GIORGIO FLORIDIA RISARCIMENTO DEL DANNO E REVERSIONE DEGLI UTILI NELLA DISCIPLINA DELLA PROPRIETÀ INDUSTRIALE



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STUDIO LEGALE FLORIDIA degli avv.ti prof. Giorgio Floridia e Raffaella Floridia Via Freguglia n. 10-20122 Milano Tel. 0039-02 - 55 19 30 79 Fax 0039-02 - 55 19 00 22 e-mail: info@studiolegalefloridia.it GIORGIO FLORIDIA RISARCIMENTO DEL DANNO E REVERSIONE DEGLI UTILI NELLA DISCIPLINA DELLA PROPRIETÀ INDUSTRIALE Relazione tenuta al Salone della Proprietà Industriale del 24 settembre 2012 FLORIDIA.DOC P. I.V.A. E C.F.: 13 06 31 80 155

2 La relazione affronta il problema centrale dell'enforcement in materia di proprietà industriale. In primo luogo il rapporto fra il diritto speciale e diritto privato generale che consente di individuare il c.d. "vantaggio competitivo" come lo scopo essenziale dell'attribuzione risarcitoria. Subito dopo viene fatta un'analisi puntuale della genesi dell'art. 125 C.P.I. e della novità che ha introdotto nel nostro ordinamento: e cioè della c.d. reversione degli utili che si pone in alternativa rispetto al tradizionale lucro cessante. La relazione si conclude con un accenno all'elemento psicologico come presupposto sia del lucro cessante che della reversione degli utili. 1.- Il diritto della concorrenza come diritto "secondo". L'accoglimento incondizionato della proposta metodologia formulata da ASCARELLI fin dagli anni '50 ha fatto sì che il diritto della concorrenza si sia consolidato come diritto speciale intorno a due serie di norme: quelle poste a tutela della proprietà intellettuale - comprensiva della proprietà industriale in senso stretto - e quelle poste a disciplina della concorrenza nella duplice configurazione della disciplina della concorrenza sleale e della disciplina antitrust. La validità della proposta metodologica formulata originariamente da ASCARELLI è stata confermata nei cinquant'anni successivi nei quali l'elaborazione dottrinale e giurisprudenziale ha sempre tenuto presente, ed anzi progressivamente enfatizzato, la relazione funzionale che intercorre fra la tutela della proprietà intellettuale e la tutela del mercato concorrenziale che costituisce l'obiettivo diretto delle norme antitrust e quello mediato delle norme sulla concorrenza sleale. Ancora di recente, avuto riguardo alla proprietà intellettuale e alla disciplina antitrust, è stato ribadito che è proprio la "multiforme convergenza teleologica sui profili effettuali sostanzialmente affini che fonda propriamente il sistema del diritto industriale. E che giustifica, sul piano interpretativo, il riferimento (anche) della disciplina speciale della proprietà intellettuale al principio generale della libertà di concorrenza, stella polare dell'intero sistema" (GHIDINI). Ovviamente non è certo sufficiente la generica indicazione della funzione concorrenziale della proprietà intellettuale come modello di riferimento diretto a segnare i principi fondamentali che governa il diritto della concorrenza e che ne determina la natura di diritto speciale. E' ovvio infatti che la coerenza funzionale degli istituti del diritto concorrenziale non impedisce lo sviluppo di una molteplicità di concetti interpretativi dotati, ciascuno, di una propria specificità e che sono anzi il risultato di un'evoluzione che, pur rimanendo interna al sistema, si caratterizza di volta in volta in

3 base ad una propria storia spesso affascinante perché rivelatrice dei profondi mutamenti che intervengono nella stessa realtà del mercato. Si pensi - ad esempio - all'evoluzione della funzione distintiva del marchio passata dalla tutela in senso stretto del diritto alla differenziazione nel mercato alla tutela ben più ampia del marchio come strumento di marketing capace di incorporare importanti valori di avviamento, e perciò alla tutela contro l'agganciamento ed il parassitismo. Si pensi all'evoluzione della disciplina dei disegni e dei modelli passata dalla tutela dell'innovazione nel campo dell'estetica dei prodotti industriali alla tutela delle forme che presentino il requisito del carattere individuale e cioè che siano idonee a rappresentare l'individualità dell'autore. Il diritto della concorrenza evolve - dunque - anche profondamente all'interno dei singoli istituti che lo compongono ma, al contempo, senza che alcune ne contesti il riferimento al vincolo per così dire esterno ed inderogabile che riconduce al rispetto del principio generale della libertà di concorrenza: vincolo che peraltro taluno si preoccupa di difendere esplicitamente (GHIDINI) mentre molti altri presuppongono come implicito e coessenziale al sistema stesso. La straordinaria ricchezza delle regole e dei principi che fanno del diritto industriale un diritto speciale, certamente fra i più dotati di coerenza interna e di preordinazione funzionale rispetto all'attuazione dell'economia di mercato, non conduce di certo ad una totale autosufficienza perché esso è e rimane un diritto "secondo" da ricondurre pur sempre al "primo" costituito dalla generale disciplina dei rapporti privatistici. Non per nulla la storia delle origini del diritto industriale è segnata dall'abbandono, dopo un momento di incertezza, di tutti gli elementi pubblicistici che ne avrebbero potuto orientare la configurazione verso un risultato misto e, conseguentemente, ambiguo. La natura del diritto industriale come diritto "secondo" è causa ed effetto del fatto che, fino ad un certo momento, si sia avuta una totale assenza di norme che disciplinassero la pretesa risarcitoria azionabile in funzione del compimento di atti lesivi di ciascun diritto di proprietà intellettuale. Le norme contenute nelle leggi speciali che erano in vigore prima dell'emanazione del Codice della Proprietà Industriale erano sempre e soltanto norme di rinvio che legittimavano l'interprete a ricavare la disciplina della pretesa risarcitoria dal

4 diritto "primo": una sorta di rinvio "formale" in forza del quale di tanto si estendeva sotto il profilo sostanziale e processuale il diritto al risarcimento nella materia del diritto industriale di quanto questo diritto poteva essere fatto valere nell'ambito del diritto civile considerato come "primo". E' bene fin da ora precisare che il rinvio alle norme del diritto civile, così come il rinvio al diritto processuale, considerati come diritti "primi" rispetto al diritto industriale considerato come diritto "secondo", si è configurato - e si configura ancora adesso in buona parte - come frutto di una scelta precisa del legislatore nella quale è insita una valutazione il cui rilievo metodologico sembra inderogabile: i diritti soggettivi di proprietà intellettuale sono tutelati, quanto all'individuazione delle fattispecie lesive, dal diritto speciale ed invece, quanto alle conseguenze risarcitorie dal diritto generale e nei limiti di questo. Il fortissimo processo di omologazione del diritto industriale al quale ha dato impulso l'accordo TRIPs non si estende al governo della sanzione risarcitoria che è, e rimane, strettamente ancorato al diritto civile primario di riferimento. Naturalmente anche questo assetto poteva cambiare ed è cambiato per effetto della Direttiva "Enforcement" che, per la prima volta, persegue lo scopo di armonizzare anche la parte sanzionatoria del diritto industriale. 2.- Il vantaggio competitivo come risultato di attribuzione. Gli istituti della proprietà intellettuale ed industriale conferiscono a chi ne beneficia in qualità di titolare un vantaggio competitivo calibrato in termini temporali e di intensità in modo da garantire al meglio anche obiettivi di interesse generale: l'innovazione tecnologica con riguardo ai brevetti per invenzione e per modello, che condiziona i modi di esercizio, il contenuto e la durata del diritto esclusivo; l'innovazione estetica della produzione industriale che, prima della Riforma del 2001, subordinava la tutela ad uno "speciale ornamento" e che ora, con il requisito del carattere individuale, abbassa il gradiente di originalità e tutela prevalentemente l'interesse imprenditoriale alla propria individualità con riguardo ai disegni e modelli; la differenziazione sul mercato e la remunerazione degli investimenti pubblicitari per quanto riguarda il marchio e gli altri segni distintivi oggetto di una tutela progressivamente sempre più complessa, dopo la teorizzazione rigorosa di VANZETTI che faceva della funzione distintiva l'unica funzione giuridicamente rilevante mentre è ora una delle funzioni accanto alla funzione evocativa e

5 pubblicitaria; la promozione culturale ed il soddisfacimento delle esigenze del tempo libero per quanto riguarda il diritto d'autore sulle opere dell'ingegno non più soltanto a contenuto artistico ma anche utilitaristico. La garanzia del conseguimento degli obiettivi di interesse generale dipende dai limiti della protezione ma non influisce sulla struttura dominicale del diritto e sul momento della sua attribuzione, dato che il vantaggio competitivo che costituisce il contenuto dell'attribuzione opera sempre e soltanto in funzione della esclusività dell'utilizzazione economica della creazione intellettuale che diviene, per ciò stesso, bene immateriale. Orbene, i cultori del diritto primario, e cioè del diritto civile generale, hanno già avuto modo di porre la netta distinzione tra "la funzione attributiva dei diritti sui beni e quella conservativa degli stessi" (PLAIA ed M. BARCELLONA) e questa distinzione porta - direi automaticamente - a considerare la violazione dei diritti di proprietà intellettuale come abusiva utilizzazione di una risorsa i cui risultati spettano sempre e soltanto al titolare. Il concetto unificante di tutto il diritto della concorrenza è divenuto quello di "vantaggio competitivo" del quale il titolare del diritto di proprietà intellettuale ed industriale deve poter beneficiare con l'attribuzione di tutti i risultati che si sarebbero avuti se quel vantaggio non fosse stato ridotto per effetto dell'illecito posto in essere. Dal punto di vista della qualificazione del conflitto, come conflitto attributivo, non vi è differenza di rilievo fra la contraffazione di un brevetto e l'imitazione servile di un prodotto altrui, perché, in entrambi i casi, quel prodotto che a posteriori ha costituito oggetto della contraffazione oppure dell'imitazione servile è una risorsa la cui utilizzazione, nella misura in cui attribuisce un vantaggio competitivo, spetta unicamente al titolare del diritto leso. Non diversamente - checché se ne dica con preoccupazione (GHIDINI) - un insegnamento tecnologico descritto e rivendicato in un brevetto ed il know-how mantenuto in regime di segretezza costituiscono entrambi una risorsa riservata al titolare in termini di vantaggio competitivo, sia che la tutela provenga da un titolo di proprietà industriale oppure da un divieto di sleale concorrenza oppure infine da un divieto di diritto antitrust. Ogniqualvolta il danno sia effetto di un conflitto di attribuzione, la liquidazione può certamente avvenire anche in deroga ai limiti della tradizionale funzione

6 compensativa in forza della quale, in linea di principio, chi agisce per il risarcimento non può venire a trovarsi in una posizione migliore rispetto a quella in cui si sarebbe trovato se l'illecito non fosse stato commesso. Questo principio non può porsi come limite esterno al sistema delle azioni risarcitorie esperibili nel diritto industriale, ed è incompatibile con l'attribuzione normativa, a titolo di proprietà intellettuale ed industriale, di una risorsa la cui utilizzazione esclusiva spetta al titolare, sicché l'illecito di contraffazione e di abusiva utilizzazione non può non esporre chi lo compie alla conseguenza di restituire tutte le utilità che ha tratto dall'abuso e più in generale dall'altrui risorsa competitiva. La giurisprudenza ha già ufficializzato questa conclusione tutte le volte che applica il criterio del pagamento a favore del soggetto leso dei profitti ottenuti dal contraffattore con un orientamento che, almeno in linea teorica, si pone a fianco di quello seguito da altro e prevalente filone giurisprudenziale secondo il quale spetta al soggetto leso il giusto prezzo del consenso e cioè il compenso che il titolare del diritto avrebbe potuto pretendere se il contraffattore avesse preventivamente chiesto il suo consenso, e che si contrappone al criterio per cui è risarcibile unicamente il danno derivante dalla diminuzione del profitto netto o lordo del titolare del diritto. La categoria civilistica del conflitto di attribuzione, ponendosi a monte della tutela, accredita il principio del trasferimento in capo al titolare del diritto leso di tutte le utilità che il soggetto responsabile della lesione ha ricavato dall'utilizzazione abusiva del bene immateriale. 3.- La genesi dell'art. 125 C.P.I.. Nonostante da sempre nella valutazione dei criteri ermeneutici si dia la prevalenza a quello dell'interpretazione sistematica rispetto alla ricostruzione del significato storico attribuibile alle norme, così da contrapporre una "voluntas legis" ad una "volunta legislatoris", è essenziale attribuire la doverosa rilevanza al significato storico soprattutto quando - come nella specie - esso inevitabilmente si pone all'origine di un importante processo di revisione sistematica. L'art. 125 C.P.I. presenta tutte le caratteristiche necessarie per giustificare - ed anzi imporre - un'attenta ricostruzione della "voluntas legislatoris" come premessa di una corretta ricostruzione della "voluntas legis".

7 E' bene precisare che, nel quadro di riferimento rilevante ai fini della ricostruzione del significato storico dell'art. 125, devono essere ricomprese anche le considerazioni illustrate nei primi due paragrafi di questa relazione perché esse rispecchiano le posizioni assunte da chi - come me - si è poi trovato a gestire la redazione del Codice della Proprietà Industriale ed in particolare della norma dell'art. 125 C.P.I.. Conflitto attributivo e vantaggio competitivo sono dunque i concetti che hanno ispirato la redazione dell'art. 125 C.P.I. (v. FLORIDIA, Proprietà intellettuale, illecito concorrenziale e risarcimento, relazione tenuta al Convegno SISPI il 21 marzo 2003. Sempre volendo risalire alla matrice della norma dell'art. 125 C.P.I. non si può trascurare l'ispirazione concretamente tratta da una dottrina che "in tempi non sospetti" aveva dedicato una specifica riflessione al rapporto fra risarcimento ed arricchimento con riguardo alla proprietà industriale (v. CASTRONOVO, La violazione della proprietà intellettuale come lesione del potere di disposizione. Dal danno all'arricchimento, lezione tenuta alla Facoltà di Giurisprudenza dell'università di Palermo il 24 gennaio 2002, poi pubblicata in Il Diritto Industriale, n. 1/2003, pagg. 7 ss.). Questa dottrina ha avuto un'influenza determinante nella stesura dell'art. 125 C.P.I. per ragioni inerenti alla sua collocazione cronologica perché, se è vero che dopo la comparsa dell'art. 125 C.P.I. i contributi relativi ai rapporti fra risarcimento ed arricchimento nella proprietà industriale si sono moltiplicati, è vero pure che spetta al contributo di CASTRONOVO il merito dell'apertura di una pista interpretativa che postulava il superamento del "tabu" secondo il quale la tutela della proprietà industriale non poteva estendersi oltre la funzione compensativa del risarcimento del danno. CASTRONOVO, dunque per primo, ha offerto alla Commissione Ministeriale incaricata della redazione del Codice una riflessione alla quale la Commissione non poteva essere insensibile perché, essendo stata chiamata a "riassettare" la disciplina della proprietà industriale non avrebbe potuto non porsi il problema dell'insufficienza della tutela risarcitoria, lamentata con insistenza soprattutto dagli operatori stranieri. Ed invero, stando alla disciplina codificata, non si dubitava che sostanzialmente l'unica prospettiva praticabile fosse quella risarcitoria ma neppure era dubitabile che "facendo riferimento alla dinamica concreta del conflitto non sempre la responsabilità civile appare risposta soddisfacente: perché quello

8 che va regolato non è sempre e soltanto questione di danni" (v. CASTRONOVO, op. loc. cit.). Interpretando il principio di sussidiarietà non come alternativa in astratto fra azione di risarcimento ed azione di arricchimento sembrò a CASTRONOVO che fosse configurabile il "cumulo tra responsabilità ed arricchimento, ciascuno per l'oggetto che propriamente lo riguarda: il danno per l'una e l'incremento patrimoniale per l'altro". Il raccordo de iure condito fra il diritto "primo" ed il diritto "secondo" condusse giustamente al risultato di assegnare alla responsabilità il risarcimento del danno ingiusto ed all'azione di arricchimento di provvedere a regolare l'incremento patrimoniale conseguito dall'agente: incremento la cui restituzione postula che sia "senza causa" e cioè che non sia ascrivibile all'opera autonomamente svolta dal contraffattore e che si configuri come effetto puro e semplice dell'appartenenza del diritto. Orbene, questa teorizzazione fu recepita dalla Commissione Ministeriale che si propose di attuarla normativamente con la facilitazione che si ha quando si opera de iure condendo. 4.- Le revisioni del testo dell'art. 125 C.P.I.. All'indomani dell'emanazione del Codice è sembrato utile fornire agli interpreti del "riassetto" le chiavi di lettura delle innovazioni normative più importanti (v. FLORIDIA, Il riassetto della proprietà industriale, Milano, Giuffrè, 2006). Questa iniziativa editoriale si è rivelata particolarmente efficace proprio in relazione all'art. 125 C.P.I. che non si è limitato a riprendere le anteriori norme poste nelle leggi speciali a disciplina del risarcimento del danno ma ha integrato tale disciplina facendo espresso riferimento all'azione di arricchimento senza causa. Nella prima stesura la norma era così formulata: "1. Il risarcimento dovuto al danneggiato è liquidato secondo le disposizioni degli artt. 1223, 1226 e 1227 c.c.. Il lucro cessante è valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze. 2. Il titolare del diritto di proprietà industriale può altresì chiedere che gli vengano attribuiti gli utili realizzati in violazione del diritto". Questa formulazione è stata "pensata" in funzione della distinzione dogmaticamente ineccepibile ed operativamente intuitiva, alla quale si è accennato, fra

9 l'azione di risarcimento del danno e l'azione di arricchimento senza causa. Le due azioni per lo più non si ritengono oggi cumulabili perché vengono considerate alternative in ragione della sussidiarietà della seconda rispetto alla prima, interpretata però nel senso che non possa farsi luogo all'azione di arricchimento senza causa quando la fattispecie è astrattamente suscettibile di beneficiare del rimedio risarcitorio. Sulla base di questo principio - applicato meccanicamente - si tendeva a ritenere che non si potesse ricorrere all'azione di arricchimento senza causa neppure quando il rimedio risarcitorio si fosse dimostrato inadatto a soddisfare le ragioni del titolare del diritto leso. Nella relazione al Codice, a commento della norma testé riferita, si faceva l'esempio del titolare del brevetto farmaceutico in titolarità di una piccola impresa produttiva e commerciale che fosse stato contraffatto da una grande impresa multinazionale, per sottolineare che, in tal caso, rimanendo strettamente aderenti al criterio del lucro cessante, ben difficilmente l'impresa "piccola" avrebbe potuto ottenere un adeguato soddisfacimento dell'interesse connesso alla violazione del suo diritto. Sulla base di queste premesse, nella formulazione originaria la norma dell'art. 125 distingueva nettamente la domanda di risarcimento del danno collocata al primo comma con l'aggiunta che "il lucro cessante è valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze" e la domanda di arricchimento senza causa collocata nel secondo comma con una formulazione che, da un lato, faceva riferimento alla c.d. reversione degli utili realizzati in violazione del diritto e, dall'altro lato, comportava il superamento del divieto di cumulo e del principio di sussidiarietà disponendo che il titolare del diritto leso "può altresì chiedere che gli vengano attribuiti gli utili". Nel passaggio al Consiglio dei Ministri dello schema di Decreto Legislativo la formulazione della norma fu modificata con la seguente: "Il risarcimento dovuto al danneggiato è liquidato secondo le disposizioni degli artt. 1223, 1226 e 1227 del Codice civile. Il lucro cessante è valutato dal giudice anche tenendo conto degli utili realizzati in violazione del diritto e dei compensi che l'autore della violazione avrebbe dovuto pagare qualora avesse ottenuto licenza dal titolare del diritto". Gli utili realizzati in violazione del diritto che erano oggetto di restituzione sono divenuti indice puro e semplice della determinazione del lucro cessante. La norma scaturita dal concerto interministeriale e poi licenziata sulla

10 Gazzetta Ufficiale con la rubrica "Risarcimento del danno" era del seguente testuale tenore. "1. Il risarcimento dovuto al danneggiato è liquidato secondo le disposizioni degli artt. 1223, 1226 e 1227 del Codice civile. Il lucro cessante è valutato dal giudice anche tenendo conto degli utili realizzati in violazione del diritto e dei compensi che l'autore della violazione avrebbe dovuto pagare qualora avesse ottenuto licenza dal titolare del diritto. 2. La sentenza che provvede sul risarcimento dei danni può farne, ad istanza di parte, la liquidazione in una somma globale stabilita in base agli atti della causa e alle presunzioni che ne derivano". Questa versione non è piaciuta alla Commissione Ministeriale tant'è vero che l'estensore della relazione finale commentò la prima parte della norma sottolineando che essa rispecchiava l'opinione pacifica della dottrina e della consolidata giurisprudenza secondo la quale la sanzione del risarcimento del danno, nell'ambito della tutela dei diritti di proprietà industriale, segue le stesse regole della responsabilità extracontrattuale ma per soggiungere subito appresso che: "Nella seconda parte della norma (la Commissione) aveva ritenuto di colmare una vistosa lacuna segnalata dalla dottrina e dalla giurisprudenza disponendo esplicitamente che il titolare del diritto di proprietà industriale può altresì chiedere che gli vengano attribuiti gli utili realizzati dal contraffattore. La reversione degli utili così disposta peraltro sarebbe stata riconducibile nell'ambito delle norme civilistiche sull'arricchimento senza causa e non in quello delle norme sul risarcimento del danno come sanzione della responsabilità extracontrattuale". La Commissione si rammaricò che nella fase del concerto, la seconda parte dell'art. 125 del Codice fosse stata sostituita con la seguente: "Il lucro cessante è valutato dal giudice anche tenuto conto degli utili realizzati in violazione del diritto". Ciò che non si era potuto realizzare emanando il Codice della Proprietà Industriale si è potuto realizzare un anno dopo quando con il D.Lgs. 16 marzo 2006, n. 140, è stata data attuazione alla Direttiva c.d. "Enforcement" 2004/48/CE sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale. E' stato in questa occasione che la Commissione incardinata nel Ministero delle Politiche Comunitarie (e non in quello dello Sviluppo Economico) - opportunamente sensibilizzata da chi aveva fatto parte dell'altra Commissione - volle ritornare alla stesura iniziale allo scopo espressamente dichiarato

11 nella relazione di fare in modo che la norma considerasse "le misure del risarcimento del danno e della reversione degli utili come operativamente e concettualmente distinte essendo peraltro riconducibili rispettivamente al profilo della reintegrazione del patrimonio leso ed a quello - ben diverso - dell'arricchimento senza causa" e con la precisazione che "il nuovo testo dell'art. 125 costituisce attuazione dell'art. 13 della Direttiva la quale dà rilevanza ad entrambi i profili". L'accidentato percorso - dunque - ha fatto sì che, sotto il profilo del rapporto fra risarcimento ed arricchimento, la stesura finale della norma coincidesse con quella iniziale e, arricchita dalla necessità di rispecchiare l'articolazione delle misure imposte dalla Direttiva Enforcement, oggi, sotto la rubrica "Risarcimento del danno e restituzione dei profitti dell'autore della violazione" dispone espressamente: "1. Il risarcimento dovuto al danneggiato è liquidato secondo le disposizioni degli artt. 1223, 1226 e 1227 del Codice civile, tenuto conto di tutti gli aspetti pertinenti, quali le conseguenze economiche negative, compreso il mancato guadagno, del titolare del diritto leso, i benefici realizzati dall'autore della violazione e, nei casi appropriati, elementi diversi da quelli economici, come il danno morale arrecato al titolare del diritto dalla violazione. 2. La sentenza che provvede sul risarcimento dei danni può farne la liquidazione in una somma globale stabilita in base agli atti della causa e alle presunzioni che ne derivano. In questo caso il lucro cessante è comunque determinato in un importo non inferiore a quello dei canoni che l'autore della violazione avrebbe dovuto pagare, qualora avesse ottenuto una licenza dal titolare del diritto leso. 3. In ogni caso il titolare del diritto leso può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall'autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento". 5.- Le indicazioni interpretative dei lavori preparatori. Stando a ciò che è avvenuto nel passaggio fra la stesura scaturita dal concerto interministeriale e quella scaturita dall'attuazione della Direttiva Enforcement, non c'è dubbio che è stata accantonata la soluzione polarizzata unicamente sulla tutela compensativa. A tanto conduce la lettura coordinata del primo e del terzo comma della norma, tenendo conto che "i benefici realizzati dall'autore della violazione" menzionati nel primo comma come elemento di cui tenere conto ai fini della quantificazione del

12 danno risarcibile, sono cosa ben diversa rispetto agli "utili realizzati dall'autore della violazione" dei quali è espressamente detto che "il titolare del diritto leso può chiedere la restituzione". Allo stesso risultato conduce la rubrica della norma che contrappone il risarcimento del danno alla restituzione dei profitti. Confermare la funzione risarcitoria della restituzione degli utili è una contraddizione in termini perché - come si è detto - vi sono casi in cui agli utili dell'autore della violazione non corrisponde il mancato guadagno del titolare del diritto, e perciò una correlazione quantitativa risulta fenomenologicamente impraticabile. Non c'è dubbio che - come è stato detto (PARDOLESI) - "mentre gli strumenti rimediali nostrani sono tradizionalmente finalizzati a rimuovere il pregiudizio che si è verificato nel patrimonio del titolare del diritto protetto, la retroversione dei profitti è diretta a rimuovere l'arricchimento illecito che si è realizzato nel patrimonio dell'infringer". Cercare di ricondurre ad unità i due profili non pare logicamente plausibile. Nel considerare il rapporto fra danno oggetto di risarcimento ed arricchimento come oggetto di restituzione, allo scopo di mantenere la demarcazione fra le due azioni, occorre sottolineare che si rimane nella logica restitutoria della seconda anche nel caso in cui - come si è detto - non vi è una correlazione materialmente intesa fra il mancato guadagno del titolare del diritto ed il profitto del responsabile della violazione. Anche quando il titolare del diritto non abbia conseguito i profitti realizzati dall'autore della violazione ed anche quando neppure sia in grado di conseguirli, resta il fatto che i profitti formano oggetto di restituzione perché non rilevano in quanto tali, ma in quanto siano "concretizzazione" del vantaggio competitivo che è risorsa appartenente al titolare del diritto. Con l'azione di restituzione dei profitti giunge a compimento la tutela reale della proprietà industriale perché la restituzione non è preordinata direttamente soltanto a produrre un effetto deterrente bensì a garantire al titolare del diritto leso il pacifico godimento del vantaggio competitivo che gli deriva dal diritto esclusivo. I profitti devono essere restituiti ma non certo necessariamente nell'entità

13 che risulta dai registri dell'autore della violazione perché il risultato contabile può porsi in correlazione non soltanto con il vantaggio competitivo derivante dal diritto esclusivo violato bensì anche con molti o pochi altri fattori che non hanno nulla a che vedere con il vantaggio competitivo suddetto. Per esemplificare, è evidente che la contraffazione di un brevetto che abbia per oggetto un farmaco unico ed insostituibile ai fini della terapia, dà luogo a profitti interamente restituibili proprio perché sono tutti espressione del vantaggio competitivo indebitamente sfruttato dal contraffattore. Tutt'altra la situazione che si verifica quando la violazione abbia per oggetto il diritto di marchio e non sia costituita dall'abusiva apposizione del marchio sugli stessi prodotti commercializzati dal titolare bensì dall'utilizzazione del marchio stesso su prodotti affini; oppure quando il marchio contraffatto goda di rinomanza e sia abusivamente utilizzato in un'operazione di merchandising, di guisa che non via sia neppure una relazione di affinità fra i prodotti contraddistinti dal contraffattore e quelli del titolare. Se in questa situazione il contraffattore dovesse restituire tutti gli utili sarebbe certamente legittima la preoccupazione di chi (VANZETTI) paventa una sproporzione inaccettabile fra ciò che il contraffattore guadagna legittimamente e può conseguentemente trattenere e ciò che invece sarebbe costretto a restituire. Il successo di una complessa operazione di merchandising è solo in parte imputabile alla rinomanza del marchio perché sono molte le operazioni che influiscono su tale successo e non certo tutte riconducibili allo sfruttamento della rinomanza. Si tratta allora - ovviamente - di accertare il nesso di causalità che intercorre fra il fatturato (e conseguentemente l'utile) di chi abbia condotto abusivamente l'operazione di merchandising ed il vantaggio competitivo derivante dalla rinomanza del marchio. Concettualmente, l'accertamento del nesso di causalità fra arricchimento e sfruttamento abusivo della risorsa immateriale non è diverso da quello che è pur sempre necessario accertare e che intercorre fra mancato guadagno e sfruttamento abusivo della stessa risorsa perché, in entrambi i casi, si tratta pur sempre di stabilire come la violazione del diritto si riflette negativamente sul patrimonio del danneggiato oppure positivamente sul patrimonio del danneggiante. 6.- L'elemento psicologico. Fra l'azione di risarcimento e l'azione di arricchimento esperibili in

14 funzione della violazione di un diritto di proprietà industriale intercorre - apparentemente - un'importante differenza sotto il profilo dell'elemento psicologico. Il risarcimento del danno postula che il danneggiante sia quanto meno in colpa mentre la restituzione è dovuta sulla base oggettiva della violazione del diritto. Ma questa differenza è stata sostanzialmente annullata dall'orientamento che, parificando la colpa all'ignoranza colpevole di ledere l'altrui diritto di proprietà industriale, giunge alla conclusione che l'ignoranza è sempre colpevole perché è ingiustificata a fronte del sistema di pubblicità legale che concerne la brevettazione e la registrazione dei diritti di proprietà industriale. Ove la finzione secondo la quale l'ignoranza di ledere l'altrui diritto di proprietà industriale sia sempre colpevole venisse meno, dando luogo ad un accertamento della colpevolezza non ricondotto in astratto alla rilevanza del sistema legale di pubblicità dei titoli di proprietà industriale, allora l'azione di arricchimento acquisterebbe un ruolo particolarmente significativo perché consentirebbe al titolare del diritto di recuperare gli utili anche da parte di chi non fosse stato consapevole di commettere un illecito. Nella norma dell'art. 125 C.P.I. alcun elemento psicologico è previsto ai fini della retroversione degli utili e perciò questa è dovuta anche nel caso in cui lo sfruttamento dell'altrui risorsa immateriale sia avvenuto incolpevolmente. Si tratta allora di stabilire se questa soluzione sia compatibile con l'art. 13 della direttiva Enforcement (Direttiva n. 48/04/CE del 29 aprile 2004) il quale distingue fra violazione colpevole ed incolpevole del diritto di proprietà industriale: per quanto concerne la prima il n. 1 dell'art. 13 della direttiva legittima il risarcimento dei danni nella misura adeguata al ristoro del pregiudizio effettivo risentito a causa della violazione. Per quanto concerne invece la seconda - e cioè la violazione incolpevole - il n. 2 dell'art. 13 prevede che l'autorità Giudiziaria disponga il recupero dei profitti. Queste disposizioni sono perfettamente rispecchiate rispettivamente nel primo e nel terzo comma dell'art. 125 C.P.I. se è vero che nel primo comma i benefici realizzati per effetto di una violazione colpevole del diritto sono considerati allo scopo di determinare il danno effettivo, mentre nel terzo i profitti realizzati per effetto di una violazione incolpevole sono suscettibili di reversione. Fatta salva la conformità della norma nazionale alla norma comunitaria resta da chiedersi se questa non sia illogica nel momento in cui sanziona con la reversione un comportamento incolpevole rispetto ad uno colpevole. Sennonché la illogicità è

15 subordinata alla configurazione della retroversione come misura più grave rispetto a quella del risarcimento. Questa differente valutazione della gravità dell'una rispetto all'altra misura non è però giustificata perché - a ben vedere - la colpevole lesione dell'altrui diritto di proprietà industriale espone l'autore dell'illecito ad un obbligo di risarcimento la cui entità può essere anche di molto superiore agli utili che Egli abbia conseguito quanto meno perché comprensiva del danno emergente e comunque non limitata a tali utili che, in quanto tali, non possono eccedere la misura del proprio arricchimento senza causa. Calcolare il lucro cessante significa basare il risarcimento su di un giudizio ipotetico relativo all'entità delle vendite che il titolare del diritto non ha potuto effettuare o non ha potuto effettuare con i margini di profitto che sarebbero stati legittimamente attesi senza la violazione, mentre calcolare gli utili da restituire è operazione saldamente ancorata alla realtà storica ed alla capacità di gestione della propria azienda da parte dell'autore della violazione. Proprio in considerazione della finalità puramente restitutoria della reversione degli utili può ben accadere che non vi sia da restituire alcunché se utili non sono stati prodotti, mentre non può accadere che non vi sia danno risarcibile derivante dalla violazione colpevole del diritto. In altri termini le misure del risarcimento e della retroversione sono diverse perché la prima espone ad un rischio sicuramente superiore rispetto alla seconda, della quale si può dire che non incide negativamente sul patrimonio dell'autore della violazione nel senso del depauperamento ma unicamente nel senso del mancato arricchimento.

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