Alberto Bagnai. L Italia può farcela. Equità, flessibilità, democrazia Strategie per vivere nella globalizzazione
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- Regina Greco
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1 La Cultura 888
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3 Alberto Bagnai L Italia può farcela Equità, flessibilità, democrazia Strategie per vivere nella globalizzazione
4 Sito & estore Twitter twitter.com/ilsaggiatoreed Facebook il Saggiatore S.r.l., Milano 2014
5 L Italia può farcela A Rockapasso, er Palla e Uga, in ordine di apparizione
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7 It s the only period of my life in which I attempted to keep a diary. No, not the only one. Years later, in conditions of moral isolation, I did put down on paper the thoughts and events of a score of days. But this was the first time. I don t remember how it came about or how the pocket-book and the pencil came into my hands. It s inconceivable that I should have looked for them on purpose. I suppose they saved me from the crazy trick of talking to myself. Strangely enough, in both cases I took to that sort of thing in circumstances in which I did not expect, in colloquial phrase, «to come out of it». Neither could I expect the record to outlast me. This shows that it was purely a personal need for intimate relief and not a call of egotism. Joseph Conrad, The Shadow Line
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9 Sommario Introduzione Prologo: l Italia non può farcela 31 In taxi: «Se sò magnati tutto!» 31 La débâcle 35 Recessione tecnica 35; Un po di storia: le dimensioni della crisi 38; e la persistenza della crisi 44; Il bilancino del farmacista 45; Il punto di svolta 48 La situazione è grave ma non è seria 53 Silenzio: parla la Bce! 54; Ridurre i costi della politica 62; Combattere la corruzione 67; Lottare contro l evasione fiscale 73; Attirare i capitali esteri 84; Abbreviare i tempi della giustizia 97; Flessibilizzare il mercato del lavoro 100 «Ágrapta nómima»: le leggi autorazziali Manuale di illogica europea 115 Nel salotto buono: «L euro ha portato la pace» 115 Europa ed «Europa», riforme e «riforme» 118 Il vincolismo 123 Tecnocrazia contro politica: ce lo chiede l Europa! 123; Moneta e inflazione in teoria 131; Moneta e inflazione in pratica 132; L Italietta della liretta 139; L Italietta della svalutazione competitiva 147
10 Economicismo e federalismo 155 La sconfitta dell economicismo 157; La sconfitta del federalismo 159 I paradossi di Maastricht 162 Mercato sì o mercato no? 163; «Più Europa» sì o «più Europa» no? 164; Disciplina finanziaria o integrazione finanziaria? 168; Convergenza o divergenza? 172; Mille bolle blustellate 177; Moneta unica o mercato unico? Il teorema del grande pennello 178 Sintesi Vivere al di sopra dei propri mezzi 187 Dietro le quinte: «In Italia il sommerso è a 280 miliardi» 187 Ecce hoc novum est! 188 La favoletta del capitalismo 193 La prassi del capitalismo: l esempio degli Stati Uniti 198 Qualche dato 199; Teoria e pratica delle riforme 202; Squilibrio distributivo e crisi finanziaria 205 L Eurozona: non è buon allievo chi non supera il maestro 213 Qualche dato 213; E l euro che c entra? 230 La spesa pubblica improduttiva 232 Dal ferramenta 232; Perché? 234 Il debito pubblico: analisi marxiana e analisi marziana 244 Sintesi Appellisti contro austeriani: ovvero come la scienza economica perse la sua dignità 263 La logica degli austeriani 274 La logica degli appellisti La condizione necessaria ma non sufficiente 283 Ortodossi, eterodossi e omodossi: la «trahison des clercs» e il fascismo dell opinione 283 L Europa e la Storia 290 In economia la flessibilità conta 290; La flessibilità cattiva 295; Fermare il vento con le mani 299
11 Liquidità e mercantilismo 301 Bretton Woods e il debito degli altri 301; Un altro sistema monetario è possibile? 307; «Dalla Merkel ci vai tu?» 311; La flessibilità del cambio come «second best» 315 Cambi e politiche sociali 318 Sintesi: anche i ricchi piangono Facciamo i compiti a casa 331 Back to basics 331 Le vere riforme strutturali 341 Uniamo i puntini 341; Il pentimento degli austeriani 352; Le riforme strutturali 361; Risvegli 371 Scenari 373 Due piccioni con due fave 375; Soluzioni a confronto 382; Svalutazione del 20% 390; Usciamo, è tanto tempo che non lo facciamo 396; Un milione di posti di lavoro! 398 I palliativi 402 Meno austerità (oggi, e domani si vedrà) 402; La svalutazione fa male, anzi no 404; Il lavoro nel xxi secolo, ovvero: il Titanic, l iceberg e la grattachecca 406 External compact 415 Nel tinello buono: «Siamo troppo medi!» 415; La geopolitica del terzo escluso 416; In economia le dimensioni (non) contano 421; Dal Fiscal compact all External compact 426 Epilogo: l Italia può farcela 437 Ringraziamenti 463 Note 465 Bibliografia 475
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13 Introduzione L oscurità totale si verifica quando tutti chiudono gli occhi. Rastko Zakić Io sono in conflitto di interessi. Lo Stato mi paga lo stipendio, e quindi chi lo attacca, mi capirete, non può starmi troppo simpatico. Eppure con certe farraginosità burocratiche, con certe inefficienze, mi ci scontro due volte: da cittadino e da dipendente pubblico. Ma quando mia figlia è nata dopo otto mesi di gestazione (poco più di un chilo), non mi è passato per la testa di portare sua madre in una clinica privata, e so che se malauguratamente dovessi avere un incidente, sarei portato in un pronto soccorso pubblico, perché quelli privati, per qualche strano motivo, non ci sono. Mio figlio va in una scuola pubblica, perché nella città nella quale vivo c è una ricca serie di esempi di scuole private che sono state più refugia peccatorum che turres eburneae (magari saranno cambiate, anche perché nel frattempo lo Stato le ha finanziate lautamente, ma nel dubbio ). Non posso appassionarmi al dibattito sulla maggiore o minore felicità di pagare le tasse, perché da lavoratore dipendente, ahimè, non posso fare a meno di pagarle; ma evito di guardare la busta paga, così ignoro la differenza fra lordo e netto, e cerco di farmi bastare quest ultimo. Occhio non vede, cuore non duole. Io sono in conflitto di interessi, ma sono anche uomo di scienza vivo di ricerca e insegnamento e, come ogni uomo di scienza, affronto il mio conflitto di interessi nell unico modo intellettualmente onesto: dichiarandolo. L ho appena fatto. Non scelgo cioè la strada disonesta di certi esperti da talk show: quella di negare il mio conflitto di interessi arroccandomi dietro una improbabile terzietà. È stato il mio conflitto di interessi, del resto, che mi ha spinto a entra-
14 14 L Italia può farcela re nel dibattito sul futuro dell Italia in Europa, aprendo il mio blog il 16 novembre 2011, nello stesso giorno in cui Monti prestava giuramento, per preannunciare il fallimento del suo governo, e pubblicando poi, nel 2012, Il tramonto dell euro, che certificava quel conclamato fallimento e ne spiegava le ragioni ideologiche e il legame con la moneta unica (poi ammesso, come vedremo, dallo stesso Monti, in termini sufficientemente tecnici da sfuggire ai più). Per chi, come me, proveniva da un paio di decenni di studio delle crisi finanziarie nei paesi emergenti, era facile capire che nel racconto dei media qualcosa non tornava: perché ci veniva presentato come crisi di debito «sovrano» (che poi sarebbe pubblico) lo sconquasso di paesi nei quali questo debito era abbondantemente sotto il livello di guardia (come l Irlanda e la Spagna), o stava comunque scendendo (come l Italia)? Era evidente che stavamo assistendo a una classica crisi di bilancia dei pagamenti, come scrissi nel luglio 2011 su lavoce.info. L austerità non serviva a rimettere in sesto le nostre finanze pubbliche ma, in Grecia come in Italia, a spremere risorse per ripagare i creditori esteri, a costo di soffocare il paese. In quanto dipendente pubblico, sapevo bene dove ci avrebbe portato tutto questo: a considerare lo Stato un nemico da abbattere, e i servizi che eroga (da quelli essenziali nell immediato, come le ambulanze, a quelli essenziali nel lungo periodo, come l insegnamento universitario) delle inutili fonti di spreco. Il mio reddito e le prospettive dei miei figli erano in pericolo, e il mio conflitto di interessi, unito alla consapevolezza, che molti hanno raggiunto solo dopo, di non avere più nulla da perdere, mi hanno spinto a espormi. Tutto quello che è successo nei due anni successivi ha confermato quanto dicevo nel Tramonto dell euro, al punto che l analisi svolta in quel testo è stata fatta propria dalla Bce (come vedremo). E questo non deve stupire, perché è un analisi tutt altro che originale. Basterebbe aprire un qualsiasi libro di macroeconomia per capire come stanno le cose, e se questo libro non lo si apre o se, una volta aperto, non si racconta ai propri concittadini quello che c è scritto, è semplicemente perché si è sull altro fronte del medesimo conflitto di interessi. Il fatto è che tutti noi siamo in conflitto di interessi, e negarlo è non solo disonesto, ma, in una situazione di crisi, suicida. È una frase che può suonare strana. «Ma come!» potrebbe chiedersi qualcuno «non è proprio nel momento delle gravi difficoltà che i dissidi, i conflitti interni, vanno abban-
15 Introduzione 15 donati, e che ci si deve impegnare per superare le comuni ambasce tendendo uniti verso un obiettivo comune?» No. Questo per il semplice motivo che, come ogni testo di politica economica chiarisce fin dalle prime pagine, in economia, negando il legittimo contrasto fra diversi interessi, è difficile definire obiettivi comuni. Volete un esempio? La crisi ha portato a un aumento della disuguaglianza ovunque nell Eurozona, più folgorante, guarda caso, proprio nel paese che si propone come modello e ci viene indicato come tale dai nostri politici: la Germania (Ocse, 2011). Questo che cosa significa? Una cosa molto semplice, ma non banale: la crisi ha danneggiato molti, ma ha anche avvantaggiato pochi, quindi risolverla non è nell interesse immediatamente percepito di tutti. Avvantaggiati e svantaggiati, che esistono anche in Italia, possono avere un interesse comune? Molto dipende dall ottica usata: il macro del breve periodo o il teleobiettivo del medio periodo. Forse una mediazione fra i diversi legittimi interessi si può trovare; certamente è indispensabile cercarla, ma indiscutibilmente non lo si può fare se, prima, non si mettono bene in chiaro quali siano questi interessi e in che modo la crisi e le sue possibili soluzioni li influenzino. Gli interessi del creditore non sono quelli del debitore, gli interessi dell anziano non sono quelli del giovane, gli interessi dell occupato non sono quelli del disoccupato, gli interessi dell imprenditore non sono quelli del dipendente. Ma, al di là delle percezioni soggettive, rimane il fatto che razionalmente nel medio periodo la distruzione totale dell economia di questo paese non è nell interesse di nessuno. Eppure, è un eventualità che certi comportamenti egoistici, o semplicemente disinformati, stanno rendendo ogni giorno più concreta ed evidente. Qualche esempio per capire di cosa stiamo parlando. L imprenditore vuole pagare di meno l operaio: ha sempre voluto farlo, la vita è così. Ce lo ricorda niente meno che il padre della scienza economica, Adam Smith, nell ottavo capitolo del libro i della Ricchezza delle nazioni: «I lavoratori desiderano ricevere il più possibile, i padroni dare il meno possibile». 1 Oddio, non che l imprenditoria italiana si sia sempre graniticamente schierata in questo senso. Basti pensare che dopo la guerra, come ricorda Mario Nuti (2010), volle l indicizzazione dei salari, e non per bontà d animo, ma perché in quelle circostanze era razionale adottarla anche dal
16 16 L Italia può farcela suo punto di vista (e vedremo poi meglio perché); oppure ricordare la figura di Adriano Olivetti. Ma da qualche tempo l atteggiamento è del tutto cambiato, e oggi, ai nostri imprenditori, di tagliare i salari pensate un po glielo chiede addirittura l Europa, come ci ricorda Tabellini (2014), con una certa ingenuità o sfrontatezza politica, anche se in modo tecnicamente impeccabile. 2 Ottimo! Per il singolo imprenditore pagare di meno l operaio è indubbiamente un successo: diminuiscono i costi, quindi aumentano i profitti. Ma se lo fanno tutti, i profitti calano, perché gli operai sono anche consumatori, e se hanno meno soldi comprano di meno. A quel punto, per recuperare profitti, devi tagliare ancora. Il limite è il suicidio dell economia. Il comportamento razionale dal punto di vista dei singoli imprenditori distrugge quindi la domanda aggregata di beni, e così l intera economia. Le situazioni nelle quali comportamenti razionali per l individuo sono disastrosi per la collettività si chiamano «fallimenti del mercato», e molto spesso nascono da una visione miope, di breve periodo. Anche questo lo si sapeva fin dall inizio. Lo dice Smith: «Nel lungo periodo il lavoratore può essere necessario al padrone tanto quanto il padrone è necessario a lui, ma questa necessità non è così immediata». 3 Il mercato può fallire, e quando si attacca lo Stato («meno Stato, più mercato») bisogna conoscere i limiti dell alternativa. Sarebbe anche gradita, da parte dei cosiddetti liberisti, una lettura almeno superficiale di Adam Smith. Ma non allarghiamo troppo il discorso. Quello che succede nel microcosmo succede anche nel macrocosmo. In Italia i media, corrotti o conformisti, continuano a ripetere ad infinitum balle autorazziste sulla superiorità etnica dei tedeschi, sui loro investimenti, sulla loro politica industriale. In realtà all estero è ormai assodato non solo a livello scientifico, ma anche a livello giornalistico, che la Germania è diventata in meno di un decennio il paese egemone dell Eurozona, da «malato d Europa» che era, semplicemente per aver attuato una politica di compressione salariale, favorita da due cose: 1. le riforme Hartz del mercato del lavoro, a base di precarizzazione e «minijobs»; 2. l allargamento a Est dell Unione Europea, quello del 2004, fatto in fretta e furia, senza che molti di noi ne vedessero l esigenza, semplicemente per procurare un bel serbatoio di manodopera a buon mercato al paese
17 Introduzione 17 «più uguale degli altri»: la Germania, appunto. 4 (Sai, se l imprenditore ti dice: «O ti tagli il salario, o vado in Polonia!», è certo che a te di scelta ne rimane poca: vi ricorderò degli esempi concreti.) Brava la Germania, proprio come l imprenditore dell esempio precedente! Abbassando del 6% in quattro anni il livello dei salari, ha reso i suoi beni più convenienti, ma ha anche costretto tutti gli altri paesi dell Eurozona, che sono suoi clienti, a fare altrettanto per reggere la sua concorrenza. Risultato: il crollo della domanda in tutta l Eurozona, che sta portando l intero sistema al collasso. La logica delle élite tedesche è stata quella del singolo imprenditore dell esempio: se va bene per me, va bene per tutti. Invece no: se lo fanno anche gli altri, poi stanno peggio tutti (e ora la Germania assiste al crollo di tutti i propri indicatori congiunturali). Altro esempio: il pensionato vuole difendere la propria pensione, e quindi il suo incubo è l inflazione. Pensate! Con un inflazione al 5%, per dire, dopo tre anni una pensione da 1000 euro in realtà ha un potere d acquisto di circa 860 euro. In effetti fa impressione. Ma se oggi, di quei 1000 euro, ti tocca darne 300 a tuo figlio, al quale lo stipendio è stato tagliato (vedi poche righe sopra), o che ha perso il lavoro a 45 anni e non trova più nessuno che se lo prenda, be, allora, caro pensionato, già oggi la tua pensione di euro non ne vale più 1000, ma 700. Per farti subire una perdita di potere d acquisto comparabile a quella provocata dalla necessità di sostentare tuo figlio oggi, un inflazione al 5% impiegherebbe 7 anni. Nel frattempo, si assiste al paradosso di un giovane che non lavora, e quindi di capacità e competenze che deperiscono, e di un vecchio che sostenta il giovane, quando in fondo Madre Natura vorrebbe che fosse il contrario. Quando nel 2012 ho scritto Il tramonto dell euro, che l inflazione non fosse un male assoluto non si poteva ancora dire, nonostante fossimo al quarto anno di crisi. Oggi tutti i giornali chiariscono che se i prezzi scendono o semplicemente non salgono abbastanza gli acquisti vengono rinviati (in attesa di ulteriori ribassi, o di un adeguamento dei propri redditi), e l economia si blocca (Corriere della Sera, 2014). Chi non vuole una moderata inflazione vuole la disoccupazione, e chi vuole la disoccupazione, alla fine, non vuole la pensione, perché qualsiasi sistema previdenziale, sia a ripartizione che contributivo, si sostiene se l economia crea valore: ma senza lavorare, il valore non si crea. Questo, però, il pensionato non lo sa, o lo dimentica, anche se
18 18 L Italia può farcela ha svolto la propria attività lavorativa negli anni settanta e ottanta, quando l inflazione era arrivata a superare le due cifre ma, per motivi che poi vedremo, il potere d acquisto dei lavoratori aumentava, anziché diminuire. Certo, esistono anche pensionati che non hanno (più) figli, e pensionati i cui figli (ancora) lavorano. Ma ciò non toglie che la strategia difensiva «razionale» del singolo pensionato sia catastrofica a livello di sistema: di fatto, sostenendo il Partito deflazionista (Pd), i pensionati propugnano la disoccupazione, quindi la distruzione di valore, e perciò compromettono la sostenibilità delle loro stesse pensioni infatti, proprio mentre scrivo, le pensioni sono sotto attacco, naturalmente con l ottima scusa di correggere abusi e distorsioni (Barbera, 2014). Anche qui: accade nel macrocosmo quello che accade nel microcosmo. Li avete mai sentiti quelli che raccontano la storiella secondo cui la povera Germania avrebbe tanto paura dell inflazione perché l inflazione ha portato al nazismo? Be, trovarne in giro non è difficile: sono anche quelli che vi tormentano con la superiorità della morale protestante, senza tener conto che la regione più ricca della Germania è la cattolicissima Baviera. Bene: questa «economia del trauma infantile» è una assoluta e totale fesseria, un falso cialtronesco, come tutti gli storici sanno, come ho ricordato nel mio libro precedente e come poi confermato autorevolmente da Krugman (2013) e dall Economist (2013). Non che ci voglia una grande scienza: per documentarsi basta Wikipedia. L iperinflazione della Repubblica di Weimar terminò nel gennaio del In quell anno i nazisti ebbero 28 seggi al Reichstag, che poi divennero 24 nelle elezioni del Poi arrivò la crisi del 1929: pensate un po, una crisi che arrivava dagli Stati Uniti alla quale i governi europei risposero difendendo il cambio fisso (allora si chiamava gold standard, o sistema aureo, oggi si chiama euro) e praticando misure di austerità. Vi ricorda qualcosa? Così facendo, quel gran genio del cancelliere Brüning (il Monti dell epoca) riuscì a portare in due anni la disoccupazione tedesca dal 5% al 20%. Conseguenza: nel 1930 il Partito nazista conquistò 107 seggi al Reichstag (il 18%), diventando il secondo partito tedesco, e il resto lo sapete (finì nel 1945). Ma anche se non volete andare su Internet a controllare, è così difficile capire che quando Hitler saliva sul podio per ragliare le sue abominevoli oscenità, la gente stava lì a sentirlo per il semplice e ovvio motivo che non aveva altro da fare, essendo disoccupata? Se avessero avuto un lavoro, i tedeschi non avrebbero avuto né il tempo per
19 Introduzione 19 starlo a sentire, né risentimenti e frustrazioni da sfruttare politicamente, additando facili soluzioni. Quindi la storia del «trauma infantile» da iperinflazione della Germania è una grossolana menzogna. La verità è molto, molto più semplice: la Germania è il pensionato d Europa. È un paese che affronta una crisi demografica, 5 con una popolazione in rapido invecchiamento, 6 con un sistema pensionistico, come certifica la Commissione Europea (2012), meno sostenibile del nostro, e che ha accumulato un bel gruzzoletto di crediti verso i paesi dell Eurozona, anche per assicurare ai suoi cari vecchietti una confortevole terza età. Come per ogni creditore (e per ogni pensionato), l atteggiamento politico della Germania è quindi deflazionistico: il creditore è nemico dell inflazione, perché legittimamente teme l erosione del potere d acquisto delle somme che ha dato (nel caso del pensionato sarebbero i contributi versati) e che ora deve riavere indietro. Ma anche qui incombe lo spettro del fallimento del mercato: chiedendo rigore ai paesi del Sud e alla Bce, per evitare che l inflazione intacchi il suo gruzzoletto di crediti esteri, la Germania distrugge valore in tutta l Eurozona e strozza i suoi debitori, che sono anche gli acquirenti dei suoi beni. I risultati si vedono adesso, e sono quelli che purtroppo avevo previsto (Bagnai, 2011c): la Germania sta segando il ramo sul quale è seduta, e il problema è che sul ramo di sotto ci siamo noi. Se sono riuscito a portarvi fin qui, spero di avervi trasmesso l ovvio concetto per cui in economia esiste sempre un lecito contrasto di interessi, e quello meno ovvio per cui spesso l interesse reale del singolo non coincide con quello da lui percepito. Va peggio ancora quando, invece che di singoli, si parla di corpi sociali (partiti, sindacati, nazioni), poiché alla miopia individuale si somma la mancanza di coordinamento collettiva, e naturalmente va molto peggio per quelli che, essendo molto numerosi, hanno più difficoltà a coordinarsi: i lavoratori, i piccoli. Del resto, già Adam Smith riconosceva il vantaggio tattico dei grandi: «I padroni, essendo di meno, possono coordinarsi più facilmente». 7 Il mio primo e più urgente interesse è che l economia del mio paese non crolli del tutto, e che l Italia non venga posta sotto tutela da organismi internazionali privi di rappresentanza democratica. Alla democrazia non credo che rinuncerei in cambio di nulla. Ci sono nato e mi ci sono abituato, ma il punto qui non è né sentimentale, né politico; è semplicemente razionale:
20 20 L Italia può farcela dovunque questi organismi siano arrivati (ad esempio in Grecia) le loro ricette hanno fallito. Non è quindi nel mio, e forse nemmeno nel vostro interesse, invitarli a casa nostra, come pure qualcuno fa (su tutti, Scalfari, 2014). La consapevolezza dei miei interessi non l ho maturata perché io sia più intelligente dell imprenditore o del pensionato, quelli dei quali vi ho raccontato la storia negli esempi precedenti, quelli che, perseguendo i propri interessi percepiti, vanno contro i propri interessi reali distruggendo se stessi e gli altri. Anzi, do per scontato che loro siano molto più intelligenti e accorti di me: il loro egoismo dipende dal fatto che essi hanno ancora (per poco) qualcosa da perdere, il che dimostra, retrospettivamente, quanto siano stati oculati. Ma ora bisogna guardare avanti, al futuro. Io da perdere ho poco, e questo, almeno in teoria, mi dà un vantaggio: le riflessioni sul futuro che vi propongo sono necessariamente più serene. Questa consapevolezza più ampia dei miei interessi l ho acquisita per mero caso. Non volevo fare l economista da grande; nessun bambino, credo, nasce con questa misera ambizione (quando mio figlio vuole prendermi ferocemente in giro mi si avvicina e beffardo mi sussurra: «Babbo! Da grande voglio fare l economista come te!» e si fa una bella risata). Però è successo, e per caso ho passato vent anni a studiare le crisi finanziarie dei paesi del Terzo mondo, finché l Italia, come afferma De Grauwe (2011), non è diventata essa stessa un paese del Terzo mondo, cedendo la propria sovranità monetaria e così finendo in balia dei mercati finanziari e delle istituzioni sovranazionali. Questo infausto evento mi ha tartassato come cittadino (blocco della retribuzione, aumento delle imposte anche se, avendo ancora un lavoro, sto sicuramente meglio di tanti altri), ma mi ha decisamente avvantaggiato come economista. Come ho spiegato nel Tramonto dell euro, quello a cui stiamo assistendo in Europa è un film già visto. Tutte le crisi dei paesi emergenti sono cominciate con l aggancio valutario a un paese più forte: oggi lo certifica persino il Fondo monetario internazionale, in uno dei suoi ultimi studi (Gosh et al. 2014), ma gli economisti «eterodossi» lo vanno ripetendo da tempo (Frenkel e Rapetti, 2009). La crescita, in questi paesi, è tornata quando si sono sganciati dalla moneta forte di turno normalmente il dollaro (Weisbrot e Ray, 2011). Questo lo so io e lo sanno i miei colleghi. Il progetto dell euro è irrazionale e crollerà. Ma non è di questo che vorrei parlare: ne parlavo quando non ne parla-
21 Introduzione 21 va nessuno, oggi ne parlano tutti, i tempi sono maturi per pensare al dopo. Mi interessa, ora, capire in che modo l Italia e l Europa possano risollevarsi da quello che, come vedremo, è stato un evento distruttivo senza precedenti nella storia del nostro paese e del nostro continente. La condizione necessaria per rilanciare la nostra economia è chiaramente indicata dalla teoria economica: lo smantellamento dell euro. Ma è ovvio, come esplicitamente indicavo nel Tramonto dell euro, che questa è solo una condizione necessaria e che questa operazione non sarà una passeggiata: avrà dei costi che qualcuno dovrà sopportare. In questa fase, nella quale bisognerà prendere decisioni politiche, governate dai rapporti di forza, oltre che nella gestione del percorso futuro, è essenziale che i singoli individui e i corpi sociali abbiano una rappresentazione chiara dei propri interessi, riuscendo a inquadrare quanto è accaduto, e quanto potrebbe accadere, in un contesto sufficientemente ampio. In altre parole, è indispensabile aiutare il creditore a capire che, se si sofferma su quanto deve avere oggi, domani rischia di perdere tutto; aiutare il pensionato a capire che la disoccupazione è nemica anche sua, non solo di suo figlio; aiutare l imprenditore a capire che la flessibilità di cui tanto si parla oggi è nemica della crescita, e quindi dei suoi profitti futuri. E soprattutto convincere gli italiani che, nonostante le riverite prese di posizione dei loro media e dei loro politici, l Italia può farcela. Insomma: occorre che le tante forze sane del paese vengano a un compromesso, decidano di dividersi in modo concordato, esplicito ed equo i costi degli errori passati (il primo segno di questi errori, oggi, rimane il nostro debito pubblico, motore primo dell oppressione fiscale), e infine definiscano un patto sociale sostenibile, che non neghi il legittimo contrasto fra gli interessi, ma che anzi lo espliciti e ponga le basi per risolverlo nelle sedi democratiche. Prassi ben diversa, ne converrete, da quella attuale che, come ci ricordano i manuali universitari (Acocella, 2005), consiste nel risolvere i conflitti distributivi e sociali interni al nostro paese in base a ciò che «ci chiede l Europa», salvo poi riconoscere a posteriori quanto era evidente a priori, ossia che quanto ci veniva chiesto (ad esempio: l austerità) era un rimedio fallimentare o, per meglio dire, funzionale non agli interessi complessivi del nostro paese, ma a quelli particolari dei suoi creditori esteri. La filosofia politica che ci ha condotto sull orlo del baratro è questa: l idea fallimentare e fascista che gli italiani non siano in grado di governarsi da soli,
22 22 L Italia può farcela che abbiano bisogno di legarsi a popoli «virtuosi». Per creare consenso attorno a questa filosofia autoritaria e perdente i nostri media e i nostri politici non badano a spese, e lo snodo necessario è la mortificazione continua, sistematica, scientifica, dell identità e della dignità degli italiani. C è dunque un altra condizione necessaria perché l Italia possa riscattarsi: che gli italiani riacquistino la consapevolezza delle loro potenzialità e della loro dignità. Ma perché questo avvenga, perché gli italiani siano in grado di ricompattarsi e di risollevarsi, contribuendo in modo costruttivo anche ai futuri progressi dell integrazione europea, bisogna che partano da una percezione strutturata e precisa degli interessi in gioco, anziché dalla loro negazione. Solo così i vari attori sociali potranno capire se e quanto valga la pena di venire a un compromesso con le controparti, di definire questo compromesso, di dividere equamente i costi del passato e di tracciare insieme le linee di un progetto comune. Oggi questo progresso è ostacolato anche e soprattutto dai mezzi di informazione. Il conformismo o peggio dell informazione economica è un male che in Italia ha radici antiche. Lo denunciava già Federico Caffè nel lontano 1981 (una data simbolica per molti aspetti, come vedremo): «Uno degli indici più preoccupanti dell accrescersi, nel nostro paese, della situazione di regime è costituito dall aggravarsi del conformismo dell informazione: con particolare riguardo a quella economica» (Caffè, 2007). Quando nel 1985 sostenni l esame di politica economica con Caffè, era per me solo uno dei tanti insegnanti, più disposto degli altri ad ascoltare gli studenti, che aveva scritto un libro più interessante della media. Non potevo immaginare quanto mi sarebbero sembrate profetiche le sue parole trent anni dopo, non appena avessi provato a squarciare il velo di quel conformismo che lui con tanta lungimiranza additava come il vero cancro della nostra democrazia. Un conformismo che, va da sé, ha una ben precisa political economy (come direbbe un tecnico), che si spiega cioè non solo sociologicamente, ma anche razionalmente, in base a un evidente schema di incentivi. Ne è prova il fatto che in nove casi su dieci l informazione italiana è sbilanciata a favore di ricette politiche che comprimono gli interessi dei piccoli a tutto vantaggio dei grandi. Sarà forse perché, fra i maggiori poteri di coordinamento che già Adam Smith riconosceva ai grandi, c è anche quello di coordinare i messaggi diffusi dai media? Un esempio per tutti: indicare la Grecia o la Spagna come esempio, oggi, è un azione cen-
23 Introduzione 23 surabile non solo professionalmente (in quanto non tiene conto dei dati di fatto), ma anche e soprattutto eticamente. Contro questa forma di distorsione costante, schiacciante, è indispensabile lottare, per ricostituire almeno la possibilità di un dibattito democratico, nel quale gli interessi possano comporsi in modo civile e nonviolento. Perché questo, a me, pare sfugga un po a tutti: chi semina menzogna raccoglie violenza. Mentire, fornire rappresentazioni distorte della realtà (non importa per quale motivo lo si faccia), significa ostacolare il funzionamento di quell istituzione che per una sessantina d anni ci ha preservato dalla violenza. Non l euro, come dicono certi giullari del potere: la democrazia. Partiremo, in questo testo, proprio dal problema dell informazione. Nel prologo vedremo quali sono le cifre, impressionanti, della crisi, e le confronteremo con il resoconto che i media collusi e conformisti fanno della sua entità e dei possibili rimedi. Le famose «riforme», che pochi hanno il coraggio di chiamare col loro vero nome: taglio dei salari (ma qualcuno, come abbiamo già detto, comincia a uscire allo scoperto). Ma perché per salvare la nostra economia saremmo costretti a prendere una misura (il contenimento delle retribuzioni) che distrugge la nostra economia (provocando quel generale calo di capacità di spesa un economista direbbe: domanda aggregata del quale alla fine tutti soffrono: i commercianti, gli imprenditori, i professionisti e gli stessi conti pubblici, perché se non si guadagna non si pagano tasse)? Perché la costruzione europea è profondamente illogica, come vedremo nel secondo capitolo. Una illogicità «tecnica» che corrisponde non è nemmeno il caso di sottolinearlo: qui siamo tutti adulti a una precisa logica politica: quella di orientare la distribuzione del reddito a vantaggio di alcuni e a danno di altri, col risultato finale di danneggiare tutti. È un problema solo europeo? No, non proprio. Come vedremo nel terzo capitolo, da trent anni a questa parte nei paesi «avanzati» precise scelte di politica economica hanno distorto nettamente la distribuzione del reddito, comprimendo i salari e trasformando il capitalismo da un sistema nel quale il dipendente è un cliente (un economista parlerebbe di economia wage-led, guidata dai salari) a un sistema nel quale il dipendente è un debitore (un economia debt-led). I motivi sono tanti. A questa perdita di freni inibitori del capitalismo ha senz altro contribuito il crollo di quel va-
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