OSSERVATORIO SUL DIRITTO DEL LAVORO LUGLIO-AGOSTO 2015 AGGIORNATO AL 31 AGOSTO 2015 A cura di Laura Sicari

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1 OSSERVATORIO SUL DIRITTO DEL LAVORO LUGLIO-AGOSTO 2015 AGGIORNATO AL 31 AGOSTO 2015 A cura di Laura Sicari CASSAZIONE SEZIONE LAVORO SENTENZA DEL 17 LUGLIO 2015, N Sull importanza dell esame in concreto della gravità dell infrazione disciplinare La Suprema Corte torna a parlare dell importanza, nel determinare la sanzione disciplinare da applicare al lavoratore, della verifica in concreto delle circostanze relative all'infrazione disciplinare, a prescindere dalla mera riconducibilità del fatto contestato alle declaratorie contenute nei contratti collettivi. Il problema dell esame in concreto della gravità dell infrazione disciplinare emerge, in particolare, tutte le volte in cui il datore di lavoro sanzioni la condotta del lavoratore con il licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo. Il Supremo Collegio premette che «il perimetro del giudizio di questa Corte Suprema in tema di giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento è dato dall interpretazione delle norme cd. elastiche, ossia a variabile contenuto assiologico, che richiedono all interprete giudizi di valore su regole o criteri etici o di costume o proprie di discipline e/o di ambiti anche extragiuridici». A questo punto, la Corte richiama i diversi esempi di concetti presenti nell ordinamento, oltre quelli di giusta causa e giustificato motivo, che richiedono all interprete un giudizio di valore, tra cui quelli di buona fede nelle trattative, interesse del minore, concorrenza sleale, vincolo pertinenziale, carattere creativo dell opera dell ingegno, importanza dell inadempimento, danno ingiusto, stato di bisogno, ecc.. Per tali ragioni, l astratta riconducibilità della condotta del lavoratore (nel caso di specie appropriazione dei beni aziendali) al concetto di giusta causa o giustificato motivo di licenziamento secondo la contrattazione collettiva, non può vincolare il giudice di merito che deve necessariamente valutare in concreto la gravità della condotta e la conseguente proporzionalità della sanzione applicata. Il giudice, infatti, «ha il dovere, in primo luogo, di controllare la rispondenza delle pattuizioni collettive disciplinari al disposto dell art c.c. e rilevare la nullità di quelle che 1

2 prevedono come giusta causa o giustificato motivo di licenziamento condotte per loro natura assoggettabili, ex art c.c., solo ad eventuali sanzioni conservative (il giudice non può - invece - fare l inverso, cioè estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall autonomia delle parti: cfr. Cass n. 4546; Cass n ; Cass n ; Cass n. 1173). Solo dopo che tale verifica consenta di escludere la nullità delle clausole del contratto collettivo in tema di comportamenti passibili di licenziamento e comunque faccia ritenere che l infrazione disciplinare sia astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo di recesso, il giudice deve poi apprezzare in concreto (e non in astratto) la gravità degli addebiti, essendo pur sempre necessario che essi rivestano il carattere di grave negazione dell elemento essenziale della fiducia e che la condotta del dipendente sia idonea a porre in dubbio la futura correttezza del suo adempimento, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del prestatore rispetto all adempimento dei futuri obblighi lavorativi (cfr., ex aliis, Cass. n. 2013/12; Cass. n. 2906/05; Cass. n /04; Cass. n. 5633/01). In altre parole, vertendosi in materia disciplinare, va sempre in concreto esaminata la gravità dell infrazione sotto il profilo oggettivo e soggettivo e sotto quello della futura affidabilità del dipendente a rendere la prestazione dedotta in contratto». Per tali ragioni, la Suprema Corte ha ritenuto immune da vizi logico-giuridici la decisione con cui la Corte territoriale, valutate le circostanze concrete, ha dichiarato l illegittimità del licenziamento disciplinare valutando le infrazioni addebitate ai lavoratori non di gravità tale, riguardo sia all elemento oggettivo che a quello soggettivo, da minare in modo irrimediabile il rapporto fiduciario tra le parti: «In proposito la gravata pronuncia ha accertato la particolare tenuità del danno, trattandosi di beni di scarso valore commerciale (secondo quel che si legge in sentenza, un succo di frutta, quattro merendine, una bevanda in bottiglia, due spremute di frutta e una vaschetta di gelato, il tutto ripartito fra i cinque lavoratori) e consumati sullo stesso luogo di lavoro senza ricorrere a loro occultamento o ad altre precauzioni sintomatiche della consapevolezza dell illiceità della condotta». La Corte, infine, ha rilevato l influenza dell intervenuta condanna penale dei lavoratori, poiché «il giudicato penale concerne solo l accertamento dei fatti materiali che costituiscono l area comune dei due processi (quello civile e quello penale), senza vincolare l autonomo apprezzamento del giudice del lavoro in termini di configurabilità della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento, non potendosi automaticamente far discendere la sanzione di natura privatistica da quella penalistica, trattandosi di illeciti e relative sanzioni che hanno finalità e presupposti diversi». 2

3 CASSAZIONE SEZIONE LAVORO SENTENZA DEL 21 LUGLIO 2015 N Sull obbligo di affissione del codice disciplinare Con la sentenza in epigrafe, la Corte di Cassazione, ribadendo l orientamento ormai consolidato in giurisprudenza, delinea le ipotesi in cui la mancata affissione del codice disciplinare in azienda non pregiudichi la validità della sanzione disciplinare. Com è noto, infatti, l art. 7 della legge del 20 maggio 1970, n. 300 (cd. Statuto dei Lavoratori), al primo comma stabilisce che Le norme disciplinari relative alle sanzioni alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna di esse può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti. Tuttavia, secondo l orientamento uniforme della giurisprudenza, richiamato nella sentenza in epigrafe, «in tutti i casi nei quali il comportamento sanzionatorio sia immediatamente percepibile dal lavoratore come illecito, perché contrario al c.d. minimo etico o a norme di rilevanza penale, non sia necessario provvedere alla affissione del codice disciplinare, in quanto il lavoratore ben può rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni da parte del codice disciplinare, della illiceità della propria condotta (vedi ex plurimis, Cass. 27 gennaio 2011 n. 1926)». Qualora, invece, la condotta contestata al lavoratore appaia violatrice non di generali obblighi di legge ma di regole comportamentali previste dalla contrattazione collettiva, individuale o dai regolamenti aziendali al fine di garantire il miglior svolgimento del rapporto di lavoro, l affissione di tali norme costituisce elemento necessario. Peraltro, «in tema di procedimento disciplinare nei confronti di dipendenti pubblici, la disposizione di cui all art. 25, n.10, del c.c.n.l. del 6 luglio 1995 per il personale degli enti locali- prevede che al codice disciplinare deve essere data la massima pubblicità mediante affissione in luogo accessibile a tutti i dipendenti. La particolare disciplina contenuta nel CCNL di settore - di natura pubblicistica e quindi oggetto di accertamento ed interpretazione diretta da parte della Corte di Cassazione - prevede che al codice disciplinare deve essere data una particolare forma di pubblicità, che è tassativa e non può essere sostituita con altre (vedi, in tali sensi, Cass. 23 marzo 2010 n. 6976)». 3

4 Sulla base di tali considerazioni, la Corte, tenuto conto che nel caso di specie la contestazione riguardava la violazione di regole attinenti all organizzazione aziendale, ha ritenuto essenziale l affissione del codice disciplinare, a nulla rilevando che tali norme fossero contenute nel contratto collettivo per il personale degli enti locali: «In tale prospettiva resta superato anche il rilievo sollevato dal ricorrente con riferimento alla natura normativa dei contratti collettivi di lavoro nelle pubbliche amministrazione, che sono l'esito di un procedimento regolato ex lege (art. 47 d.lgsl. n. 165/01) la cui efficacia si perfezione con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Non può, infatti, ritenersi in questa sede invocabile il principio, pur enunciato da questa Corte, alla cui stregua la previsione nella disposizione di legge, pubblicata nella Gazzetta ufficiale, è sufficiente alla conoscenza da parte della generalità e rende inutile la suddetta affissione (vedi Cass. 8 gennaio 2007 n. 56). Ciò in quanto è il contenuto stesso della disposizione collettiva che disciplina la fattispecie scrutinata - relativa all'obbligo di idonea pubblicità del codice disciplinare - che palesa come inderogabile siffatto obbligo, e rende inapplicabile sia quella giurisprudenza la quale ha ritenuto non necessaria l affissione del codice disciplinare quando la violazione è percepita come tale dal senso comune o in base ai principi generali (vedi Cass. cit. n. 6976/10), sia quell orientamento che sulla natura normativa delle disposizioni collettive di comparto, fonda il giudizio di non necessità della affissione del codice disciplinare in luogo accessibile a tutti». Il Supremo Consesso, dunque, rilevando che, nel caso di specie, la norma pattizia non ammetta forme di pubblicità equipollenti all affissione, ha confermato la pronuncia con cui la Corte territoriale ha dichiarato l illegittimità della sanzione disciplinare applicata alla lavoratrice per violazione dell obbligo di affissione del codice disciplinare. CASSAZIONE SEZIONE LAVORO ORDINANZA DEL 4 AGOSTO 2015 N Sulla violazione della normativa in materia di successione di contratti a termine nel pubblico impiego L ordinanza interlocutoria in epigrafe è degna di nota perchè affronta la tematica della violazione della normativa in materia di successione di contratti a termine nel pubblico impiego, rimettendo alle Sezioni Unite la composizione dei contrastanti orientamenti giurisprudenziali formatisi in tale materia. 4

5 Com è noto, infatti, l art. 36 del decreto legislativo del 30 marzo 2001, n. 165, prevede che [ ]In ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l assunzione o l impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative. Le amministrazioni hanno l obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo nei confronti dei dirigenti responsabili, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave. La norma è stata assoggettata anche al vaglio della Corte di Giustizia Europea. Ed infatti, nel corso del giudizio in esame, il giudice di prime cure ha sollevato questione pregiudiziale al Giudice Europeo per valutare se la Direttiva 1999/70/CE (art. 1 nonché clausola 1, lett. b, e clausola 5 dell'accordo quadro sul lavoro CES-UNICE-CEEP recepito dalla Direttiva) debba essere intesa nel senso che osta ad una disciplina interna (previgente all'attuazione della direttiva stessa) che differenzia i contratti di lavoro stipulati con la pubblica amministrazione, rispetto ai contratti con datori di lavoro privati, escludendo i primi dalla tutela rappresentata dalla costituzione d'un rapporto di lavoro a tempo indeterminato in caso di violazione di regole imperative sulla successione dei contratti a termine. Sul punto, la Corte Europea ha chiarito che «l accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, che figura in allegato alla direttiva 1999/70, relativa all accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, dev essere interpretato nel senso che non osta, in linea di principio, ad una normativa nazionale che esclude, in caso di abuso derivante dall'utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, che questi siano trasformati in contratti o in rapporti di lavoro a tempo indeterminato, mentre tale trasformazione è prevista per i contratti e i rapporti di lavoro conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato, qualora tale normativa contenga un altra misura effettiva destinata ad evitare e, se del caso, a sanzionare un utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico» (cfr. Corte di Giustizia Europea, sentenza del 7 settembre 2006, causa C-53/04). 5

6 Tuttavia, in tale occasione, la Corte di Giustizia Europea ha precisato che, quando il diritto comunitario non prevede sanzioni specifiche in caso di abusi accertati, è compito delle autorità nazionali adottare misure adeguate per far fronte a tali situazioni, misure che siano tanto proporzionate, quanto effettive e dissuasive, al fine di garantire la piena efficacia della normativa comunitaria. Dunque, spetta al giudice italiano valutare in quale misura le condizioni di applicazione nonché l attuazione effettiva dell art.36, d. lgs. n.165/2001, ne fanno uno strumento adeguato a prevenire e, se del caso, a sanzionare l utilizzo abusivo da parte della pubblica amministrazione di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato. Sul punto, la Corte richiama gli orientamenti formatisi in sede di legittimità sull individuazione del corretto parametro da utilizzare per quantificare il risarcimento del danno spettante al dipendente pubblico in caso di ricorso abusivo della contrattazione a termine. Secondo un primo orientamento «in materia di pubblico impiego, un rapporto di lavoro a tempo determinato non è suscettibile di conversione in uno a tempo indeterminato, stante il divieto posto dall'art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, il cui disposto è stato ritenuto legittimo dalla Corte costituzionale (sent. n. 98 del 2003) e non è stato modificato dal d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, contenente la regolamentazione dell'intera disciplina del lavoro a tempo determinato. Ne consegue che, in caso di violazione di norme poste a tutela del diritti del lavoratore, precluso il diritto alla trasformazione del rapporto, residua a favore del lavoratore soltanto la possibilità di ottenere il risarcimento dei danni subiti, per la cui determinazione trova applicazione, d ufficio ed anche nel giudizio di legittimità, l art. 32, commi 5 e 7 della legge 4 ottobre 2010, n. 183, a prescindere dall intervenuta costituzione in mora del datore di lavoro e dalla prova concreta di un danno, trattandosi di indennità forfetizzata e onnicomprensiva per i danni causati dalla nullità del termine» (Cass. n /2013). Secondo altro orientamento «in materia di pubblico impiego privatizzato, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l assunzione o l impiego di lavoratori, da parte della Pubblica Amministrazione, non determina la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, ma fonda il diritto del lavoratore al risarcimento del danno, ai sensi dell art. 36, comma 5, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, interpretato - con riferimento a fattispecie diverse da quelle del precariato scolastico - nel senso di danno comunitario, il cui risarcimento, in conformità ai canoni di adeguatezza, effettività, proporzionalità e dissuasività rispetto al ricorso abusivo alla stipulazione di contratti a termine, è 6

7 configurabile quale sanzione ex lege a carico del datore di lavoro, per la cui liquidazione è utilizzabile, in via tendenziale, il criterio indicato dall art. 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e non il sistema indennitario onnicomprensivo previsto dall art. 32 della legge 4 novembre 2010, n.183, né il criterio previsto dall art. 18 dello Statuto dei lavoratori, che non hanno alcuna attinenza con l indicata fattispecie». (Cass. n /2014). A questo punto, la Suprema Corte, ha osservato che «nella fattispecie ora all esame le questioni devolute alla Corte, in relazione ai motivi di ricorso svolti, investono entrambe le componenti del danno risarcibile e, precisamente, sia quella riferibile alla riparazione del pregiudizio sofferto dal lavoratore per la mancata conversione del rapporto di lavoro, sia quella configurabile come una vera e propria sanzione a carico della Pubblica Amministrazione per il comportamento illegittimamente tenuto nei confronti dei dipendenti». Per tali ragioni, nonchè tenuto conto che le questioni siano di particolare importanza, involgendo la definizione e la portata applicativa, nonché i criteri di parametrazione del c.d. danno comunitario e rilevato il contrasto negli orientamenti della Sezione Lavoro, il Supremo Consesso, al fine di consentire una sollecita ed autorevole affermazione del principio di diritto, ha rimesso gli atti al Primo Presidente della Corte per l assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite. CASSAZIONE SEZIONE LAVORO SENTENZA DEL 10 AGOSTO 2015 N Sul danno da usura psicofisica per mancata fruizione dei riposi giornalieri e settimanali Con la sentenza in epigrafe, la Suprema Corte affronta la tematica del danno da usura psicofisica in materia lavoristica, precisando quali siano i presupposti per la sua configurabilità, la portata dell onere probatorio ed i criteri per la sua quantificazione. Ad avviso dei giudici di legittimità «il danno da stress, o usura psicofisica, si inscrive nella categoria del danno non patrimoniale causato da inadempimento contrattuale e, in linea generale, la sua risarcibilità presuppone la sussistenza di un pregiudizio concreto sofferto dal titolare dell interesse leso, sul quale grava l onere della relativa allegazione e prova, anche attraverso presunzioni semplici. Con specifico riferimento al lavoro prestato oltre il sesto giorno consecutivo, peraltro, questa corte ha ritenuto (Sez. L, sentenza n del 20/08/2004, Rv ) di distinguere il danno da usura psico-fisica, conseguente alla mancata fruizione del riposo dopo sei giorni di lavoro, dall ulteriore danno alla salute o danno biologico, che concretizza, invece, in una 7

8 infermità del lavoratore determinata dall attività lavorativa non seguita dai riposi settimanali e che nella prima ipotesi, a differenza che nella seconda ipotesi, il danno sull an deve ritenersi presunto (così anche Sez. L, Sentenza n del 04/03/2000, Rv )». La normativa in materia di riposi settimanali, infatti, costituisce, estrinsecazione del principio costituzionale di cui all art. 36 Cost. 1, sicchè, in caso di inadempimento datoriale, la lesione dell interesse del lavoratore espone direttamente il datore di lavoro al risarcimento del danno non patrimoniale. Diversamente, invece, per le altre ipotesi di lesione dell interesse del lavoratore non sorrette da copertura costituzionale, spetta al lavoratore provare l an del danno sofferto. Con riferimento alla fattispecie in esame, la Suprema Corte ha ritenuto immune da errori logici e giuridici la decisione con cui la Corte territoriale ha valutato come dimostrata la violazione della disciplina dei riposi giornalieri e settimanali in virtù della produzione, da parte dei lavoratori, dei turni di lavoro che testimoniavano il superamento dei limiti legali previsti dalla normativa vigente 2. Alla stregua di tali considerazioni è stato riconosciuto ai lavoratori il danno da usura, «quale danno non patrimoniale distinto da quello biologico ed inerente la violazione del diritto al riposo costituzionalmente protetto, quale danno prodottosi per la protrazione della maggior penosità del lavoro imposta dai turni assegnati in un lungo arco temporale (di anni) senza riposo adeguato a riposi compensativi». Con riferimento al criterio di liquidazione del danno, la Corte ha ritenuto non viziata la motivazione del giudice di merito che, facendo riferimento alla maggior penosità della prestazione lavorativa non accompagnata dai prescritti riposi giornalieri e settimanali, ha quantificato il danno secondo i criteri previsti per l ipotesi di lavoro straordinario. La decisione, infatti, è in linea con gli insegnamenti delle Sezioni Unite (sentenza del 3 aprile 1989, n. 1607), secondo le quali «nel caso di prestazione dell attività lavorativa di domenica, senza fruizione del riposo in altro giorno della settimana, il mancato riposo settimanale, con l usura psicofisica che ne deriva, costituisce per il lavoratore cui per tale prestazione dev essere corrispostala retribuzione giornaliera (in quanto la paga normale compensa solo 1 Ai sensi dell ultimo comma dell articolo 36 Cost Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi. 2 Nella specie, a fronte della produzione da parte dei lavoratori dei turni relativi ad un determinato periodo, il giudice di merito ha ordinato al datore di lavoro di esibire i documenti relativi ad altra parte del periodo lavorato, ma tale ordine è rimasto inevaso. Per tali ragioni, in difetto di allegazione e prova contraria, il giudice ha ritenuto che i turni siano rimasti invariati e, non avendo il datore ottemperato all ordine di esibizione, ha tratto elementi di giudizio in ordine alla reiterazione nel tempo delle modalità di espletamento dell attività lavorativa e, quindi, della violazione datoriale ai limiti legali. 8

9 sei giorni la settimana) uno specifico titolo di risarcimento, che è autonomo rispetto al diritto alla maggiorazione per la penosità del lavoro domenicale; tale risarcimento, in mancanza di criteri legali o di principi di razionalità che ne impongano la liquidazione in una somma pari ad un altra retribuzione giornaliera, dev essere liquidato in concreto dal giudice del merito, alla stregua di una valutazione che anche mercè l utilizzazione di strumenti ed istituti previsti dalla contrattazione collettiva tenga conto della gravosità delle varie prestazioni lavorative, non essendo il danno per il sacrificio del riposo settimanale determinabile in astratto». 9

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