Mauro Maldonato QUANDO DECIDIAMO SIAMO ATTORI CONSAPEVOLI O MACCHINE BIOLOGICHE? Giunti Editore 144 pagine 14.00 euro Disponibile da mercoledì 10 giugno 2015 Caminante, no hay camino, se hace camino al andar. Antonio Machado Ci piace considerarci macchine pensanti convinte di avere tutto sotto controllo, che analizzano problemi, soppesano vantaggi e svantaggi prima di scegliere la soluzione migliore. Ma siamo proprio sicuri di sapere perché facciamo le cose che facciamo, scegliamo le cose che scegliamo? Comprendere origini e ragioni di questa attività della mente è la sfida di Mauro Maldonato, che porta il lettore in un viaggio lungo l arcipelago di isole, dai bordi frastagliati e mutevoli, che chiamiamo azione umana. La decisione è un processo della vita psichica in cui intervengono razionalità, intuito, fattori biologici, norme culturali, desideri inconsapevoli. Emerge nell incognito, da processi che sfidano il pensiero. Quando decidiamo ci esorta a indagare da una prospettiva inconsueta, ci conduce sul versante in ombra della conoscenza, propone un idea di razionalità limitata: prendere una decisione è soltanto per metà un processo consapevole, perché nel sistema aperto che è il nostro cervello gioca la sua parte anche la sovranità invisibile dell inconscio. L autore Mauro Maldonato è psichiatra e professore di Psicopatologia generale. Ha studiato nelle Università La Sapienza (Roma), Federico II (Napoli), London School of Economics (Londra), École des hautes études (Parigi). I suoi attuali ambiti di ricerca sono la coscienza, il decision making, la creatività e l innovazione, la psicopatologia generale. Membro di diversi gruppi di ricerca internazionali, è spesso all estero come conferenziere e visiting professor in prestigiose istituzioni scientifiche e culturali come la Duke University (Durham, Usa), la Universidade de São Paulo e la Pontifícia Universidade Católica (San Paolo, Brasile). È autore e curatore di volumi e articoli scientifici pubblicati in diverse lingue e direttore scientifico della Settimana Internazionale della Ricerca. Per Giunti ha pubblicato L arcipelago della coscienza. Sulla consapevolezza di noi e del mondo (2012), apparso di recente in edizione inglese. http://www.mauromaldonato.it/it/
Dal libro La posta in gioco Non basta descrivere ragionamenti, decisioni, intuizioni, immaginazione e altro ancora, come espressioni di superficie del cervello; o rappresentare la vita inconsapevole come il lato in ombra della coscienza: termine questo che, a dire il vero, continua a essere utilizzato come una sorta di passe-partout per indicare fenomeni diversi e distanti tra loro come il coma, lo stato vegetativo, la sensibilità ambientale (coscienza ecologica); la morale ( ho la coscienza pulita, la voce della coscienza ), l attività dell Io (coscienza narrativa) e così via. Occorre chiedersi se, dopo una secolare confusione terminologica, non sia tempo di demarcare più rigorosamente questo fondamentale oggetto di ricerca. Si tratta non solo di liberarsi di un autoinganno linguistico e concettuale, ma anche dell illusione di credere di seguire la natura, mentre si tratta della forma attraverso cui la guardiamo. Siamo prigionieri di un immagine ambigua. Non ce ne libereremo finché essa resterà annidata nel nostro linguaggio. Appare sempre più evidente quanto sia fallace la congettura secondo cui la nostra mente è attrezzata per trarre conclusioni valide a prescindere dalle premesse. Nella prima metà del Novecento intere generazioni di economisti hanno sostenuto che le condotte individuali sono dettate da norme inflessibili e che eventuali deviazioni dipendevano da variabili psicologiche risolte dalle dinamiche macroeconomiche. Gli sviluppi recenti della scienza della decisione hanno demolito questa idea di razionalità, restituendo centralità a fattori decisivi come imprevedibilità e incertezza. Il lungo cammino della razionalità La visione procedurale della razionalità richiama da vicino la concezione hayekiana della conoscenza. L azione umana non è governata da una razionalità olimpica, ma da processi adattativi efficaci. In un processo decisionale occorre considerare, in primo luogo, che la rappresentazione cognitiva non solo varia da un decisore all altro, ma anche nel corso stesso della decisione; in secondo luogo, che i fini non sono dati a priori, ma elaborati nel processo decisionale; in terzo luogo, come appena detto, che il decisore si ferma appena raggiunta una soluzione soddisfacente senza cercare una soluzione ottimale. Sia il fallibilismo di Hayek (2008) sia la razionalità limitata di Simon sollecitano un radicale ripensamento del modello neoclassico di equilibrio. Non vi è alcun equilibrio nell azione umana. Un individuo, e conseguentemente una società, che utilizzi in pieno le proprie capacità tende sempre ad alterare i propri stati di equilibrio. Anzi, a creare uno stato permanente di disequilibrio. Dalle molecole agli organismi, dagli individui alle società, il nostro universo è un arcipelago di sistemi nell oceano del disordine. Prima della decisione L incertezza, come il rischio, l ambiguità e l imprevedibilità a essa connessi, hanno fortemente a che fare con la decisione. Per tutta la prima metà del XX secolo gli economisti ne hanno sottostimato il ruolo nell azione umana e, in particolare, nella decisione. A partire, però, dalla seconda metà del secolo un ampia messe di studi teorici ed empirici ha evidenziato l importanza del modo in cui gli individui fronteggiano il rischio e l incertezza. Si è visto, in particolare, che l incapacità di valutare il rischio dipende per molti versi dalla sottovalutazione del rapporto individuo-ambiente. Ma perché, e in che misura ci si potrebbe chiedere l incertezza è così importante nello studio della decisione? È possibile conviverci ragionevolmente? Possiamo concepire una logica dell incertezza? Le leggi della probabilità rappresentano senz altro un modo nuovo di affrontare l incertezza. Potrebbero addirittura aiutarci a definire un attitudine probabilistica della mente in fondo, il cosiddetto ragionamento bayesiano ne è espressione fondamentale. E nella realtà? Ciò che vediamo quotidianamente è che le norme razionali vengono sistematicamente disattese e che il mondo pullula di incoerenze comportamentali e calcoli errati. Possiamo attribuirne la
responsabilità a una tendenza naturale della mente o, al contrario, è la descrizione dei nostri processi decisionali a essere inadeguata e fallace? Occorre una nuova rappresentazione della mente, che parta dal riconoscimento del ruolo fondamentale svolto da quegli stratagemmi naturali che ci consentono di far fronte efficacemente alle situazioni di incertezza. Va in questa direzione l idea di razionalità ecologica (Gigerenzer, 2001) che sottolinea come le difficoltà nel far fronte all incertezza non dipendano dall inadeguata architettura delle nostre menti, bensì dalla nostra rappresentazione dell incertezza. In definitiva, la difficoltà non è dentro la nostra testa, ma fuori dalla nostra testa. Un puro movimento Ogni gesto della vita ha una componente automatica. Camminare, alzarsi, parlare, non hanno a che fare con la nostra volontà, ma con il naturale fluire dell azione e del pensiero. Se dovessimo ogni volta reimparare la stessa cosa, una vita non basterebbe. Un bambino impiega circa un anno per alzarsi in piedi e muovere i primi passi. Dopo qualche tempo camminerà sicuro per l armonia conquistata tra muscoli e movimenti. Egli non sa come è arrivato a questo traguardo. Ma, d ora in poi, camminare sarà per lui la cosa più naturale del mondo. Quasi tutto quel che facciamo, soprattutto ogni gesto sicuro, è sostenuto da automatismi inconsapevoli. Questa complessa interazione tra apprendimento, elaborazione temporale ed esecuzione (che vede all opera corteccia, cervelletto e gangli della base) è evidente soprattutto nei musicisti esperti. Un pianista virtuoso può conversare tranquillamente mentre le sue dita scorrono veloci e sincrone sui tasti. Ad esempio, l esecuzione di un brano di estrema complessità, ben al di là del suo talento individuale, è più articolata di quanto non rivelino gli esperimenti sulla programmazione e l esecuzione di movimenti semplici, eseguiti in contesti ben precisi e guidati dal giudizio degli sperimentatori. Questa complessità era chiara a Lotze, già a metà Ottocento. Un pianista esperto che, per settimane o mesi, ritorna sulla stessa partitura ignora cosa stia facendo il suo cervello. Non sa assolutamente niente degli sbalorditivi colloqui elettrici e chimici che comandano i muscoli della sua mano nell esecuzione di una scala armonica ascendente. Sa solo quante difficoltà incontrerà se non eseguirà infinite volte quel brano. A un certo punto, però, non rifletterà più. Le difficoltà diventeranno solo un ricordo. Gli basterà poggiare le mani sulla tastiera e le dita scorreranno agili e sicure. C è solo un pericolo in agguato: riprendere l esecuzione se a un certo punto gli accadesse di sbagliare. È infatti maledettamente duro recuperare le sequenze automatizzate. Per questo molti insegnanti raccomandano ai propri studenti di non fermarsi e andare avanti comunque se incorressero in un errore di esecuzione. Sia chiaro: la fluidità esecutiva non fa velo a una piena presenza nell esecuzione. Ma sono stati gli automatismi a liberare il musicista da ogni ostacolo. A fargli esprimere al meglio le sonorità. E, dunque, la propria personalità artistica. D ora in poi, armonie e melodie si fermeranno nella mente solo per frazioni di secondo. Un intervallo troppo breve per distinguere la rappresentazione dall azione. Si racconta che un giorno, il pianista Glenn Gould, alle prese con l esecuzione dell Opera 109 di Beethoven, fu assalito da un odioso blocco esecutivo, quel che di peggio possa capitare a un pianista (Gigerenzer, 2009). Come ogni volta, lo studio della partitura era stato duro e inflessibile. A tre giorni dal concerto, tuttavia, in una delle variazioni fondamentali, le mani gli diventarono insolitamente rigide. Per essere più precisi, gli si paralizzarono. Gli era impossibile procedere. Come superare questa disperante difficoltà? Gould non andò per il sottile. Avviò tutti insieme gli elettrodomestici a portata di mano, al punto che per il rumore gli riusciva impossibile ascoltarsi suonare. Come d incanto, il blocco finì. Una sovrana inconsapevolezza Tra la fine degli anni Settanta e Ottanta del Novecento, attraverso esperimenti condotti mediante stimolazione elettrica della corteccia premotoria, Benjamin Libet (1985) evidenziò che stimoli al di sotto di mezzo secondo provocano reazioni motorie significative, prive di consapevolezza. Dimostrò, in altre parole, che un atto è innescato da un potenziale elettrico cerebrale (il cosiddetto
potenziale di prontezza), che ne precede l esecuzione. Di solito, se battiamo un dito sul tavolo siamo sicuri di percepire il contatto in tempo reale, cioè nello stesso istante in cui il dito tocca il tavolo. Ma è una sensazione illusoria. Ne diventiamo consapevoli solo circa mezzo secondo dopo. Il cervello sa prima di noi che intendiamo agire e la consapevolezza giunge a fatto compiuto. A noi resta solo l illusione di aver deciso. Abitualmente pensiamo a noi stessi come il nostro Io consapevole. Questa mutevole unità, in se stessa flusso, non è un transito tra momenti differenti, ma l eco della sensazione di vivere in una continuità: una sequenza di singoli momenti che sentiamo come il trascorrere di ritmi naturali (vivacità, stanchezza, veglia, sonno), gradi variabili di chiarezza, specifiche anomalie, forme derealizzate e così via. Questa presenza unitaria non è l effetto di fenomeni posti uno accanto all altro, come in un filo di perle, ma un movimento simultaneo che rende impercettibili i cambiamenti. Il nostro Io è questo svolgersi incessante e vitale di stati sul bilico sottile tra un non più e un non ancora. Al fondo di questa apparente certezza in base alla quale spieghiamo percezioni, ricordi, azioni si inseguono ombre, repentine illuminazioni, movimenti elusivi, inaccessibili ai nostri ragionamenti Una determinata libertà Perché mai le persone giudicano e sanzionano le violazioni morali personali in tempi brevi e quelle impersonali in tempi lunghi? Con una serie di esperimenti Moll e il suo gruppo (2001) hanno mostrato che i giudizi morali e quelli non morali attivano differenti aree del cervello. I primi coinvolgono la corteccia orbito-frontale mediale e il solco temporale superiore dell emisfero sinistro; i secondi l amigdala, il giro linguale e il giro orbitale laterale. Queste ricerche sperimentali ci autorizzano forse a credere nell esistenza di una neurobiologia della morale? Anche se l ampia produzione di studi di brain imaging sembrerebbe autorizzare una risposta affermativa, restano aperte molte domande. Ad esempio, le aree coinvolte nei giudizi morali sono sede primaria di quei giudizi o solo il territorio corrispondente di un processo che si svolge successivamente? Possono le emozioni intensificare (ed eventualmente in che grado) il valore dei giudizi morali individuali? Qualunque sia la risposta, la sola esistenza di emozioni sociali dimostra che non agiamo in base a un algebra morale utilitaristica per massimizzare i vantaggi e minimizzare il dolore. Nel corso dell evoluzione le emozioni sociali hanno consentito ai nostri antenati di comprendere i propri simili e di costruire società cooperative, creando così il terreno fertile per la nascita di valori (e sistemi di valore) e, conseguentemente, di istituzioni sociali, politiche e culturali condivise. Anche se non è ancora chiaro il senso delle violazioni delle norme sociali, la compatibilità tra diversi valori, la funzione della violenza, resta il fatto che il dolore, il senso di giustizia, l autorità, la purezza, l esser parte di una comunità di destino, hanno radici evolutive profonde. Non solo nell uomo. Diverse ricerche hanno mostrato: 1) che l istinto a evitare il dolore altrui che genera raccapriccio all idea di spingere un uomo da un ponte (come abbiamo visto a proposito dei dilemmi morali) è largamente presente anche in alcuni primati: i quali, ad esempio, rifiutano di azionare una leva che porterebbe a sé cibo e una scossa elettrica a un consimile; 2) che il senso di giustizia ha relazioni con l altruismo reciproco, a condizione che l atto sia sostenibile per chi lo compie e chi lo riceve sia disposto a ricambiare; 3) che il rispetto per l autorità ha a che fare con le gerarchie di dominio e sottomissione; 4) che il senso della comunità che spinge gli individui a condividere e a sacrificarsi per un fine impersonale, potrebbe derivare dall empatia e dalla solidarietà verso consanguinei e non consanguinei. Congedo Fortunatamente, il riconoscimento sempre più ampio della natura complessa del cervello esige un cambiamento di prospettiva. Il cervello umano viene sempre meno descritto come un calcolatore fatto di circuiti prefabbricati dai geni. Il suo progressivo costituirsi attraverso sofisticati processi di selezione neuronale ne fa qualcosa di molto diverso da un tutto genetico cerebrale. Le molteplici competizioni selettive e creative al suo interno successivamente trasformate in tracce epigenetiche
e iscritte nel frame caratteristico della specie hanno creato, nel corso dell evoluzione biologica, legami organici con l ambiente fisico, sociale, culturale. A differenza di qualche decennio fa, il cervello umano appare oggi come un sistema aperto che fluttua entro dinamiche sempre distanti dall equilibrio: un sistema continuamente esposto a vincoli interni e dinamiche esterne che generano livelli crescenti di instabilità, creando nuove strutture d ordine. Nel congedarmi da queste pagine mi accorgo di non aver chiaro se le ipotesi che ho avanzato colgano davvero ciò che accade nella decisione umana. Ho avuto spesso il sospetto che, per una perfida congiura della natura, le sue leggi interne siano congegnate per portarci sistematicamente fuori pista. Questo però non scalfisce la nostra sete di conoscenza. Incoraggia, semmai, a chiedersi se non sia necessario inaugurare nuovi metodi di esplorazione. A osare di più. Che senso avrebbe restringere la ricerca, una volta verificato che le nostre conoscenze attuali sono solo parziali? Mi piace pensare che le ipotesi che qui ho avanzato diventino tracce per altre esplorazioni. L identificazione delle forze motrici della mente è ancora lontana dall esser conclusa. È necessaria una nozione più efficace dell inconscio per dare un nome a quel qualcosa che agisce in noi e che, a torto, ci illudiamo di possedere: quel qualcosa che crediamo Io.