COP12/MOP2 Nairobi: Kyoto alla prova del post 2012



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COP12/MOP2 Nairobi: Kyoto alla prova del post 2012 Nairobi, Kenya, Novembre 2006

[Fino a qui tutto bene Fino a qui tutto bene Fino a qui tutto bene Il problema non è la caduta ma l atterraggio] -dal film L Odio di M. Kassovitz- 1.1 Aumenta la febbre del Pianeta La temperatura media del pianeta arrivata a livelli mai raggiunti in migliaia di anni; il livello degli oceani che cresce; l artico che si scioglie con una velocità inaspettata. Il pianeta si presenta così alla vigilia dell appuntamento annuale con la Conferenza sui cambiamenti climatici, che si tiene a Nairobi, in Kenya, dal 6 al 17 novembre. Un pianeta malandato, con un clima che sta cambiando più rapidamente di quanto ci si aspettava, e costretto a fare i conti con le prove evidenti degli effetti del riscaldamento globale. Un esempio fra tanti lo offrono gli ultimi dati sullo scioglimento in atto al Polo nord resi noti dalla Nasa, secondo cui il processo di liquefazione dei ghiacci sta procedendo a una velocità maggiore di quanto diagnosticato appena cinque anni fa. In due differenti studi prodotti dall agenzia spaziale statunitense si dimostra che l estensione dei ghiacci perenni nel Mare dell Artico è diminuita del 14 per cento in soli 12 mesi tra il 2004 e il 2005, con la perdita in termini di superficie di un area pari alla Turchia. Dati che fanno riflettere ma che purtroppo non hanno ancora generato la necessaria presa di coscienza da parte di governi ancora restii a mettere in piedi serie politiche per l abbattimento delle emissioni dei cosiddetti gas serra, principale causa dei cambiamenti climatici. Sono passati infatti quasi dieci anni dalla firma del protocollo di Kyoto, che prevede obblighi definiti di riduzione dei gas climalteranti per i paesi industrializzati, e più di uno dalla sua entrata in vigore. Eppure le emissioni di gas prodotti da industrie, centrali elettriche, automobili, non accennano a nessuna battuta d arresto. Aumentano anzi a ritmi sostenuti e così faranno, secondo le previsioni, per almeno altri 7 anni. Gli ultimi dati, quelli relativi al 2004, parlano di un nuovo record per i paesi industrializzati, con l emissione, nel 2004 di 17,9 miliardi di tonnellate di gas climalteranti, contro i 17,5 miliardi emessi nel 2000. In testa alla lista dei paesi con maggiori responsabilità ci sono gli Stati Uniti, lo stato più inquinante al mondo e l unico paese industrializzato insieme all Australia che non ha ancora ratificato il protocollo di Kyoto. Qui le emissioni di CO2 sono aumentate di un ulteriore 1,3 per cento rispetto al 2000 e del 15,8 per cento rispetto al 1990, arrivando nel 2004 a quota 7 miliardi di tonnellate. Seguono il Canada e l Unione europea, che ha visto un aumento dello 0,4. E poi, non più tanto dietro le quinte, l inarrestabile crescita delle economie emergenti, che si fa sentire anche sul piano dell inquinamento prodotto. Prima fra tutti la Cina, un autentica potenza energivora le cui emissioni sono aumentate del 14 per cento in un solo anno e si calcola supereranno nel 2010 quelle degli Stati Uniti. E l India, che si attesta oggi al quinto posto nella classifica degli stati a maggiori emissioni di gas serra. Insomma, quando manca poco più di un anno al primo periodo di attuazione di Kyoto, il fatidico quinquennio 2008-2012 a partire dal quale gli obblighi di riduzione diventeranno cogenti, l impegno degli stati è decisamente troppo scarso. E pensare che la scadenza del 2012, data entro la quale gli stati industrializzati si sono impegnati a tagliare le proprie emissioni del 5 per cento, non è che il primo piccolo gradino in vista di riduzioni ben più sostanziose.

Paesi Le zone del mondo a maggiore emissione di CO2 Mt CO2 Incidenza sulle emissioni totali Stati Uniti 5,777 22.27% 19.09 Cina 4,497 17.34% 3.05 Unione europea 4,003 15.43% 8.08 Medio Oriente e Nord Africa 1,756 6.77% 4.01 Russia 1,581 6.10% 10.09 Giappone 1,258 4.85% 9.09 India 1,148 4.43% 1.01 Sud America 793 3.06% 2.02 Canada 543 2.10% 17.02 Corea del sud 489 1.89% 10.02 Australia 341 1.32% 17.02 Africa subsahariana 596 2.30% 0.08 Fonte: World Resources Institute: Emissioni di anidride carbonica per l anno 2003 Emissioni di CO2 pro capite Se si vuole evitare infatti che nei prossimi decenni la temperatura media del pianeta aumenti oltre i 2 gradi, limite al di là del quale i cambiamenti climatici potrebbero innescare una reazione a catena con effetti imprevedibili, c è bisogno di un impegno molto più consistente nella fase successiva al 2012. Per rientrare dallo stato in cui si trova l atmosfera l impegno deve riguardare tutti i Paesi ma in particolare quelli più industrializzati che devono ridurre le proprie emissioni del 30-35 per cento entro il 2020 e del 60 entro il 2050. Non farlo vuol dire accettare che la situazioni continui a peggiorare fino a sfuggire a qualsiasi controllo con conseguenze solo in parte immaginabili per le generazioni future e per le popolazioni più esposte a catastrofi naturali (si pensi alla desertificazione e alla siccità già galoppanti in molte aree del Pianeta). Una direzione su cui sono incamminati Governi poco lungimiranti, come quello degli Stati Uniti, che ha ribadito di non voler ratificare il protocollo, o del Canada che recentemente ha annunciato di non essere in grado di rispettare gli obblighi di Kyoto per il primo periodo. Fa riflettere l accusa lanciata a settembre dalla Royal Society, la più prestigiosa accademia scientifica britannica, contro la compagnia petrolifera Exxon Mobil che avrebbe versato ben 2,9 miliardi di dollari a gruppi di ricerca impegnati a negare il fenomeno del riscaldamento globale 1. Anche per questo motivo esercitare pressioni sui governi, mantenere alta l attenzione, sensibilizzare l opinione pubblica restano priorità fondamentali. Non è un caso se oggi anche negli Stati Uniti le cose si stanno muovendo. A settembre il governatore dello stato della California, il repubblicano Arnold Schwarzenegger, ha deciso di approvare un piano autonomo per l applicazione di Kyoto e la riduzione del 25 per cento di CO2 entro il 2020. Una dimostrazione di quanto l amministrazione Bush sia oggi sempre più isolata nel suo rifiuto ad affrontare gli impegni di Kyoto, ma anche di quanto peso può avere la sensibilizzazione dei cittadini sui propri governi. 1 Nella lista dei 39 gruppi finanziati ci sarebbero l'international Policy Network di Londra e il George Marshall Institute di Washington, che nel 2004 hanno pubblicato uno studio in base al quale l'aumento delle temperature non sarebbe correlato ai crescenti livelli di diossido di carbonio nell'atmosfera. La Exxon Mobil ha risposto alla lettera affermando che i report «spiegano apertamente e onestamente punti di vista sul cambiamento del clima».

La crescita delle emissioni nei paesi industrializzati (1990-2004) Emissioni totali dei gas serra senza LULUCF MtCO2 Cambiamento in percentuale Paesi 1990 2000 2004 1990-2004 2000-2004 Australia 423,1 504,2 529,2 +25,1 +5 Canada 598,9 725 758,1 +26,6 +4,6 Unione europea 4252,5 4129,3 4228-0,6 +2,4 Giappone 1272,1 1345,5 1355,2 +6,5 +0,7 Russia 2974,9 1944,8 2024,2-32 +4,1 Turchia 170,2 278,9 293,8 +72,6 +5,3 Stati Uniti 6103,3 6975,9 7067,6 +15,8 +1,3 Fonte: Unfcc Ghg data 2006 1.2 Nairobi: Kyoto alla prova del post 2012 A Nairobi dal 6 al 17 novembre si svolge il secondo incontro tra le Parti del Protocollo di Kyoto (COP/MOP 2) in concomitanza con la dodicesima sessione della Conferenza delle Parti sulla Convenzione sui Cambiamenti Climatici (COP 12). Si tratta della prima conferenza, nell ambito della convenzione sui cambiamenti climatici, ospitata da un paese africano. Un appuntamento particolarmente significativo quindi, dal quale ci si aspetta una speciale attenzione sugli effetti catastrofici dei cambiamenti climatici in atto sui paesi in via di sviluppo, in molti casi i più vulnerabili dal punto di vista ambientale. Il post 2012, ovvero tutti gli accordi che riguardano l ampliamento del protocollo di Kyoto nella fase successiva al 2012, è l argomento cruciale nelle trattative che iniziano a Nairobi. Lo scorso anno, alla conferenza sul clima di Montreal, la decisione di avviare le discussioni sul futuro del protocollo dopo la sua prima fase di attuazione era stato salutato come un successo. In quella sede si decise la costituzione di due organi che avrebbero analizzato i diversi aspetti per l implementazione del Protocollo. Da un lato il gruppo di lavoro specifico per negoziare gli impegni di riduzione nel lungo periodo dei paesi industrializzati: l Ad hoc working group (AWG) che lavora sulla base di quanto prescritto dall articolo 3,9 del Protocollo. Dall altro un gruppo incaricato di verificare le modalità per estendere il Protocollo anche ai paesi in via di sviluppo, per ora esenti da impegni: il cosiddetto Dialogo. Un foro, quest ultimo, meno istituzionale del primo, come voluto dalla Cina e dal G77, in modo da evitare che le discussioni sull estensione del Protocollo assumessero la natura di un autentico negoziato. Entrambi i gruppi hanno già iniziato i loro lavori e a novembre presenteranno un primo resoconto dei risultati raggiunti. Nel caso del Dialogo un accordo complessivo è previsto per il 2007, mentre per l AWG si auspica il negoziato termini prima del 2008. In nessuno dei due casi quindi ci si aspetta il raggiungimento di documenti definitivi a Nairobi, ma non per questo la conferenza di novembre costituisce un appuntamento meno cruciale. Esiste infatti un rischio molto alto che gli stati interessati a evitare ulteriori passi in avanti nel processo di Kyoto, e in prima linea gli Stati Uniti, usino Nairobi per fare slittare le trattative e trovarsi poi impreparati al momento di dovere sottoscrivere impegni definitivi. Per quanto riguarda i contenuti delle trattative è chiaro che nulla si muoverà se i due gruppi invece di lavorare in maniera congiunta seguiranno ognuno un distinto tracciato. Pur mantenendo ben saldo il principio della maggiore responsabilità storica dei paesi industrializzati nell accumulo di carbonio nell atmosfera, non c è dubbio infatti che includere i paesi a rapida industrializzazione come India, Brasile o Cina all interno degli accordi sia una

priorità (e si pensa al 2020 come una data limite). Ma non ci si può aspettare l adesione dei paesi in via di sviluppo se gli stati industrializzati non daranno prima chiari segnali sugli impegni che intendono assumersi in futuro. E non si tratta solo dell urgenza di definire l entità del taglio di emissioni per il post 2012. Oggi i paesi in via di sviluppo, sulla base di quanto previsto dal Protocollo, chiedono a gran voce l estensione dei meccanismi di adattamento, quelli che dovrebbero servire a prevenire e affrontare gli effetti dei cambiamenti climatici, attraverso fondi di assistenza e compensazione finanziati dai paesi industrializzati. E poi c è il delicato argomento dell implementazione complessiva del Protocollo e in particolare della revisione e ampliamento dei meccanismi flessibili, ovvero delle misure previste dal protocollo per permettere ai paesi industrializzati di rispettare gli impegni di riduzione non attraverso azioni dirette sul proprio territorio, ma mediante l acquisto di crediti di emissione all estero. 1.3 I meccanismi flessibili Sulla base del principio che i tagli alle emissioni di gas climalteranti sono una priorità in qualsiasi parte del mondo vengano effettuati, il protocollo di Kyoto ha previsto tre meccanismi flessibili: il mercato delle emissioni (ET) dove è possibile acquistare crediti di emissione dalle industrie che inquinano al di sotto dei limiti previsti; il meccanismo per lo sviluppo pulito (CDM), che permette di ottenere crediti da progetti ambientali nei paesi in via di sviluppo; l attuazione congiunta (JI), per i progetti nei paesi dell ex blocco sovietico. A Nairobi si continuerà a discutere da un lato del miglioramento dei meccanismi attualmente esistenti dall altro della previsione di nuovi meccanismi. Oggi sono soprattutto i CDM a destare il grande interesse dei governi dei paesi industrializzati e delle imprese. Nel 2005 si calcola sono state effettuate transazioni aventi oggetto crediti da CDM per un totale di 454 milioni di tonnellate di Co2 e una somma complessiva di 10 miliardi di dollari. La grande maggioranza dei crediti è stata acquistata dal Giappone, ma una cospicua fetta spetta anche all Italia, terza nella classifica degli acquirenti con l 11 per cento delle transazioni. Mentre per quanto riguarda i paesi destinatari dei progetti è la Cina a fare la parte del leone con i due terzi dei progetti approvati. Sul piano della funzionalità il meccanismo presenta ancora diverse problematiche. Se secondo gli investitori problemi sorgono soprattutto per la lentezza con cui i progetti vengono esaminati è la qualità dello sviluppo pulito proposto nei CDM a preoccupare di più chi si occupa di cambiamenti climatici. Non tutti i progetti che danno crediti hanno infatti un eguale impatto in termini ambientali. Semplificando si può dire che dal punto di vista ambientale l installazione di pannelli solari in un quartiere di Città del Capo è molto più proficua della forestazione di una superficie di identiche dimensioni in Cina. Per questo continua a essere assolutamente necessario che i progetti siano valutati in base alla loro sostenibilità ed efficacia per l ambiente, e non solo in base alla loro convenienza economica. In caso contrario il meccanismo flessibile dei CDM del rischia di tramutarsi in uno strumento per aggirare gli impegni di riduzione ammortizzando le spese. Un esempio concreto di questa deriva lo offre il dibattito attualmente in corso riguardo la possibilità di considerare sviluppo pulito anche i progetti di sequestro e stoccaggio del carbonio (CCS). Si tratta di una tecnologia piuttosto complessa che permette la deviazione e l immagazzinamento nel sottosuolo delle emissioni di anidride carbonica prodotte dai grandi impianti industriali. Un innovazione su cui da tempo si concentra l interesse di settori industriali e governi che vi vedono una ghiotta opportunità per affrontare il problema delle riduzioni di Co2 continuando a poter fare affidamento sulle energie fossili, ma sulla quale ancora oggi esistono molteplici perplessità. In questo anno si è parlato con insistenza della possibilità di inserire progetti di cattura del carbonio all interno del meccanismo dei CDM. In altre parole della possibilità che in futuro si possano ottenere crediti di emissione da sistemi CCS impiantati nei paesi in via di sviluppo. Una proposta che si auspica venga rigettata con decisione. Non esiste infatti alcun

elemento certo per ritenere non rischiosa la tecnologia del sequestro e stoccaggio, mentre come ha sottolineato l organo scientifico della convenzione dell Onu sul clima, l Ipcc, esistono grandi difficoltà di monitorare la tecnologia CCS e manca una normativa internazionale di riferimento. Senza contare che il finanziamento nei paesi in via di sviluppo di questi sistemi verrebbe fatta a scapito di progetti per l abbattimento reale delle emissioni e cioè quelli che puntano al miglioramento dell efficienza energetica o allo sviluppo delle fonti d energia rinnovabili. Lo stesso identico discorso vale nell ipotesi dei nuovi meccanismi flessibili che si stanno studiando in previsione delle fasi successive al 2012. La creazione di nuovi strumenti, che permettano l effettivo trasferimento nei paesi in via di sviluppo di tecnologie e finanziamenti per uno sviluppo pulito delle economie a rapida industrializzazione, è senza dubbio una necessità. Ma la scelta dei meccanismi deve essere fatta in modo ponderato evitando di minare il principio dell efficacia ambientale. Fermare la deforestazione, con Kyoto è possibile Attualmente si calcola che la deforestazione incida tra il 20 e il 25 per cento sull aumento dell anidride carbonica nell atmosfera. L abbattimento ogni anno di migliaia di ettari di foreste limita in modo drammatico la capacità naturale del nostro ecosistema di trattenere e stoccare la Co2, oltre ad avere impatti pesantissimi sulla biodiversità e sulle popolazioni locali. Per questo a partire da Montreal. su una proposta presentata dalla Papua Nuova Guinea e dalla Costa Rica, si è deciso di studiare un meccanismo specifico all interno dei negoziati di Kyoto che permetta di finanziare l impegno nella lotta alla deforestazione. Nonostante contribuisca in modo considerevole ai cambiamenti climatici, l abbattimento delle foreste non è infatti considerato in modo dettagliato né nella Convenzione sul clima, né all interno del Protocollo di Kyoto. Oggi esistono due vie per rendere la lotta alla deforestazione parte integrante del sistema di riduzione delle emissioni. Da un lato attraverso fondi specifici finanziati dai paesi ricchi, dall altro mediante l inclusione della cosiddetta deforestazione evitata all interno del meccanismo per lo sviluppo pulito (CDM). Nella seconda ipotesi, l azione di contrasto di uno stato alla deforestazione verrebbe quantificata in termini di CO2 non emessa e quindi contabilizzata come crediti da rivendere al pari di quanto avviene con i progetti Cdm. A Roma dal 30 agosto al 1 settembre 2006, si è tenuto un incontro intergovernativo con le proposte di 68 paesi per vedere come rendere effettivo un meccanismo flessibile di deforestazione evitata. Alla base dei negoziati permangono una lunga serie di problemi tecnici: la determinazione di impegni definiti nella preservazione delle foreste; la standardizzazione e la quantificazione delle quote di Co2 risparmiate in questo modo; il monitoraggio del processo. La deforestazione è infatti un fenomeno che differisce da paese a paese, da tipo a tipo di foresta e una standardizzazione risulta particolarmente ostica. L attuazione del principio avrebbe però notevoli vantaggi in termini ambientali. Per quanto riguarda Kyoto il suo inserimento faciliterebbe l ingresso nei meccanismi del protocollo di paesi che altrimenti ne risulterebbero esclusi, come la Papua Nuova Guinrea e gli altri paesi africani, latinoamericani e asiatici ricchi di foreste pluviali. Ancora maggiore il contributo di un meccanismo di avoid deforestation nella preservazione delle foreste, che oggi non trova alcuna tutela vincolante nel diritto internazionale. Nonostante lo spartiacque rappresentato dalla Conferenza di Rio, non esiste uno specifico meccanismo internazionale che obblighi gli stati a prendersi cura del patrimonio forestale. Le trattative per giungere alla firma di un accordo multilaterale sono tutte fallite e anche il forum dell Onu sulle Foreste non ha trovato soluzioni sulla deforestazione.

2 Kyoto-Bruxelles: il filo diretto tra l Europa e i negoziati sul clima 2.1 Europa: un leader credibile? L Unione europea porterà con decisione la proposta di un sostanzioso taglio delle emissioni per il periodo successivo al 2012? E come affronterà le trattative nei confronti dei Paesi in via di sviluppo per la loro inclusione? Cosa farà l Ue se i paesi a rapida industrializzazione non sono disposti ad accettare limiti nel medio e lungo termine? Prende impegni ancora più seri? Alla vigilia della conferenza di Nairobi l attenzione è ancora una volta concentrata sull Unione europea. Nel lungo percorso delle trattative sul clima, l Europa ha sempre esercitato un ruolo di leadership e oggi continua a essere uno degli attori principali, soprattutto in un momento come questo, in cui è in gioco il futuro del Protocollo. In vista dei negoziati sull aggiornamento degli impegni e la revisione del Protocollo di Kyoto sono almeno due gli obiettivi prioritari che l UE deve fare propri. Il primo riguarda la determinazione di un impegno definito e sostanzioso per l abbattimento delle emissioni nel lungo periodo. Nel 2005 il Consiglio europeo dei ministri dell ambiente adottò un importante decisione sulla necessità di considerare un taglio delle emissioni da parte dei paesi industrializzati nell ordine del 15-30 % entro il 2020 e del 60-80 % per cento entro il 2050. Oggi, sebbene crediamo che solo gli estremi superiori delle due forchette debbano essere presi in considerazione, quella decisione deve essere ribadita con forza come obiettivo imprescindibile e sostenuta all interno dei negoziati sul clima. Il secondo è strettamente correlato con il primo e riguarda l adozione di un calendario stringente per fare in modo che le trattative sul futuro di Kyoto non vadano oltre il 2008. Per evitare che si entri nel primo periodo di Kyoto senza nessuna certezza su quello che potrebbe succedere dopo, Bruxelles dovrà essere un soggetto estremamente attivo nel favorire una mediazione. Ma allo stesso tempo dovrà mantenere ben solido l obiettivo cardine nella lotta ai cambiamenti climatici, che è quello di evitare che l aumento della temperatura globale superi, nei prossimi decenni, il picco dei 2 gradi centigradi. 2.2 Nel continente leader su Kyoto molto resta ancora da fare Messi da parte gli aspetti negoziali, è soprattutto sul piano delle misure interne che si gioca la credibilità del vecchio continente. Efficienza energetica, rinnovabili, abbattimento delle emissioni nei trasporti e nei settori industriali, riduzione dei consumi. Nel 1997 l Unione europea si è assunta il carico maggiore tra gli stati industrializzati, negli impegni di riduzione, con l obiettivo di raggiungere un -8 per cento rispetto alle emissioni del 1990. A quasi dieci anni di distanza molto ancora resta da fare. E lo dimostra l ultimo rapporto dell Agenzia europea dell Ambiente, la Eea. Secondo l organo responsabile di fornire i dati sulle emissioni europee, la quantità di gas climalteranti nei cieli europei continua a crescere nonostante il consistente abbattimento delle emissioni registrato all inizio degli anni 90. Ne risulta che oggi l Europa si trova sì sotto i livelli di inquinamento del 1990, (lo 0,4 per cento in meno), ma dal 2000 in poi la distanza rispetto all obiettivo di Kyoto, non ha fatto che aumentare (come è evidente dal grafico riportato in basso).

Unione europea: trend delle emissioni dei gas serra dal 1990 Emissioni gas serra EU 15 Riduzione media necessaria Obiettivo 2012 Fonte: Agenzia europea per l ambiente (EEA) Inventario 2006 emissioni europee Tra i 15 stati membri che sottoscrissero gli accordi di Kyoto esistono naturalmente grandi differenze. Non è un caso se la Germania è il leader europeo delle fonti rinnovabili, e in Gran Bretagna, dove è in corso la campagna elettorale, la lotta ai cambiamenti climatici è un argomento che nessun partito in lizza si sogna di trascurare. I paesi dell Europa settentrionale e centrale sono ancora molto avanti rispetto alla fascia meridionale in quanto a politiche e sensibilizzazione sull ambiente. Ma, seppur lentamente, il divario si sta colmando, soprattutto nel settore delle rinnovabili. E lo dimostra l esempio della Spagna dove il poderoso sviluppo dell eolico ha portato nel 2005 a una capacità produttiva di 10mila MW, superando la produzione nazionale da nucleare e idroelettrico e arrivando a soddisfare il 7,8% della domanda di energia elettrica (in Italia l intero approvvigionamento da fonti alternative, compreso l idroelettrico, arriva al 7%). Ma lo dimostra anche la Grecia, un paese molto avanti nell utilizzo dei pannelli solari termici e dove è stata appena approvata una legge che istituisce il conto energia per il fotovoltaico connesso alla rete e che fissa a 700 MW l obiettivo di sviluppo di questa fonte per il 2007. Resta il problema dei quadri legislativi di riferimento. Nella maggior parte degli stati europei infatti se le misure idonee a contrastare il riscaldamento globale stentano a decollare la causa risiede principalmente nella scarsa volontà politica e nella conseguente lentezza con cui vengono adottate le normative necessarie. Ed è qui che è rimane prioritario il ruolo della Commissione europea, sia come garante che come promotore del livellamento ambientale dei vari stati membri. Nel settore energetico un passo decisivo per l armonizzazione delle normative potrebbe essere l adozione ad ottobre del piano d azione europeo per l efficienza energetica. Si tratta di un documento programmatico sul consumo di combustibili fossili per la produzione di elettricità o nei trasporti, che sebbene non contenga target precisi per gli stati membri, fissa l obiettivo di arrivare da qui al 2020 a una riduzione del 20 per cento degli sprechi. Un obiettivo di non scarso rilievo dato che in tutta Europa lo spreco di energia è ancora altissima ed è qui che molto si può fare per ridurre l incidenza delle emissioni. All interno delle misure europee finalizzate all abbattimento delle emissioni un discorso a parte merita invece il Mercato europeo delle emissioni (ETS). Entrato in vigore il 1 gennaio del 2005, l European Trading System è la più importante normativa vincolante per il raggiungimento degli obiettivi di Kyoto, a livello europeo.

Unione europea: andamento delle emissioni e impegno di Kyoto Stati Membri 1990 Mt 2004 Mt Differenza 2003-2004 (%) Differenza rispetto al 1990 (%) Impegni di riduzione per il 2008-2012 (%) Austria 78,9 91,3-1,30% +15,70% -13% Belgio 146,9 147,9 +0,20% +0,70% -7,50% Cipro 6 8,9-3,00% +48,20% - Repubblica Ceca 196,3 147,1-0,30% -25,10% -8% Danimarca 69,3 68,1-8,10% -1,80% -21% Estonia 42,6 21,3 +0,70% -50% -8% Finlandia 71,1 81,4-4,90% +14,50% 0% Francia 567 562,8 +0,30% -0,80% 0% Germania 1230 1015-0,90% -17,50% -21% Grecia 111,1 137,8 +0,30% +23,90% 25% Ungheria 122,2 83,1-0,20% -32% -6% Irlanda 55,8 68,5 +15,00% +22,70% 13% Italia 518,9 582,5 +0,90% +12,30% -6,50% Lettonia 25,9 10,7 +0,40% -58,50% -8% Lituania 50,9 20,3 +17,90% -60,10% -8% Lussemburgo 12,7 12,7 +11,30% +0,30% -28% Malta 2,2 3,2 +4,20% +45,90% - Olanda 214,3 217,8 +1,10% +1,60% -6,00% Polonia 565,3 386,4 +1,00% -31,60% -6,00% Portogallo 60 94,5 +1,00% +41% 27% Slovacchia 73,2 51-0,10% -30,30% -8% Slovenia 20,2 20,1 +2% -0,80% -8% Spagna 289,4 427,9 +4,80% +47,90% 15% Svezia 72,5 69,9-1,50% -3,60% 4% Gran Bretagna 767,9 659,3 +0,20% -14,15% -12,50% Fonte: Agenzia europea per l ambiente (EEA) Inventario 2006 emissioni europee 2.3 Un mercato che scotta 11400 impianti e 5000 aziende vincolate, per un totale di circa 2 miliardi di tonnellate di CO2 (circa il 50 per cento di quanto emesso nell Ue). Sono questi i numeri del mercato europeo, un sistema che ha reso l anidride carbonica una variabile costo imprescindibile per le aziende, facendola diventare un autentica materia prima, che al pari delle altre è quotata in borsa e il cui costo sale quanto più se ne usa. Istituito attraverso la direttiva 87 del 2003, ed entrato in vigore, come si è detto, il 1 gennaio del 2005, il mercato europeo è un anticipazione del mercato globale delle emissioni previsto nel protocollo di Kyoto tra i meccanismi flessibili ed è indirizzato esclusivamente ai settori più inquinanti della produzione industriale (raffinazione, elettrico, ceramica, cemento, piastrelle, carta ecc). Oggi questo sistema è a un importante giro di boa con la chiusura in vista della primo periodo biennio di attuazione (2005-2007). Una fase di adattamento, come è stata definita, ma anche di studio per comprendere cosa funziona e cosa no nella commercializzazione delle emissioni di CO2. Una serie di difficoltà sono emerse nel primo anno di attuazione delle direttive, a cominciare dall approvazione da parte dei governi dei Piani nazionali di allocazione (PNA), che, prevedendo i tetti massimi di emissione settore per settore e ciminiera per ciminiera, costituiscono l ossatura del sistema di commercializzazione dei crediti di CO2. Tra i principali problemi emersi dall analisi dei PNA dei 25 stati membri:

a) sovrallocazione Molti stati membri (vedi grafico sotto) nel primo Piano di allocazione, quello valido fino al 2007, hanno previsto tetti di emissione molto più alti di quanto auspicato, consentendo di fatto alle imprese di mantenere invariate le proprie emissioni se non addirittura di ricevere un incentivo, proprio dallo strumento del mercato. L Ets permette infatti alle imprese che hanno rispettato i limiti imposti nei PNA di rivendere sul mercato le cosiddette quote pulite, che verranno acquistate da chi ha superato i propri limiti. In alcuni dei nuovi membri dell Ue, vedi il caso della Repubblica Ceca o dell Ungheria, ma anche della Francia, la sovrallocazione di quote ha di fatto minato il principio cardine dell Ets: chi inquina paga. b) distanza da Kyoto. Attraverso PNA estremamente concessivi molti stati membri hanno negato al mercato delle emissioni un ruolo di reale strumento per il raggiungimento degli obiettivi di Kyoto. L Ets dovrebbe infatti servire per ottenere l apporto dell industria all abbattimento delle emissioni entro il 2012. Se lo stato chiede poco alle industrie, sarà costretto, per non venire meno ai propri impegni, a fare molto nel settore dei trasporti, nell edilizia, nell efficienza energetica. Ambiti sui quali sono necessari interventi strutturali che mancano in molti stati membri. E questo è tipicamente il caso dell Italia, che con il suo primo PNA ha voluto alleggerire il peso per le industrie inquinanti scaricando il grosso degli impegni di abbattimento della CO2 a misure future di cui non si ha alcuna traccia. c) trasparenza. I Piani nazionali di allocazione, sono documenti elaborati dai governi sulla base di informazioni dettagliate e spesso complesse. In molti paesi questi dati non sono stati resi noti in modo chiaro determinando la difficoltà di un giudizio critico sul loro contenuto. La direttiva sull Ets, stabilisce inoltre l obbligo per i governi di far partecipare tutti gli attori interessati al processo di formulazione dei PNA. In molti casi il coinvolgimento ha riguardato quasi esclusivamente i dirigenti delle grandi imprese, mentre un po ovunque Ong e associazioni ambientaliste sono state tenute fuori. Stato membro I Piani Nazionali di allocazione delle emissioni Emissione Differenza tra media dei tetto medio e settori Ets emissione media (Mt CO2) (Mt CO2) Tetto medio nazionale emissioni PNA 2005-2007 (Mt CO2) Differenza in percentuale Austria 33 30,22 2,78 9,20% Belgio 62,93 61,04 1,9 3,10% Danimarca 33,5 30,9 2,6 8,40% Finlandia 45,5 36,2 9,3 25,70% Germania 499 501-2 -0,40% Grecia 77,58 75,24 2,34 3,10% Irlanda 22,32 20,88 1,44 6,90% Italia 224 224 0 0% Lussemburgo 3,36 2,54 0,81 32% Olanda 95,3 86,5 8,8 10,20% Portogallo 38,17 36,6 1,57 4,30% Spagna 174,43 154,86 19,57 12,60% Svezia 22,9 20,2 2,7 13,40% Regno Unito 245,33 245,9 0,57-0,20% Ue 15 1742,34 1670,68 71,66 4,30% Fonte: Can Europe National allocation plans 2005/2007: Do they deliver?

Nel complesso quindi dall analisi dei Piani nazionali dei 25 stati membri per il periodo 2005-2007 risulta evidente che quasi nessun governo ha adottato una strategia responsabile per una riduzione graduale in vista del raggiungimento dell obiettivo 2012. Limiti alti, quote generose nei settori chiave. Tra i 25 solo Germania e Gran Bretagna hanno chiesto alle proprie industrie di ridurre le emissioni sotto i livelli del 1990. Questa distorsione è derivata anche dalla poca rigidità da parte della Commissione europea nel momento di esaminare i singoli Piani. Dalla fine di ottobre in poi Bruxelles sarà impegnata ad esaminare i secondi Piani di allocazione, quelli validi per il 2008-2012. L intervento della Commissione europea in questo caso dovrà essere molto più deciso, in modo da evitare sovrallocazioni e conseguenti disequilibri tra le imprese dei diversi stati Ue. Quanto ai governi degli stati membri, spetta a loro dare un segnale diverso su quale ruolo intendono assegnare allo strumento di mercato: un stimolo per l abbattimento reale delle emissioni o uno stratagemma finanziario per evitare che i costi di Kyoto siano eccessivi? Interrogativi impellenti oggi, dato il passaggio dalla prima alla seconda fase del sistema, ma che non riguardano solo l Europa. Dal miglioramento del sistema europeo di Emission trading e dalla sua tenuta in futuro dipende infatti anche la credibilità dell Europa come leader politico nella lotta ai cambiamenti climatici. Se l Europa fallisce, il compito di convincere Stati Uniti o Australia a intraprendere la strada di Kyoto risulterà molto più difficile, per non parlare dell India o della Cina. Oltre alla necessaria revisione delle modalità attraverso cui i governi allocano le quote di CO2 alle imprese, in Europa si discute attivamente sulla possibilità di allargare il sistema di mercato a nuovi settori e nuovi gas climalteranti. Nonostante il protocollo di Kyoto riguardi l emissione di 6 gas, il mercato europeo prende in considerazione solo l anidride carbonica e, per quanto riguarda gli agenti inquinanti, solo alcuni settori (cemento carta elettricità ecc ). Questo perché l anidride carbonica è di gran lunga il gas che ha maggiori effetti sui cambiamenti climatici, e perché il sistema di mercato è difficilmente pensabile se applicato non solo ai grandi complessi industriali, ma anche a le piccole fonti di emissione. Numerose analisi e studi sono stati portati avanti per verificare le possibilità di allargare il sistema del mercato ad altri settori altamente inquinanti ma fino ad oggi non coperti dalla direttiva 87. E il caso dei sistemi di refrigerazione nei supermercati, delle compagnie di trasporto su ruota, della chimica ecc. Tuttavia secondo uno studio estremamente dettagliato reso pubblico da Lets, sono veramente pochi i settori che presentano le caratteristiche adatte per essere incluse in modo efficace nel mercato delle emissioni. Tra queste: l estrazione del carbone, la produzione di alluminio e alcuni settori del chimico. Per tutti gli altri settori invece, tra cui trasporti e supermercati, sono di gran lunga preferibili altri sistemi per la riduzione delle emissioni, e in primo luogo il tradizionale strumento dei limiti e delle multe imposti attraverso specifiche normative. Un discorso a parte deve essere fatto invece per il traffico aereo di cui includiamo una scheda qui sotto. Riduciamo i voli aerei Secondo dati del 2000, il traffico aereo incide dal 4 al 9 per cento, sul totale delle emissioni che incidono sull effetto serra. L aviazione è di gran lunga il mezzo di trasporto che inquina di più, e che meno sforzi ha fatto in questi ultimi cento anni per migliorare la sua efficienza in ambito ambientale. Dall adozione del protocollo di Kyoto le compagnie aeree pertanto sono diventate un ambito specifico di discussione all interno dell Unione europea. Nel 2005 una raccomandazione della Commissione europea parla esplicitamente della necessità di inserire le emissioni di C02 all interno del mercato europeo delle emissioni, l Ets. Pochi mesi dopo il parlamento di Strasburgo adotta una risoluzione in cui si esorta la commissione ad adottare misure ancora più stringenti per limitare le emissioni di Co2 prodotte dai voli aerei. L Ets, dice il Parlamento, da solo non basta, serve un pacchetto completo di norme sugli aerei che preveda anche

nuove tasse per le compagnie. Sull argomento si auspica l adozione di una risoluzione nel 2007 ma il dibattito è oggi particolarmente acceso. La questione in ballo più delicata è la limitazione territoriale della direttiva: i limiti di emissione per gli aerei riguarderanno solo le compagnie europee o tutte le compagnie che transitano per l Europa? Per essere efficace la direttiva non può che applicare la seconda soluzione, ma contro questa si sono levate le critiche dei paesi extracomunitari. Stati Uniti, ma anche India e Cina stanno facendo forti pressioni per affossare il disegno di risoluzione e soprattutto per non vedere le proprie compagnie soggette ad obblighi di riduzione. E necessario sottolineare che i danni provocati dal traffico aereo, in costante aumento da quando sono apparsi i primi voli low-cost, non possono essere limitati esclusivamente con un sistema di scambio di emissioni. Tasse specifiche, limiti e incentivi per l innovazione tecnologica dovranno essere parte integrante di qualsiasi normativa in materia. Ma è soprattutto sulla responsabilizzazione della società che si gioca una partita fondamentale. L abbattimento dei costi di un biglietto aereo ha consentito in questi ultimi anni praticamente a tutti di spostarsi con maggiore libertà. Oggi siamo chiamati a un nuovo passo in avanti. Viaggiare tutti ma viaggiare molto meno. 3. Kyoto nella finanziaria. L Italia cambia rotta? 3.1. Un Italia a tutto gas L impegno di riduzione assunto dall Unione europea nell ambito del protocollo di Kyoto si è tradotto per l Italia nell obbligo di abbattere entro il 2012 il 6,5 per cento delle emissioni di gas climalteranti rispetto al 1990. Un obiettivo considerato come il primo passo da effettuare per una seria politica ambientale, che tuttavia con il passare degli anni si è sempre più allontanato diventando una sorta di chimera. Da quando infatti il protocollo è stato firmato nel 1997, le emissioni prodotte in Italia sono considerevolmente aumentate, giungendo oramai a un clamoroso più 12,2 per cento. Risultato: quando manca poco più di un anno al fatidico inizio della fase attuativa di Kyoto (che prende il via il 1 gennaio del 2008), l Italia si trova a dover abbattere non più il 6,5 ma il 18,7 per cento dell inquinamento prodotto nel 1990. Una ritardo colossale che risulta ancora più evidente se analizzato in termini assoluti. Ogni anno il sistema Italia produce 97 migliaia di tonnellate di anidride carbonica in più di quanto dovrebbe fare se rispettasse già da ora Kyoto. Ciò vuol dire che al momento dei conteggi nel 2012, se per assurdo non venisse adottata nessuna riduzione, il nostro debito ammonterà a 600 Mt Co2, considerando i cinque anni di attuazione e un ulteriore aumento di 120 MtCo2. Un buco che costerà caro al nostro paese, se non si adotta una politica coraggiosa in grado di guidare il sistema produttivo verso forme più sostenibili. Da qui al 2012 la tentazione potrebbe essere infatti quella di acquistare all estero i crediti di emissione necessari a rispettare i nostri impegni. Ma in questo caso il conto potrebbe risultare particolarmente salato, dato che i prezzi sul mercato delle emissioni continuano ad essere instabili. Senza contare che investendo all estero il nostro paese perderebbe l opportunità di utilizzare il protocollo per generare investimenti interni ben più proficui. 3.2 I settori inquinanti Anidride carbonica prodotta dai mezzi di trasporto, protossido di azoto emesso dai fertilizzanti. monossidi di zolfo e di azoto generati dalla combustione industriale, metano che scaturisce dall allevamento e dalle discariche. Sono molteplici le attività antropiche che incidono sul riscaldamento globale. In Italia, secondo gli ultimi dati sulle emissioni pubblicati dall Agenzia per la protezione dell ambiente e per i servizi tecnici (APAT), il settore che in assoluto continua a incidere di più sull inquinamento da gas serra è quello dell uso di combustibili fossili per la produzione di energia, nei i trasporti, nell edilizia etc. Un settore che nel 2004 ha registrato un

aumento del 13,6 per cento nelle emissioni rispetto al 1990. Non sono da meno i vari processi industriali, il cui aumento della produzione ha portato nel 2004 a una crescita del 15 per cento delle emissioni, con un incidenza sempre maggiore dei gas usati per la refrigenerazione e l aria condizionata E poi in preoccupante espansione è anche il settore dei rifiuti con un consistente aumento delle emissioni di metano generate dalle discariche. Tutti settori per i quali sono necessarie politiche che superino la forma delle misure una tantum attuate in passato. Più il tempo passa minori saranno le possibilità di interventi articolati capaci di rendere i costi di Kyoto in un opportunità di rilancio ambientale del nostro paese. Oggi i segnali positivi non mancano. A cominciare dal settore industriale con il nuovo piano nazionale di assegnazione delle emissioni, presentato a ottobre alla Commissione europea. Nonostante alcuni limiti il nuovo Pna (quello valido per il quinquennio 2008-2012) sembra finalmente uscire da quella logica tanto cara a parte della nostra società, che considera Kyoto un ostacolo da aggirare, più che un semaforo da rispettare. Emissioni di gas serra in Italia 1990-2004 (in Mt CO2) Fonti di emissione 1990 2003 2004 Incremento (1990-2004) 1. Energia (compresi i trasporti) 422.600,35 477.126,77 479.955,11 13,6% 2. Processi industriali 36.544,50 38.955,40 41.982,44 14,9% 3. Uso di solventi e altri prodotti 2.394,46 2.178,66 2.124,31-11,3% 4. Agricoltura 41.177,35 38.636,43 38.361,89-6,8% 5. Foreste e cambio destinazione terreni -79.721,59-111.340,95-105.107,08-31,8% 6. Rifiuti 16.883,81 20.513,57 20.096,20 19,0% *Fonte: Apat Serie storiche delle emissioni di gas serra 1990-2004 3.3 Il nuovo Pna Il Governo non ha ancora provveduto a consegnare il Piano nazionale per l assegnazione delle emissioni (2008-2012) alla Commissione europea, nonostante fosse stata fissata a giugno la data di scadenza. A determinare il forte ritardo italiano è la difficile e lunga trattativa tra il Ministero dell Ambiente e quello dello Sviluppo Economico, già costata al governo una lettera di infrazione da parte della Commissione. Lo scorso luglio il Ministero dell Ambiente ha pubblicato per la discussione uno Schema di Pna che indica finalmente una chiara direzione di riduzione delle emissioni di CO2. I negoziati tra i due dicasteri stanno determinando una serie di modifiche rispetto alla proposta originaria. Non potendo esprimere un giudizio definitivo - viste le informazioni ancora parziali e non ufficiali - ci limiteremo a evidenziare alcuni punti attraverso l analisi dello schema di Pna elaborato a luglio e dell accordo verbale raggiunto dal governo a metà ottobre sull ammontare complessivo delle quote. a) il tetto massimo. Mentre per il periodo 2005-2007 erano state allocate quote per un totale di 224 MtCo2 all anno, con il nuovo piano nazionale, stando all accordo non ancora formalizzato, il tetto dovrebbe essere abbassato a 200 MtCo2 con l aggiunta di un ulteriore quota di 6 Mt da assegnare attraverso un asta. Un taglio di 18 milioni di tonnellate di CO2 quindi, rispetto al piano del 2005, che è stato calcolato tenendo conto del peso effettivo del settore industriale sul totale delle emissioni prodotte in eccesso dall Italia. Una scelta che conferma la volontà di rendere l Emission Traiding un strumento di riduzione delle emissioni, al contrario di quanto avvenuto con il precedente piano. Da notare però che il tetto originariamente previsto nella bozza presentata a luglio era ancora più basso (194 MtCo2), con un ulteriore taglio di 12Mt Co2. b) i tetti per settore. Nella bozza originaria, quote più basse e quindi maggiori obblighi di riduzione erano stati imposte ai settori termoelettrico e della raffinazione. Si tratta dei settori in cui

esistono maggiori possibilità di riduzione rispetto agli altri. Per quanto riguarda l elettrico in particolare la minore assegnazione di quote avrebbe dovuto incentivare la sostituzione degli impianti più inquinanti con altri a più basse emissioni specifiche. Niente più fiducia sconfinata e credito illimitato al carbone quindi. E proprio su questo punto però che sono sorte le difficoltà maggiori a trovare un accordo all interno del governo, date le forti resistenze dei settori industriali interessati. Da come verranno distribuite le quote all interno dei vari settori dipenderà in larga misura il giudizio sulla sostanziosità di questo piano. In particolare, si auspica in ogni modo che il raggiungimento di un accordo non debba significare una sovrallocazione di quote a impianti per la produzione di energia elettrica che utilizzano la vetusta e inquinante tecnologia a carbone. d) limite ai crediti esterni Un limite del 25 per cento dovrebbe essere imposto alla possibilità di utilizzo da parte delle industrie di crediti esterni. Il limite dovrebbe evitare che eccessive risorse vengano spese dalle imprese per progetti all estero su cui è più difficile esprimere un giudizio in termini di impatto ambientale. Anche in questo caso però la versione originaria del Pna risultava più soddisfacente, con un limite previsto del 10 per cento. e) l asta. La direttiva europea che nel 2003 ha istituito l Emission trading system prevedeva espressamente la necessità di non assegnare tutte le quote gratuitamente, ma di distribuirne una parte, via via crescente con il passare degli anni, attraverso il metodo dell asta. In questo modo infatti si permette una maggiore possibilità di ingresso sul mercato per i nuovi impianti, prevedibilmente più moderni, consentendo allo stesso tempo un afflusso di risorse nelle casse dello stato per finanziare ulteriori misure di riduzione delle emissioni. Il nuovo Pna dovrebbe prevedere la vendita all asta di 6 Mt di CO2, il cui ricavato dovrebbe servire a finanziare il fondo speciale per Kyoto previsto nella finanziaria. Schema di PNA 2008-2012: l assegnazione delle quote per settori a confronto con il Pna 2005-2007 Schema di PNA 2008-2012 presentato a luglio dal Ministero dell Ambiente (esclusa la riserva) Per Legambiente il nuovo Pna deve coinvolgere il settore industriale nell abbattimento delle emissioni di anidride carbonica e nel raggiungimento dell obiettivo di Kyoto. Un impegno, che a

seconda delle scelte strategiche dei grandi gruppi industriali, potrebbe tradursi in un ammodernamento degli impianti e nell adozione di tutte le soluzioni tecnologiche che permettono una maggiore efficienza. E importante sottolineare tuttavia che il Piano nazionale da solo non basta e che il processo di riconversione, per essere effettivo dovrà essere adeguatamente incentivato dal governo con l adozione di ulteriori misure specifiche. Leve fiscali, incentivi alle rinnovabili, misure per promuovere l efficienza energetica. Nel caso la riconversione, e quindi una reale diminuzione delle emissioni, non venisse adeguatamente sostenuta dal governo, le industrie punteranno a rispettare i limiti del 2012 esclusivamente attraverso una corsa all acquisto di crediti di emissione sul mercato europeo. Un costo che rischia di essere scaricato sugli utenti finali, senza alcun beneficio diretto sull aria che respiriamo. Un esempio concreto lo fornisce l Enel, che ha annunciato di voler aumentare entro il 2008 dal 22 al 50 per cento la produzione di energia elettrica da impianti a carbone. La scelta è in evidente contraddizione rispetto agli obiettivi di riduzione delle emissioni, agli impegni sottoscritti dall Italia con il Protocollo di Kyoto e allo stesso PNA in discussione. L Emission Trading è già una realtà, aumentare le emissioni di CO2 comporta un aumento dei costi dell energia che l Enel ha già cominciato a scaricare su alcune tipologie di bollette. Nel futuro, soprattutto se il settore energetico rimarrà in una condizione di monopolio di fatto, continuerà a farlo potendosi permettere di mantenere la via del carbone e di ammortizzare i propri costi con rincari sull utenza. Appare evidente che Nairobi sarà il primo banco di quale strada il Governo ha intenzione di intraprendere rispetto agli impegni di riduzione delle emissioni di CO2. Per Legambiente l Italia deve presentarsi con una strategia chiara e definita per assumere un ruolo guida all interno dell Unione Europea. Perché il Protocollo di Kyoto non è il problema del settore energetico italiano ma una straordinaria opportunità per mettere in campo un profondo processo di modernizzazione e di rilancio della competitività. Ma per avviare una politica energetica capace di puntare sull efficienza occorre avere un mercato realmente liberalizzato dove le imprese trovino vantaggi economici nel conseguire riduzioni dei consumi, utilizzare la leva fiscale e ripensare l attuale organizzazione delle accise. L obiettivo deve essere infatti di realizzare un mercato con attori che competono all interno di un quadro di regole trasparenti, dove aziende e cittadini possano scegliere tra tariffe e offerte competitive. Un contesto in cui si ricominci a investire risorse per investimenti industriali e ricerca mentre ora importiamo brevetti e tecnologie straniere nei settori più innovativi. Un obiettivo complesso come la riduzione delle emissioni di CO2 deve coinvolgere anche i Governi regionali, con obiettivi distribuiti da realizzare con politiche locali che saranno diverse in funzione dei caratteri del territorio e delle direzioni di marcia che si vorranno scegliere. Il nostro Paese ha tutto l interesse a invertire direzione di rotta, ridurre le importazioni di combustibili fossili e il deficit della bilancia commerciale, spingere l innovazione e combattere inquinamento e desertificazione. Questa prospettiva è a portata di mano, è possibile in poco tempo invertire la tendenza rispetto a quanto previsto dal Protocollo di Kyoto, evitando così di pagare costose multe e quote di emissioni da Paesi europei da cui importiamo know-how e a cui invidiamo i nuovi posti di lavoro realizzati nelle rinnovabili oltre che l aria pulita. 4.4 Un fondo pro-kyoto Se attraverso il Pna vengono regolati i limiti di emissioni per i settori industriali più inquinanti, restano fuori tutte le altre attività, dai rifiuti ai trasporti, che generano gas a effetto serra. E in questi ambiti che tuttavia si concentrano gli impegni di riduzione maggiori, ovvero circa il 60 per cento dello sforzo di abbattimento richiesto all Italia. Fino ad ora purtroppo è mancata una strategia complessiva su Kyoto che, considerato l obiettivo del 2012 nel suo insieme, preveda un quadro organico di azioni con obiettivi specifici per ogni settore. Nessun piano strategico che includa trasporti, efficienza energetica, rinnovabili e nessun fondo specifico per ridurre le emissioni. Una lacuna in parte colmata dal progetto di legge finanziaria presentato a settembre dal consiglio dei

ministri, che prevede lo stanziamento di 600 milioni di euro da destinare in tre anni a sostenere la lotta ai cambiamenti climatici. Un fondo pro-kyoto, come è stato chiamato che se approvato definitivamente, dovrà servire a far partire un sistema di investimenti più ampio, grazie ai finanziamenti a tasso agevolato in sette categorie prioritarie, dalle energie rinnovabili al trasporto pubblico urbano; dalla microgenerazione diffusa alla sostituzione di motori elettrici industriali con potenza superiore a 45 Kw con motori ad alta efficienza, al rilancio del trasporto ferroviario, ai progetti di ricerca e sviluppo di nuove tecnologie e di nuove fonti di energia a basse emissioni o a emissioni zero. Indirizzato sia a enti pubblici che a privati, il sistema di finanziamenti a tasso agevolato costituisce un importante tassello e dovrebbe servire da volano per tutta una serie di attività volte al raggiungimento degli obiettivi di Kyoto attraverso misure interne e facendo ricorso il meno possibile ai crediti esterni. E quanto del resto promesso nello stesso programma del governo Prodi, che ha assicurato di voler raggiungere l obiettivo 2012 ricorrendo solo per il 20 per cento ai cosiddetti meccanismi flessibili. Se la scelta contenuta nella finanziaria di trasferire risorse e azioni specifiche per il raggiungimento del target 2012, è però evidente la mancanza di una strategia organica da parte del Governo necessaria a indirizzare in modo più certo gli sforzi per Kyoto. La delibera Cipe che avrebbe dovuto assolvere questa funzione necessita oramai, come da più parti viene invocato, di una revisione. Tale osservazione emerge in particolare modo proprio in riferimento ai 600 milioni di euro del fondo per Kyoto, dove le sette tipologie di intervento vengono accomunate senza l identificazione di obiettivi quantitativi e quadri di riferimento precisi per ciascuno di essi. Ma sono soprattutto le scelte di politica dei trasporti, energetiche e industriali portate avanti da parte dei diversi Ministeri a destare preoccupazione perché slegate da qualsiasi riferimento agli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 come previsto dal Protocollo di Kyoto.