Obbligazioni in genere - Obbligazioni pecuniarie - In genere - Danno da svalutazione monetaria - Domanda intesa ad ottenere la rivalutazione nella misura ufficiale dell'inflazione - Allegazione degli indici ISTAT - Sufficienza - Domanda di rivalutazione in misura superiore ai dati ufficiali - Prova del maggior danno - Necessità (Fattispecie relativa alla rivalutazione di somme restituite dall'inps per contributi indebitamente versati). Corte di Cassazione - 22.5/26.10.2000, n. 14089/00 - Pres. Grieco - Rel. Giannantonio - P.M. Martone (Parz. Diff.) - Major S.r.l. (Avv. Antonini) - INPS (Avv.ti Sarto, Ponturo, Fonzo). Il danno da inadempimento dell'obbligazione pecuniaria è per qualsiasi creditore non inferiore alta misura dell'inflazione della moneta, che ne costituisce l'elementare dato probatorio, salvo che esso assuma un diverso, maggiore valore per il singolo creditore in relazione al comprovato uso che della somma oggetto dell'obbligazione intendeva fare; di conseguenza, il creditore che intenda ottenere la rivalutazione nella misura ufficiale deve solo allegare gli indici ufficiali dell'istat, mentre il creditore che ritenga che la mancata disponibilità del danaro abbia inciso sul suo patrimonio in misura superiore agli interessi legali e alla svalutazione ufficiale dovrà provare il maggiore danno, per esempio di aver dovuto rinunciare ad investimenti vantaggiosi oppure di aver dovuto ricorrere a prestiti particolarmente onerosi (fattispecie relativa alla rivalutazione di somme restituite dall'inps per contributi indebitamente versati). FATTO. - Con ricorso depositato il 15 dicembre 1989 la Major S.r.l., in persona del suo legale rappresentante pro - tempore, conveniva in giudizio dinanzi al Pretore di Catania, quale giudice del lavoro, l'istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS), in persona del presidente pro - tempore. Esponeva che, come casa di riposo, svolgeva un servizio di assistenza socio - sanitaria ai ricoverati e aveva diritto agli sgravi contributivi previsti dell'art. 18 della legge n. 1089 del 1968. Chiedeva, quindi, che il Pretore dichiarasse il suo diritto a beneficiare degli sgravi suddetti a far tempo dal 2 ottobre 1980 e condannasse l'istituto, alla restituzione delle somme indebitamente
versate. Costituitosi in giudizio l'istituto ed espletata l'istruttoria, con sentenza depositata il 27 giugno 1995 il Pretore dichiarava il diritto della Major S.r.l. a beneficiare degli sgravi contributivi previsti dall'art. 18 della legge n. 1089 dell'anno 1968, e successive modificazioni, in relazione al personale occupato e condannava l'inps alla restituzione delle somme indebitamente versate nel periodo dal 10 aprile 1981 al 30 giugno 1988. Condannava, inoltre, l'istituto al pagamento degli interessi legali dalla data della domanda giudiziaria e al pagamento della rivalutazione monetaria, secondo gli indici ISTAT, a titolo di risarcimento del maggior danno. La decisione del Pretore è stata parzialmente riformata dal Tribunale di Catania che, con sentenza depositata in cancelleria il 19 maggio 1997, ha dichiarato che spettava alla società non il cumulo, ma solo la maggiore somma tra gli interessi legali e la rivalutazione monetaria sulla somma capitale al cui pagamento era stato condannato l'inps. Avverso la decisione del Tribunale la società propone ricorso costituito da un solo motivo. L'istituto resiste con controricorso e propone, a sua volta, ricorso incidentale, costituito anche esso da un solo motivo. DIRITTO. - Deve innanzitutto essere disposta la riunione dei due ricorsi, proposti separatamente contro la stessa sentenza, in un solo processo, si sensi dell'art. 335 del codice di procedura civile. Con il ricorso principale la società denunzia la violazione dell'art. 1282 e dell'art. 1224, secondo comma, del codice civile, in relazione all'art. 360 n. 3 del codice di procedura civile. Lamenta che il Tribunale di Catania abbia erroneamente affermato che sulla somma capitate dovuta dall'inps spetta soltanto la maggiore somma fra gli interessi legali e la rivalutazione monetaria secondo i dati ISTAT. Assume che l'affermazione é errata in quanto, secondo un orientamento giurisprudenziale, la rivalutazione monetaria è cumulabile con gli interessi legali in base al disposto del secondo comma dell'art. 1224 del codice civile, con l'eccezione del solo caso, che nella specie non ricorre, in cui sia stata convenuta in anticipo la misura degli interessi moratori a un tasso superiore a quello legale. Il ricorso è infondato. Come é noto, i crediti che hanno per oggetto una somma di danaro (art. 1277 del codice civile) producono interessi nella misura legale (art. 1284 del codice civile)
qualora siano liquidi ed esigibili e salvo che la legge o il titolo non dispongano diversamente (art. 1282 del codice civile); dal giorno della mora sono dovuti gli interessi legali, anche se non erano dovuti precedentemente e anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno (art. 1224, primo comma, del codice civile); tuttavia il creditore che dimostra di aver subito un danno maggiore ha diritto all'ulteriore risarcimento, tranne che sia stata convenuta la misura degli interessi moratori (art. 1224, secondo comma, del codice Civile). In base al disposto del codice si usa tradizionalmente distinguere gli interessi corrispettivi dagli interessi moratori: i primi, previsti dall'art. 1282, sarebbero "l'equivalente dell'utilità che il debitore ritrae dall'uso protratto del capitale monetario di cui il creditore ha diritto di chiedere anche giudizialmente il pagamento"; gli altri, previsti dall'art. 1224, sarebbero "il risarcimento che il debitore deve al creditore per il ritardo ingiusto a pagare il proprio debito". I primi sarebbero fondati sul principio della naturale fecondità del danaro, gli altri sul principio della responsabilità del debitore per i danni provocati dal suo inadempimento. In realtà, come ha osservato la dottrina più moderna, sia gli interessi corrispettivi, sia quelli moratori hanno una identica funzione, compensativa e assicurativa: compensativa, perché rimunerano il creditore per la mancata disponibilità del denaro; assicurativa. perché lo assicurano sia in relazione al pericolo dell'inflazione, sia in relazione al rischio della mancata restituzione della somma dovuta. La differenza tra i due interessi deriva semplicemente dal fatto che gli interessi moratori sono dovuti dal giorno della mora, anche se non erano dovuti precedentemente; e la previsione di essi in due norme diverse, nonostante l'identità delle funzioni, ha una ragione storica e cioè il fatto che una norma, l'art. 1282, deriva dall'art. 41 del codice di commercio e l'altra, l'art. 1224, dall'art. 1231 del codice civile del 1865. L'identità di funzione delle due specie di interessi spiega perché, sopravvenuta la mora, gli interessi moratori assorbano gli interessi corrispettivi, eventualmente già decorrenti in base all'art. 1282, sostituendosi ad essi; e spiega anche perché il legislatore abbia determinato il saggio degli interessi legali nella misura originariamente pari al cinque per cento in ragione di anno e successivamente al dieci per cento (legge 26 novembre 1890 n. 53) e, quindi di nuovo, al cinque per cento salvo il potere di modifica del Ministro del Tesoro (art. 2 legge 23 dicembre 19996 n. 662) sia nel caso degli interessi corrispettivi, sia nel caso degli interessi moratori. In effetti il saggio degli interessi nella realtà economica é determinato non dal
legislatore, ma dal mercato, in base alle leggi sue proprie, le leggi economiche, più forti in questo campo di qualsiasi norma legislativa. Non erano mancati, quindi, all'epoca della formulazione del codice, tentativi di introdurre un saggio variabile in regione all'andamento del mercato. Tuttavia, come si legge nella relazione al codice, non era stata accolta la tesi "di una norma flessibile, che facesse coincidere l'interesse con il variabile tasso legale di sconto, come si fa in alcune legislazioni" in quanto "una norma del genere avrebbe reso incerto, in determinate congiunture economiche, il concreto contenuto del debito di interessi". Confortava il legislatore il pensiero che il governo dell'epoca avrebbe saputo conservare gli equilibri economici del momento e in particolare avrebbe saputo impedire, o quanto meno limitare in misura multo modesta, il fenomeno dell'inflazione. E non vi è dubbio che il tasso prescelto del cinque per cento annuo fosse aderente alla realtà economica di quel momento e ai tassi allora correnti e risultasse quindi idoneo a costituire un giusto punto di riferimento nella maggior parte dei rapporti economici. Tuttavia, è anche certo che il tasso prescelto, come del resto qualsiasi altro saggio legale fisso, era destinato a divenire insufficiente, o addirittura anacronistico, nei momenti di più grave turbamento economico e monetario. Cosa che in effetti si verificò nell'economia italiana subito dopo la seconda guerra mondiale, negli anni settanta dopo la crisi petrolifera e ancora alla fine degli anni ottanta. In questi periodi la svalutazione della moneta vanificava il guadagno dovuto agli interessi legali e favoriva così il debitore moroso. La necessità di compensare il danno derivante dalla svalutazione del credito ha indotto la giurisprudenza a riconoscere, oltre agli interessi legali, l'ulteriore risarcimento della rivalutazione del credito al creditore che dimostrasse di aver subito un danno maggiore ai sensi del secondo comma dell'art. 1224. La rivalutazione, tuttavia, anche se non sono mancate decisioni in senso contrario, deve essere riconosciuta solo nel caso e nella misura in cui il danno derivante dalla svalutazione sia superiore agli interessi corrisposti nella misura legale. Infatti, in base alla identità di funzione, compensativa e assicurativa, degli interessi corrispettivi e degli interessi moratori, si deve ritenere che il riconoscimento della svalutazione è già compreso nel tasso legale degli interessi e che non è possibile cumulare per intero gli interessi moratori e la svalutazione in quanto, in tal modo, si verrebbe a risarcire due volte il fenomeno inflattivo. In sostanza il maggior danno di cui al secondo comma dell'art. 1224 é il danno
eccedente quello già coperto dagli interessi di mora calcolati al tasso legale sulla somma dedotta in obbligazione; si giustappone, e non si aggiunge, a quello, forfettario, previsto dal primo comma e deve quindi essere depurato di quanto sia già stato accordato a titolo di interessi moratori. D'altra parte, il cumulo degli interessi legali, specie nella misura stabilita dal legislatore con la legge 26 novembre 1990 n. 353, e il risarcimento del maggior danno dovuto alla svalutazione monetaria finirebbe per attribuire al creditore una posizione di eccessivo vantaggio nei confronti del debitore, sia pure moroso. Si verificherebbe, così, una situazione opposta e quella precedente: da un eccessivo favor debitoris si passerebbe a un eccessivo favor creditoris; due situazioni che, in modo diverso, non permettono comunque un equo contemperamento delle posizioni delle parti. E` pertanto esatta la sentenza del Tribunale che, correggendo la precedente affermazione del Pretore, ha dichiarato che sulla somma citale dovuta dall'inps spetta non il cumulo, ma solo la maggiore somma tra gli interessi legali e la rivalutazione monetaria. Con il ricorso incidentale il ricorrente denunzia la violazione dell'art. 1224 del codice civile, ai sensi dell'art. 360 n. 3 del codice di procedura civile, nonché il vizio di motivazione si sensi dell'art. 360 n. 5 del codice procedura civile. Lamenta che il Tribunale di Catania abbia ritenuto dovuta la rivalutazione, nonostante che la società non avesse provato di avere subito l'ulteriore danno in base all'art. 1224 del codice civile. Il ricorso è infondato. La qualificazione del danno da svalutazione come maggiore danno ai sensi del secondo comma dell'art. 1224 del codice civile comporta che, in base ai principi generali in tema di onere probatorio (art. 2697 del codice civile, il danno derivante dalla svalutazione monetaria deve essere provato dal creditore. Questi, difatti, ha l'onere di allegare e di dimostrare, attraverso qualsiasi mezzo di prova, incluso il notorio, il pregiudizio sofferto per la mancata disponibilità del denaro (Cass. 21 marzo 1954 n. 1916 e numerose altre). Sussiste tuttavia un contrasto giurisprudenziale quando, scendendo nel particolare, si voglia precisare quale debba essere l'oggetto della prova. S'è, infatti, affermato che l'onere non può ritenersi assolto nel caso di richiesta pura e semplice di rivalutazione del credito secondo gli indici ISTAT, dato che il tasso di svalutazione monetaria può essere utilizzato soltanto come parametro e non già ai finì dalla rivalutazione automatica della somma dovuta dal debitore inadempiente (Cass. 6
luglio 1983 n. 4567 e numerose altre). Di conseguenza, è stato affermato che il creditore dovrebbe provare di avere programmato specificamente alcuni particolari investimenti che sono stati resi impossibili dall'inadempimento del debitore (Cass. 27 febbraio 1980 n. 1384 e numerose altre); ovvero di essersi dovuto procurare la somma non pagatagli a condizioni particolarmente svantaggiose, mediante ad esempio un oneroso prestito bancario; ovvero di essere stato costretto a vendere beni reali (Cass. 30 luglio 1983 n. 5246). In sostanza, sarebbe necessario che il creditore dimostri che il pagamento tempestivo lo avrebbe messo in condizione di evitare, o quantomeno di limitare, gli effetti economici depauperatori che l'inflazione produce per i possessori di danaro. L'indirizzo enunciato accollava al creditore un onere che si avvicinava alla prova diabolica e, come è stata osservato, il suo esito pratico era quello di incentivare l'oltranzismo dilatorio del debitore inadempiente. La giurisprudenza successiva ha, quindi, ritenuto che l'onere probatorio potesse essere soddisfatto anche mediante presunzioni derivanti dall'impiego normale del denaro da parte della categoria di appartenenza del creditore. Si adottava così una tecnica dì accertamento del maggior danno che, semplificando l'onore dalla prava attraverso le presunzioni e i dati notori acquisiti dalla comune esperienza e desumibili dalle condizioni e qualità del creditore, consentiva di pervenire a una valutazione il più possibile soggettiva del danno medesimo, senza tuttavia rinunciare al ricorso a criteri generali tali da permettere, ove possibile, la quantificazione forfetaria e favorire la semplicità e la speditezza della liquidazione. Venivano, quindi, individuate alcune categorie tipiche di creditori, come quella degli imprenditori, dei risparmiatori abituali e dei modesti consumatori, in relazione ai quali le esigenze di prora del danno della svalutazione erano implicite nel normale uso del danaro da parte della categoria. La tesi, benché accolta da numerose decisioni, è stata tuttavia disattesa da altre e anche dalla dottrina. In particolare é stato osservato che non sempre è facile stabilire a quale gruppo o categoria appartenga il creditore nel caso concreto; il più delle volte il creditore può appartenere a più gruppi, oppure può, nel corso del tempo, passare da un gruppo a un altro. D'altra parte, il ricorso a categorie tipiche finirebbe anch'esso, secondo alcuni, per determinare un automatismo di rivalutazione del credito contrario al principio nominalistico vigente in tema di obbligazioni di valuta. E' stato, quindi affermato che non è sufficiente provare l'appartenenza del creditore a una determinata categoria, ma occorre pur sempre dimostrare di essere dovuto ricorrere al credito
bancario a causa del ritardo nell'inadempimento, ovvero di aver perso interessi più alti rispetto al tasso legale nel periodo considerato. Ma anche tale tesi é stata criticata in quanto essa finisce per annullare quei vantaggi in tema di onere probatorio che la divisione in categorie dei creditori, pur nella sua convenzionalità e dentro i suoi limiti, aveva tuttavia realizzato; finisce insomma per addossare al creditore un onere probatorio difficile e in contrasto con l'elementare osservazione che il pagamento di un debito in ritardo e svalutato non può che costituire un danno per il creditore. In realtà, le decisioni che negano la possibilità di collegare direttamente la quantificazione della prestazione pecuniaria al potere di acquisto della moneta si basano sul presupposto che l'automatica rivalutazione della somma dovuta costituirebbe una violazione del principio nominalistico vigente in materia di obbligazione di valuta e farebbe venire meno la distinzione con le obbligazioni di valore. E' stato, tuttavia, autorevolmente osservato che il rispetto del principio nominalistico non é affatto incompatibile con la rilevanza delle variazioni del potere dl acquisto dalla moneta; che, mentre nei debiti di valore la considerazione di quella variazione è insita nel procedimento di determinazione quantitativa della prestazione, nei debiti di valuta essa può invece rilevare esclusivamente sub specie damni e pone problemi di esclusiva natura probatoria; che ritenere notoria l'entità del fenomeno inflattivo e probabilisticamente rilevante la destinazione del danaro allo scambio non significa affatto derogare al principio nominalistico, ma solo adottare un criterio di valutazione della prova che tiene conto degli interessi delle parti ed è conforme alla comune esperienza e al comune sentire. In base a questi principi alcune decisioni di questa Corte hanno, quindi, affermato che il danno da inadempimento dell'obbligazione pecuniaria é per qualsiasi creditore non inferiore alla misura dell'inflazione della moneta, che ne costituisce l'elementare dato probatorio, salvo che esso assuma un diverso, maggiore valore per il singolo creditore in relazione al comprovato uso che della somma oggetto dell'obbligazione intendeva fare. Pertanto, salvo questa prova diversa, il danno da svalutazione può essere determinato sulla base degli indici ufficiali dell'inflazione in relazione al costo della vita (Cass. 7 gennaio 1983 n. 123; Cass. 27 gennaio 1984 n. 651; Cass. 5 giugno 1985 n. 3356(1)). In effetti, non è dubbio che la mancata disponibilità del denaro da parte del creditore costituisce obiettivamente un danno e non ha bisogno di alcuna prova di carattere
soggettivo, salva la possibilità da parte del debitore di provare il concorso del fatto colposo del creditore, ai sensi dell'art. 1227 del codice civile. Di conseguenza, il creditore che intenda ottenere la rivalutazione nella misura ufficiale, deve solo allegare gli indici ufficiali dell'istat. Il creditore, invece, che ritenga che la mancata disponibilità del danaro abbia inciso sul suo patrimonio in misura superiore agli interessi legali e alla svalutazione ufficiale, dovrà provare il maggiore danno: dovrà provare, ad esempio, di aver dovuto rinunciare a investimenti particolarmente vantaggiosi o di essere dovuto ricorrere a prestiti particolarmente onerosi. Nel caso in esame, pertanto, il Tribunale ha correttamente ritenuto, in base ai principi giurisprudenziali su enunciati, che sulla somma capitale al cui pagamento è stato condannato l'inps spetti la maggiore somma tra gli interessi legali e la rivalutazione monetaria secondo i dati ISTAT. I due ricorsi devono pertanto essere rigettati. (Omissis) (1) V. in q. Riv., 1985, p. 1153