vedono necessariamente sempre. La novità è che nell ultima stagione è successo tutto con molta maggiore frequenza rispetto al passato, merito forse dell età, della maturità. Fatto sta che, partito in una situazione affollata nel suo ruolo, Melli si è rivelato di fatto il 4 titolare dell'olimpia e un'ala forte utilizzabile da centro per necessità difensive, per allargare il campo, per adattarsi alle scelte dell'avversario. Melli è un ragazzo "old style", forse persino troppo nella parte del giocatore bello, intelligente (Il Piccolo Lord è il soprannome scelto per lui da Alessandro Gentile), che al tempo stesso può dedicare i suoi momenti liberi al calcio, ai videogame ma anche alle letture impegnate, è ambasciatore di "One Team", il progetto sociale dell'eurolega e nelle interviste sa essere diplomatico e al tempo stesso interessante. Melli è un giocatore che non crea mai problemi, che capisce quanto sia fortunata la sua esistenza. La mamma Julie è americana, del Nebraska, di Lincoln: vinse la medaglia d argento nella pallavolo alle Olimpiadi di Los Angeles 1984 e quando vinci una medaglia olimpica hai fatto tutto: mi piacerebbe strapparle il titolo di miglior atleta della famiglia ma temo sia impossibile. Per ora la discussione non si apre neppure, dice Nicolò. Julie Vollertsen si costruì una carriera professionistica in Italia, venne a Reggio Emilia e mise radici. Imparò la lingua, le piacque l Italia e sposò Leopoldo Melli, eccellente giocatore delle serie minori reggiane. Dalla loro unione nel 1991 nacque Nicolò. Il più alto della famiglia, atletico come la mamma e con la passione per il basket del padre. Un anno pensai di giocare a pallavolo ma fu proprio un attimo poi il basket rimase al primo posto delle mie passioni, racconta Melli. Famiglia perfetta, quasi sempre presenti alle partite, un fratello - Enrico - che gioca anche lui, scuola, educazione al vertice delle priorità. Ma certo, Nick diventò un enfant prodige molto presto. A 15 anni, complice un epidemia influenzale, debuttò in Serie A a Reggio Emilia. Talento ed eleganza lo portarono alla ribalta. Al Palalido venne convocato per la versione italiana del Jordan Classic, un camp per i migliori sedicenni del paese. Fu nominato Mvp, strinse la mano a Michael Jordan e venne portato a New York per la versione mondiale del camp, insieme ai migliori coetanei del mondo. "A Jordan chiesi che effetto faceva giocare con Bugs Bunny. Erano i tempi di Space Jam. Ho fatto la solita figura", scherza- A quei tempi, Melli sognava di diventare un playmaker: le caratteristiche le ha poi trasportate in un ruolo più tradizionale per un 2.05, quello di ala forte o di centro che apre il campo e tira da fuori.

17 A dispetto di un infortunio grave, l ascesa di Melli a Reggio Emilia fu costante. I grandi club hanno cercato per anni di accaparrarselo senza riuscirci anche per i costi alti dell operazione. L Olimpia ci riuscì nell estate del 2010 ma il salto in un grande team fu troppo per lui. A metà stagione, nonostante qualche occasionale prestazione promettente, venne prestato a Pesaro. Rientrò l anno dopo, con Sergio Scariolo allenatore e gradualmente si ritagliò il suo spazio. Ma è stata questa la stagione della definitiva consacrazione anche se prima aveva giocato un Europeo di alto livello, come Gentile, mostrando il suo volto di giocatore difensivamente importante. A inizio stagione non era chiaro quale sarebbe stato il suo ruolo. Il Presidente Proli, per stimolarlo, in un intervista aveva confessato di non essere rimasto soddisfatto della stagione precedente e Melli sempre dotato di buonsenso gli aveva dato ragione ripromettendosi di cambiare lo scenario. In quintetto all inizio anche per i problemi fisici delle altre ali forti, Melli avrebbe mantenuto il posto a prescindere, oscillando tra il ruolo di ala grande e centro, esplodendo con qualche prova realizzativa impressionante e anche facendo tante piccole cose. Come nel possesso finale della vittoria su Bamberg a Desio che certificò l accesso alle Top 16: su un cambio difensivo, Melli si trovò a marcare Zack Wright, che di lì a poco sarebbe passato al Panathinaikos, e scivolò abbastanza bene da tenere la penetrazione e oscurare la visuale della guardia americana con le sue braccia lunghissime. Wright sbagliò. L Olimpia si qualificò per le Top 16. Melli esplose in un urlo belluino. Ne avrebbe fatti altri. Uno in finale, gara 7, quando uscendo a raddoppiare forzò MarQuez Haynes all'infrazione di passi. I suoi scivolamenti difensivi sono leggenda presso lo staff tecnico. Che ne apprezza anche la totale abnegazione in allenamento. "Melli è un giocatore di mentalità, ogni allenamento si impegna, si batte, non si risparmia mai", dice Banchi. L'anno dello scudetto è stato lunghissimo per lui: prima la Nazionale, poi Milano, 77 partite, senza una pausa. "I dati in nostro possesso dicono che ha impiegato alcuni mesi per rimettersi a posto - dice il preparatore atletico Giustino Danesi - poi è stato bene nel periodo migliore della squadra e nel finale ha raschiato il fondo del barile, ma l'ha fatto alla grande". Nei playoffs non a caso ha avuto problemi di cramp, in gara 7 di finale uno già nel primo tempo. Ha imparato a mangiare banane per iniettare potassio nei muscoli affaticati. Ha stretto i denti ed è andato avanti. Le sue urla belluine nei momenti di grande tensione sono diventate quasi uno spot della stagione dell'olimpia. L'ultima nel momento del trionfo gli ha annebbiato la vista al punto da non aver riconosciuto il padre festante e averlo spinto via nel tentativo di... cercarlo. C'è un video che mostra la scena, ridicola, se non si fosse rischiato il dramma con il signor Leopoldo, atterrato pesantemente sulla schiena fortunatamente sui gommoni pubblicitari e non sul parquet.

18 9. AVVENTURE EUROPEE Ci sono state ovviamente partite migliori in Eurolega, quasi tutte quelle delle Top 16, anche limitandosi a considerare le gare esterne. L impresa del Pireo, il dominio di Istanbul che fece perdere la testa a Coach Obradovic, quello di Vitoria. Ma la vittoria di Bamberg resta importante per svariati motivi: è stata la prima ed è stata soprattutto quella che, alla fine dei conti, ha fatto la differenza nella regular season. L Olimpia brillantissima delle Top 16 non era la stessa squadra di inizio stagione, incompleta nell organic o (Hackett non c era ancora), in fase di costruzione e inserita in un girone complesso ma inevitabile per una formazione sorteggiata dalla quinta fascia di merito. La vittoria di Bamberg in un momento della stagione in cui l Olimpia era ancora da costruire è stata decisiva nello spingere la squadra verso il secondo posto nel girone e sostanzialmente sempre abbastanza al di sopra del rischio eliminazione. L accesso alle Top 16, uno degli obiettivi stagionali, è stato poi raggiunto, sempre con Bamberg, ma sul campo di casa di Desio. Ma nel complicato gioco delle classifiche avulse, quella partita avrebbe certificato il superamento del turno anche in caso di sconfitta risicata. Vincendo l Olimpia ottenne di entrare nelle Top 16 dalla porta principale, esaltando il suo pubblico ed esaltandosi lei stessa. Nell economia della stagione, entrare nelle Top 16 ha avuto un valore non disprezzabile perché è stato l impegno europeo, pur faticoso e a tratti sfinente a rodare la squadra e renderla pronta per le battaglie di campionato. E vero, come ha detto il general manager Portaluppi a fine stagione, che durante le Top 16 si era vista la miglior Olimpia, una delle squadre più brillanti d Europa, ed è vero che le 77 partite ufficiali avrebbero piegato chiunque alla lunga. Ma è bello pensare che la forza mentale di vincere uno scudetto in salita, visti i playofs, sia stata cementata durante la maratona europea. A Bamberg, l Olimpia giocò una partita di grande solidità, vincendola con 18 punti e 6 assist di Gentile, una prova notevole di Samardo Samuels, 11 punti di Curtis Jerrells. Ci sarebbero stati altri momenti critici durante la regular season, la complicata, rocambolesca rimonta sull Efes al Mediolanum Forum, la mano fratturata di Samardo Samuels nel freddo di Kaunas a complicare il cammino della squadra. Ma la polizza assicurativa sottoscritta a Bamberg fu decisiva. Alessandro Gentile, giocando una di quelle partite in cui usa la sua straordinaria forza fisica e tecnica anche per mettere in ritmo i compagni, fu devastante e chirurgico.

19 10. LA CONQUISTA DI MILANO Dal punto di vista societario uno dei momenti chiave della stagione è stato la partita interna con il Real Madrid. Sarebbe sbagliato attribuire al lavoro del club troppi meriti nel boom di pubblico che ha portato l'olimpia a diventare il fiore all' occhiello dello specifico programma varato dall'eurolega, ad essere la prima squadra italiana per pubblico e incassi schizzando dai di media della stagione precedente agli di questa con 39 gare casalinghe, 11esauriti, 15 partite con oltre i presenti. La squadra era stata costruita anche per piacere alla tifoseria, determinare un processo di identificazione importante e le vittorie hanno fatto il resto, alcune anche per come sono maturate (vedi la grande rimonta sull'efes nella prima fase di Eurolega, il corpo a corpo con Bamberg). Ma la notte della gara con il Real Madrid ha cambiato la storia. È un fatto che dopo quella partita in termini di seguito, di attenzione, l'olimpia non è più stata la stessa. I segnali di una forte identificazione del pubblico con la squadra c'erano già tutti. Nel girone di 48 ore l'ea7 giocò prima con l'efes e poi con Reggio Emilia, rinunciando al giorno di riposo supplementare previsto dal regolamento per rimanere al Forum e non dover emigrare a Desio ancora una volta. La risposta del pubblico fu notevole. E intanto la prevendita per il Real Madrid, in quel momento spettacolare, quasi inavvicinabile e ricco di campioni come Sergio Rodriguez, Rudy Fernandez, Nikola Mirotic oltre all'ex Ioannis Bourousis. Già in passato la partita con il Real Madrid era sempre stata attraente per il pubblico di Milano. Due anni prima aveva richiamato oltre 8000 spettatori. Fu così che in società nacque l'idea di osare, di esporsi, di correre un rischio, di capire se il lavoro che era stato svolto negli ultimi anni e soprattutto mesi e il grande feeling nascente tra squadra e tifoseria potesse portare a qualcosa di davvero importante. Venne così ideato l'olimpia Day ovvero il giorno dell'orgoglio di tifare Olimpia. Nella sostanza si invitarono i tifosi più fedeli, gli abbonati, a convincere gli appassionati saltuari, occasionali a lasciar da parte tutto e venire al Mediolanum Forum per quella partita. Si ideò lo slogan "Operazione " fissando su quella cifra una specie di tetto sul quale salire assieme al pubblico (agli abbonati venne garantita la possibilità di acquistare ai prezzi loro riservati più dei due tradizionali biglietti per gara e a chi fosse arrivato a portare 10 persone sarebbe stato assicurato un "upgrade" del posto per una partita successiva). Il livello di movimentazione fu notevole e la sera della partita i botteghini rimasero chiusi trasformando l'operazione in un successo sorprendente, da spettatori presenti. L'obiettivo - dimostrare all'europa che la passione di Milano era rimasta sopita, cloroformizzata ma stava per esplodere di nuovo - venne raggiunto. Da quel momento, la stagione non è più stata la stessa. Progressivamente la sensazione fu che venire a vedere l'olimpia sarebbe stata una scelta trendy e sarebbe stata ben ripagata dallo spettacolo (anche degli avversari come fu il caso del Real Madrid) e dalla squadra. Il Real Madrid vinse a Milano, ma di sette punti, l'olimpia tenne, giocò una partita volitiva e dimostrò di essere cresciuta. Con il tempo, accedere alle partite sarebbe diventato complicato. Chi in estate scelse di abbonarsi con la formula "All-Inclusive" sarebbe stato premiato non solo economicamente ma anche dalla certezza di assistere a tutte le gare dell'ea7, le grandi sfide di Eurolega, le gare di playoffs e la finale scudetto incluse. Tutto cominciò con quella notte magica vissuta con il Real Madrid, una gara che - arrivando dopo due sconfitte dolorose e rocambolesche, a Kaunas e Roma - non poteva cavalcare l'onda di un grande momento di risultati ma solo quella della passione e della percezione che la città stava ricavando dalla squadra. Quando arrivò a Milano, Luca Banchi disse che avrebbe dovuto combattere l'indifferenza. Questa squadra non è mai stata indifferente alla città. La grande notte vissuta con il Real Madrid, il primo tutto esaurito, dimostrò che quella scommessa era già stata vinta. La sconfitta non scalfì le buone sensazioni, non scalfì l'entusiasmo del pubblico, anche

20 quello occasionale. Certo, nessuno avrebbe immaginato che il successo di popolarità potesse raggiungere i livelli che poi ha raggiunto.

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