Analisi dei superstiti dell Olocausto



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Transcript:

Analisi dei superstiti dell Olocausto Gustav Dreifuss, Haifa Più di 35 anni sono passati dall'olocausto, dalla strage degli Ebrei nei campi di sterminio. Tra di noi vivono ancora dei superstiti. Con il loro passato il loro passato di sofferenza e il loro presente, ci costringono a confrontarci con l'olocausto. Ciò è particolarmente vero in Israele, paese in cui esiste un'alta percentuale di sopravvissuti alla persecuzione nazista. Ci troviamo anche di fronte a un nuovo problema, quello dei figli di superstiti, che non hanno vissuto personalmente la persecuzione ma presentano problemi psicologici relativi ad essa. Ci sono superstiti tra i miei amici e i miei pazienti, ed essi sono un ricordo costante e vivente del barbaro tentativo di estinzione del popolo Ebreo. Sì, ci sono state altre persecuzioni e altri tentativi di annientare popoli interi (come gli Armeni), ma l'olocausto del popolo Ebreo li supera tutti nella forma estremamente organizzata della strage. Gli Ebrei furono inviati ai campi di sterminio, un milione di bambini vennero uccisi, gli oggetti personali delle vittime furono presi e usati dai popoli Germanici. Ogni

volta che visito i musei dell'olocausto, o vedo foto o film di quel periodo, sono preso da ricordi, come Yad Vashem a Gerusalemme o Lochamei Ha'ghetaot, che mi fanno rabbrividire. Come possono gli esseri umani diventare così malvagi e degradarsi fino al punto di massacrare dei loro simili senza provare rimorso o rendersi conto dei loro atti? In Israele celebriamo ogni anno un << Giorno in Memoria dell'olocausto». Esso si apre con un costante suono di sirene e il popolo d'israele si riunisce con le vittime e i sopravvissuti in un minuto di silenzio carico di tensione. Questo silenzio è un atto di ricordo e di intima unione, ma è anche un segno che, di fronte all'olocausto, nessuna parola potrebbe aver valore. Questo stesso silenzio è anche un grido, ed evoca il bisogno di combattere ancora una volta contro l'incomprensibile male e di esprimere dei pensieri, comunque inadeguati, come ho già fatto al Congresso del 1968 (1). Dato che durante il periodo delle atrocità naziste in Europa io vivevo a Zurigo, le fonti del mio scritto si riducono alla mia esperienza d'analisi con vittime dell'olocausto, alle informazioni avute da amici, anch'essi vittime della persecuzione nazista, e da libri sull'argomento. Prendendo in considerazione il prolungato danno fisico e psichico patito dai sopravvissuti, dobbiamo chiederci se il nostro consueto approccio psicoterapeutico sia adatto con pazienti che abbiano vissuto quelle esperienze. Più lavoravo con sopravvissuti, più mi rendevo conto che le loro indescrivibili esperienze non possono essere umanamente comprese, né spiegate in modo adeguato. Gli effetti di una impotenza assoluta e prolungata, mentre si è sottoposti ai trattamenti più crudeli, trovarsi costantemente di fronte alla propria morte e a quella dei compagni, il fumo dei forni crematori, la degradazione umana subita da parte delle SS, la fame e la sete, sono fatti che vanno molto al di là di qualsiasi teoria traumatica. La separazione più totale dal mondo esterno, la (1) G. Dreifuss, «The Analyst and the damaged Victim of Nazi Persecution», Journal of Analytical Psychology, 14, 2, 1969.

distruzione sistematica di schemi di riferimento ai valori e agli standard della vita normale, un tempo validi, costituiscono qualcosa di più di uno shock psichico: essi minacciano e minano le stesse basi della psiche umana. (2) T. Des Pres, The Survivor. An anatomy of lite in the death camps, New York, Oxford University Press, 1976. Tutti i prigionieri si chiedevano fino a che punto il mondo esterno fosse a conoscenza di quel che avveniva nei campi e ciò che dava a molti la forza di vivere era il bisogno bruciante di testimoniare quegli avvenimenti ed essere certi che non sarebbero mai stati dimenticati ne che si sarebbero ripetuti. La ben nota CCS (Sindrome da Campo di Concentramento) prende in considerazione la sintomatologia caratteristica delle situazioni estreme presenti nei campi di concentramento. Sono questi i sintomi elencati: angoscia, depressione cronica, incubi, isolamento sociale volontario, disturbi psicosomatici e incapacità di aver fiducia. Desidero ora occuparmi dei sopravvissuti. Nello splendido libro di T. Des Pres, The Survivor (2), si trovano molte testimonianze commoventi rese da persone che vissero quei giorni. Desidero citarne una: «Quando il corpo giace dimagrito fino a sembrare quello di un bambino, quando le braccia e le gambe sono diventate simili a ramoscelli secchi, quando le labbra sono aride e raggrinzite, quando ogni boccone di cibo provoca la dissenteria, o il fetore della minestra ti da la nausea, quando sei senza aiuto e nessuno si occupa di te o ti cura da dove viene questa magica voglia di vivere?». Per i prigionieri nel campo il cibo era diventato vita, la semplice necessità di continuare a vivere, e il problema da esso costituito rispecchiava la condizione di una pura sopravvivenza animale (cioè biologica). La privazione sistematica di cibo veniva usata dai nazisti come mezzo per disumanizzare i prigionieri. È chiaro che in questo caso la normale comprensione simbolica del significato del cibo non è sufficiente: il cibo non simbolizza la vita, è la vita stessa. II danno psichico provocato da questa situazione è fondamentale e di dimensioni enormi; si tratta di un

guasto irreparabile del carattere elementare e positivo dell'archetipo materno (3}. Se oggi un sopravvissuto sogna del cibo, tale sogno assume un significato del tutto particolare. Quando un sopravvissuto (4) accumula cibo, o porta con sé del pane dovunque vada, o ha bisogno di un contatto fisico continuo col pane, anche in una situazione di vita normale, possiamo facilmente comprendere il suo convincimento che questo pane, anche se ammuffito, rappresenta la sua garanzia di non soffrire ancora la fame. Il pane, nella sua forma concreta, è per quest'uomo una necessità vitale rispetto alla sua esperienza nel campo. Esso significa per lui la vita stessa e il suo possesso garantisce, per così dire, un modo umano di esistenza. Tutto ciò va tenuto presente ogni volta che compare del cibo nei sogni di superstiti dell'olocausto. (3) E. Neumann, The Great Mother, New York, Pantheon Books, 1963, p. 147. (4) Comunicazione personale di Y. Haft. Quanto abbiamo finora detto introduce il problema principale: la normale pratica analitica può guarire i sopravvissuti? I metodi terapeutici attuali si basano su uno sviluppo della personalità che dipende da circostanze più o meno normali, ma quel che è accaduto ai prigionieri nei campi di concentramento non può essere paragonato a nessun «normale» decorso nevrotico. Molti, se non tutti i sopravvissuti dell'olocausto, hanno subito un danno talmente irreparabile che neanche una lunga analisi sembra in grado di guarirli. Ciò che si può fare è aiutare il sopravvissuto a convivere nel modo migliore possibile con la sua esperienza. Voglio sottolineare che molti sopravvissuti sembrano comportarsi normalmente nella vita quotidiana, sembrano perfettamente adattati, ma durante il sonno ancora gridano... La psicoterapia può attenuare le sofferenze dei sopravvissuti, ma non può guarirli completamente; le loro ferite non si chiudono. Nella mia esperienza psicoterapeutica con i sopravvissuti, ho scoperto la grande importanza del grado di partecipazione con cui si ascoltano le loro incre-

(5) D. Kutzinski, in The Analytical Process, Aim- Analysis-TrainIng (a cura di Joseph B. Wheelwright), New York, G. P. Putnam's Sons, 1971. (6) T. Des Pres, op. cit., p. 103. dibili storie. Per i sopravvissuti sono basilari la completa partecipazione dell'analista e la capacità di rivivere con loro quelle esperienze, in quanto fattori essenziali capaci di creare un vincolo nell'anima. I concetti di transfert e controtransfert, ammesso che possano essere applicati, necessitano di una nuova interpretazione per questo tipo di rapporto (5). Il terapeuta ebreo può identificarsi più facilmente con le esperienze di un sopravvissuto, dato che è egli stesso una vittima potenziale ed ha la possibilità di comprendere questo loro destino comune. Il terapeuta non ebreo può essere toccato e anche sconvolto da esperienze simili al punto da condividere i sentimenti del sopravvissuto attraverso una comprensione empatica delle terribili conseguenze dell'antisemitismo. Di fronte alla morte, tangibile nel campo nel modo più concreto, la vita per molti non aveva altro scopo al dì là di se stessa, come Des Pres chiarisce (6), ed essa sola incarnava per i prigionieri il valore più alto. Alcuni sentivano con particolare intensità il problema morale: non tolleravano il male e avrebbero preferito morire di fame o suicidarsi per santificare il nome di Dio. Il sopravvissuto deve essere aiutato ad apprezzare il significato e i valori della vita di tutti i giorni, anche rispetto a quelle piccole cose che sembrano banali e evidenti alle persone normali. (7) G. Dreifuss, «Psychotherapy of Nazi Victims», Psychother. Psychosom., 34, 1, 1980. (8) Comunicazione personale di D. Kutzinski. Cosa può aggiungere il metodo junghiano al trattamento dei sopravvissuti? (7). Per rispondere a questa domanda rivolgiamoci ai sogni di sopravvissuti in cui compaiono contenuti ad essi specifici. Farò alcuni esempi (8). Il sogno che seguirà è di un paziente di 42 anni, costretto a separarsi dalla madre all'età di 5 anni a causa della persecuzione nazista. Egli visse con il padre in modo clandestino, spostandosi da un luogo a un altro, sino alla fine della guerra. Soffriva di una profonda depressione e non era in grado di lavorare. Dopo aver fatto un'analisi freudiana ed essere stato in cura presso due psichiatri, cominciò un'analisi junghiana. Sei mesi prima della fine del trattamento, che durò un anno e mezzo, fece i seguenti sogni.

Una madre corre insieme a un bambino lungo i binari di una ferrovia, come se fosse spinta da spiriti invisibili. Doveva prendere il treno. Con stupore del sognatore, essa teneva il bambino a testa in giù. Egli dice: 'Vedo che il capo del bambino è completamente bendato'. Il treno parte e io resto con un senso di oppressione. All'incirca nello stesso periodo il paziente fece un altro sogno: Dopo un viaggio faticoso arrivo a un tempio. Mi lasciano entrare e vengo condotto nella stanza più segreta del tempio. Lì il Gran Sacerdote, vestito ritualmente, viene verso di me e mi da qualcosa che sembra un oggetto di culto: un vaso da cui fuoriescono dei raggi di luce. Mentre lo prendo provo dei sentimenti ambivalenti. All'improvviso mi accorgo che nel vaso c'è una bomba atomica che potrebbe esplodere da un momento all'altro. Non so cosa fare del vaso e mi sveglio. Il paziente abbandonò l'analisi, ritenendola inutile, e fu affidato a uno psichiatra. Un anno dopo, all'età di 44 anni, si suicidò. Ecco un altro sogno di una donna scampata ad Auschwitz, dove perse tutta la famiglia. Quando, circa venti anni dopo fece questo sogno, aveva 45 anni. Mi trovo in una fitta foresta. Ci sono andata per un'escursione con degli amici; forse c'è anche mio marito. Improvvisamente tutti se ne vanno e io sono completamente sola. Comincio ad avere paura e sento che la mia mente si va lentamente dissolvendo. D'improvviso non so più chi sono, quale sia il mio nome e cosa faccio lì. È terribile sapere di perdere se stessi. Disperata, comincio a toccarmi lungo il corpo e mi dico che quella sono io, il mio corpo. Le dita mi scorrono sul braccio, sul numero di Auschwitz i prigionieri nei campi di concentramento venivano identificati per mezzo di numeri tatuati sulle braccia e subito so di nuovo chi sono ma non il mio nome e riacquisto la mia identità. Ed ecco che intorno a me ci sono di nuovo delle persone, ed io dico loro: "mi chiamano la sopravvissuta di Auschwitz e non ho altro nome che questo'. Loro mi guardano stranamente, ma io so che mi sto riappropriando della mia mente. Questi sono i sogni: parlano da sé. L'Olocausto si verificò in Europa nel XX secolo, e con esso si evidenzia un fallimento profondo della cultura occidentale che ci pone più che mai di fronte

a una nuova dimensione del male: il tentativo premeditato di annientare totalmente un popolo intero, che venne minuziosamente ricercato in ogni angolo d'europa, ed i cui membri furono degradati, torturati e sistematicamente uccisi senza alcun riguardo per l'età, per il solo fatto di avere sangue ebreo nelle vene. La psicologia di Jung si occupa diffusamente del problema del male, a livello sia personale che collettivo; ma fino a che punto abbiamo realmente afferrato l'enorme dimensione del male cui l'olocausto ci pone di fronte? La nostra psicologia, con i suoi contributi al problema dell'ombra e del male, può aiutarci a eliminare almeno alcune delle sue manifestazioni collettive? Noi, come individui, siamo veramente scossi dal male che avviene qui e ora? Oppure ci siamo rassegnati e abbiamo accettato la realtà del male, così come abbiamo permesso l'olocausto del popolo Ebreo circa 40 anni fa? Facciamo sentire davvero le nostre proteste per le ingiustizie che oggi commettono i nostri amici o le nostre nazioni? Trad. di GIANNI BALDACCINI