Insediamenti longobardi fra le Alpi e la pianura

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1 Claudio Azzara Insediamenti longobardi fra le Alpi e la pianura Nella primavera del 569 (o l anno precedente, secondo una diversa datazione) 1, la gens dei longobardi, proveniente dalla Pannonia, fece il proprio ingresso nella penisola italiana, ricondotta sotto il governo imperiale da un quindicennio, ma ancora gravemente provata dalle devastazioni della quasi ventennale guerra che si era combattuta sul suo suolo tra i goti e l impero bizantino e che si era chiusa formalmente nel 553, con strascichi di violenze trascinatisi ancora per anni. Qualsiasi fossero i motivi alla base della migrazione (puro desiderio di bottino, pressione di altre etnie da est, accordi con il comandante imperiale in Italia Narsete, come vuole una tradizione non plausibile ma diffusasi sin da quell epoca) 2, l Italia rappresentava per la gens Langobardorum il punto d approdo di una catena di spostamenti successivi che si erano protratti per secoli, dall estremo nord del continente europeo (verosimilmente dalla penisola Scandinava), attraverso il cuore dello stesso (lungo l Elba e poi nelle regioni dell Europa centrale), fino al bacino del Mediterraneo 3. La presa di possesso del territorio italico da parte dei nuovi immigrati ebbe carattere assai disomogeneo: malgrado il coordinamento generale assicurato dalla figura del re Alboino, l esercito dei longobardi si muoveva secondo 1 Sui problemi di corretta datazione dell ingresso in Italia dei longobardi cfr. O. BERTOLINI, La data dell ingresso dei Longobardi in Italia, in IDEM, Scritti scelti di storia medievale, I, Livorno 1968, pp (che propone maggio 569). 2 La versione di un invito da parte del comandante imperiale Narsete ai longobardi affinché occupassero l Italia appare diffusa soprattutto da fonti prodotte in ambito longobardo stesso: cfr. PAOLO DIACONO, Storia dei Longobardi, a cura di L. CAPO, Milano 1992 (d ora in avanti PAOLO DIACONO), II, 5; Origo gentis Langobardorum, 5, in Le leggi dei Longobardi. Storia, memoria e diritto di un popolo germanico, a cura di C. AZZARA, S. GASPARRI, Milano 1992, p. 4; Historia Langobardorum codicis Gothani, 5, Ivi, p J. JARNUT, Storia dei Longobardi, Torino 1995 (ed. orig. Stuttgart-Berlin-Köln-Mainz, 1982), pp

2 tradizione per gruppi autonomi, detti farae, distaccamenti militari di guerrieri verosimilmente legati tra loro da vincoli di parentela e subordinati a un capo (denominato, con termine latino, dux) cui giuravano fedeltà. I duchi, esponenti dell aristocrazia di stirpe, erano abituati ad esercitare un potere sui loro guerrieri che prescindeva dall obbedienza di tutti al re: nell occupazione della penisola, molti duchi operarono quindi per proprio conto, seguendo percorsi individuali, o cercando, addirittura, di venire a patti con gli imperiali (facendosi perciò pagare), contro il loro stesso monarca 4. La natura disorganica della conquista, per i motivi sopraccennati, accentuata dall esiguità del numero complessivo dei longobardi (in tutto attorno ai cento/centocinquantamila individui) e dai loro limiti militari (che rendevano impossibili, o almeno sconsigliabili, gli assedi delle città e dei castelli meglio difesi dal nemico) 5 ebbe come inevitabile conseguenza una loro distribuzione discontinua nelle regioni occupate. Entrati in Italia attraverso il suo varco nordorientale, che era stato già ampiamente sfruttato in passato da diversi altri invasori (per ultimi, dai goti), e costituito un primo caposaldo in Friuli, i longobardi dilagarono, in pochi anni - per esprimersi in termini moderni nel Veneto, in Trentino, in Lombardia, nel Piemonte; quindi, oltrepassato il Po, irruppero in Emilia e in Toscana, mentre gruppi autonomi di guerrieri giungevano fino a Spoleto e a Benevento. Nelle loro mani cadde la maggior parte delle grandi città dell Italia settentrionale, comprese quelle che avevano svolto un ruolo politico di primo piano in epoca romana e poi gota (eccetto Ravenna, rimasta il centro delle forze imperiali nella penisola, con la costituzione dell esarcato): Verona e Pavia (le sedi preferite dal re goto Teodorico) e Milano, la capitale del tardoimpero. Pavia fu eletta a residenza regia. L importanza delle città quali nuclei di inquadramento politico e amministrativo del territorio occupato dai longobardi, e quindi la scelta delle stesse come sedi dei principali ufficiali del regno, è un dato di relativamente recente acquisizione, elaborato sulla scorta di indicatori diversi, a cominciare dalla consapevolezza che le distrettuazioni in cui gradatamente si andò articolando la superficie del regnum Langobardorum, chiamate con i vocaboli latini di civitates o iudicariae e rette dai duchi (i quali trasformarono così in senso 4 P. DELOGU, Il Regno longobardo, in P. DELOGU, A. GUILLOU, G. ORTALLI, Longobardi e Bizantini, Torino 1980 (Storia d Italia, diretta da G. Galasso), pp , alle pp ; JARNUT, Storia dei Longobardi cit., pp ; C. AZZARA, L Italia dei barbari, Bologna 2002, pp Sul rapporto tra i longobardi e la guerra cfr., da ultimi, i saggi raccolti in I Longobardi e la guerra. Da Alboino alla battaglia sulla Livenza (secc. VI-VIII), Roma 2004 (tra cui, per la poliorcetica, il contributo di A. A. SETTIA, Le tecniche ossidionali in Occidente, pp ). Cfr. anche P. MORO, «Quam horrida pugna». Elementi per uno studio della guerra nell alto medioevo italiano (secoli VI-X), Venezia 1995; A. A. SETTIA, Rapine, assedi, battaglie. La guerra nel Medioevo, Roma-Bari territoriale il potere originariamente esercitato sugli uomini del loro seguito personale), si disegnarono proprio a partire da una città, che era la sede del potere politico e che coincideva, almeno nella maggioranza dei casi, con un centro di tradizione romana 6. La carta geo-politica dell Italia, dopo la migrazione dei longobardi, restò assai frammentata per molte generazioni, contraddistinta da un disordinato intersecarsi di territori controllati dai longobardi e di altri rimasti all impero: grosso modo, i nuovi invasori si erano stabiliti in tutta la porzione settentrionale della penisola, compresa la Toscana, ma restavano loro precluse non solo la Liguria, la parte della Venetia più prossima alla costa adriatica e la regione di Ravenna, ma anche molte città e castelli all interno delle aree pure da loro dominate. Relativamente isolati dalla superficie del regno restavano i ducati di Spoleto e di Benevento. Dal suo canto, l impero, che deteneva quasi 6 S. GASPARRI, Il Regno longobardo in Italia. Struttura e funzionamento di uno stato altomedievale, in Langobardia, a cura di S. GASPARRI, P. CAMMAROSANO, Udine 1990, pp ; AZZARA, L Italia dei barbari cit., pp e

3 integralmente l Italia meridionale (tranne la vasta zona appenninica attorno a Benevento), Roma, un corridoio transappenninico che univa l Urbe a Ravenna, l intero arco altoadriatico e le coste liguri, poteva contare anche sulla fedeltà di molti duchi longobardi da lui pagati e manteneva canali aperti con il regno franco, anche per il tramite di castelli conservati in area alpina (per esempio nel bellunese), che assicuravano il controllo dei maggiori assi viari diretti verso l Europa continentale. La presenza longobarda nella penisola assunse maggior coerenza territoriale solo in seguito a progressive campagne militari, condotte soprattutto durante i regni di Autari, Agilulfo e Rotari, quindi in un arco cronologico compreso tra gli anni Ottanta del secolo VI e gli anni Quaranta del VII 7. Se lungo questo periodo il regno longobardo finì con l estendersi in modo omogeneo su tutta la pianura padana e con l inglobare pure la costa ligure, a danno dell impero, consolidando nuovi confini all interno della penisola (nel Veneto, in Emilia- Romagna, nella Toscana) è da notare che una cura specifica fu sempre rivolta al consolidamento della vecchia frontiera lungo l arco alpino, vitale per contenere la latente pressione di genti ostili, segnatamente i franchi a nord-ovest e gli avaro-slavi a nord-est. A tal fine si provvide innanzitutto a stringere alleanze difensive con altre stirpi transalpine, come quella dei bavari; in secondo luogo, si costituirono solidi ducati in città strategiche per il controllo delle direttrici nord-sud a scavalco delle Alpi, quali Cividale, Trento e Verona. La minaccia franca e quella avaro-slava conservarono, dunque, un ruolo di rilievo per la frontiera alpina, a protezione della quale i longobardi poterono riutilizzare parte dei castelli che già erano appartenuti al grande limes fortificato delle Alpi sviluppato dal tardo impero romano (il Tractus Italiae circa Alpes, principale barriera contro la montante pressione barbara dopo il collasso della frontiera renano-danubiana), reimpiegato nel VI secolo pure dai goti 8. La possibilità di concreta individuazione dei castra e castella usati dai longobardi (e di stima della loro eventuale continuità d uso rispetto alle età romana e gota) resta tuttavia approssimativa: le fonti scritte ne citano solo alcuni, oltretutto non sempre identificabili con sicurezza, mentre gli scavi archeologici procedono a tutt oggi in modo frammentato. 7 DELOGU, Il Regno longobardo cit., pp ; JARNUT, Storia dei Longobardi cit., pp e 56-57; AZZARA, L Italia dei barbari cit., pp Sulla continuità d uso delle strutture del Tractus Italiae circa Alpes tra l epoca romano-imperiale e l altomedioevo, cfr. almeno V. BIERBRAUER, Castra altomedievali nel territorio alpino centrale e orientale: impianti difensivi germanici o insediamenti romani? Un contributo alla storia della continuità, in V. BIERBRAUER, C. G. MOR (a cura di), Romani e Germani nell arco alpino (secoli VI-VIII), Bologna 1986, pp ; N. CHRISTIE, The Alps as a frontier (A. D ), Journal of Roman Archaeology, 4 (1991), pp ; A. A. SETTIA, Le fortificazioni dei Goti in Italia, in Teoderico il Grande e i Goti d Italia. Atti del 13 Congresso internazionale di studi sull alto Medioevo (Milano, 2-6 novembre 1992), Spoleto 1993, pp

4 Il massimo storico dei longobardi, Paolo Diacono, menziona per esempio solo un pugno di castelli della fascia alpina e prealpina, che risultano disposti quasi esclusivamente nel Veneto, in Friuli, in Trentino e nel Sud Tirolo (ambiti su cui forse le sue fonti lo documentavano meglio, rispetto al nord-ovest) e che servivano per contrastare le minacce da est, soprattutto quella rappresentata dagli avari 9. Una testimonianza scritta di natura differente, l Editto delle leggi dei re longobardi, ricorda anche la persistente funzione, ancora durante il regno di Ratchis ( ), delle chiuse alpine (di cui parla pure Paolo Diacono), sbarramenti fortificati ai valichi già creati dai romani e riutilizzati dai goti, che, oltre a fungere da primissima barriera contro eventuali tentativi di invasione, servivano da posto di controllo alla frontiera per tutti gli stranieri che si recavano nella penisola, così da poter verificare che non si trattasse di fuorilegge, di spie, o magari di servi fuggitivi 10. Anche se Paolo Diacono, per conoscenze dirette e interessi, pone in maggior evidenza lo scacchiere nordorientale, alcuni indicatori mostrano una buona presenza longobarda pure nelle regioni disposte più a occidente, le quali, d altra parte, giocavano un ruolo chiave in funzione antifranca. Da qui deriva il notevolissimo rilievo, politico e militare, del ducato di Torino, che un passo del Diacono mette in esplicito rapporto con il cruciale confine franco 11. Da ricordare che nel 591 un duca di Torino, Agilulfo, venne scelto come re. Se i grandi lineamenti della carta geopolitica dell Italia divisa tra longobardi e bizantini sono ricostruibili con sufficiente precisione, difficoltà maggiori si oppongono, a tutt oggi, a una puntuale individuazione dei luoghi di effettivo insediamento dei gruppi di longobardi all interno dei territori del regno. Come s è detto, il numero complessivo dei longobardi immigrati nella penisola era piuttosto esiguo, anche in rapporto al totale della popolazione romana: si stima, 9 Cfr. PAOLO DIACONO, II, 13; III, 9, 31; IV, 37; V, 36; VI, 51 (dove si citano i castra e castella di Cormons, Nimis, Osoppo, Artegna, Ragogna, Gemona, Ibligo, Zuglio, Ceneda, Potium, Anagnis (Non), Tesana, Maleto, Sermiana, Appiano, Fagitana, Cimbra, Viziano, Brentonico, Voleno, Ennemase, Ferruge, Bolzano). Il territorio friulano, in particolare, fu il teatro dei ripetuti scontri dei longobardi con gli avaro-slavi; sugli assetti e sulle funzioni di questa regione in quel periodo cfr. H. KRAHWINKLER, Friaul im Frühmittelalter. Geschichte einer Region vom Ende des fünften bis zum Ende des zehnten Jahrhunderts, Wien-Köln-Weimar Ratchis 13, in Le leggi dei Longobardi cit., pp Sulle chiuse alpine in età altomedievale, cfr. E. MOLLO, Le chiuse: realtà e rappresentazioni mentali del confine alpino nel medioevo, Bollettino storico e bibliografico subalpino, 84 (1986), pp ; A. A. SETTIA, Le frontiere del regno italico nei secoli VI-XI: l organizzazione della difesa, in Fròntiere et peuplement dans le monde méditerranéen au moyen age, Rome-Madrid 1992 (Castrum, 4), pp PAOLO DIACONO, V, 2: all epoca della competizione per la carica regia fra Pertarito e Grimoaldo, che divenne re nel 662, il primo, dopo essere sfuggito al rivale, trovò rifugio a Torino (via Asti), dove aveva conservato la propria rete di solidarietà, e da lì fu per lui facile riparare in territorio franco, attraverso le chiuse alpine. infatti, che costoro non superassero le cento-centocinquantamila unità, comprese le donne, i bambini e gli altri individui esclusi dal portare le armi (come i soggetti non liberi, schiavi e aldii). Una quantità così ridotta di guerrieri li costrinse a rinunciare a una distribuzione omogenea sul territorio progressivamente conquistato, impossibile perché li avrebbe dispersi in gruppi minimi e isolati; piuttosto, li indusse a concentrarsi in pochi luoghi specifici, privilegiati per il loro peculiare valore strategico, dai quali risultasse agevole il controllo delle regioni occupate e delle principali strade. Vennero così da loro prescelte le città che già avevano avuto un qualche rilievo nelle epoche anteriori, in età tardoromana e gota, dislocate lungo le maggiori vie di traffico e fornite di strutture adeguate, oppure dei centri sopraelevati sulla pianura, validi come punto di osservazione e guardia. Nell arco alpino gli insediamenti significativi si collocarono a quote generalmente inferiori agli ottocento metri, quindi non in montagna, ma piuttosto allo sbocco delle valli, lungo le strade, che costituivano il vero polo d interesse strategico. Attraenti per l insediamento furono pure le aree più fertili, coltivate o adatte al pascolo. Insomma, nell orientare le strategie insediative della gens Langobardorum concorsero valutazioni di carattere militare e altre legate alle possibilità di sfruttamento delle risorse. Una mappa dell insediamento longobardo, del tutto provvisoria (anche per l attuale carenza di adeguati studi ricostruttivi su base archeologica) 12, non può che essere tracciata incrociando tutte le diverse testimonianze, materiali, letterarie, documentarie (estrema cautela è richiesta invece nel trattamento del dato toponomastico, assai infido). Il riscontro archeologico, che si fonda quasi esclusivamente sulle sepolture con corredo caratterizzante (destinato a scomparire alla fine del secolo VII, con la piena acculturazione in senso cattolico e romano della stirpe), non appare infatti in grado di rendere conto da solo del fenomeno. Allo stato delle conoscenze si può fondatamente sostenere una maggiore densità insediativa nel regno, - per esprimersi per grandi termini - lungo tutta la valle del Po, nella valle dell Adige, in Friuli e nei territori di specifici ducati, quali quelli di Verona, di Trento, di Brescia, di Reggio Emilia, di Torino. Al di fuori del regno, siti importanti si individuano in Umbria (Castel Trosino, Nocera Umbra, Spoleto) e a Benevento. Sostanzialmente ferma al succitato quadro, dunque, la ricostruzione per ora 12 Per un aggiornamento sulle più recenti emergenze archeologiche utili per lo studio dell insediamento longobardo in Italia settentrionale, cfr. da ultimo S. LUSUARDI SIENA, Fonti archeologiche per l età longobarda in Italia settentrionale: le acquisizioni più recenti, in Fonti archeologiche e iconografiche per la storia e la cultura degli insediamenti nell altomedioevo. Atti delle giornate di studio, Milano-Vercelli, marzo 2002, a cura di S. LUSUARDI SIENA, Milano 2003, pp Con specifico riferimento all area piemontese, si veda ora: Presenze longobarde. Collegno nell alto Medioevo, a cura di C. Pejrani Baricco, Collegno

5 possibile della diffusione geografica degli insediamenti longobardi sul suolo italico, i risultati maggiormente significativi e nuovi intorno all argomento sono giunti piuttosto, nel periodo più recente, dalla ricerca relativa all intima natura e ai modi di svolgimento delle forme insediative, con la correzione di molte interpretazioni errate e il lento emergere di profili affatto differenti da quelli sin qui tracciati. Ė proprio su alcune di queste acquisizioni e sulle conseguenti aperture di prospettiva critica che appare opportuno qui insistere. All interno delle singole città, i longobardi, per quanto è possibile ricostruire, almeno in una fase iniziale si stanziarono in quartieri separati dal grosso della popolazione indigena, privilegiando i luoghi meglio difendibili, nei quali arroccarsi per sorvegliare da lì l intero centro urbano. Tornò comodo sfruttare anche i vecchi edifici pubblici di tradizione romana, che per loro configurazione e ubicazione potevano essere più agevolmente protetti e che con la loro magnificenza si proponevano quali sedi particolarmente attraenti per le autorità poli- tiche e militari dei nuovi dominatori. Ė del tutto plausibile che i duchi longobardi collocassero la propria residenza e i loro elementari apparati di governo, quando possibile, nei palazzi che avevano ospitato in passato le magistrature romane. Laddove presente, sembra aver destato attenzione anche la mole del circo cittadino. In ambito rurale, sempre per quanto se ne sa, le abitazioni del nucleo familiare longobardo (che comprendeva una certa quantità di individui, inclusi gli schiavi in numero proporzionato alla ricchezza della famiglia) sorgevano più o meno isolate, magari appoggiandosi alle strutture sopravvissute di antiche ville romane, le quali, con le trasformazioni della società e dell economia nei secoli della tarda antichità avevano in genere già subito processi di riadattamento e di riutilizzo dei propri locali. La fisionomia della dimora-tipo longobarda, denominata nelle fonti curtis (con termine latino), può essere immaginata, almeno per grandi linee, sulla scorta di poche tracce riscontrabili nella documentazione scritta, soprattutto nelle leggi codificate dal re Rotari e dai suoi successori 13. Essa appariva protetta da una recinzione esterna, realizzata tramite siepi, steccati di assi o pali e fossati, che racchiudeva tutte le diverse costruzioni di cui essa poteva (ma non per forza doveva ) essere composta (di abitazione per i liberi e per gli schiavi, di ricovero per gli animali domestici, di deposito di strumenti e materiali). Si deve pensare che si trattasse in molti casi (ma non in tutti) di strutture semplici, fabbricate con largo uso del legno, ma senza ignorare pure l edilizia in muratura, che era propria dell Italia romana. Concettualmente la curtis longobarda costituiva un unità giuridica sottoposta alla potestà indiscussa del capo famiglia ed era coperta da una fortissima protezione giuridica, per cui la sua eventuale violazione da parte di un estraneo rappresentava un reato di eccezionale gravità, punito con la massima durezza. Infatti, chi vi faceva ingresso privo di autorizzazione e senza un valido motivo poteva essere legittimamente ucciso dai residenti. La configurazione della curtis longobarda che affiora dai testi normativi (con le indicazioni sopra riassunte, che si riferiscono in pratica alla sola protezione giuridica del suo perimetro) apparentemente evoca una dimora rurale (e così è stata per lo più ricostruita), in qualche misura accostabile a una sorta di fattoria. In realtà, la natura essenzialmente concettuale di tale descrizione (prima ancora che il dibattuto carattere arcaico dell Editto rotariano, evocatore, secondo i più, di forme di vita anteriori alla migrazione in Italia dei lon- 13 I primi, tra i molti, capitoli dell Editto che menzionano la curtis sono Rotari 32, 34, in Le leggi dei Longobardi cit., p. 20, i quali insistono soprattutto sulla fortissima immunità giuridica di cui godeva la curtis, la violazione del cui perimetro era punita quale reato di straordinaria gravità. Cfr. le osservazioni in merito di G. MOSCHETTI, Primordi esegetici sulla legislazione longobarda nel sec. IX a Verona secondo il Cod. Vat. Lat. 5359, Spoleto 1954, pp

6 gobardi) 14 rende dubbia una simile identificazione: la curtis, concepita come dimora protetta da una recinzione, poteva ben collocarsi anche all interno di un centro urbano nell Italia longobarda e, quindi, non deve per forza di cose indurre a supporre come poste in aperta campagna le case dei longobardi, o almeno la maggior parte di esse. Una lunga tradizione di studi ha percepito e descritto l età longobarda, in modo convenzionale e assiomatico, come un epoca di radicale discontinuità, se non di autentica cesura, nella storia della penisola italiana (o almeno di quella parte di essa che fu popolata dai longobardi) durante il passaggio dalla tarda antichità al medioevo, anche sul piano degli assetti territoriali e delle forme dell insediamento, oltre che nei diversi ambiti delle istituzioni, della società, dell economia. Per il periodo in questione si è così diffusamente parlato di un processo di generale ruralizzazione del paesaggio e degli stessi stili di vita delle popolazioni, tracciando un quadro tanto suggestivo, quanto intimamente falso, almeno nella sua pretesa di validità assoluta. Secondo tale lettura, si sarebbero verificati, dunque, nel regno longobardo l abbandono delle città, ridotte ai loro minimi termini demografici e urbanistici e invase esse stesse da una debordante campagna, la predilezione quasi esclusiva dei longobardi per le sedi rurali, l arretramento diffuso del coltivo di fronte al dilagare dell incolto, il degrado delle strutture edilizie, con il trionfo di un materiale quale il legno, tipico più dei barbari che dei romani, e con il parallelo disperdersi di molte competenze tecniche nel campo delle costruzioni. Una valutazione meno pregiudiziale dei pochi dati concretamente disponibili, un più sistematico incrocio fra le testimonianze scritte e i riscontri archeologici, un indagine che consideri le articolazioni regionali e le diversità delle soluzioni locali (anziché presupporre esiti sempre uguali dappertutto) inducono peraltro a respingere un simile quadro e a modificare in misura considerevole la percezione delle forme insediative del periodo longobardo che è stata predominante fino a poco tempo fa. Si apprezzano ora maggiormente, pur nella consapevolezza dei fenomeni di rinnovamento che pure si ebbero, i motivi di continuità con le esperienze pregresse e, di conseguenza, l azione meno radicalmente eversiva della tradizione abitativa romana espletata dai longobardi Quali ultimi bilanci di sintesi sul valore e sui contenuti dell Editto di Rotari, cfr. M. CARAVALE, Ordinamenti giuridici dell Europa medievale, Bologna 1994, pp ; E. CORTESE, Il diritto nella storia medievale, I: L alto medioevo, Roma 1995, pp ; A. PADOA-SCHIOPPA, Il diritto nella storia d Europa. Il Medioevo, parte prima, Padova 1995, pp Sui molti problemi posti dalla valutazione delle forme di insediamento nell Italia altomedievale, cfr. le recenti osservazioni di C. LA ROCCA, La trasformazione del territorio in occidente, in Morfologie sociali e culturali in Europa fra tarda antichità e alto medioevo, Spoleto 1998 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull alto Medioevo, XLV), pp In una simile direzione la ricerca deve ancora progredire parecchio, su molti singoli punti, ed è limitata da ostacoli oggettivi, quali, per esempio, l estrema difficoltà di poter condurre adeguate indagini archeologiche nei centri delle città moderne, che celano fasi di epoca longobarda (e gli esempi citabili al riguardo sono numerosissimi). Appare evidente che se si desse una tale possibilità, saremmo in grado di raccogliere informazioni sulle linee salienti della configurazione urbanistica delle città di epoca longobarda e sul loro rapporto con i precedenti impianti romani che le fonti scritte non permettono quasi nemmeno di intuire. Tra i molti casi che sarebbe possibile indicare, ci si limita qui a far cenno a quello di Salerno, grande centro della Langobardia meridionale, il cui grado di continuità con la semi-ignota Salerno romana resta oscuro e potrebbe essere almeno in parte chiarito solo dall eventualità di scavi organici (virtualmente impossibili) nel pieno centro cittadino, attorno alla chiesa longobarda di San Pietro a Corte e ai resti del palazzo principesco 16. Pur con le difficoltà di ricerca e interpretazione dei dati ricordate, l acquisizione di qualche nuova informazione e un approccio meno assiomatico e classificatorio alla ricerca hanno consentito, purtuttavia, alcuni progressi nelle conoscenze e opportune messe a fuoco critiche. Su molti argomenti, peraltro, il dibattito resta apertissimo e suggerisce interpretazioni assai articolate, quando non addirittura palesemente divergenti o antitetiche. È questo il caso, per esempio, proprio del dibattutissimo tema (sopra in parte evocato) della continuità della vita cittadina tra l Italia romana e quella longobarda, anche in raffronto con i fenomeni presenti nelle regioni della penisola conservate, dopo il 568/569, dall impero, nelle quali, secondo una lettura tradizionale, gli equilibri urbani tardoantichi sarebbero rimasti in buona sostanza inalterati. I risultati degli scavi archeologici sin qui eseguiti (pure come detto - non numerosissimi e sovente parziali, quando non legati a meri ritrovamenti occasionali) tendono a smentire (fatte salve le eccezioni che sempre esistono) l impressione di un diffuso fenomeno di spopolamento, di abbandono o di autentica distruzione dei centri urbani di tradizione romana dopo l avvento dei lon- 16 La pubblicazione scientifica degli scavi di S. Pietro a Corte è ancora in fase di preparazione, per ora cfr. S. Pietro a Corte. Recupero di una memoria nella città di Salerno, Napoli Analoga penuria di dati per il centro urbano di Benevento, su cui cfr. da ultimo M. COSTAGLIOLA, Nuovi dati sulla chiesa longobarda di S. Sofia a Benevento, in Atti del III Congresso Nazionale di Archeologia Medievale, Castello di Salerno Complesso di Santa Sofia, Salerno, 2-5 ottobre 2003, a cura di R. FIORILLO e P. PEDUTO, Firenze 2003, pp Per lo status quaestionis della ricerca archeologica sulla Langobardia meridionale cfr. P. PEDUTO, Salerno e il suo territorio: persistenze e trasformazioni, in I Longobardi dei ducati di Spoleto e Benevento. Atti del XVI Congresso internazionale di studi sull alto medioevo, Spoleto, ottobre 2002, Benevento, ottobre 2002, II, Spoleto 2003, pp ; M. ROTILI, Benevento e il suo territorio: persistenze e trasformazioni, ivi, I, pp

7 gobardi, che invece appare suggerita da molte testimonianze scritte, in genere redatte da romani, cioè dalle vittime dell invasione, naturalmente inclini a esagerare le conseguenze di quella (si pensi, tra gli altri, ad alcuni passi, notissimi, delle Epistolae o dei Dialogi di Gregorio Magno). Un singolo esempio di come la notizia offerta da un testo scritto abbia prodotto un errata conoscenza in quest ambito - anche quando la fonte non è romana - può essere rappresentato dal caso di Padova, città di primissimo piano nella Venetia antica, che a detta di Paolo Diacono sarebbe stata distrutta in modo pressoché totale dal re longobardo Agilulfo, forse nell anno In realtà, Paolo, quando parlava di un centro urbano divorato dalle fiamme e raso al suolo per ordine del monarca, si limitava a impiegare una terminologia del tutto convenzionale, letterariamente evocativa, per cliché, della violenza di un aggressione militare. Che Padova nella circostanza non fosse stata affatto distrutta dalle fondamenta è dimostrabile sulla scorta di riscontri archeologici e anche in forza della consapevolezza che non molti anni dopo il centro seppe prontamente riacquistare 17 PAOLO DIACONO, IV, 22: «sed tandem, iniecto igni, tota flammis vorantibus [Patavium] concremata est, et iussu regis Agilulfi ad solum usque destructa est». un ruolo di primo piano nella regione veneta, recuperando rapidamente abitanti e funzioni, come non sarebbe stato possibile se le sue strutture fossero state rovinosamente e sistematicamente distrutte. Inoltre, circa la vita cittadina, figurano meno accentuate di quanto comunemente non si credesse anche le divergenze fra l ambito longobardo e quello imperiale bizantino, che pur nelle loro specificità - sembrano interessati da processi in buona parte condivisi. Non pare insomma possibile contrapporre frontalmente e in modo schematico un modello di insediamento nell Italia bizantina fondato su una sostanziale tenuta della rete urbana tardoromana (per numero e identità delle città, loro densità demografica in rapporto alla campagna, aspetti urbanistici ed edilizi); a uno longobardo, contraddistinto, al contrario, da pochi centri urbani, spopolati, con edifici antichi in rovina e rimpiazzati da capanne in legno, invasi dalla campagna fin dentro le proprie mura. In ambedue le partizioni politiche della penisola sembrano piuttosto essersi verificati complicati processi di trasformazione e riassetto, per alcuni versi non troppo difformi nell un caso e nell altro, che suggeriscono un quadro ben più mosso e intrecciato. Una recente acquisizione della ricerca sull Italia longobarda è la profonda revisione del concetto stesso di decadenza urbana, che appare condizionato alla radice dal raffronto (perdente, in tale prospettiva, per la città altomedievale) con il modello storico costituito dalla città antica. Oggi, la critica preferisce parlare, piuttosto, di processi di ridefinizione degli spazi urbani nell altomedioevo, correlati alle mutate esigenze abitative (anche a causa di un complessivo calo demografico), con fenomeni di selezione, di trasferimento di funzioni, di cambio d uso delle varie superfici e costruzioni, che non appaiono più interpretabili come episodi di puro abbandono, per semplice regresso del centro abitato. Insomma, una popolazione ridotta nel numero e inserita in un contesto politico, sociale ed economico mutato riusava gli spazi ereditati dalla città antica in ragione delle proprie nuove necessità: si concentravano le abitazioni in determinati quartieri, si destinavano a usi diversi zone periferiche (ad esempio, come cave di materiali da costruzione o come discariche), si ritagliavano aree specifiche per le attività agricole e per l allevamento anche all interno delle mura urbane (piuttosto che pensare a un generico dilagare dell incolto, a una ruralizzazione di molti ambiti cittadini, a causa di una fuga degli abitanti) Per un primissimo e aggiornato orientamento nella vastissima bibliografia sul tema degli assetti urbani altomedievali e per una prospettiva degli attuali orientamenti della ricerca con riferimento specifico all Italia longobarda (non senza letture articolate e talora divergenti) cfr. almeno C. LA ROCCA, «Plus ça change, plus c est la meme chose»: trasformazioni della città altomedievale in Italia settentrionale, Società e storia, 45 (1989), pp ed EAD., La trasformazione del territorio cit.; G. P. BROGIOLO, La città longobarda nel periodo della conquista (569-in. VII), 36 37

8 Da una simile revisione critica, in pieno corso di svolgimento, emerge un quadro d insieme sicuramente più complesso della città di epoca longobarda (estensibile, per i problemi di prospettiva, metodo e interpretazione che pone, a tutte le forme dell insediamento), che va ricostruito con pazienza, aggregando i dati parziali e riferiti a realtà singole (e cercando quindi di ricavarne i lineamenti comuni), e che non può certo essere desunto, al contrario, per derivazione da un modello precostituito. Inoltre, va trovato un equilibrio critico, nell interpretare le dinamiche della trasformazione (concetto quest ultimo sicuramente preferibile a quello obsoleto di continuità/discontinuità ), tra l impressione fornita dalle testimonianze scritte e quella offerta dalle fonti archeologiche, le quali tendono naturalmente a porsi su piani di prospettiva assai diversi, legati alle rappresentazioni culturali dei fenomeni o alle percezioni dei singoli autori le prime, alla concretezza delle strutture materiali, invece, le seconde. Infine, nel campo stesso delle sole fonti scritte, più che insistere sulle vagliatissime, poche, opere di carattere letterario, andrebbe intensificato lo studio sistematico della documentazione pubblica e privata, non sempre fin qui condotto in modo adeguato per tutti gli argomenti che essa tratta e per tutte le aree della Langobardia. Molto, insomma, resta ancora da fare. in La storia dell alto medioevo italiano (VI-X secolo) alla luce dell archeologia, a cura di R. FRANCOVICH e G. NOYÉ, Firenze 1994, pp ; P. DELOGU, La fine del mondo antico e l inizio del Medioevo: nuovi dati per un vecchio problema, ivi, pp. 7-29; e, quali quadri di sintesi, G. P. BROGIOLO, S. GELICHI, La città nell alto medioevo italiano. Archeologia e storia, Roma-Bari 1998; Sedes regiae (ann ), edd. G. RIPOLL, J. M. GURT, Barcelona 2000; S. GELICHI, The cities, in Italy in the Early Middle Ages , ed. C. LA ROCCA, Oxford 2002, pp

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