Intervista ad Andrea Fagiolini



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Transcript:

Intervista ad Andrea Fagiolini MARIO ROSSI MONTI Il primo tema che volevo proporti è questo: non c è dubbio che per buona parte del 900 i contributi della psicoanalisi abbiano avuto grande influenza sulla psichiatria comunitaria o dei Servizi. Questo è stato particolarmente evidente nella psichiatria statunitense ma anche in Italia, dove la cultura psicoanalitica ha permeato larga parte dei Servizi di psichiatria. Come valuteresti oggi, con uno sguardo retrospettivo, quella fase di grande fortuna e diffusione (e anche di grande speranza) nell applicazione di una psicoanalisi «senza divano» alla psichiatria? Dunque, forse conviene che spieghi un po qual è il mio percorso, cioè da che pulpito viene la predica. Io ho fatto la scuola di specializzazione in psichiatria all Università di Modena che era sufficientemente aperta come scuola a un approccio come quello della psicoanalisi. Non abbiamo avuto veramente una formazione psicoanalitica ma avevamo uno psicoanalista che, quanto meno, ci informava su cos era la psicoanalisi, che cosa aveva fatto e che cosa poteva fare. Purtroppo oggi molti psichiatri hanno idee un po distorte o non hanno idea di che cosa sia la psicoanalisi, non tanto per scelta personale quanto perché, a seconda della scuola dove ricevono la formazione, possono ricevere o meno informazioni adeguate. Fondamentalmente, quello che voglio sottolineare è di aver avuto la fortuna di ricevere un imprinting accettabile. Vedo al contrario spesso persone con una buona preparazione in psichiatria che hanno però una preparazione assente, o talvolta distorta su cosa sia la psicoanalisi, in cosa può essere utile, come funziona, come può essere applicata ai Servizi o comunque alla psichiatria in generale e su quale tipo di collaborazione si può sviluppare tra psichiatria e psicoanalisi. Quindi, in altre parole, quando andiamo a vedere la possibilità della psicoanalisi di stabilire legami più o meno forti con i Servizi bisogna tenere presente sì la struttura dei Servizi di per sé ma anche le persone che lavorano dentro i Servizi. Perché a seconda di quanto chi gestisce i Servizi è disponibile a conoscere la psicoanalisi, il risultato può essere positivo o negativo, indipendentemente dalla tecnica. In questo riavvicinamento che auspico (e dopo vedremo i motivi per cui lo auspico) dovremmo secondo me realizzare un passaggio culturale, senza dare per scontato che chi accetta spassionatamente o più spesso chi non accetta, o comunque taglia corto sul contributo della psicoanalisi, abbia avuto informazioni corrette. Tornando al mio background, dopo quel periodo a Modena, dove sono stato preparato abbastanza bene, dal punto di vista quantomeno dell accettazione, della curiosità e della valutazione critica, ho passato la maggior parte della mia carriera nel cuore della psichiatria biologica. Sono stato negli Stati Uniti per circa 10 anni, a Pittsburgh, uno dei centri più caratterizzati dal punto di vista della psichiatria neuro-biologica, dove, però devo dire non c era proprio alcuna ostilità o pregiudizio verso la psicoanalisi ma anzi semmai, almeno negli anni in cui ci sono stato io, molta curiosità 1

Che anni erano? Sono stato a Pittsburgh dal 1996 al 2008. Un periodo in cui le nuove psicoterapie ricevevano un contributo essenziale da parte degli psicoanalisti. Per esempio, uno dei responsabili della clinica dove ero io, faceva molta psicoterapia interpersonale breve ed era uno psicoanalista. Lui stesso aveva contribuito allo sviluppo di questa psicoterapia, utilizzando tutta una serie di competenze psicoanalitiche. Il mio caso può essere l esempio di molti altri colleghi con una buona predisposizione o comunque una curiosità e un apertura verso la psicanalisi. Un atteggiamento che a volte ho riscontrato anche in altri colleghi magari ancora più impegnati di me in campi strettamente «biologici», come per esempio molti genetisti che passano la vita in laboratorio. Resto comunque dell idea che l incontro non può prescindere dalla disposizione delle persone che devono incontrarsi. A conclusione di questa lunga premessa, ribadisco l opinione che, se si deve valutare se e come funziona o meno la psicoanalisi nel campo dei Servizi, bisognerà tenere presente che, al di là del valore delle teorie, esiste un importante variabile che funge da moderatore o mediatore in questa «relazione» e che va oltre i contenuti. Mi riferisco naturalmente alla disposizione delle singole persone che devono realizzare questo incontro. Per tornare alla domanda Sì, che riguardava l epoca del grande successo della psicoanalisi nel campo della psichiatria.. Sì, secondo me questo successo, e questa è un opinione mia personale e non un opinione scientifica, è derivato dal fatto che le basi, i pilastri della psicoanalisi sono estremamente solidi. È vero che ci può essere una tendenza, una moda favorevole o sfavorevole ma resta il fatto che i pilastri sono molto solidi. Il motivo però per cui si è realizzato un relativo abbandono della psicoanalisi è probabilmente dovuto al fatto che la psicoanalisi, almeno per come ho potuto vedere le cose io, non si è sposata con i nuovi campi della psichiatria. Ad esempio, si è a lungo tenuta lontano dalla quasi in contrapposizione con la psicofarmacologia, facendo sì che la farmacologia si accoppiasse con tutto un altro tipo di psichiatria che non era necessariamente più affine alla farmacologia. La psichiatria attuale e moderna che si basa su sintomi, diagnosi, clinical trials, non ha un affinità così grande con la psicofarmacologia. Se noi dovessimo fare, per esempio, le nostre classificazioni diagnostiche sulla base della risposta ai farmaci salterebbe tutto il sistema diagnostico. Si sono fatte guerre per distinguere il disturbo bipolare dalla schizofrenia, per distinguere i disturbi dell umore dai disturbi di ansia etc. ma poi abbiamo farmaci, come gli SSRI, che funzionano per i disturbi di panico, per il disturbo d ansia generalizzato, per la depressione unipolare, per la depressione bipolare, per il disturbo ossessivo-compulsivo, e chi più ne ha più ne metta. Così come gli antipsicotici funzionano per la schizofrenia come per il disturbo bipolare e ora li stiamo utilizzando anche per la depressione e a volte per l anoressia. Quindi, in realtà, la psicofarmacologia e la psichiatria biologica classica basata sulle classificazioni (DSM o ICD) vanno avanti insieme ma non sono la stessa cosa e hanno dei punti nei quali non collimano bene. Chissà cosa sarebbe successo se la psicanalisi si fosse sposata o almeno accompagnata con la psicofarmacologia. E la stessa domanda potremmo farcela per tutti gli altri campi della psichiatria neurobiologica, perché, ad esempio, uno dei motivi per cui in genetica e in neuroimaging non riescono a produrre grossi risultati, nonostante studi mastodontici, è che ancora non è stata sviluppata dalla psichiatria la capacità di identificare fenotipi specifici, fare delle diagnosi per 2

gruppi di pazienti omogenei. In assenza di questo vanno a cercare il gene per la depressione in pazienti raggruppati secondo i criteri diagnostici attuali che sono così eterogenei da rendere impossibile una risposta precisa e definitiva. Quando i farmaci hanno portato chiaramente dei vantaggi, almeno per alcune malattie e per alcuni livelli di intensità, nella seconda metà del 900, si è realizzato un distacco della psicoanalisi, che ha continuato ad avere basi solide, ma è entrata quasi in antagonismo con la psicofarmacologia. Questo ha fatto si che, di fatto, la psicoanalisi sia, non dico passata di moda, ma che comunque avesse molto meno vento nelle vele. Questa tua analisi è secondo me di grande interesse. Tu affermi che quando si è sviluppata la rivoluzione psicofarmacologica è mancata la possibilità di stabilire un link, di trovare un punto di incontro tra psicoanalisi e psicofarmacologia. In assenza di questo gli psicofarmacologi hanno imboccato un altra strada e hanno fatto un matrimonio di altro tipo con il mondo della psichiatria neurobiologica. Questo ci porta alla seconda domanda: questo divorzio della psicoanalisi dalla psichiatria incentrato sull opposizione alla psicofarmacologia è tuttavia paradossale poiché oggi, come mostra l inchiesta condotta dall Eurisko per incarico della SPI sugli psicoanalisti italiani, il 50% degli analisti ha almeno un paziente in analisi con un esperienza di ricovero psichiatrico e l 86% degli analisti segue pazienti che assumono contemporaneamente psicofarmaci. I pazienti psicoanalitici sono cambiati e ogni psicoanalista si confronta oggi con questi cambiamenti. Ma è come se vi fosse stata una sorta di cecità del mondo psicoanalitico all inizio che non ha permesso di vedere anche nel farmaco un possibile luogo di incontro. Mi trovi perfettamente d accordo. E dall altro canto c è comunque la cecità degli psichiatri che hanno buttato via una miniera. C erano questi tre campi: quello della farmacologia, quello della psichiatria categoriale diagnostica, diciamo moderna, e quello della psicoanalisi. La psichiatria si è presa la parte della farmacologia e ha perso la psicanalisi, la psicoanalisi non ha accolto il contributo psicofarmacologico e si è staccata dalla psichiatria. La psichiatria classica prevalentemente usa farmaci, oppure ultimamente tecniche di psicoterapia breve, mentre la psicoanalisi usa la propria tecnica. Da una parte si sono sviluppate competenze farmacologiche, non sempre diffuse e precise come pensiamo, dall altra parte però c è stata la difficoltà di capire come questa parte farmacologica si potesse integrare con la tecnica che era già a disposizione. Secondo me c è stata un po la tendenza a vedere approccio psicofarmacologico e psicoanalisi come alternativi, come interventi in competizione. In una certa epoca è stato teorizzato che la riduzione del sintomo e della sofferenza ad esso legata comportasse una riduzione della motivazione alla conoscenza di sé mediante la psicoanalisi, poi le cose sono cambiate. Ecco, secondo me, un aspetto che non è ancora forse stato sufficientemente sviluppato bene è vedere quali sono i pazienti che beneficiano di un intervento psicoanalitico da solo, quali sono (e in quali fasi) quelli che beneficiano di un intervento farmacologico da solo e ancora quali sono quelli che beneficiano di entrambi. Senza necessariamente ricorrere alle categorie diagnostiche attualmente usate, o magari utilizzando anche quelle, ma come uno dei tanti strumenti a disposizione. Forse molte persone si sono sentite quasi costrette a prendere una posizione oppure l altra: come dire, sì, si fa sempre un trattamento combinato; oppure si privilegia sempre il 3

trattamento psicofarmacologico, oppure viceversa quello psicoanalitico. Secondo me comunque, le persone che avevano comunque una formazione psicoanalitica, o comunque buone conoscenze di psicoanalisi, anche quando sono passate dall altra parte si sono rivelate eccellenti psichiatri, perché comunque le tecniche con cui mettersi in rapporto con il paziente, per essere disponibili a coglierne i vissuti, in quel paziente o in un altro, sono estremamente superiori rispetto a chi ha fatto una formazione più semplice o a volte semplicistica. Per venire alla situazione attuale nel febbraio del 2012 il British Medical Journal ha pubblicato una rubrica intitolata «Testa a testa». Quattro colleghi discutono intorno al tema «la psicoanalisi occupa un posto di un qualche rilievo nei moderni Servizi di salute mentale?». Vengono esposte «le ragioni del No» e le «ragioni del Sì». Riassumo le «ragioni del no». La psicoanalisi - sostengono Salkovskis e Wolpert - non ha nessun posto nei Servizi, anzi, è controproducente e produce effetti perversi in questo contesto per vari motivi. In primo luogo la psicoanalisi ha ormai solo un valore storico, è un appendice metaforica. In secondo luogo la psicoanalisi è una pseudoscienza che rifiuta ogni diagnosi, vede di mal occhio qualsiasi terapia farmacologica e non si occupa di trattamenti centrati sul sintomo. Quest ultimo punto ha, secondo gli autori, un valore etico poiché i Servizi hanno il compito di intervenire primariamente sul sintomo, sullo stress e la disabilità riducendo la sofferenza delle persone. Dopo ci si può occupare di tutto il resto, ma non si può trascurare il sintomo. Attingendo alla tua diretta esperienza di psichiatra-psicoanalista che lavora in un Servizio, cosa pensi di questa valutazione? Ecco, secondo me, il mandato dei Servizi è di far stare i pazienti meglio e se possibile farli stare bene. Può sembrare una banalità però, secondo me, lo sbaglio principale che è stato fatto in passato è quello di generalizzare. In questa prospettiva dire psicoanalisi nei Servizi voleva dire psicoanalisi a disposizione di qualunque paziente afferisse al Servizio, in qualunque fase della vita o della sua malattia. In realtà il discorso, secondo me, deve essere fatto in maniera più precisa. Ci sono alcuni pazienti, e secondo me sono tanti, che possono avere un beneficio enorme dalla psicoanalisi, in aggiunta ad un management come quello garantito dai Servizi di oggi; ce ne sono altri che non hanno questo beneficio o qualcuno che in certe fasi può anche peggiorare. Quindi il problema non è psicoanalisi-sì o psicoanalisi-no nei Servizi ma psicoanalisi per quali pazienti o per quali soluzioni e in quali momenti. Di solito le persone che assumono posizioni così rigide, da una parte o dall altra, sono persone che non hanno mai provato cosa ciò significa nella pratica. La mia apertura verso questo tipo di approccio non deriva tanto dalle conoscenze dell uno o dell altro approccio ma da quello che vedo con i miei pazienti. Con l esperienza, forse anche sbagliando, quando ho ritenuto adatto un certo tipo di intervento ho invitato i pazienti a fare un buon intervento psicoanalitico e li ho visti migliorare anche in modo estremo. A volte m immagino la malattia, così come concettualizzata dai moderni sistemi di classificazione, come se fosse una pianta. Con i farmaci e con gli interventi classici si taglia la pianta ma non le radici o tutte le erbacce intorno. In alcuni casi è indispensabile tagliarla e tagliarla rapidamente. Questo però non è che risolva la situazione perché sotto c è una radice che forse è più grande della pianta. Un intervento psicoanalitico al momento giusto riesce, non solo a buttare un po d acqua sul fuoco, ma anche a cercare le cause della malattia o comunque i fattori che ad essa contribuiscono. Anche quelle malattie che, nel 99% dei casi, dovessero aver bisogno di un intervento biologico hanno sempre intorno tutta una serie di situazioni, a volte prodotte dalla malattia o a volte che producono la malattia, che possono 4

beneficiare di un intervento psicoanalitico. Quindi il numero di pazienti che non possono beneficiare di un intervento psicoanalitico è ridotto. Certo, bisogna vedere quanti lo possono ricevere da solo, quanti lo possono ricevere insieme ad altri tipi di interventi e quanti invece, se non altro per evitare dei costi eccessivi, possono ricevere solo un altro tipo di intervento. Bisognerebbe fare un lavoro un po più preciso proprio per identificare delle variabili che ci consentano di capire chi può beneficiare di un trattamento combinato. Viste le risorse limitate, bisognerà anche trovare un modo di quantificare questo potenziale beneficio, in modo da indirizzare le poche risorse disponibili verso coloro che più ne hanno bisogno. E poi studiare il miglior modo di fare il trattamento combinato, perché anche quella è una scelta complessa. Perché a volte avere la stessa persona che si occupa sia di un trattamento psicoanalitico sia di un trattamento farmacologico, evita rischi di splitting oppure di malintesi e consente una visione più completa. A volte però ci può essere un interferenza con tutta un altra serie di elementi, che sarebbero meglio affrontati se lo psicanalista non assumesse anche il ruolo di farmacologo. Certo, ci sono anche casi in cui il trattamento fornito da due parti diverse, soprattutto quando queste non siano in sinergia, può creare altrettanti problemi. La cosa fondamentale, quindi, oltre a identificare le persone che beneficiano di entrambi gli interventi, è anche stabilire se sia meglio per il singolo paziente avere due terapeuti o averne uno solo e naturalmente la sinergia tra i terapeuti è una delle variabili principali da considerare. Ricordo che negli Stati Uniti i pazienti non ricevevano psicoanalisi ma alcune psicoterapie che derivavano dalla psicoanalisi e la cosa funzionava bene. Al termine della seduta, negli ultimi 5-10 minuti, arrivavo io che mi occupavo di farmacologia. Parlavo con il paziente in presenza del terapeuta. Il terapeuta faceva qualche commento. Non c erano rischi di splitting o malintesi. Così era possibile anche condividere il carico di certi pazienti pesanti. Due persone che in una fase lo vedono insieme condividono una responsabilità. Anche i costi non erano così alti perché, insomma, si alleggeriva il lavoro del farmacologo, non si dava eccessivo valore ai farmaci ma contemporaneamente si garantiva questa possibilità di aiuto. Se volessimo promuovere una cosa del genere nei Servizi, dovremmo cercare anche di pensare qual è la struttura e l organizzazione adatta. Se invece si utilizzano entrambi gli approcci con un organizzazione che non funziona, si rischia di sprecare una buona possibilità. Prima hai parlato del matrimonio mancato tra ricerca farmacologica e psicopatologia psicoanalitica. Una parte importante degli psicoanalisti ha guardato, ad esempio, con disinteresse alla diagnosi quando non l ha considerata «una brutta parola». Come te lo saresti immaginato un contributo alla diagnosi da parte della psicoanalisi in psichiatria? Io penso che i farmaci possano essere utilizzati anche (per alcuni farmaci è anche meglio) senza una diagnosi. Possono essere utilizzati per la presenza di particolari caratteristiche e, a seconda di come si combina il mosaico, queste caratteristiche possono fare scegliere un farmaco invece di un altro. Per esempio, quando vedo un paziente e uso i farmaci, non seguo una sequenza per la quale faccio una diagnosi con il DSM e automaticamente scatta la prescrizione di un farmaco. Io guardo più alle caratteristiche globali. Se un paziente, ad esempio, è agitato, può essere il paziente più depresso del mondo, ma non penso certamente a dargli un antidepressivo perché, anche se la categoria diagnostica fosse «Episodio depressivo maggiore in disturbo depressivo maggiore» so per esperienza che se dessi un antidepressivo il paziente diventerebbe ancora più angosciato, ancora più 5

agitato. Se viceversa vedo un paziente che tende a dormire tutto il giorno e ha la stessa identica diagnosi, è più probabile che gli prescriva un antidepressivo. Lo stesso discorso vale anche nella scelta fra farmaci della stessa classe. Ad esempio, se ho un paziente con disturbo bipolare con caratteristiche che vanno più verso la depressione che verso la mania, preferisco usare litio piuttosto che valproato. Se prevale l ansia, preferisco utilizzare valproato. Con un paziente con mania euforica preferisco utilizzare Litio, con mania disforica invece preferisco utilizzare valproato queste sono scelte che derivano dall esperienza. Naturalmente è sempre bene restare nell ambito delle approvazioni ufficiali dei farmaci ma, nell ambito della scelta tra i vari composti approvati, ci sono quasi infinite possibilità. Hai parlato di una scelta farmacologica basata su «caratteristiche». Mi sembra importante capire meglio che cosa intendi per «caratteristiche». Io, inevitabilmente, uso questi strumenti a mia disposizione, caratterizzati dai sintomi che ho studiato. Non ho gli strumenti che avete voi come analisti. Per questo dico che lo psicoanalista ha più strumenti, perché voi potete vedere Delle costellazioni di esperienza? Esatto. Potete vedere come l uso di un farmaco si correli alla risposta, maggiore o minore, in base ad aspetti che potete valutare meglio di chi non ha la vostra preparazione. Di fatto, si tratta di cominciare ad utilizzare i farmaci, non rimanendo però bloccati su una diagnosi. Anch io preferisco associare considerazioni dimensionali alla valutazione categoriale, ma le dimensioni cui posso far riferimento io sono più povere di quelle offerte dalle conoscenze della psicoanalisi. Molto probabilmente è per questo che a me rincresce si sia verificato questo mancato incontro. Perché, secondo me, gli strumenti che avevate voi a disposizione, per trovare un mosaico che si incastrasse con la farmacologia, erano migliori degli strumenti offerti dalle diagnosi categoriali. Se gli psicoanalisti sono stati spesso diffidenti verso la diagnosi psichiatrica, gli psichiatri hanno sempre guardato con sospetto alle costruzioni della psicopatologia psicoanalitica. Freud scriveva che gli psichiatri, una volta che sono arrivati a formulare una diagnosi, si accontentano e si fermano proprio là dove noi ci aspetteremmo di saperne di più. Pensando alla formazione dei nostri giovani colleghi, tu pensi che questa rappresentazione dello psichiatra sia ancora esatta? Sì, in parte collima bene. Però, quello che vedo io è che lo psichiatra si accontenta della diagnosi perché non ha a disposizione niente di meglio. In altre parole, è meglio parlare di sintomi e diagnosi piuttosto che non avere altro o procedere nell anarchia delle decisioni e impressioni di ogni singolo psichiatra. Grazie alla diagnosi, grazie alla valutazione di come i sintomi si combinano, comunque un qualche intervento razionale, ripetibile e scientifico può essere messo in atto. Anche qui, però, secondo me il problema non è tanto: «diagnosi sì» o «diagnosi no». Avere fatto una diagnosi non necessariamente significa che non ne posso fare altre cinque o sei. Ad esempio il DSM-5 introdurrà profondi cambiamenti e, accanto a una diagnosi categoriale, permetterà tutta una serie di valutazioni dimensionali. E la mia speranza è che in futuro sempre più approcci, incluso quello psicoanalitico, contribuiscano a una migliore definizione di quello che noi vediamo e che il paziente sta vivendo. 6

Se nel mio Servizio vedo un paziente con un disturbo bipolare, con ultimo episodio depressivo severo, con sintomi psicotici, questa diagnosi non preclude la presenza di un altra valutazione, di un altra descrizione, non necessariamente alternativa. Con le nostre diagnosi abbiamo migliorato tante situazioni, ma non abbiamo risolto nessuna malattia. Non c è nessuna malattia che codificata con le nostre diagnosi, arrivi a un punto di completa e definitiva risoluzione, o comunque sono pochissime. Noi riusciamo a fare stare meglio i nostri pazienti ma farli star bene per sempre è difficile. Manca qualcosa. Manca alla clinica ma altresì alla ricerca per nuovi trattamenti. Il problema principale degli studi di genetica o neuroimaging, ad esempio, è che i gruppi studiati (costituiti sulla base dell attuale nosografia categoriale) sono troppo eterogenei, ovvero composti da pazienti che, pur condividendo una diagnosi secondo il DSM, sono estremamente diversi l uno dall altro. Conviene aprirsi per capire che, comunque sia, un approccio non esclude automaticamente l altro e probabilmente alla fine il prodotto che garantiamo è migliore. È un sistema che porta a un reciproco arricchimento. Venendo alle nuove forme della clinica, a quella che abbiamo chiamato la «psicopatologia del presente» (area borderline, disturbi alimentari, dipendenze) pensi che la psicoanalisi possa dare un contributo alla psichiatria dei Servizi? Sì assolutamente. Queste forse sono le categorie dove maggiormente la psichiatria biologica è andata incontro a un fallimento. Qui, più che mai, si interviene ogni tanto farmacologicamente ma si interviene come dei pompieri che buttano acqua su una centrale nucleare. Si riesce un po a calmare l incendio con gli strumenti di psicofarmacologia sul versante biologico ma non ad intaccare la struttura di questi disturbi che sono peraltro in aumento estremo, sia in termini di prevalenza, che in termini di gravità. Anche nell ambito dei Servizi, quando si parla, sempre più spesso, di livelli essenziali di assistenza si deve tenere conto che il paziente che ci mette in crisi oggi, non è il paziente con schizofrenia paranoide, per il quale comunque disponiamo di qualche sistema di trattamento, ma piuttosto questi altri pazienti e sono sempre di più, sempre più gravi, e a noi mancano strumenti validi per poterli curare. Soprattutto in numero così grande. Questo più che mai è un territorio dove dovremmo alzar bandiera bianca e chiedere aiuto. Quindi qui più che mai dovrebbe essere messa in atto una revisione del rapporto tra psicoanalisi e psichiatria. Senz altro sì. Per venire all ultima parte del nostro incontro, il tema finale che volevo proporti è questo: mi pare evidente che tu sostieni che la psicoanalisi una qualche funzione la può svolgere anzi la dovrebbe svolgere! All interno del mondo psicoanalitico, nel 2003, si è svolto un dibattito sulle pagine dell International Journal of Psycho-Analysis. In quel dibattito Michels sosteneva che se la psicoanalisi fornisce al lavoro psichiatrico un contributo terapeutico di sfondo allora però questo contributo non ha alcuna specificità per le patologie psichiatriche. Tu cosa pensi a proposito? Vedi il contributo che la psicoanalisi può dare come più centrato sulla «manutenzione» del gruppo curante e/o come intervento terapeutico specifico per il disturbo psicopatologico in atto? 7

Spero di non dire eresie o cose troppo semplicistiche ma, come opinione personale, io credo che gli psicoanalisti siano eccellenti psichiatri. Quindi, quando si parla di psichiatria e psicoanalisi che si incontrano io non credo che si parli di due discipline diverse per dirla tutta, se io fossi un paziente o se diventerò mai un paziente, mi piacerebbe farmi curare da uno psicoanalista che sappia anche utilizzare, quando necessario, strumenti di psicofarmacologia e allo stesso tempo tecniche che possano derivare dalla psicoanalisi, però che siano un po più rapide per i casi che non possono aspettare i tempi della psicanalisi classica. La psicoanalisi classica è di per sé estremamente utile. È pensabile di ricorrervi anche in casi selezionati nei pazienti dei Servizi ma la maggior parte dei nostri pazienti sono troppo gravi per pensare a un analisi classica. Certo, qualcuno di loro ne può beneficiare in modo chiaro o comunque sarebbe eccellente utilizzarla per far funzionare meglio il gruppo che poi eroga il Servizio. Però anche in questo caso non metterei dei compartimenti stagni. Un Servizio ideale, come me lo immagino, dispone di uno o più psicoanalisti che vengono messi nella condizione di fare lo psicoanalista. Ma anche quando uno psicoanalista non esercita la psicoanalisi in senso classico, resta un clinico che sa lavorare con i pazienti e che spesso sa capirli meglio di noi psichiatri che abbiamo avuto una formazione più superficiale in questo senso. Intanto i Servizi potrebbero beneficiare enormemente della cultura psicoanalitica, perché dietro alla psicoanalisi c è una grossa cultura, una capacità di ascoltare, una capacità di capire, di rispettare, di non credersi «Dio-in-terra», di saper aspettare e poter capire meglio senza grosse presunzioni e senza grosse superficialità. Quindi, la psicoanalisi può confidare anche sulle caratteristiche della persona che eroga la tecnica, che la mettono in grado, secondo me, di essere un eccellente psichiatra anche quando non utilizzi la psicoanalisi classica. Io vedrei benissimo un intervento psicoanalitico per pazienti selezionati a seconda delle risorse e a seconda dello status del paziente. Perché ci saranno pazienti che possono ricevere la psicoanalisi da sola e ci saranno pazienti che la ricevono insieme ai farmaci come pure ci saranno pazienti che ricevono prima un intervento farmacologico e poi uno psicoanalitico, o insieme Quindi sicuramente c è spazio. La presenza di uno psicoanalista in un Servizio può servire, poi, a favorire il funzionamento del gruppo curante. Non credo tuttavia che si debba andare verso una posizione in cui si dice: «la psicoanalisi non serve mai, anzi confonde le idee» oppure viceversa, «la psicoanalisi serve sempre». Resta il fatto che, in ogni caso, uno psicoanalista è quasi sempre un ottimo psichiatra e a imparare la farmacologia secondo me ci vuole poco. Non so se sia così vero, almeno in Italia, che «uno psicoanalista è quasi sempre un ottimo psichiatra». ma mi sembra molto importante questa sottolineatura del fatto che, almeno potenzialmente, uno psicoanalista è certamente un ottimo clinico Può darsi che io abbia avuto un bias di selezione perché gli psicoanalisti con cui ho avuto a che fare, sono psicoanalisti che comunque sono venuti nel campo biologico. Negli Stati Uniti? Sì, erano psicoanalisti che lavoravano con noi, che hanno accettato di venire a lavorare in «campo nemico» portando tutta la loro ricchezza però già questa accettazione significava comunque un apertura 8

Provo a riassumere. Tu dici che dentro un Servizio la funzione della psicoanalisi è di grande utilità e si può esplicare a vari livelli. Da una parte un attività di manutenzione e sviluppo di una cultura del gruppo (supervisioni, discussioni di gruppi ecc ), dall altra un intervento psicoanalitico nel senso tradizionale per una casistica molto, molto selezionata. Come vedi l applicazione di tecniche psicoterapeutiche derivate dalla psicoanalisi? Rispetto a questo aspetto la psicoanalisi ha tutti gli strumenti per sviluppare questo approccio. Quello che secondo me non è stato ancora studiato, almeno per quello che ne so io, è un intervento in fase acuta, con una psicoterapia rapida che non risolva la situazione che però attenui un po lo stato acuto, seguita magari dopo da un lavoro psicoanalitico più tradizionale. Finora sono state sviluppate molte psicoterapie brevi che hanno un importante base psicoanalitica. Quello che però sarebbe utile è studiare un trattamento sequenziale. Bisognerebbe secondo me studiare un sistema nel quale una psicoterapia breve apre poi la porta a un lavoro psicoanalitico più approfondito che lavori sulle radici dopo però la parte superiore della pianta è stata «tamponata». Questo potrebbe essere un altro campo da sviluppare. Trattamenti sequenziali con psicoterapie brevi in corso di stati acuti e in seguito un trattamento analitico classico. Mi pare che stiamo fantasticando intorno alla possibilità di un inserimento molto proficuo della cultura psicoanalitica e della psicoanalisi nei Servizi, là dove invece nella realtà osserviamo spesso quanto questo spazio sia mancante o invece occupato da tecniche psicoterapeutiche più pragmatiche che si presentano come più vicine al mondo della ricerca empirica e della ricerca biologica. Penso agli interventi orientati in senso cognitivo-comportamentale Anche in questo caso per me non c è competizione. Visto e considerato il fatto che la maggior parte dei nostri pazienti continua comunque a star male, ad avere nuovi episodi e che siamo ben lontani dal poter dire «abbiamo risolto tutto e per tutti» Quindi, la maggior parte dei pazienti che arrivano da noi, sia che ricevano un trattamento farmacologico, una psicoterapia cognitivocomportamentale o una psicoterapia familiare o altro ancora, prima o poi hanno delle ricadute. Non escono dalla malattia così come noi vorremmo. Anche guardando i trial clinici sulle psicoterapie si vede che una psicoterapia funziona bene nel 40-45% dei pazienti. L altro 55% può ricevere altre tecniche. Il problema non è fare la corsa dei cavalli per vedere chi vince, vedere qual è la psicoterapia migliore e o qual è l intervento migliore. Il problema è fornire il migliore intervento per pazienti con certe caratteristiche. È come quando in psicofarmacologia si fa la gara per vedere se è meglio una molecola o un altra. Poi si vede che una funziona nel 50% dei casi e l altra pure. Allora si dice che sono uguali. No, non lo sono per nulla. Perché i 5 su 10 che rispondono al primo farmaco non sono gli stessi 5 su 10 che rispondono al secondo. E magari in una specifica fase della terapia ci sono anche altre intersezioni. La terapia cognitivo-comportamentale è una terapia che ha portato dei benefici però anch essa è difficilmente risolutiva. Forse attraverso queste tecniche un paziente impara delle cose che si porta dietro, più di quanto non si porti dietro con un farmaco che se uno smette di prenderlo torna al punto di partenza. Lì invece qualcosa rimane, però non è che sia sempre completamente risolutiva. Quindi, per esempio, se ho un paziente con un grave disturbo ossessivo-compulsivo che risponde decentemente ad una terapia cognitivo-comportamentale possiamo immaginare di scegliere come trattamento sequenziale una terapia psicoanalitica. Quando ha risposto bene alla prima si va a vedere un livello ancora più profondo.. Però quanti sono i 9

pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo o con altre malattie che non rispondono per niente alla terapia cognitivo-comportamentale? O forse, quanti sono i casi in cui il paziente magari non lega bene con il terapeuta perché il terapeuta non riesce ad intercettare delle cose? Può succedere che alcuni terapeuti cognitivo-comportamentali non riescano ad intercettare delle cose che magari uno psicoanalista, vedendo la situazione da una prospettiva diversa, potrebbe vedere. Le malattie mentali sono, purtroppo, in aumento catastrofico sia come prevalenza che come intensità e gli strumenti che abbiamo a disposizione sono sempre gli stessi che avevamo cinquant anni fa. Anche in farmacologia, ci sono farmaci nuovi ma grossi cambiamenti non ci sono stati. Non c è più stato qualcosa che assomigli al passaggio dalla totale assenza di strumenti farmacologici all aloperidolo o ai triciclici. Ci sono stati piccoli ritocchi ma non grandi cambiamenti. Bisogna prenderne atto e utilizzare tutte le risorse che abbiamo a disposizione per ripartire e usarle meglio, senza fare miscugli ma in modo più integrato, magari per trovarne di nuove. 10