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MOBBING E COMPORTO: DANNO PROFESSIONALE, BIOLOGICO ED ESISTENZIALE commento e testo sentenza Cass. 4261/2012 Matteo BARIZZA P&D.IT Il fatto. Il lavoratore era stato licenziato per il superamento del periodo di comporto ed aveva agito in giudizio, con due distinti ricorsi, al fine di ottenere l'annullamento dell'impugnato recesso. Il ricorrente, inoltre, aveva sostenuto di essere stato fatto oggetto, da parte del datore di lavoro, di una pluralità di comportamenti vessatori, posti in essere attraverso l'applicazione di numerosi provvedimenti disciplinari, di essere stato ingiustamente dequalificato e di avere subito dei danni da tale dequalificazione, con conseguente suo diritto al risarcimento. I ricorsi erano stati accolti dal giudice di primo grado, il quale aveva, altresì, accertato la dequalificazione professionale ed il mobbing subiti dal lavoratore, riconoscendo allo stesso il risarcimento del danno alla professionalità liquidato in misura percentuale della retribuzione mensile moltiplicata per il periodo di protrazione della dequalificazione, nonché il risarcimento del danno biologico e del danno esistenziale. Su ricorso in appello presentato dal datore di lavoro, il giudice del gravame aveva, però, riformato parzialmente la sentenza di primo grado, da una parte respingendo l'impugnativa del licenziamento, dall'altra confermando l'accertamento della dequalificazione, ma riducendo la misura del risarcimento del danno esistenziale e del danno alla professionalità, quest'ultimo nuovamente liquidato in misura percentuale della retribuzione. Veniva, quindi, adita la Corte di Cassazione, sia da parte della società datrice di lavoro, sia da parte del lavoratore. La pronuncia della Sezione Lavoro. Il lavoratore, in particolare, censurava la sentenza impugnata nella parte in cui aveva ritenuto legittimo licenziamento per superamento del periodo di comporto, senza tener conto del fatto che tale superamento era avvenuto per patologie riconducibili a comportamenti illeciti del datore di lavoro e sostenendo, conseguentemente, che il periodo di malattia dovuto al fatto colpevole del datore di lavoro (per mobbing) non era a tal fine computabile. In ogni caso, sosteneva il lavoratore, la sentenza impugnata non aveva considerato che, prima che fosse maturato il termine di comporto, il ricorrente aveva domandato un periodo di aspettativa, così come prevedeva il c.c.n.l., idoneo ad interrompere il decorso del comporto.

La S.C. ha accolto il ricorso presentato dal lavoratore, limitatamente, però, al motivo di doglianza concernente l'interruzione del periodo di comporto per richiesta di aspettativa. Secondo la sezione lavoro, infatti, la tesi sostenuta dal lavoratore sulla non computabilità dei periodi di assenza per malattia ai fini del computo del periodo di comporto, in quanto cagionati dal comportamento vessatorio (mobbing) della società datrice di lavoro, non può essere accolta, in quanto generica e sfornita di prova. Secondo i giudici di Piazza Cavour, va, invece, accolta la censura contenuta nel secondo motivo di ricorso del lavoratore, concernente la tempestività della domanda di aspettativa e la sua idoneità ad impedire il compimento del periodo di comporto. La domanda di aspettativa, infatti, inoltrata tramite posta al datore di lavoro, costituisce un tipico atto recettizio e come tale è sufficiente che pervenga nella sfera di conoscibilità del destinatario affinché sia produttivo dei suoi effetti, in ragione della presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 c.c. * * * Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 17 gennaio 16 marzo 2012, n. 4261 Presidente Lamorgese Relatore Amoroso Svolgimento del processo 1. A.S., con due distinti ricorsi si rivolgeva al giudice del lavoro del tribunale di Udine, e permettendo di aver esercitato la propria attività presso la società Boranga tessuti e confezioni S.p.A. dal 1999 al 9 luglio dello 2002, lamentava di essere stato fatto oggetto di numerosi provvedimenti disciplinari non giustificati, di essere stato ingiustamente dequalificato e di avere conseguentemente subito dei danni da tale dequalificazione; lamentava, infine, di essere stato ingiustamente licenziato nel luglio dello 2002. Instaurato in contraddittorio con la società datrice di lavoro il tribunale di Udine, con sentenza parziale in data 13 novembre 2003, riuniti i due ricorsi, accertava la dequalificazione professionale ed il mobbing perpetrato nei confronti del dipendente e conseguentemente condannava la società al risarcimento dei danni, e segnatamente: al danno alla professionalità (il 30% della retribuzione mensile per ventidue mesi) e al danno biologico (20500 Euro); - al danno esistenziale (la somma di circa 6000 Euro). 11 tribunale dichiarava altresì illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore condannando il datore di lavoro alla reintegra ed al risarcimento del danno, pari quest'ultimo alle retribuzioni dovute dal licenziamento alla effettiva reintegrazione. La causa veniva rimessa in istruttoria con riferimento all'impugnazione dei provvedimenti disciplinari e in data 7 ottobre 2004, con sentenza definitiva si dichiarava l'illegittimità dei provvedimenti disciplinari comminati all'arena, condannando la società a

corrispondere al dipendente importo delle multe o sospensioni comminate al medesimo (Euro 953). 2. Avverso queste due pronunce proponeva appello la società Boranga tessuti e confezioni. Contestava l'accertamento della dequalificazione professionale e del correlativo danno. Rilevava che l'avvio dei diversi procedimenti disciplinari nei confronti del lavoratore, non poteva ritenersi condotta mobbizzante ex se. Con riferimento al danno biologico contestava le conclusioni della consulenza tecnica d'ufficio, nella quale non si sarebbe accertato che le cause del disturbo d'ansia dell'arena dovevano rinvenirsi anche in altre vicende. Negava poi il danno esistenziale riscontrato dal giudice di primo grado che consisteva - in sostanza - in una duplicazione del danno biologico. Deduceva infine, quanto al licenziamento, che il dipendente non aveva fatto pervenire alla ditta la richiesta di aspettativa prima della scadenza dei centottanta giorni di assenza per malattia. Sosteneva infine la legittimità dei provvedimenti disciplinari. Si costituiva in giudizio il lavoratore appellato richiamando la ricostruzione dei fatti e le condivisibili argomentazioni in diritto della sentenza impugnata. Concludeva pertanto per la conferma della impugnata sentenza. La corte d'appello di Trieste con la sentenza della 19-28 aprile 2007 riformava parzialmente la sentenza di primo grado. Da una parte respingeva l'impugnativa del licenziamento; d'altra parte confermava l'accertamento della dequalificazione, ma riduceva la misura del risarcimento del danno esistenziale, quantificando il danno alla professionalità in misura pari al 20% della retribuzione. 3. Avverso questa pronuncia ricorre per cassazione la società con un unico motivo, cui ha resistito con controricorso il lavoratore. Ha altresì proposto ricorso il lavoratore con tre motivi, al quale la società resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria. Motivi della decisione 1. Il ricorso del lavoratore è articolato in tre motivi. Con il primo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata che ha ritenuto legittimo licenziamento per superamento del periodo di comporto senza tener conto del fatto che tale superamento era avvenuto per patologie riconducibili a comportamenti illeciti delle datore di lavoro. Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione dell'art. 1335 c.c. con riferimento all'avvenuta ricezione in data 29 giugno 2002 della lettera contenente la richiesta di aspettativa. Con il terzo motivo il ricorrente deduce la violazione dell'art. 99 del contratto collettivo nazionale di lavoro del settore del commercio che prevede che la domanda di aspettativa si deve presentare a mezzo di raccomandata con avviso di ricevimento. 2. Con l'unico motivo di ricorso la società ricorrente - deducendo la violazione dell'art. 112 c.p.c. - censura la sentenza impugnata per aver omesso di prendere in considerazione la domanda restitutoria. 3. I giudizi promossi con i due ricorsi - dei quali il primo, in quanto depositato prima, deve considerarsi principale e l'altro incidentale - devono essere riuniti avendo ad oggetto la stessa sentenza impugnata. 4. È fondato il ricorso del lavoratore - che logicamente va esaminato per primo - limitatamente al suo secondo motivo. 5. Le questioni che residuano tra le parti sono essenzialmente due ed entrambe sono state trattate dalla sentenza parziale, mentre quella definitiva ha riguardato la sanzione disciplinare di cui le parti

più non discutono. La prima questione - investita dal ricorso del lavoratore - riguarda il licenziamento per superamento del periodo di comporto, che la sentenza di primo grado ha ritenuto illegittimo, mentre quella d'appello al contrario è pervenuta al convincimento che il licenziamento fosse legittimo. Il lavoratore ricorrente contesta questa pronuncia sotto un duplice profilo: la corte d'appello non ha considerato che il periodo di malattia dovuto a fatto colpevole del datore di lavoro (per mobbing) non era computabile; né ha considerato che, prima che maturasse il termine di comporto, il lavoratore aveva domandato un periodo di aspettativa, così come prevedeva il contratto, che interrompeva il decorso del comporto (la domanda - sostiene il ricorrente - era pervenuta alla società il 29 giugno 2002, ossia il giorno prima che spirasse il termine di comporto). La seconda questione - investita dal ricorso della società - riguarda l'azione restitutoria di quest'ultima. La corte di appello, dopo aver riconosciuto legittimo il licenziamento, non si è pronunciata sulla domanda di restituzione delle somme corrisposte al lavoratore sulla base della sentenza di primo grado che aveva ritenuto l'illegittimità del licenziamento, pur dando atto, nell'epigrafe della sentenza, che tale domanda era stata proposta dalla società. 6. Orbene, mentre la censura (primo motivo del ricorso) mossa dal lavoratore ricorrente ed avente ad oggetto la mancata considerazione della non computabilità ai fini del comporto dei periodi di malattia cagionati dal comportamento vessatorio (mobbing) della società datrice di lavoro, non può essere accolta perché generica mancando ogni puntualizzazione quanto agli effettivi periodi di malattia ed al nesso di causalità con il comportamento vessatorio della società; è invece fondata la censura (secondo motivo di ricorso) afferente alla tempestività della domanda di aspettativa che avrebbe impedito il compimento del periodo di comporto. Trattandosi di atto recettizio, era sufficiente che la domanda pervenisse nella sfera di conoscibilità della società in ragione della presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 c.c.. A tal fine, la scelta della società (ciò che risulta pacifico tra le parti) di avvalersi per il ricevimento della posta del servizio di casella postale - se da una parte non comporta alcuna deroga alla disciplina generale posta dalla legge n. 890 del 1982 al fine della notifica degli atti giudiziari (Cass., sez. lav., 20 maggio 2005, n. 10657) - invece fa operare la presunzione di conoscenza di cui all'art. 1335 cit., una volta che l'atto negoziale sia pervenuto alla casella postale. In questa parte - assorbito il terzo motivo - il ricorso principale va accolto. 7. Il ricorso della società resta assorbito in ragione dell'accoglimento del ricorso del lavoratore. È vero che la società ben avrebbe potuto proporre in appello - così come in effetti risulta aver proposto - la domanda restitutoria delle somme ricevute dal lavoratore che risulterebbero indebitamente percepite in caso di accertamento della legittimità del licenziamento. Cfr. Cass., sez. III, 11 giugno 2008, n. 15461, che ha affermato che le pretese restitutorie conseguenti alla riforma in appello della sentenza di primo grado possono trovare ingresso nella fase di gravame al fine di precostituire il titolo esecutivo per la restituzione. Domanda questa sulla quale, nella specie, irritualmente la Corte d'appello non si è pronunciata. Ma, una volta accolto, seppur in parte, il ricorso del lavoratore, deve ritenersi ancora controversa la legittimità del licenziamento; sicché non rileva in questo giudizio di cassazione la censura (che altrimenti sarebbe fondata) di omesso esame della domanda restitutoria, per il cui accoglimento comunque la società potrà insistere nel giudizio di rinvio.

8. In conclusione il ricorso del lavoratore va accolto limitatamente al secondo motivo, rigettato il primo ed assorbito il terzo, nonché assorbito il ricorso della società. L'impugnata sentenza va cassata con rinvio alla Corte d'appello di Trieste, in diversa composizione, anche per le spese di questo giudizio. P.Q.M. La Corte riunisce i ricorsi; accoglie il secondo motivo del ricorso di A.S., rigettato il primo ed assorbito il terzo, nonché assorbito il ricorso della società; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese di questo giudizio di cassazione, alla corte d'appello di Trieste in diversa composizione.