Rassegna cinematografica MONDI LONTANI MONDI VICINI

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1 C.so Taranto, Torino tel fax in collaborazione con i CTP Braccini, Parini e Saba, l UNITRE (Università della Terza Età), l Associazione ASAI, il Cinecircolo L INCONTRO (Collegno) e FIERI (Forum Internazionale ed Europeo di Ricerche sull Immigrazione) Rassegna cinematografica MONDI LONTANI MONDI VICINI Anno XIX EDIZIONE CINEMA MASSIMO UNO TORINO Via Verdi 18 Con il contributo di Orario proiezioni per le scuole: Riservato agli studenti delle scuole medie superiori e dei CTP, a gruppi di giovani, agli insegnanti e all UNITRE Orario proiezione pubblico: INGRESSO LIBERO Prenotazioni: Fax centroic@comune.torino.it

2 Giovedì 27 ottobre 2011 INTO PARADISO Regia di Paola Randi. Interpreti: Gianfelice Imparato, Peppe Servillo, Saman Anthony, Eloma Ran Janz, Gianni Ferreri, Shatzi Mosca. Genere: drammatico, colore, 104 minuti - Produzione Italia, Rassegna stampa Sinossi Alfonso è uno scienziato napoletano, timido e impacciato, che ha appena perso il lavoro. Gayan è un affascinante ex campione di cricket srilankese che non ha più un soldo, è appena arrivato a Napoli ed è convinto di trovare il Paradiso. Alfonso ha passato tutta la vita a studiare la migrazione delle cellule e a guardare telenovelas con la madre. Gayan ha viaggiato e conosciuto fama e denaro. Alfonso è costretto, per uno strano equivoco, a nascondersi a una banda di malavitosi e Gayan diviene dapprima ostaggio e poi suo unico alleato. I due si ritrovano a vivere in una catapecchia eretta abusivamente su un tetto di un palazzo nel quartiere srilankese della città. Da questa convivenza nasce una speciale amicizia che darà loro il coraggio di affrontare il proprio destino, cambiandolo per sempre. «Into Paradiso è la storia di un amicizia nata da una convivenza forzata. Credo che l esperienza dell immigrazione si possa ricondurre, in ultima analisi, a questo: una condivisione obbligata di spazi tra gente che proviene da mondi diversi. Quelli che vivono quotidianamente i problemi dell esperienza migratoria, sono ovviamente i migranti e quelli che abitano nei quartieri dove i migranti vanno a vivere. Ovvero, nella maggior parte dei casi, nei quartieri poveri delle città. In questa storia, ho cercato di raccontare che cosa sarebbe potuto succedere se un italiano fosse stato costretto a vivere nel quartiere srilankese della sua città. Dunque, una prospettiva ribaltata, dove un cittadino italiano si ritrova a essere anch egli uno straniero, accolto dalla comunità srilankese perché non ha più un posto dove stare. Entrambi i personaggi infatti vivono i disagi della società in cui vivono e si coalizzano per cercare di affrontarli. I personaggi si ispirano a persone reali incontrate nel periodo di ricerca che ho svolto a Napoli e in Sri Lanka. Ogni situazione, ogni carattere è, se non reale, possibile in quel contesto. La storia è una storia di finzione, ma volevo che fosse il più possibile ancorata alla realtà sociale contemporanea sul territorio» (Paola Randi, Note di regia, pubblicate sul sito «Diretto dall'esordiente milanese Paola Randi, è Into Paradiso, commedia low budget surreale e scanzonata che fotografa un Italia multietnica, dove precari e migranti si nutrono della stessa crisi d identità, ma senza drammatizzare. Ottimi e affiatati gli attori, modeste le pretese sociologiche, sobriamente fantasioso lo stile, un piccolo film che merita una possibilità, se non altro, perché crede: nel potere immaginifico del cinema e nell implosione della camorra» (Federico Pontiggia, Il Fatto Quotidiano, 12 febbraio 2011). «Che cosa ci fanno insieme uno scienziato che ha appena perso il lavoro, un ex-campione di cricket venuto dallo Sri Lanka a Napoli per fare il badante, un politico colluso e corrotto, più un imprecisato numero di killer della camorra in cerca di una pistola che scotta? Semplice: danno vita

3 alla commedia più insolita, strampalata e sofisticata vista da molto tempo in qua nel nostro cinema: Into Paradiso dell esordiente Paola Randi, 40enne milanese che viene da pittura, teatro e videoarte. Into Paradiso, col suo cast senza stelle e la sua andatura senza inciampi finisce per essere più comico, poetico e inventivo di film con ben altre strutture e ambizioni alle spalle» (Fabio Ferzetti, Il Messaggero, 11 febbraio 2011). «L idea di realizzare questo film è nata da un immagine. Desideravo scrivere una commedia sull immigrazione in Italia. L argomento mi sta a cuore, da un lato perché in famiglia siamo tutti emigrati da qualche parte, dall altro perché ho lavorato per dodici anni in organizzazioni che si occupavano di interventi di cooperazione allo sviluppo. Proveniente dal teatro e dai cortometraggi, la regista Paola Randi sintetizza così la genesi del suo primo lungometraggio, storia di un amicizia nata da una convivenza forzata. Con le fattezze di Gianfelice Il divo Imparato, ne è infatti protagonista Alfonso D Onofrio, timido e impacciato scienziato napoletano che, trascorsa tutta la vita a studiare la migrazione delle cellule e a guardare telenovelas con la madre, perde il lavoro e, per un tragicomico equivoco, si trova costretto a nascondersi da una banda di malviventi in una catapecchia abusiva sul tetto di un palazzo del quartiere srilankese della città, dove lo squattrinato nero Gayan, alias Saman Anthony, ex campione di cricket, diviene dapprima ostaggio, poi suo unico alleato. Ed è incluso anche il cantante degli Avion Travel Peppe Servillo nel cast di questa commedia che, sceneggiata dalla stessa Randi insieme al Pietro Albino Di Pasquale cui dobbiamo lo script de L uomo fiammifero (2009), all Antonia Paolini già attiva nella serie tv Raccontami e ai mocciani Luca Infascelli e Chiara Barzini, tira in ballo perfino surreali momenti d animazione. Una commedia sicuramente atipica per il cinematograficamente vuoto stivale tricolore d inizio XXI secolo, ma che risente un po troppo e in maniera evidente della preparazione teatrale della sua autrice. Non a caso, il maggiore pregio dell operazione è individuabile nelle prove degli attori, in quanto l insieme, nonostante il veloce susseguirsi delle assurde situazioni, raramente riesce a coinvolgere lo spettatore, risultando non poco noioso e a tratti (molti tratti) incomprensibile. La frase: I morti stanno tranquilli, sono i vivi il vero problema» (Francesco Lomuscio, FilmUp.com, 27 agosto 2010). «Alfonso è un ricercatore universitario: timido, impacciato e drammaticamente precario. Alla notizia del suo licenziamento, decide di rivolgersi a un vecchio amico d infanzia, un politico in ascesa, nella speranza di ricevere una raccomandazione. Ottenuto il favore, viene coinvolto in una resa dei conti tra camorristi e, costretto a scappare, si rifugia nel piccolo appartamento sul tetto di Gayan, un ex campione di cricket srilankese. La convivenza forzata tra i due permetterà la nascita di una solidarietà umana che cambierà le loro vite. Napoli è una città vitale, dove la multiculturalità secondo la regista Paola Randi detta legge, anche quando camorra e malavita seminano terrore. Il suo esordio al lungometraggio è un gioiello che brilla della luce vigorosa degli abitanti napoletani. Classicismo e sperimentazione si alternano come pesi di una bilancia che carica una storia complessa e ricca di riferimenti all attualità. La rappresentazione della politica, infatti, è in linea con l immagine dei governatori italiani; come dice Alfonso nel film, i politici mangiano tutto, dimostrando con un espressione breve e incisiva l'arraffamento smanioso della classe dirigente italiana. La dignità osannata ma mancata del politicante sta in mezzo ai due estremi, Alfonso e Gayan. Il luogo dell incontro tra quest ultimi, chiamato realmente Paradiso dalla comunità singalese che ci abita, è un mondo a sé, distaccato da Napoli per tradizioni popolari ma vicino alla città per esuberanza di colori. Lo spaesamento di Alfonso è indice di un ingenuità atavica che tende a perdonare tutto, a livellare su uno stesso piano ciò che è buono e cosa non lo è affatto, la gente per bene e i camorristi. L ironia con la quale la regista si diverte a raccontare queste contraddizioni passa attraverso scenette esilaranti che prendono in giro le abitudini private dei cittadini: l ossessione per le telenovelas e l incontentabile signora borghese che sfrutta Gayan come badante. La leggerezza che ne consegue smorza i toni tragici dell intreccio, senza però appiattire i temi trattati. La denuncia di una malavita distruttiva rimane in primo piano. Ma allo stesso tempo la

4 possibilità di una conciliazione tra due mondi diversi come quelli di Alfonso e Gayan mette il punto sulla speranza. L estrosità dello stile registico e la forza dei contenuti dimostrano come sia possibile contribuire alla resistenza del cinema italiano con coraggio e sfrontatezza. Malgrado qualche lieve caduta di sceneggiatura, un debutto del genere va difeso senza tentennamenti» (Nicoletta Dose, «La Napoli multietnica e tanta musica, quella degli Avion Travel, nell esordio alla regia di Paola Randi. In questa pellicola divertente e allo stesso tempo profonda fa bella mostra infatti il frontman degli Avion Travel, Peppe Servillo, volto noto dei set italiani quasi quanto il fratello Tony, da anni nel gotha sella settima arte. Uno scambio di persona, una bugia dettata dalla miseria, il precariato di un ricercatore con la fama di iettatore, e poi ancora i vicoli di Napoli inconsueta, multietnica con il suo quartiere cingalese, questi gli elementi di una comicità smart, di un film allegro ma tagliente. Ancora Avion Travel alla colonna sonora, che accompagna senza strafare con Fausto Mesolella, chitarrista del gruppo cui è stato invece affidato il compito di comporre le musiche del film. La pellicola presentata nell interessante sezione Controcampo italiano si segnala per ricchezza di sottotesto e originalità, una bella boccata d aria nell italico panorama del cinema giovane» (Rocco Giurato, 7 settembre 2010, La critica «Into paradiso è il primo lungometraggio di Paola Randi, presentato nella sezione Controcampo italiano alla 67 Mostra del Cinema di Venezia e salutato dal pubblico con più di dieci minuti di applausi. Ambientato nella Napoli rumorosa e nascosta di un rione in parte colonizzato da immigrati dello Sri-Lanka, il film espone sotto la forma della commedia la relazione tra un ricercatore universitario licenziato a causa dei tagli e un ex campione di cricket migrato in Italia con l illusione di poter continuare a sostenere la propria vita di fama e successo. Entrambi i personaggi si trovano dunque ad affrontare una realtà nuova, il primo a cercare un nuovo impiego attraverso la classica raccomandazione all italiana, il secondo costretto dalle vicissitudini e dalla comunità che lo accoglie a sottostare all umiliazione di farsi badante di una ricca e lunatica anziana. Le loro strade s incrociano grazie a un politico, il quale, coinvolgendo l ex ricercatore in una disavventura con la camorra, lo costringe a rifugiarsi proprio nella comunità cingalese, nell appartamento dell immigrato. La storia si svolge su un binario lineare, con pochi colpi di scena, ma con un ritmo cadenzato dalla comicità delle singole situazioni in cui i protagonisti si vengono a trovare: il peso di queste è retto con una grande capacità interpretativa dal protagonista, Gianfelice Imparato, nella parte del ricercatore disoccupato di mezza età impacciato fino al limite della sopportazione, coadiuvato dall espressività di Peppe Servillo, in un ottima interpretazione da caratterista (considerato non sia un attore di professione) nella parte del politico corrotto; non proprio indimenticabile invece Saman Anthony, nel ruolo dell immigrato cingalese, troppo rigido nei movimenti e nella dizione, non riesce fino in fondo a colmare queste lacune con l espressività del proprio viso. L idea di una commedia ambientata nella Napoli multiculturale che coinvolge, seppure in modo stereotipato, alcuni dei soggetti che la compongono (il ricercatore disoccupato e insicuro, il politico corrotto, l immigrato che s illude di sbarcare subito il lunario, i camorristi spietati solo in apparenza, l anziana borghese e lunatica), è ben resa dalla regia di Paola Randi, la quale si prende anche l originale libertà di alcune scene paradossali che divagano rispetto alla storia rappresentando l immaginazione del protagonista nei suoi complessi ragionamenti. Tuttavia il filo intellettuale e umano che lega la storia è molto fragile, ed emerge soltanto nel momento in cui è il protagonista stesso a rivelarlo in modo chiaro, nella scena finale: il suo studio sulla possibilità di una comunicazione tra le cellule sane e quelle impazzite è la chiave di lettura per una interpretazione della società, divisa un po' troppo semplicisticamente tra buoni e cattivi». Alessio Tommasoli, 18 febbraio 2011, ondacinema.it

5 Martedì 22 novembre 2011 VIVA L ITALIA Regia di Roberto Rossellini, sceneggiatura: Sergio Amidei, Antonio Petrucci, Carlo Alianello, Luigi Chiarini, Roberto Rossellini. Interpreti: Renzo Ricci, Paolo Stoppa, Franco Interlenghi, Giovanna Ralli, Attilio Dottesio, Raimondo Croce, Tina Louise, Leone Botta, Giovanni Petrucci, Remo De Angelis. Genere: storico, 106 minuti - Produzione Italia/Francia, Sinossi Il film racconta le vicende della spedizione dei Mille e lo spirito del Risorgimento. Sicilia, 1860: Garibaldi sbarca a Marsala e a Calatafimi sconfigge l'esercito borbonico. Con il sostegno della popolazione locale i garibaldini superano lo stretto di Messina e avanzano verso Napoli, capitale del Regno delle Due Sicilie. Sul Volturno Garibaldi sconfigge definitivamente i soldati fedeli al re di Napoli. A questo punto i suoi uomini vorrebbero dirigersi verso Roma, ma Garibaldi sa che bisogna scendere a patti con Vittorio Emanuele II. A Teano i due si incontrano e Garibaldi consegna nelle mani del sovrano e dei Savoia i frutti del suo operato. Viva l'italia è una coproduzione italo-francese realizzata in due versioni per i due Paesi, caratterizzate da notevoli differenze nel montaggio e nella durata. Il titolo fu oggetto di alcune polemiche e cambiato poco prima della presentazione. Originariamente Rossellini aveva titolato il film Paisà 1860 per sottolineare il taglio neorealistico dell opera che rappresenta un distacco dalla retorica risorgimentale per approdare al rigore storico nella narrazione. La lettura data da Rossellini agli avvenimenti risorgimentali del 1860 divise i critici anche se il film è una rara ricostruzione storica d immagine ed è girato nei luoghi dove si svolsero i fatti, con centinaia di comparse e una notevole attenzione ai costumi. Particolarmente suggestive le riprese dall alto della battaglia di Calatafimi che mostrano le posizioni e i movimenti delle truppe sul colle Pianto Romano e le ambientazioni dell insurrezione di Palermo, in una città quasi spettrale che ancora portava i segni del precedente conflitto mondiale. Rassegna stampa «La spedizione dei Mille del 1860 guidata da Garibaldi, dallo scoglio di Quarto (5 maggio), sino all incontro di Teano (26 ottobre) con re Vittorio Emanuele II. Pur con alti e bassi di stile e di tono, nonostante i compromessi storico-ideologici di sceneggiatura, il film raggiunge i suoi scopi: togliere l epopea garibaldina dal mito e dall oleografia (con un Garibaldi miope e reumatico, ridotto alla sua misura domestica: Ricci con la voce di Emilio Cigoli) e dare alla rievocazione storica la spoglia concretezza di una cronaca. Il tono cresce nell ultima parte col mirabile inciso alla corte di Napoli, l incontro di Teano, la partenza per Caprera: momenti in cui verità storica e umana coincidono in poesia. L edizione francese, quella che il regista prediligeva, è di 139 minuti» (Laura, Luisa e Morando Morandini, il Morandini, Zanichelli). «Viva l Italia, è stato realizzato da Roberto Rossellini nel quadro del primo centenario dell unità d Italia ed è ispirato perciò a quegli avvenimenti che, un secolo fa, contribuirono a unificare il nostro paese, a cominciare dalla spedizione dei Mille. A differenza però di Alessandro Blasetti che, quasi vent anni fa, precorrendo il neorealismo, con il suo 1860, di Garibaldi e dei Mille ci aveva dato una immagine asciutta, riarsa, tesa fino quasi allo spasimo in un connusco clima di poesia,

6 Rossellini si è attenuto qui a una narrazione episodica, dando largo spazio alle pagine storiche, ai retroscena politici, ai piccoli fatti di cronaca e mettendo dichiaratamente l accento sulla figura centrale di Garibaldi, interpretata in una chiave che, se resta tradizionale quando di quel carattere ci esprime i proverbiali aspetti di generosità, di filantropia e di coraggio, si fa volutamente dimessa quando cerca di metterne in luce i lati più domestici ed umani, la miopia, la necessità di leggere i proclami e non di improvvisarli, i reumatismi, le pantofole, il caffè a letto, ed altro ancora» (Gian Luigi Rondi, Il Tempo, 1961). La critica «Intento esplicito di Rossellini è quello di capovolgere la genesi celebrativa del film (Viva l'italia venne concepito come pellicola commemorativa del centenario della spedizione dei Mille). In altre parole il regista intende contrapporre alla retorica agiografica con cui tradizionalmente la cultura italiana aveva trattato il tema del Risorgimento (esaltazione del ruolo eroico dei grandi personaggi storici), ingessandolo in una dimensione epico-mitologica, una ricostruzione in termini di rigorosa oggettività didascalico-divulgativa (il più possibile fedele alla verità storica), dove la Storia perde il suo alone di solennità per farsi cronaca realistica a partire dall osservazione del particolare e del quotidiano. Rossellini cerca di approdare al grande affresco storico frequentando più la cronaca che la Storia o, per meglio dire, mostrando come attraverso la cronaca si arrivi alla Storia. Il Garibaldi acciaccato che fatica a montare a cavallo, il sovrano Vittorio Emanuele II che parla con un forte accento piemontese, il generale Landi che prefigura con rassegnazione la sconfitta, re Ferdinando II che lascia mestamente la sua reggia vogliono disegnare dei ritratti antieroici che evidenziano il lato umano di questi monumenti storici; i soldati che mangiano tra i boschetti, i frati francescani che portano il fucile, le immagini concitate di battaglia nelle quali si affrontano anonimi combattenti contribuiscono a dare pari dignità, rispetto a coloro che la Storia la fanno, anche a quelli che la Storia la vivono e che non avranno nomi sulle lapidi celebrative. La maggior parte dei critici concordano nell osservare come Rossellini non sia riuscito (o non sia riuscito del tutto) a essere fedele alle intenzioni che si era proposto, assumendo di frequente proprio quel tono celebrativo che si era ripromesso di evitare e allontanandosi pure dal proclamato intendimento di assoluto rispetto del puro dato storico. Si dice che troppi abbiano messo le mani nella sceneggiatura e che tra questi ci fosse chi volesse attualizzare in chiave contemporanea la Storia, contrapponendo così una finalità pedagogico-didascalica (il film sostiene una tesi, una visione parziale della realtà che deve essere assimilata dallo spettatore) all originario proponimento di distaccata oggettività (il film deve esclusivamente esporre e illustrare dei fatti senza influenzare il giudizio dello spettatore). Viva l'italia risente indubbiamente della mancanza di omogeneità del progetto che sostiene il film e questo si riversa in una certa discontinuità, dove a momenti di spoglia e incisiva concretezza narrativa e descrittiva (il sacrificio di Rosa, la battaglia del Volturno mostrata come una scampagnata, la presa di Palermo) si succedono sequenze nelle quali il regista fatica a sfuggire a un impostazione troppo convenzionale e solenne, che sembra mutuata dall iconografia ufficiale sull argomento (pittura, stampe d epoca, ecc ), finendo prigioniero del suo stesso intendimento di essere puro illustratore di fatti (e non commentatore)»..

7 Lunedì 19 dicembre 2011 LA NANA AFFETTI & DISPETTI Regia di Sebastián Silva. Interpreti: Catalina Saavedra, Claudia Celedón, Alejandro Goic, Andrea Garcia-Hiudobro, Mariana Loyola, Agustin Silva, Darok Orellana, Sebastián La Rivera. Genere: drammatico; colore, 95 minuti - Produzione Cile, Messico, Rassegna stampa Sinossi La nana del titolo originale non è una donna bassa, ma una tata, domestica babysitter, che ha tenuto in ordine una villa grande, ha accudito, vestito e nutrito quattro bambini. Da ventitre anni a servizio presso la stessa famiglia, ora Rachele ne compie quarantuno e una famiglia sua non ce l ha. Quei borghesi agiati e civili, ai quali ha dedicato le sue cure, e che pure la ricambiano con affetto, restano in definitiva degli estranei. La donna si dimostra ostile a tutti, seppur esaurita e affetta da terribili mal di testa, è pronta a dichiarare guerra alle domestiche che la padrona le vuole affiancare per aiutarla, finché arriva Lucia, che la fa sentire amata e la strappa dalla sua prigione domestica e dalla ossessione maniacale per il lavoro. «Novantacinque minuti, passati in una casa tra stracci, aspirapolvere e urla di bambini capricciosi, che tengono incollati alla poltrona del cinema. Una vicenda pesante descritta con estrema leggerezza, un ambientazione domestica noiosa per una trama avvincente e dai risvolti psicologici imprevedibili. La storia di una donna che non lavora per vivere ma vive per il lavoro. Se pensate che non ci sia niente di meno curioso e interessante della vita di una colf, non avete ancora visto Affetti & Dispetti, opera seconda, ma la prima a colori, del trentenne Sebàstian Silva [...]» (Annalisa Bertè, Liberal, 2 luglio 2010). «Il titolo con cui esce in Italia (quello originale, La nana, sta per cameriera, colf ) può portare fuori strada, facendo prendere il secondo film del cileno Sebastián Silva per una commedia. Se pure tocchi sparsi di commedia vi si ritrovano, si tratta piuttosto di un dramma psicologico, di uno studio di carattere non collocabile entro precisi confini. Affetti & dispetti non è neppure un thriller, come qualcuno potrebbe immaginare ricordando vecchie storie di governanti pazze o di domestiche indemoniate [...]» (Roberto Nepoti, La Repubblica, 26 giugno 2010). «Una volta si diceva la serva. Poi la parola diventò troppo cruda e si passò a governante, cameriera, domestica, donna di servizio, fino al burocratico colf (anche se ormai a Roma tutti dicono con larvato razzismo la filippina ). Ma il termine migliore per indicare la protagonista di questo impeccabile La nana (che in Cile sta per tata ) è proprio domestica: formale, rispettoso, corretto, eppure distante. Una specie di membro esterno della famiglia che per farne parte svolge i lavori più umili [...]» (Fabio Ferzetti, Il Messaggero, 25 giugno 2010). «Girato in digitale con una fotografia dai colori spenti, quasi priva del rosso, Affetti e dispetti è uno studio psicologico di notevole finezza. L alienazione nel lavoro (come il maggiordomo Anthony Hopkins di Quel che resta del giorno, Raquel ha annullato se stessa nel lavoro), la solitudine, il rapporto servo-padrone e le barriere fisiche che sanciscono le distanze sociali (porte, muri e cancelli

8 sono costantemente presenti a delimitare gli spazi di potere) sono tratteggiati con precisione realistica e senza forzate sottolineature. Inizialmente, quando si vedono certi conflitti tra Raquel e Camila, la figlia più grande dei Valdés (Raquel le proibisce di prendere da mangiare, Camila le dice qui sei tu la serva, ecc.) sembrerebbe che il film sulla falsariga di classici come Il servo di Pinter/Losey o Le serve di Genet voglia esplorare soprattutto le ambiguità del rapporto tra servo e padrone e le possibili inversioni di gerarchia. Col procedere della storia, quello che emerge è piuttosto l osservazione, che è sempre guidata dall affetto, del progressivo estraniarsi dal mondo di Raquel. Tra i pregi del film c è la capacità di evitare di dar sfogo al registro grottesco-caricaturale, che facilmente avrebbe potuto emergere da una storia come questa, e di non trasformare la protagonista in una macchietta di cui ridere: il difficile rapporto col mondo di questa donna è sempre guardato con simpatia e compassione. È dunque un film che talvolta può mettere a disagio lo spettatore, perché lo spinge a identificarsi con una persona il cui rapporto col mondo è fortemente problematico» (Rinaldo Vignati, non solocinema.com, 23 giugno 2010). La critica «Raquel è l introversa e bizzosa domestica dei Valdés, una famiglia benestante che da vent anni occupa tutti i suoi pensieri fino all emicrania. E sono proprio le sue dolorose e frequenti cefalee a preoccupare la padrona di casa, che ritiene opportuno affiancarle una seconda cameriera. Convinta che il provvedimento della signora Valdés possa minacciare il suo ruolo e il suo regno domesticoaffettivo, Raquel si accanisce sulle ignare aspiranti, intralciandone il lavoro e chiudendole letteralmente fuori dalla porta e dalla vita dei suoi cari. Ricoverata in ospedale dopo un collasso fisico ed emotivo, viene provvisoriamente rimpiazzata da Lucy, una giovane donna esuberante che non tarderà a farsi amare dai Valdés. L offensiva della domestica storica non risparmierà nemmeno la nuova arrivata, che metterà in atto però un inedito quanto efficace contrattacco. Approvata e infine accreditata, Lucy vincerà il cuore di Raquel, rivelandone la dolcezza e muovendola alla vita. Opera seconda e a colori di Sebastián Silva, Affetti & dispetti è una commedia domestica centrata sulla famiglia, valore centrale e formidabile collante sociale per i popoli latini, e colma di emozioni finemente descritte. Dopo il debutto in bianco e nero (La Vida me Mata), il regista cileno racconta il suo paese e la sua giovane democrazia attraverso i vincoli affettivi e di classe dei protagonisti. La dinamica, almeno quella di partenza, è quella classica padrona-serva: Pilar Valdés è la madre borghese e colta di quattro figli che coniuga lavoro e famiglia dentro la sua lussuosa villa, Raquel è la sua domestica da due decenni, ne ha cresciuto i figli e con il suo proletario senso pratico fa fronte alle faccende casalinghe. La prima parte del film documenta allora le tappe di questa relazione e il vincolo di necessità ma pure di affetto sincero che tanti anni di convivenza hanno instaurato tra le due donne. Inibita e chiusa al mondo e alle persone, la Raquel ordinaria e straordinaria di Catalina Saavedra (premiata al Sundance e blasonata al Torino Film Festival) è sullo schermo una presenza misurata ma non meno capace di suscitare sfumature di intenso sentimento. Caduta in uno stato di profonda depressione, cui cerca di far fronte nel modo a lei più congeniale, riordinando la cucina, rigovernando le stanze da letto e disinfettando i servizi, la nana recupererà la condizione fisica e il valore dei rapporti umani nella seconda metà del film e nel confronto con la nuova domestica. Sarà lei a vedere chiaramente oltre l intrattabilità, lei a interrogare la rassegnazione di una vita tribolata, lei, ancora, ad invitare la collega e l amica ad amare di nuovo, a conoscere altri suoni, altri odori, altri corpi, altri amici, altre famiglie. Affetti & dispetti è una commedia di costume che ha i suoi momenti più interessanti negli spazi chiusi ma che si risolve e risolve la protagonista scorrendo all'esterno, dove la vita di Raquel riprende letteralmente a correre». Marzia Gandolfi,

9 Giovedì 19 gennaio 2012 LONDON RIVER Regia di Rachid Bouchareb. Interpreti: Brenda Blethyn, Sotigui Kouyaté, Francis Magee, Sami Bouajila, Roschdy Zem, Marc Baylis. Genere: drammatico, colore, 87 minuti - Produzione Algeria/Francia/Gran Bretagna, Rassegna stampa Sinossi Il mattino del 7 luglio 2005 quattro bombe esplosero a Londra: gli assassini che viaggiavano sui mezzi pubblici fecero detonare l esplosivo che portavano nei loro zaini, uccidendo in pochi minuti 56 persone e ferendone 700. Il film racconta la storia di due persone, il senegalese musulmano Ousmane e la cristiana signora Sommers, direttamente colpite dagli attentati, sebbene in quel momento molto lontane dai luoghi delle esplosioni. Ousmane vive in Francia, la signora Sommers su un isola della Manica. Entrambi conducono una vita normale, fino a quando vengono a sapere che dal 7 luglio, giorno degli attentati, i loro figli sono scomparsi. Quando arrivano a Londra scoprono che i loro figli vivevano insieme. «La coproduzione franco-inglese London River arriva in Italia a più di un anno dal premio conferito alla Berlinale all attore maliano Sotigui Kouyaté (tra i più intensi e tecnici performer di Peter Brook) per la sua smagliante, obliqua e destabilizzante interpretazione di un padre alla ricerca della verità sulla morte del figlio immigrato al Nord, disperso in occasione di un devastante attentato terroristico e dunque più di altri destinato a sparire nel nulla senza che nessun cittadino europeo bianco si preoccupi e si indigni più di tanto per la sua sorte» (Roberto Silvestri, Il Manifesto, 27 agosto 2010). «London River muove da una tragedia autentica: gli attentati londinesi del 7 luglio 2005, allorché quattro terroristi pakistani si fecero saltare in aria con l esplosivo che portavano negli zaini. Nella metropolitana e su un autobus trovarono la morte 56 persone, più di 700 rimasero ferite. Ce la narra attraverso i casi privati di Elisabeth, contadina cattolica dell isola inglese di Guernsey, e dell africano di fede musulmana Ousmane. Entrambi arrivano a Londra alla ricerca dei figli, senza conoscersi e ignorando che i due ragazzi scomparsi si conoscevano molto bene e frequentavano assieme una scuola di lingua araba» (Roberto Nepoti, La Repubblica, 28 agosto 2010). «La tragedia del clamoroso attentato terroristico del 7 luglio 2005 a Londra rivive nel toccante London River, scritto e diretto con estrema delicatezza dal francese Rachid Bouchareb. La sua intuizione vincente è quella di parlare di un tragico evento di fresca memoria, utilizzandolo come pretesto per allargare il discorso ai pregiudizi e a quell ignoranza che tiene gli esseri umani distanti. Il punto di vista prescelto per ricordare gli attentati ai danni dei mezzi di trasporto della capitale inglese, che fecero 56 vittime e ferirono oltre 700 persone tra metro e bus, è quello di due genitori alla ricerca dei propri figli scomparsi. Una contadina vedova, proveniente da un isoletta inglese, senza più notizie della figlia dal giorno della tragedia, e un africano trapiantato a Parigi, sbarcato nella metropoli londinese per ritrovare il giovane figlio, si ritrovano per caso a confrontarsi nel dolore di un dramma comune. Sarebbe potuta risultare facilmente ricattatoria una pellicola che va a

10 infilarsi nelle pieghe di una simile disgrazia, che come l 11 settembre americano ha cambiato per sempre il volto di Londra, capitale multiculturale d Europa colpita al cuore e destinata anch essa a tremare per la mancanza di sicurezza. Invece il film di Bouchareb sa maneggiare con grande sensibilità il dramma, affidandolo ai primi piani dei due meravigliosi protagonisti. In particolare, Brenda Blethyn si cala con intensità in un personaggio profondamente umano, che esprime nello stesso tempo la fragilità di una madre sola di fronte alla disperazione provocata dalla scomparsa della figlia e la determinazione di chi spera che non tutto sia ancora perduto e si attiva per ottenere delle certezze. L umanità del personaggio sta però anche nei suoi pregiudizi razzisti di donna lontana dal melting pot della metropoli, costretta a scontrarsi con una diversità di cultura e religione a cui non è preparata. Il percorso di ricerca dei due personaggi si fa talvolta straziante, quando la solitudine unita all impotenza di fronte alla mancanza di certezze tiene i due in un limbo di preoccupata attesa. Faticando a superare le barriere culturali, anche fare della speranza un sentimento comune diventa improbabile e l ansia crescente per la sorte dei figli dispersi gonfia dentro sentimenti contrastanti. Bouchareb screzia però di un leggero umorismo il film, ma alcune soluzioni di sceneggiatura paiono troppo semplicistiche, come quando d improvviso l ottimismo prende il sopravvento e i due genitori s illudono nel lieto fine. Le incertezze dello script non inficiano però il risultato finale: oltre che una fotografia sobria su un recente capitolo nero della storia di Londra, London River rappresenta una garbata riflessione sul tema del razzismo che ci tiene distanti dal nostro vicino, rischiando di allontanarci anche quando ci sarebbe bisogno di stringersi nello stesso dolore» (Massimo Borriello, 12 febbraio 2009). La critica «Elizabeth è una donna di mezza età che vive in un isola inglese dove coltiva la terra. È vedova, sua figlia ventenne vive a Londra. Saputo degli attentati del 7 luglio 2005, Elizabeth cerca di parlare con la ragazza ma non ottiene risposta: parte allora per la capitale inglese alla sua ricerca. Per gli stessi motivi arriva a Londra anche Ousmane, un uomo che da anni lavora in Francia come giardiniere che certa di rintracciare il figlio Ali, che non vede da quando aveva sei anni. Le strade di Elizabeth e di Ousmane sono destinate a incrociarsi, visto che, a loro insaputa, i due ragazzi avevano una relazione e vivevano assieme. L incontro tra i due non sarà facile all inizio, per via di diffidenze e pregiudizi (reciproci ma molto più evidenti in Elizabeth), ma saranno la consapevolezza del legame tra i loro figli e la livella del dolore ad avvicinarli. Quello di Rachid Bouchareb non è propriamente un film che si possa fregiare dell aggettivo originale, né da un punto di vista tematico né da quello formale. Inizialmente quindi London River spaventa un po, presentandosi come l ennesimo film sulla difficoltà di incontro tra culture. Ma la ricerca prima parallela e poi incrociata di Elizabeth e Ousmane assume valenze leggermente differenti grazie alla caratterizzazione dei due protagonisti e dei personaggi che incontrano sul loro cammino. Bouchareb racconta infatti un mondo dove è ancora vivo e presente l altruismo, dove si rintraccia l amore per il prossimo; un mondo dove si rifiuta la politicizzazione della religione ( qui si prega, non si fa politica, dice un imam a Ousmane, che si era rivolto a lui per avere notizie del figlio) e le caratterizzazioni stereotipate dei personaggi in base all etnia. Quella di London River è un umanità vera, che getta le sue radici in un senso di comunità e fratellanza che supera la religione e viene dalla condivisione delle stesse sofferenze, delle stesse gioie, uguali per tutti, della stessa terra. Quella terra, quella natura alle quali non a caso (con metafora scontata ma efficace) sia Elizabeth che Ousmane lavorano con le loro mani, con un atteggiamento esistenziale che rischia di andare dimenticato. Se è vero che anche questi aspetti del film di Bouchareb non sono né originali né nuovi hanno però il pregio di essere raccontati con un pudore che rifugge da ogni buonismo, azzerando così la retorica ed evidenziando il sentimento. Brenda Blethyn è come sempre in parte nei panni della middle class woman, ma a colpire è la fisicità essenziale e silenziosa di Sotigui Kouyaté nei panni di una figura ieratica, dignitosa e umilissima al tempo stesso». Federico Gironi, 23 agosto 2010

11 Martedì 14 febbraio 2012 ALMOST MARRIED Come dire a mio padre che voglio sposare un ragazzo italiano Regia di Fatma Bucak, Sergio Fergnachino. Interpreti: famiglia Bucak, famiglia Luca. Genere: documentario, biografico-sociale, colore, 60 minuti - Produzione Italia, Realizzato con il sostegno di Piemonte Doc Film Fund, della Regione Piemonte e del Festival Haivistomai. Sinossi Mi chiamo Fatma, cinque anni fa sono venuta in Italia per studiare fotografia, sono fuggita dalla mia famiglia. La mia è una famiglia curda grande come una tribù, e come in ogni tribù molte decisioni sulla vita dei singoli individui vengono prese collettivamente, secondo leggi antiche. Mio padre, ex fiancheggiatore del PKK, vive le contraddizioni tra le sue idee progressiste di gioventù e il ruolo di custode delle tradizioni che oggi riveste. Per questo ho sempre avuto paura di parlargli della vita che conduco a Torino, della mia convivenza con un ragazzo italiano che si chiama Davide. Io e Davide siamo intenzionati a sposarci e abbiamo deciso di annunciare il nostro fidanzamento durante l estate. Prima di trovare il coraggio di parlare con mio padre ho voluto stare alcuni giorni con lui. L occasione è stata il matrimonio di una cugina, nel villaggio curdo dove ancora vive parte della mia famiglia. Io e mio padre siamo partiti insieme e mentre io pensavo al mio fidanzamento ho ascoltato le storie d amore e di matrimoni combinati di alcune mie cugine. E alla fine gli ho fatto la mia confessione Rassegna Stampa «Partendo dalla storia di Fatma vogliamo dare corpo alla sua idea di un destino familiare, che affonda le radici nel passato, nella vita delle donne che l hanno preceduta. Nonostante queste premesse drammatiche il film intende adottare uno sguardo ironico, capace di cogliere l assurdità di certi comportamenti ma di mantenere anche la vicinanza e l affetto che lega Fatma alla sua famiglia. Lo stile da commedia è insito nella forza e nei gesti dei personaggi, che con la loro irruenza, in modo simile ai protagonisti dei film di Emir Kusturica, spesso agiscono prima di pensare. La storia ci dà modo di parlare dell attrazione-repulsione di due culture differenti, e del conflitto che si scatena tra esse, che viene personificato dai personaggi principali del film: Fatma e babà, suo padre. Vogliamo mantenere il forte stampo personale e autoriale del film, contando sul circuito distributivo dei festival» ( «Fatma è una ragazza turca di 25 anni. Per sfuggire alle costrizioni della sua famiglia e vivere una propria vita indipendente è venuta in Italia. Qui ha iniziato a studiare fotografia, e naturalmente si è innamorata di un ragazzo italiano, Davide, col quale vive felicemente Il suo lavoro fotografico riflette il difficile rapporto con le tradizioni dalle quali proviene, testimoniando la sua volontà di rimanervi legata: le fotografie che la ritraggono in abito da sposa imbavagliata o impiccata le hanno fatto vincere diversi riconoscimenti internazionali, all insaputa ovviamente della sua famiglia. Dopo anni di silenzio Fatma ha deciso: tornerà in Turchia e dirà a suo padre, il capo clan, non solo che vive con uomo e che lo vuole sposare, ma gli farà anche accettare la sua arte! I matrimoni nella sua famiglia ancora oggi vengono combinati e suo padre, che ha ben 4 figlie da accudire, è intenzionato

12 a rispettare la tradizione! Il pretesto per avvicinarsi al patriarca e instaurare un dialogo è dato da un viaggio nel villaggio curdo dove la famiglia Bucak ha origine, per il matrimonio di una cugina. Durante il viaggio Fatma ascolta i racconti di zie e cugine le cui vite sono state segnate dalle decisioni familiari, e aspetta il momento giusto per parlare con suo padre. Attraverso i suoi occhi e la sua voce narrante vivremo il delicato e divertente viaggio alla conquista della propria libertà e del consenso del padre e vivremo in diretta lo scontro tra due generazioni, in lotta tra modernità e tradizione Alla fine del viaggio anche Davide è arrivato a Istanbul con la sua famiglia, pronto a conoscere i futuri suoceri; tutto sembra pronto per l incontro, tranne Fatma. Solo a questo punto trova il coraggio ed esce a cena con suo padre per fargli la confessione. Tutto andrà a buon fine, le due famiglie si incontreranno e Fatma inizierà un progetto fotografico che vedrà protagonista proprio il padre, il cui sguardo però lascia ancora delle questioni aperte» ( «Fatma vuole dire a suo padre che sta per sposarsi in un altro modo, e gli porta sotto gli occhi il suo mondo e il destinatario dei suoi sentimenti. Almost Married è un tentativo di dialogo tra modernità e tradizione, tra spazi sempre meno lontani, un film che sceglie di raccontare con leggerezza, un film molto personale eppure efficace per il pubblico. Un lavoro dignitoso e interessante, la storia di una persona, prima di tutto, che può aiutare a capirne altre» (Edoardo Zaccagnini, 28 giugno 2011). La critica «Un documentario davvero interessante quello realizzato da Fatma Bucak e Sergio Fergnachino e che affonda le radici nella più stretta attualità: due culture diverse spesso costituiscono un ostacolo, anche tragico, per due giovani che decidono di sposarsi o che, più semplicemente, decidono di vivere una vita diversa, non conforme alle regole imposte dalla tradizione. Lei, giovane fotografa turca, si è immolata in prima persona davanti alla telecamera per raccontare le difficoltà di una ragazza che comunica alla famiglia e, in particolare, al proprio padre di volersi sposare con la persona che ama (Davide, un ragazzo italiano) e non con una decisa dal clan. Fatma è la voce narrante e, grazie a lei, scopriamo che la sua famiglia vive a Istanbul ed è benestante, che suo padre è stato un perseguitato politico e anche lui ha dovuto lottare per sposarsi perché la famiglia della sua futura moglie lo considerava un capellone infedele. Ma Fatma è una ragazza e non è facile per lei dire al padre quello che vorrebbe fare, anche se giovanissima, appena ventenne, si è trasferita in Italia per inseguire il suo sogno, la fotografia. Nel viaggio che compie insieme al padre e che li porta in uno sperduto villaggio curdo, dove il genitore è nato, scopriamo che lì la tradizione è ancora più forte, radicata, che sono le famiglie a decidere per i figli e i matrimoni combinati sono la regola. Quello che non viene evidenziato e che, invece, sarebbe stato interessante vedere, è la reazione della famiglia italiana alla notizia che il figlio avrebbe iniziato una convivenza con una donna turca e che l avrebbe sposata. E si accenna appena all infelicità che prova una donna (nello specifico una cugina di Fatma) quando, per riparare a un divorzio subìto, viene data in sposa a un altro componente della famiglia per non creare scandalo. Perché l onore viene prima di tutto. E allora Fatma è una ragazza fortunata, vissuta in una città cosmopolita e con un padre che, nonostante tutto, fa parte di una società moderna. Non è vittima di una famiglia integralista capace di uccidere la propria figlia se non rispetta la tradizione, ma una ragazza come tante che può vivere la propria vita. Tutto questo, però, non toglie a Almost married il pregio di aver raccontato una speranza e, soprattutto, che ad averlo fatto sia stata una persona nata in una società tradizionalista, che ne conosce gli usi e i costumi e che di questa società si porta dietro solo il buono per fortuna». Teresa d Ambrosio, 9 maggio 2011

13 Martedì 14 febbraio 2012 NATO SOTTO UN ALTRO CIELO Regia di Roberto Magnini. Interpreti: Sheikh Njie, Sara Piciocchi. Genere: documentario, sociale, colore, 52 minuti - Produzione Italia, Produzione Etra Associazione d arte e cultura, realizzato con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte e della Regione Piemonte Fondo Regionale per il documentario sviluppo settembre Sinossi Sheikh è arrivato dal Gambia in Italia un po per caso nel 1989, a ventitre anni. Nel 1990, sempre un po per caso, è giunto a Torino. Operaio metalmeccanico per dodici anni, poi in mobilità, quindi in un call center, ora impiegato. Vive con Sara, milanese, psicologa, e i loro due figli, Momodoù e Iboù. Nel 2004, dopo quindici anni di impeccabile permanenza sul territorio italiano, gli viene concessa la cittadinanza. I preparativi per la partenza di tutta la famiglia per il Gambia sono il prologo di un film che inizia con l arrivo a Banjul, la capitale, e quindi a Serekundà, la cittadina dove è nato Sheikh. Ad attenderli c è tutto il suo clan familiare. Gli incontri e i dialoghi di Sheik ci daranno la possibilità di affrontare temi diversi e di verificare quanto sia cambiato dopo vent anni di permanenza in Italia. Ora è il frutto dell integrazione fra due culture così diverse. Roberto Magnini Nato a Torino nel Regista e montatore. Dall inizio della sua attività professionale nel 1987 ha realizzato programmi e documentari di vario genere: spot pubblicitari, documentari di argomento storico, sportivo, didattico, etnografico e di ricerca sociale. Rassegna stampa «accompagnando Sheikh nel suo ritorno a casa, conosceremo la società dalla quale proviene e quanto sia diversa dalla nostra: soluzioni diverse alle stesse esigenze esistenziali, come dice Eco. Gli incontri e i dialoghi di Sheik ci daranno la possibilità di affrontare temi diversi e di verificare quanto egli sia cambiato dopo vent anni di permanenza in Italia. Ora egli è il frutto dell integrazione fra due culture così diverse. Il diverso significato di famiglia, ad esempio, in una società la cui povertà impone di rimanere uniti per aiutarsi (brothers and sisters). La casa in Africa è uno spazio pubblico, aperto a tutti. Come prima Sheikh non poteva capire chi vive da single in Europa, ora sente la necessità di uno spazio privato che nella casa africana non esiste. Con i primi risparmi ha aiutato i genitori a costruirsi una casa in muratura, perchè non gli sembrava più concepibile il contrario. Insomma, seguendo Sheikh nel suo viaggio avremo conoscenza diretta della distanza culturale che egli ha dovuto riempire per giungere a un esito positivo di integrazione» (Roberto Magnini, dichiarazione originale, Enciclopedia del cinema in Piemonte, scheda a cura di Maurizio Fedele).

14 Martedì 13 marzo 2012 OFFSIDE Regia di Jafar Panahi. Interpreti: Sima Mobarak Shahi, Safar Samandar, Shayesteh Irani, M. Kheyrabadi, Ida Sadeghi. Genere: drammatico, colore, 88 minuti - Produzione Iran, Sinossi Offside racconta la storia di cinque ragazze che vogliono entrare nell Azadi Stadium, dove le squadre Iran e Bahrein giocano per la qualifica ai Mondiali In Iran alle donne è proibito assistere a una partita insieme agli uomini. Le ragazze ci provano in ogni modo: si travestono da ragazzi, si dipingono la faccia con i colori nazionali, arrivano persino a rubare un uniforme militare. Catturate da giovani soldati, dovranno accontentarsi di seguire la partita fuoricampo tra grida e applausi, per essere alla fine trasportate alla buoncostume. La vittoria della squadra iraniana spinge la gente in strada a festeggiare e allora la gioia finisce per mescolare maschi e femmine in una folla felice, unita e incontrollabile. Rassegna stampa «È un film di cinque anni fa, l ultimo diretto da Jafar Panahi, che ora si trova in carcere in Iran e per vent anni non potrà più fare il regista. Un film che ricevette l Orso d argento al Festival di Berlino del 2006 e che finalmente si può vedere anche in Italia. Ed è una visione che può lasciare interdetti, se non addirittura sconcertati, nel senso che si tratta di un opera che mescola la realtà e la finzione, che appare come un documentario su una partita di calcio, ma al tempo stesso introduce non pochi elementi narrativi e soprattutto psicologici [ ]. Ma ciò che distingue il film di Panahi, tanto da un semplice documentario più o meno sportivo, quanto soprattutto da un opera dichiaratamente polemica e antigovernativa, è il fatto che il suo modo di mettere in scena i rapporti umani, così apparentemente semplice e dimesso, riesce a introdurre nel racconto un elemento fondamentale di analisi politica. Non è tanto il divieto alle donne di partecipare a una partita, in uno stadio affollato di uomini, a costituire il filo conduttore della rappresentazione, quanto piuttosto le singole reazioni individuali e collettive che questo divieto produce. In altre parole, sono le relazioni fra le ragazze, individuate e isolate, e i soldati che le guardano a vista, a sviluppare un dialogo di grande interesse e di profonda umanità. La polemica intrinseca alla storia che, come si è detto, è quasi inesistente, da un lato si svuota della sua tensione iniziale, e dall altro si arricchisce appunto di quei rapporti umani, attraverso i quali la realtà dell Iran si mostra nella sua sostanziale disuguaglianza. Una disuguaglianza che, nei fatti, è superata dalle relazioni che si stabiliscono quotidianamente fra maschi e femmine, in particolare fra giovani e ragazze. Se la rappresentazione di questi rapporti può sembrare a volte superficiale, ripetitiva, col rischio di una certa piattezza stilistica, a ben guardare è proprio lo stile anonimo di Panahi a fare di Offside un film di forte incidenza drammatica» (Gianni Rondolino, La Stampa ). «Condannato dal regime di Ahmadinejad a 6 anni di reclusione (è ai domiciliari) e 20 di divieto d esercizio della professione, Jafar Panahi nel 2006 inquadrava con Offside la poco sportiva segregazione delle donne iraniane: il calcio, e non solo, non è salubre se fruito in presenza di uomini. E il regista si ritrova davvero in fuorigioco: il titolo illumina uno slittamento di poetica, che fa di questo quarto il suo film più ilare, ironico e accessibile. Nella protagonista diretta en travesti

15 allo stadio [...] Panahi fotografa un Paese sulla corsia di sorpasso della contemporaneità e insieme fermo con le ruote bucate dall autoritarismo retrogrado. Un impasse, segnalato da luci d emergenza politica e civile che rischiarano continuità (attenzione al femminile) e novità (comicità) del suo cinema. Da applausi» (Federico Pontiggia, Il Fatto Quotidiano ). «Ancora la condizione della donna in Iran, ma questa volta lontano dalla disperazione de Il Cerchio; non perché le cose siano cambiate, no certo, ma perché per raccontare la violazione delle libertà di un regime non occorre ricorrere sempre al dramma. Anche una piccola storia, ambientata durante una partita di calcio; anche l azzardo di cinque ragazzine, la sofferenza per non poter seguire il gioco della nazionale, possono raccontare la realtà dei diritti violati. Dai bagarini ai controlli all ingresso dello stadio; dai bastioni delle gradinate ai bagni, una commedia dal retrogusto amaro, in cui la macchina da presa segue il coraggio di giovani fanciulle che abbandonano la costrizione del velo per vestire i panni dei ragazzi e affrontare da sole il proibito: sono parole, sguardi e sorrisi ribelli; sono la timidezza, l astuzia, l ironia e la sfrontatezza di cinque giovani appassionate tifose, arrestate e costrette in un recinto di transenne, vigilate da un gruppo di poliziotti. L oggetto del desiderio, la partita, resta insistentemente fuoricampo, per tutta la durata del film, ma presente per le eco, immaginata per le grida dei tifosi e descritta da sprazzi di una complice pietà delle guardie che, paradossalmente, condividono la stessa sorte delle ragazze: quella di restare fuori. Sono le sorelle più piccole di Marjane Satrapi (Persepolis); piccole donne nate e cresciute sotto il regime, che non hanno conosciuto il prima, ma che è speranza possano conoscere il dopo. Una speranza che Jafar Panahi elabora metaforicamente nel finale, con una grande festa di piazza in cui è forte l orgoglio di appartenenza, oltre al buio delle proibizioni, e in cui anche le ragazze possono trovare una breccia per sottrarsi indisturbate alle costrizioni di un regime che umilia la libertà d espressione di donne e uomini» (Fabrizio Centola, NonSoloCinema, anno VII, n. 13). «Jafar Panahi, qui regista, sceneggiatore, montatore e produttore, spinge l acceleratore su un pedinamento di zavattiniana memoria per raccontare quasi in tempo reale uno spaccato lucido, non privo di ironia e tenerezza, sulle peripezie che le donne protagoniste compiono per assistere alla partita. Sin dall incipit il film di Panahi ripercorre la tradizione errante del cinema iraniano con un anziano uomo alla ricerca della figlia che vediamo girovagare dentro Teheran, prima all interno di un automobile e poi su un autobus, con l obiettivo di trovarla e impedirle di andare allo stadio. È sempre all insegna di una visione del cinema come flusso emotivo e testimonianza. Senza autentici protagonisti, ma personaggi che entrano ed escono dal quadro visivo. Non è un film contro l Iran, Offside di Panahi, ma anzi un piccolo racconto sulle possibilità di un nuovo Iran, un atto di speranza per una riconciliazione comunitaria e collettiva» ( «Con un atteggiamento più fiducioso e sfrontato, di chi ha intenzione di sfruttare ogni fuori gioco della realtà per cercare di segnare a suo vantaggio, Panahi stavolta abbandona presto l'ottica del pedinamento errante affinché siano più le sorti della partita a muoversi attorno al suo gruppo di giovani attrici-tifose, anziché il contrario. Non è una questione tanto di improvvisazione quanto di imprevedibilità. A Panahi, più che gli ideali della poetica neorealista interessa far interagire fiduciosamente l alea con l attualità, la cecità della fortuna con la chiarezza di una narrazione quasi didattica. Il fuori gioco, quindi, oltre a essere allegoria del carattere marginale della donna all interno della società, diviene anche il campo dove Panahi vuole giocare la sua vera partita: quella fra condizione dettata (la sceneggiatura del film) e movimento dell'incertezza (il risultato della partita). L'incontro si gioca perciò ai margini del campo della realtà e coinvolge proprio la forza strutturata della narrazione contro quella aleatoria e inconoscibile del caso. Da una parte, una sceneggiatura ben congegnata in cui ognuno dei caratteri maschili e femminili identifica un pezzo preciso della società (l emancipazione, il retaggio familiare, la leva obbligatoria) e serve a richiamare eventi veri e propri (la morte dei sette iraniani avvenuta durante la precedente partita

16 contro il Giappone). Dall altra, il principio che la palla è rotonda e che nella vita, come nello sport, ogni situazione, anche la più reazionaria e repressiva, è sempre soggetta al cambiamento. Il risultato finale del match gli permette di chiudere questo incontro fra reale e simulato con un esplosione di ottimismo comunitario. Speriamo si possa dire presto lo stesso anche per quanto riguarda la sua condanna da parte del Tribunale di Teheran» (Edoardo Becattini, La critica «L 8 maggio 2005 è stata una data storica per il calcio iraniano: la vittoria sul Bahrein avrebbe permesso alla nazionale di casa di accedere alla fase finale del Campionato del mondo di calcio in Germania. E proprio durante quell evento, quasi in presa diretta, Jafar Panahi ha ambientato quello che sarebbe diventato a oggi il suo ultimo lungometraggio, Offside. La storia del film è quella di alcuni tifosi particolari, attirati dalla gara ma impossibilitati ad assistervi perché la tradizione del Paese impedisce alle donne di assistere alle partite. Non una legge come lo stesso Panahi ha spiegato a Stéphane Goudet per Positif ma piuttosto un abitudine stabilita dalle forze di polizia e accettata tacitamente da tutti: lo spunto ideale per raccontare da un angolazione insolita ma realistica la condizione della donna nell Iran post khomeinista e più in generale le tante irrisolte contraddizioni del Paese. All inizio del film seguiamo i tentativi di una giovane tifosa per mimetizzarsi tra la folla che accorre allo stadio: un berretto per raccogliere i lunghi capelli, i colori dell Iran sul viso, l abbigliamento maschile (che però non trae in inganno gli altri tifosi) e da subito, dall acquisto con sovraprezzo di un manifesto per aiutare l opera di mimetizzazione, la scoperta che tutti vogliono approfittarsi della situazione di inferiorità e di sudditanza della donna. Panahi mette immediatamente le carte in tavola. L eventuale suspense riuscirà la ragazza a entrare nello stadio? viene immediatamente frustrata e il film si trasforma in una concretissima riflessione sulla condizione femminile oggi in Iran. Perché la ragazza, fermata dai soldati di servizio, si ritrova con un altro piccolo gruppo di tifose, rinchiuse in una specie di recinto appena fuori dalle gradinate. Ognuna ha cercato un proprio modo per entrare (anche travestendosi da soldato per avere i posti riservati, smascherata da chi si era visto assegnare quel posto) e ognuna reagisce a modo proprio a questo divieto: chi si pente, chi litiga, chi discute, chi tenta la fuga. Mentre la partita si svolge in diretta e le urla dei tifosi innescano la curiosità delle detenute e dei guardiani, il film passa dal dramma alla commedia alla riflessione filosofica. Non si può non ridere quando un pressante bisogno fisico convince un soldato ad accompagnare una delle ragazze a un bagno: luogo pubblico per antonomasia e quindi infestato da quei maschi che rischiano di offendere con i loro discorsi sguaiati e la loro presenza la purezza femminile. Ma poi il discorso si fa terribilmente serio quando una delle ragazze fermate cerca di mettere in crisi le certezze di uno dei suoi carcerieri dando prova di abilità dialettica e logica ferrea e senza bisogno né di femminismo né di emancipazione mette a nudo le contraddizioni di un ordine basato sull oscurantismo e sul peggior maschilismo. La grande prova di regia di Panahi e di recitazione di tutto il cast risalta nella capacità di sfruttare al meglio i tempi della partita, un evento che non si poteva certo ricostruire se mai le riprese fossero andate male o qualche cosa avesse dovuto essere rifatta. No, tutto si incastra perfettamente: l imbarazzo dei soldati costretti a un compito che probabilmente non condividono, la delusione delle tifose mascherate, la loro voglia di ribellarsi a delle imposizioni oscurantiste e retrograde. Ma soprattutto colpisce il timing perfetto con cui Panahi ha saputo articolare e sviluppare una storia fatta di confronti serrati e scene collettive, di momenti ironici e altri drammatici, mentre sullo sfondo si svolgeva un altra, inarrestabile storia, quella della partita che, per la cronaca, fu vinta dall Iran 1 a 0, grazie al colpo di testa del difensore Mohammad Nosrati. Offrendo in diretta allo spettatore il segreto del suo cinema, capace di intrecciare grandi e piccole storie, momenti ufficiali (come una partita di calcio) e segreti privati, passioni collettive e singoli destini». Paolo Mereghetti, Corriere della Sera, 6 aprile 2011

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