Rappresentanza processuale Giudicato implicito. Corte di Cassazione, Sez. un., sentenza n del 4 marzo 2016.

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Rappresentanza processuale Giudicato implicito. Corte di Cassazione, Sez. un., sentenza n. 4248 del 4 marzo 2016. La mancanza del potere di rappresentanza, essendo una delle condizioni di esistenza del potere di azione, giustifica il rilievo officioso in sede di legittimità, anche se non vi sia stata contestazione nei gradi di merito. L'ordinanza di rimessione della Seconda sezione, n. 25353/2014, ha ricordato che (Sez. un., 24179/2009) «in tema di rappresentanza processuale, il potere rappresentativo, con la correlativa facoltà di nomina dei difensori e conferimento di procura alla lite, può essere riconosciuto soltanto a colui che sia investito di potere rappresentativo di natura sostanziale in ordine al rapporto dedotto in giudizio, con la conseguenza che il difetto di poteri siffatti si pone come causa di esclusione anche della legitimatio ad processum del rappresentante, il cui accertamento, trattandosi di presupposto attinente alla regolare costituzione del rapporto processuale, può essere compiuto in ogni stato e grado del giudizio e quindi anche in sede di legittimità, con il solo limite del giudicato sul punto, e con possibilità di diretta valutazione degli atti attributivi del potere rappresentativo». Le Sezioni Unite del 2009 non hanno però precisato se la formazione del "giudicato sul punto" debba derivare dall'affermazione del giudice circa la sussistenza del potere rappresentativo in chi agisce in giudizio in nome altrui, o «se possa desumersi senz'altro dall'avvenuta decisione nel merito della causa». L'ordinanza di rimessione ha aggiunto che «in proposito, nell'ambito delle sezioni semplici, si è delineato un contrasto di giurisprudenza poiché la Prima sezione con la sentenza 30 ottobre 2009, n. 23035 e la sezione Lavoro con la sentenza 21 dicembre 2011, n. 28078 si sono orientate, rispettivamente, nel senso della sufficienza di giudicato "implicito" e nel senso della necessità del giudicato "esplicito". Il tema del giudicato implicito sulle questioni processuali ha trovato rinnovata ampia trattazione a partire dalla svolta giurisprudenziale (Cass., Sez. Un., sentenza n. 24883/2008) in tema di applicazione dell'art. 37 c.p.c., norma secondo la quale il difetto di giurisdizione "è rilevato, anche d'ufficio, in qualunque stato e grado del processo". La Corte di Cassazione ha in quella circostanza stabilito che: «1) il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti anche dopo la scadenza del termine previsto dall'art. 38 c.p.c. (non oltre la prima udienza di trattazione), fino a quando la causa non sia stata decisa nel merito in primo grado; 2) la sentenza di primo grado di merito può sempre essere impugnata per difetto di giurisdizione; 3) le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione soltanto se sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito, operando la relativa preclusione anche per il giudice di legittimità; 4) il giudice può rilevare anche d'ufficio il difetto di giurisdizione fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito. Le Sezioni Unite, poche settimane dopo aver reso la sentenza n. 24883/2008, ne hanno precisato la portata attraverso la sentenza n. 26019/2008 affermando che il potere di controllo delle nullità (non sanabili o non sanate), esercitabile in sede di legittimità, mediante proposizione della questione per la prima volta in tale sede, ovvero mediante il rilievo officioso da parte della Corte di cassazione, va ritenuto compatibile con la prospettiva del giusto processo di cui all'art. 111 Cost., allorché si tratti di ipotesi concernenti la violazione del contraddittorio - in quanto tale sistema di verifica consente di evitare che la vicenda si protragga oltre il giudicato, attraverso la successiva proposizione dell'actio nullitatis o del rimedio impugnatorio straordinario ex art. 404 c.p.c. da parte del litisconsorte

pretermesso - ovvero di ipotesi riconducibili a carenza assoluta di potestas iudicandi, come il difetto dilegitimatio ad causam o dei presupposti dell'azione, la decadenza sostanziale dall'azione per il decorso di termini previsti dalla legge, la carenza di domanda amministrativa di prestazione previdenziale, od il divieto di frazionamento delle domande, in materia di previdenza ed assistenza sociale. La Corte ha osservato che in tutte queste ipotesi si prescinde "dal vizio relativo all'individuazione del giudice", poiché si tratta non già di provvedimenti emanati da un giudice privo di competenza giurisdizionale, bensì di atti che nessun giudice avrebbe potuto pronunciare, "difettando i presupposti o le condizioni per il giudizio". È stato cioè confermata la distinzione tra diverse soluzioni: quella riservata alla questione di giurisdizione e quella che è prospettata da Sez. un., n. 26019/2008 per le questioni processuali "fondanti". Queste ultime non si possono considerare implicitamente risolte, ma sono soggette alla verifica dei giudici delle impugnazioni, perché servono a salvaguardare l'ordinamento dal disvalore "di sistema" costituito dall'emissione di sentenzeinutiliter datae. Va dunque ribadito che all'indispensabilità della qualità di rappresentante sostanziale (oltre a Sez. un., n. 24179/2009 cit., v. Cass. n. 16274/2015 e 4248/2013) fa riscontro anche la necessità di conferire per iscritto (art. 77 c.p.c.) la legittimazione processuale, così come quest'ultima non può esistere senza la prima. Ciò comporta la sanabilità del vizio della rappresentanza volontaria di cui qui si tratta ammessa dall'art. 182 c.p.c. Per le Sezioni unite (Cass. n. 9217/2010), già in controversia instaurata prima della novella n. 69 del 2009, «l'art. 182, secondo comma, c.p.c., secondo cui il giudice che rilevi un difetto di rappresentanza, assistenza o autorizzazione "può" assegnare un termine per la regolarizzazione della costituzione in giudizio, dev'essere interpretato, anche alla luce della modifica apportata dall'art. 46, comma secondo, della legge n. 69 del 2009, nel senso che il giudice "deve" promuovere la sanatoria, in qualsiasi fase e grado del giudizio e indipendentemente dalle cause del predetto difetto, assegnando un termine alla parte che non vi abbia già provveduto di sua iniziativa, con effetti "ex tunc", senza il limite delle preclusioni derivanti da decadenze processuali». Questo principio va in linea di principio confermato, con la precisazione che qualora il rilievo del vizio non sia officioso, ma venga per la prima volta sollevato in sede di legittimità dalla controparte, sorge immediatamente per il rappresentato l'onere di procedere alla sanatoria, con la produzione necessaria allo scopo. Non v'è infatti luogo per assegnare un termine, a meno che non sia motivatamente richiesto, quando il rilievo non sia officioso (e quindi nuovo), perché il giudice è stato preceduto dal rilievo di parte, sul quale l'avversario è chiamato a contraddire. Occorre dunque quindi respingere le posizioni rispecchiate in precedenza da Cass. 17893/2009 e Cass., Sez. un., 23019/2005, restie alla sanatoria in grado di impugnazione, e riaffermare l'opposto principio, secondo il quale è possibile la sanatoria del difetto di rappresentanza, senza che operino le ordinarie preclusioni istruttorie (v. Cass. 22099/2013; 798/2013). Qualora sorga in sede di legittimità la contestazione esplicita del potere rappresentativo del soggetto che ha agito in giudizio, o stia resistendo, la prova (documentale) della sussistenza della legittimazione processuale può essere fornita anche in questa sede, ai sensi dell'art. 372 c.p.c. (v. Cass. 12547/2003; 24813/2013).

La mancanza di ogni produzione, dalla quale dovrebbe derivare il suo potere sostanziale e processuale di rappresentare, impone invece di adottare la soluzione in rito di cassazione della sentenza impugnata, dichiarando la nullità di tutti gli atti del giudizio svoltosi su impulso processuale viziato.