Immanuel Kant CRITICA DELLA RAGION PRATICA. Introduzione. Analitica della ragion pura pratica. I principi della ragion pratica

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Immanuel Kant CRITICA DELLA RAGION PRATICA Introduzione 1. «L'uso teoretico della ragione si applicava agli oggetti della sola facoltà della conoscenza, e una critica della ragione, relativamente a questo uso, riguardava solo propriamente la facoltà pura della conoscenza, poiché questa faceva nascere il sospetto, che si confermava anche in seguito, che essa si perdesse facilmente oltre i suoi limiti, dietro oggetti inaccessibili o concetti affatto contraddittori. Con l'uso pratico della ragione accade ormai diversamente. In questo la ragione si applica ai motivi determinanti della volontà, la quale è una facoltà o di produrre oggetti corrispondenti alle rappresentazioni, oppure di determinare se stessa, cioè la propria causalità, all'attuazione di essi. [...] Ecco dunque la prima questione: se la ragion pura basti per sé sola alla determinazione della volontà, oppure se soltanto come condizionata empiricamente possa essere un motivo determinante di essa. [...] la critica della ragion pratica in genere ha dunque l'obbligo di distogliere la ragione, condizionata empiricamente, dalla pretesa di dar essa solo esclusivamente il motivo determinante della volontà» K.p.V., Introduzione. Analitica della ragion pura pratica I principi della ragion pratica 2. «Princìpi pratici fondamentali sono proposizioni, che contengono una determinazione generale della volontà alla quale sono subordinate molteplici regole pratiche. Essi sono soggettivi, cioè sono massime, quando la loro condizione è considerata soltanto dal soggetto come valida per la sua volontà; sono oggettivi, cioè sono leggi pratiche, quando quella viene riconosciuta come oggettiva, ossia valida per la volontà di ogni essere razionale» 3. La regola pratica è in ogni caso un prodotto della ragione, perché essa prescrive l azione, quale mezzo dell operare, come intenzione. Per un essenza, tuttavia, nella quale la ragione non sia l unico e solo fondamento della determinazione della volontà, questa regola è un imperativo, cioè una regola contraddistinta da un dover essere, che esprime la necessitazione oggettiva all azione, e significa che, quando la ragione determinasse interamente la volontà, l azione accadrebbe in modo irresistibile secondo questa regola. Gli imperativi valgono pertanto oggettivamente, e sono totalmente distinti dalle massime, come principi fondamentali soggettivi 4. «Quelli [gli imperativi] determinano le condizioni della causalità dell ente razionale, come causa efficiente, semplicemente in vista della sua operatività e adeguatezza; ovvero determinano soltanto la volontà, sia o non sia essa sufficiente a operare. I primi dovrebbero essere imperativi ipotetici, e contenere semplici prescrizioni dell abilità; i secondi dovrebbero essere, per contro, categorici e soltanto leggi pratiche. Le massime dunque sono appunto principi fondamentali, ma non imperativi. Ma gli stessi imperativi, quando essi sono condizionati, cioè determinano la volontà semplicemente come volontà, ma solo in vista di un azione desiderata, ossia sono imperativi ipotetici, sono appunto prescrizioni pratiche, non leggi. Quest ultime devono determinare adeguatamente la volontà come volontà ancor prima che io domandi, se ho il potere richiesto per un azione desiderata, e insieme essere categoriche, altrimenti non son leggi; perché a loro manca la necessità, che, quando dev essere pratica, bisogna che sia indipendente dalle condizioni patologiche e tuttavia accidentalmente consone con la volontà [...]. La ragione, dalla quale sola può derivare ogni regola che debba comprendere necessità, pone appunto in quella sua prescrizione anche la necessità (perché altrimenti essa non sarebbe un imperativo), ma questa è condizionata solo soggettivamente, e non si può presupporla in grado uguale in tutti i soggetti. Per la sua legislazione si esige invece che ad essa occorra presupporre semplicemente se stessa, perché la regola è valida oggettivamente e generalmente solo quando essa vale senza condizioni accidentali, o soggettive, come quelle che distinguono un ente razionale dall altro. Ora, se dite a chicchessia che egli non deve mai fare

promesse menzognere, questa è una regola che riguarda soltanto la sua volontà, possano o non, gli intenti che l uomo può avere, venir da lui raggiunti per mezzo di essa; il puro volere è quello che deve essere determinato interamente a priori mediante questa regola. E se si trova, che questa regola sia praticamente giusta, allora essa è una legge, perché è un imperativo categorico. Le leggi pratiche si riferiscono dunque soltanto alla volontà, a prescindere da ciò che viene eseguito mediante la sua causalità, e da questa (come appartenente al mondo) si può fare astrazione, per aver quelle nella loro purezza». 5. 4 «Ora, di una legge, se si astrae da essa ogni materia, cioè ogni oggetto della volontà (come motivo determinante), non rimane che la semplice forma di una legislazione universale». 6. 5 «Siccome la semplice forma della legge non può esser rappresentata se non dalla ragione, e quindi non è un oggetto dei sensi, e per conseguenza non appartiene nemmeno ai fenomeni; così la rappresentazione di essa come motivo determinante della volontà si distingue da tutti i motivi che determinano gli eventi naturali secondo la legge di causalità [...]. Ma, se nessun altro motivo determinante della volontà può servir di legge a questa, se non semplicemente quella forma legislativa universale: una tale volontà deve essere considerata come affatto indipendente dalla legge naturale dei fenomeni, cioè dalla legge di causalità degli uni rispetto agli altri. Ma una tale indipendenza si chiama libertà nel senso più stretto, cioè trascendentale. Dunque una volontà, a cui la semplice forma legislativa delle massime può servir di legge, è una volontà libera». La legge morale 7. 7 LEGGE FONDAMENTALE DELLA RAGION PURA PRATICA Opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale. «La coscienza di questa legge fondamentale si può chiamare un fatto della ragione [ein Faktum der Vernunft], non perché si possa dedurre per ragionamento da dati precedenti della ragione [...] ma perché essa ci s'impone per se stessa come proposizione sintetica a priori, la quale non è fondata su nessuna intuizione né pura né empirica; mentre essa sarebbe analitica, se si presupponesse la libertà della volontà, per la quale però, come concetto positivo, si richiederebbe un'intuizione intellettuale, la quale qui non si può senz'altro ammettere. «Il fatto sovracitato è innegabile. Occorre solo analizzare il giudizio che gli uomini fanno sulla conformità delle loro azioni alla legge, e si vedrà sempre che, qualunque cosa l'inclinazione possa dire in contrario, pure la loro ragione incorruttibile e obbligata mediante se stessa tiene sempre, in un'azione, la massima della volontà salda nella volontà pura, cioè in se stessa, in quanto si considera come pratica a priori». 8. «L'autonomia della volontà è l'unico principio di tutte le leggi morali e dei doveri che loro corrispondono: invece ogni eteronomia del libero arbitrio, non solo non è alla base di alcun obbligo, ma piuttosto è contraria al principio di questo e alla moralità della volontà. Cioè il principio unico della moralità consiste nell'indipendenza da ogni materia della legge (ossia da un oggetto desiderato), e nello stesso tempo nella determinazione del libero arbitrio mediante la semplice forma legislativa universale di cui una massima dev'essere capace. Ma quell'indipendenza è la libertà in senso negativo; invece, questa legislazione propria della ragion pura e, come tale, pratica, è la libertà nel senso positivo. Dunque la legge morale non esprime nient'altro che l'autonomia della ragion pura pratica, cioè della libertà; e questa è anche la condizione formale di tutte le massime, alla quale condizione soltanto esse possono accordarsi con la legge pratica suprema». 9. «L'analitica dimostra che la ragion pura può essere pratica, cioè può determinare per sé, indipendentemente da ogni elemento empirico, la volontà; - e invero dimostra ciò mediante un fatto in cui la ragion pura appare a noi realmente pratica, cioè l'autonomia del principio della moralità mediante il quale essa determina la volontà all'azione. - Nello stesso tempo questa analitica mostra che questo fatto è legato inseparabilmente con la coscienza della libertà della volontà, anzi è a quella identico; e mediante esso la volontà di un essere

razionale, che come appartenente al mondo sensibile si riconosce soggetto necessariamente come le altre cause efficienti alle leggi di causalità, ha nel pratico, però nello stesso tempo, da un altro lato, cioè come essere in sé, coscienza della sua esistenza determinabile in un ordine intelligibile delle cose [...]. La legge morale, quantunque non se ne dia nessuna veduta, pure presenta un fatto assolutamente inesplicabile con tutti i dati del mondo sensibile e con tutto l'ambito dell'uso teoretico della nostra ragione, un fatto che ci indica un mondo dell'intelletto puro, anzi lo determina in modo affatto positivo e ce ne fa conoscere qualcosa, e cioè una legge. Questa legge deve procurare al mondo dei sensi, come a una natura sensibile (per quanto riguarda gli esseri razionali) la forma di un mondo dell'intelletto, cioè di una natura soprasensibile, senza però recar danno al suo meccanismo» 10. «Tuttavia, mediante la ragione, noi siamo cosci di una legge, alla quale sono soggette tutte le nostre massime, come se mediante la nostra volontà dovesse aver origine un ordine naturale. Quindi questa legge dev'essere l'idea di una natura non data empiricamente, eppur possibile mediante la libertà, perciò soprasensibile, alla quale noi diamo realtà oggettiva, almeno nel rispetto pratico, perché la consideriamo come oggetto della nostra volontà in quanto siamo esseri razionali puri» Il giudizio pratico 11. «Domanda a te stesso se l'azione che tu hai in mente, la potresti considerare possibile mediante la tua volontà, se essa dovesse accadere secondo una legge della natura, della quale tu stesso fossi una parte. Secondo questa regola, infatti, ciascuno giudica se le azioni sono moralmente buone o cattive. Così si dice: se ciascuno, quando credesse di fare il suo vantaggio, si permettesse di truffare; se si credesse in diritto di abbreviarsi la vita, appena gliene venisse un disgusto completo; se guardasse con indifferenza completa alla miseria altrui; tu, appartenendo a un tal ordine di cose, ti troveresti bene in esso, col consenso della tua volontà?» Il movente della ragion pura pratica 12. «Il rispetto si riferisce sempre soltanto alle persone, non mai alle cose. Le cose possono far nascere in noi la propensione; e, se sono animali (per es., cavalli, cani ecc.), perfino l'amore; o anche la paura, come il mare, un vulcano, una bestia feroce; ma non mai il rispetto. Qualcosa che si avvicina già di più a questo sentimento è l'ammirazione; e questa, come affezione, cioè lo stupore, può anche riferirsi a cose, per es. a montagne altissime, alla grandezza, alla moltitudine, alla distanza dei corpi celesti, alla forza e alla velocità di parecchi animali, ecc. ma tutto ciò non è rispetto. Un uomo può essere per me un oggetto d'amore, di paura, o d'ammirazione fino allo stupore, e, con tutto questo, può non essere un oggetto di rispetto. Il suo umore faceto, il suo coraggio e la sua forza, la sua potenza, per il grado che egli ha tra gli uomini, possono ispirarmi tali sentimenti; ma manca ancor sempre il rispetto verso di lui. Fontenelle dice: a un gran signore io m'inchino, ma il mio spirito non s'inchina. Io posso aggiungere: a un uomo di umile condizione e del popolo, nel quale io vedo una integrità di carattere in un certo grado che non sento in me stesso, il mio spirito s'inchina, ch'io voglia o no, e per quanto io vada con la testa alta per non lasciargli dimenticare la mia superiorità. Perché ciò? Il suo esempio mi presenta una legge che abbatte la mia presunzione, se paragono questa legge col mio metodo di procedere e vedo dimostrata mediante il fatto l'osservanza di questa legge, e quindi la possibilità di eseguirla. Ora, io posso esser conscio di aver anch'io un tale grado di integrità, e, tuttavia, il rispetto rimane. Poiché, siccome nell'uomo ogni bene è sempre imperfetto, la legge, resa evidente mediante un esempio, abbatte pur sempre la mia superbia, perché l'uomo che io vedo davanti a me, essendo l'imperfezione, che può ancor sempre esser unita a lui, non così nota a me come la mia, mi appare perciò in una luce più pura, e mi serve di misura. Il rispetto è un tributo che, volere o non volere, non possiamo negare al merito; possiamo magari non lasciarlo apparire esteriormente, ma non possiamo impedirci di sentirlo interiormente» Dovere per il dovere 13. «La legge morale è per la volontà di un essere perfettissimo una legge della santità, ma per la volontà di ogni

essere finito razionale è una legge del dovere, del costringimento morale della determinazione delle azioni di essa mediante il rispetto a questa legge e per ossequio del dovere» 14. «Dovere! Nome sublime e grande, che non contieni niente di piacevole che implichi lusinga, ma chiedi la sommissione; che, tuttavia, non minacci niente donde nasca nell'animo naturale ripugnanza e spavento che muova la volontà, ma esponi soltanto una legge che da sé trova adito nell'animo, e anche contro la volontà si acquista venerazione (se non sempre osservanza); innanzi alla quale tutte le inclinazioni ammutoliscono, benché di nascosto reagiscano ad essa; qual è l'origine degna di te, e dove si trova la radice del tuo nobile lignaggio, che ricusa fieramente ogni parentela con le inclinazioni? Radice da cui deve di necessità derivare quel valore, che è il solo che gli uomini si possono dare da se stessi. Non può essere niente di meno di quel che innalza l'uomo sopra se stesso 8come parte del mondo sensibile), ciò che lo lega a un ordine delle cose che soltanto l'intelletto può pensare, e che contemporaneamente ha sotto di sé tutto il mondo sensibile e, con esso, l'esistenza empiricamente determinabile dell'uomo. [...] Non è dunque da meravigliarsi se l'uomo, come appartenente a due mondi, non debba considerare la sua propria essenza, in relazione alla sua seconda e suprema determinazione, altrimenti che con venerazione, e le leggi di questa determinazione col più grande rispetto. Dialettica della ragion pura pratica Il sommo bene 15. «Sommo può significare supremo [das Oberste] (supremum) o anche perfetto [das Vollendete] (consummatum). Il primo è quella condizione che è essa stessa incondizionata, e cioè non è subordinata a nessun'altra condizione (originarium); il secondo è quel tutto che non è parte alcuna di un tutto più grande e della stessa specie (perfectissimum). Nell'Analitica si è dimostrato che la virtù (come merito d'esser felice) è la condizione suprema di tutto ciò che ci può sembrare soltanto desiderabile, quindi anche di ogni nostra ricerca della felicità; e quindi è il bene supremo. Ma non per questo essa è il bene intero e perfetto come oggetto della facoltà di desiderare degli esseri razionali finiti: poiché per questo bene si richiede anche la felicità, e invero non semplicemente agli occhi interessati della persona che fa di se stessa lo scopo, ma anche al giudizio di una ragione disinteressata che considera la virtù in genere nel mondo come fine in sé. Poiché aver bisogno di felicità, ed esserne anche degno ma tuttavia non esserne partecipe, non è affatto compatibile col volere perfetto di un essere razionale, il quale nello stesso tempo avesse l'onnipotenza, solo che tentiamo di rappresentarci un tale essere. Ora, in quanto virtù e felicità costituiscono insieme in una persona il possesso del sommo bene, per questo anche la felicità, distribuita esattamente in proporzione alla moralità (come valore della persona e suo merito di essere felice), costituisce il sommo bene di un mondo possibile; questo bene significa il tutto, il bene perfetto [das vollendete Gute], in cui la virtù è sempre, come condizione, il bene supremo, perché essa non ha alcuna condizione al di sopra di sé, e la felicità è sempre qualcosa che per colui che la possiede è bensì piacevole, ma non è buona per sé sola assolutamente e sotto ogni aspetto, e suppone sempre come condizione la condotta morale conforme alla legge» L'antinomia della ragion pratica 16. «Nel sommo bene pratico per noi, cioè da realizzare mediante la nostra volontà, la virtù e la felicità sono concepite come necessariamente legate, sicché una non può essere ammessa da una ragion pratica senza che anche l'altra gli appartenga. «Con la presente antinomia della ragion pura pratica avviene appunto lo stesso. La prima delle due proposizioni, e cioè che la ricerca della felicità produca un motivo d'intenzione virtuosa, è falsa assolutamente; ma la seconda, e cioè che l'intenzione virtuosa produca necessariamente la felicità, non è falsa assolutamente, ma solo in quanto vien considerata come la forma della causalità nel mondo sensibile, e, quindi, se io ammetto l'esistenza in esso come l'unico modo di esistenza dell'essere razionale; dunque è falsa solo in modo condizionato»

I postulati della ragion pura pratica: l'immortalità dell'anima 17. «Ma la conformità completa della volontà con la legge morale è la santità, una perfezione di cui non è capace nessun essere razionale del mondo sensibile, in nessun momento della sua esistenza. Poiché essa, mentre nondimeno viene richiesta come non necessaria, può essere trovata solo in un progresso che va all'infinito verso quella conformità completa, e, secondo i principi della ragion pura pratica, è necessario ammettere un tale progresso pratico come l'oggetto reale della nostra volontà. Ma questo progresso infinito è possibile solo supponendo un'esistenza che continui all'infinito, e una personalità dello stesso essere razionale (la quale si chiama l'immortalità dell'anima). Dunque il sommo bene, praticamente, è soltanto possibile con la supposizione dell'immortalità dell'anima; quindi, questa, come legata inseparabilmente con la legge morale, è un postulato della ragion pura pratica ( col che io intendo una posizione teoretica, ma come tale non dimostrabile, in quanto inerisce inseparabilmente ad una legge pratica che ha un valore incondizionato a priori)» I postulati della ragion pura pratica: l'esistenza di Dio 18. «La legge morale ha condotto nell'analisi precedente al problema pratico che, senz'alcun intervento di moventi morali, viene prescritto semplicemente mediante la ragion pura, cioè alla completezza necessaria della parte prima e principale del sommo bene, la MORALITÀ; e, poiché questo problema non può essere risolto se non in un'eternità, al postulato dell'immortalità. Questa stessa legge deve anche condurre alla possibilità del secondo elemento del sommo bene, cioè alla felicità proporzionata a quella moralità, con tanto disinteresse come prima, per semplice e imparziale ragione, vale a dire alla supposizione dell'esistenza di una causa adeguata a questo effetto; cioè deve postulare l'esistenza di Dio, come appartenente necessariamente alla possibilità del sommo bene (il quale oggetto della nostra volontà è legato necessariamente con la legislazione morale della ragion pura)» 19. «Che nell'ordine dei fini l'uomo (e con esso ogni essere razionale) sia un fine in se stesso, cioè non possa mai essere adoperato semplicemente come mezzo da alcuno (neanche da Dio), senza che nello stesso tempo sia anche un fine; che dunque l'umanità debba esser santa per noi stessi nella nostra persona; questo ormai va da sé, perché l'uomo è il soggetto della legge morale, e quindi di ciò che è santo in sé, per cui e in accordo con cui, soltanto, qualcosa può esser chiamata santa in genere. Poiché questa legge morale si fonda sull'autonomia della propria volontà, come di una volontà libera che, secondo le sue leggi universali, deve necessariamente potersi accordare con quello a cui si deve sottomettere» 20. «Ma non v'è una parola, capace di designare, non un godimento come quello della felicità, ma una compiacenza della propria esistenza, un analogo della felicità, che deve necessariamente accompagnare la coscienza della virtù? Sì!questa parola è contentezza di sé [Selbstzufriedenheit], che nel suo significato particolare indica sempre soltanto una compiacenza negativa della propria esistenza, in cui si è consci di non aver bisogno di niente. La libertà, e la coscienza di essa come di una facoltà di seguire con intenzione predominante la legge morale, è indipendenza dalle inclinazioni, almeno come cause determinanti [...] del nostro desiderio; e, in quanto io sono conscio di questa indipendenza nell'osservanza delle mie massime morali, essa è l'unica sorgente di una contentezza immutabile necessariamente legata con essa, che non si fonda su nessun sentimento particolare; e questa contentezza si può chiamare intellettuale» Testi tratti da: I.KANT, Critica della ragion pratica, trad. F.Capra, Laterza, Roma-Bari 1997