È sempre colpa della scuola..., di Gilles Balbastre pagine 12 e 13. n Miraggi del libero scambio

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1 È sempre colpa della scuola..., di Gilles Balbastre pagine 12 e 13 n n n diploteca Recensioni e segnalazioni alle pagine 22 e 23 n n n diploteca Pubblicazione mensile supplemento al numero odierno de il manifesto euro 2 in vendita abbinata con il manifesto n. 6, anno XXII, giugno 2015 sped. in abb. postale 50% n Religione e progresso sociale Gilbert Achcar n Grecia, colpo di stato silenzioso Stelios Kouloglou n Regno unito, vittoria dei carnefici Owen Jones n Nazioni unite e grandi potenze Bertrand Badie n Miraggi del libero scambio Lori M. Wallach n Insicurezza in America latina Carlos Santiso e Nathalie Alvarado n Burundi, le radici della collera Pierre Benetti n Ucraina, prova di verità Jean-Pierre Chevènement Sommario dettagliato a pagina 2 DOSSIER Avete detto «complotto»? Legge sull intelligence in Francia Sorveglianza di massa, semaforo verde Approfittando dell emozione suscitata dagli attentati di Parigi, e senza porre rimedio alle défaillance che hanno rivelato, il governo francese vuole far adottare una legge sull intelligence che permetterebbe una sorveglianza generalizzata delle comunicazioni. Dai primi di giugno il Senato ha iniziato l esame di questo testo che allarma tutti i difensori dei diritti umani e del rispetto della vita privata. Félix Tréguer * Si legga il dossier alle pagine peter martensen One Finger Fugue, 1993 Alcuni giorni dopo il terremoto dello scorso aprile in Nepal, il web è stato invaso da dubbi: la catastrofe potrebbe essere stata provocata dalla riattivazione dell acceleratore di particelle dell Organizzazione europea per la ricerca nucleare (Cern)? Lo scenario è collaudato. I mercanti di complotti attribuiscono ogni sconvolgimento nel mondo all Occidente, agli ebrei, ai finanzieri di Wall Street, ai massoni ecc. Teorie che trovano tanto più ascolto per il fatto che la storia induce a dubitare delle narrazioni ufficiali e delle infatuazioni mediatiche. Certamente, i teorici del complotto sono in maggioranza, tendono alla paranoia e sopravvalutano il ruolo di potenze occulte. Ma altri, più semplicemente, si ingannano cercando una spiegazione semplice a eventi caotici. Il loro desiderio di capire ne provoca lo smarrimento, forse provvisorio P er i dirigenti francesi, la polemica sulla legge sull intelligence, in esame al Parlamento da metà aprile, è solo un brutto momento che passerà. Un male necessario e una parentesi nella politica che domina la scena internazionale dalle rivelazioni del lanciatore d allarme (whistlebowler), Edward Snowden, sulle attività della National Security Agency statunitense (Nsa), nel giugno Poiché, finora, hanno applicato con zelo il motto di Luigi XVI: «Chi non sa dissimulare non sa regnare». Senza rullo di tamburi o squilli di tromba ma anche senza scrupoli la Direzione generale della sicurezza esterna (Dgse) ha sviluppato dagli anni 70 in poi uno dei sistemi di ascolto e intercettazioni di massa più estesi al mondo. Un dispositivo estremamente performante anche perché può poggiare sulla presenza francese oltremare e sui legami privilegiati tra i servizi di intelligence e i grandi operatori via cavo come Alcatel o Orange. Queste multinazionali rappresentano dei punti forza importanti nella corsa alla sorveglianza su internet. E a ragione: è sui loro cavi che si connettono gli spioni digitali. Nel 2011, lo Stato ha anche investivo svariate decine di milioni di euro in Qosmos e Bull, leader del settore delle tecnologie di intercettazione e delle comunicazioni internet. I loro programmi analizzano in tempo reale il contenuto del traffico e possono, per esempio, reperire l utilizzo di strumenti crittografici e raccogliere questi dati. * Giurista. Cofondatore dell associazione di difesa delle libertà La Quadrature du Net (www. laquadrature.net). continua a pagina 4 A destra, istruzioni per l'uso Cortei di protesta, partecipazione alle elezioni, esercizio del potere. C è qualcosa che accomuna questi tre tipi di azione politica: i ceti popolari se ne allontanano, o ne sono estromessi. Quando, l 11 gennaio scorso, milioni di francesi hanno manifestato la loro solidarietà con le vittime degli attentati di Parigi, si è notato ancora una volta il contrasto tra la mobilitazione dei ceti medi e quella, relativamente più modesta, del mondo operaio e dei giovani provenienti dai quartieri meno favoriti. Sono anni ormai che la «piazza» si è imborghesita al pari delle urne. A ogni elezione o quasi, il tasso di partecipazione regredisce in parallelo coi livelli di reddito. E per la «rappresentanza nazionale» le cose non vanno meglio, dato che il suo volto si confonde sempre più con quello dei ceti superiori. La politica, uno sport d élite? Basta osservare la sinistra europea. Nel caso dei laburisti britannici la vocazione di quel partito, fondato dai sindacati all inizio del XX secolo, era quella di rappresentare l elettorato operaio. Nel 1966 era votato dal 69% dei lavoratori manuali; questa percentuale, scesa al 45% nel 1987, è crollata al 37% alle elezioni del 7 marzo scorso. Il blairismo ha ritenuto di dare la priorità al ceto medio. Missione compiuta: con l elettorato più borghese della loro storia, i laburisti hanno appena subito una clamorosa sconfitta elettorale (si legga l articolo di Owen Jones a pag. 7) Serge halimi Come nota il politologo Patrick Lehingue, «indubbiamente la crescente disaffezione delle classi popolari per i partiti di sinistra, osservabile in tutte le democrazie elettive occidentali, ha qualcosa a che fare con la rarefazione degli eletti provenienti dagli ambienti meno favoriti, e quindi consapevoli delle loro condizioni di vita per esperienza diretta». Vediamo la situazione in concreto: nel 1945 il 25% dei deputati francesi erano stati, prima di essere eletti, operai o impiegati. Oggi questa percentuale è ridotta al 2,1%. Nel 1983 settantotto sindaci di comuni con più di abitanti provenivano ancora dalle due categorie sociali sopra citate (maggioritarie nella popolazione); a trent anni di distanza sono rimasti in sei (1). Un sistema rappresentativo? Per più di metà degli statunitensi lo Stato dovrebbe ridistribuire la ricchezza imponendo forti tasse ai più ricchi. Un auspicio condiviso come del resto è umano solo dal 17% dei questi ultimi (2). Ma grazie al funzionamento delle democrazie occidentali sarà il loro parere ad avere la meglio, senza un reale dibattito. Una classe ben consapevole dei propri interessi può dunque rimanere serena, anche perché i media in suo possesso continuano a portare alla ribalta una serie di diversivi che ipnotizzano il dibattito pubblico. E a porre in contrasto tra loro i ceti popolari. Un sistema ben collaudato, per cui a questo punto non resta altro che convocare gruppi di esperti eruditi, con l incarico di spiegarci con l apatia degli uni e la rabbia degli altri lo «spostamento a destra» delle nostre società. (1) Patrick Lehingue, «Les classes populaires et la démocratie représentative en France», Savoir/Agir, n 31, Bellecombe-en-Bauges, marzo (2) Noam Scheiber, «2016 hopefuls and wealthy are aligned on inequality», The New York Times, 30 marzo 2015.

2 2 giugno 2015 Le Monde diplomatique il manifesto Il malato virtuale Virgin Bueno «P assate su Internet più tempo di quanto avreste voluto? Ci sono dei siti che non potete evitare? Trovate che sia difficile restare disconnessi per più giorni?» Queste domande, tratte dal test di Orman, diffuso dai giornali, permetterebbe di diagnosticare una dipendenza da Internet (1). Stando a questo tipo di valutazione, quasi la metà della popolazione connessa ne sarebbe affetta. E la più incredibile pandemia della storia si starebbe espandendo per tutto il pianeta. La Cina ha già reso la «patologia» una priorità della sanità pubblica. Alcune reti internazionali lavorano duramente per elaborare diagnosi standard, test clinici, protocolli di trattamento e campagne di prevenzione. Il fatto è assodato: un numero crescente di internauti fa fatica a disconnettersi. L attività online invade poco a poco le altre sfere della loro esistenza, a discapito dei rapporti sociali, del lavoro, dello studio. Ciò nonostante si tratta davvero di malattia? Il carattere patologico del fenomeno è lontano dal ricevere unanimità di consensi in seno alla comunità scientifica. Nel 2008, l inclusione della dipendenza da Internet nella quinta edizione del repertorio delle malattie mentali (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders o Dsm-5) (2) è stata rifiutata per mancanza di elementi convincenti. Ma il dibattito prosegue, in particolare nell Organizzazione mondiale della sanità (Oms), in vista della pubblicazione del manuale di classificazione internazionale delle malattie nel La storia della ciberdipendenza risale agli anni 70 del Novecento quando Joseph Weizenbaum, ingegnere dell Istituto di tecnologia del Massachusetts (Mit), nota fra i colleghi una «fissazione a programmare» caratterizzata da elevato tempo di connessione, trascuratezza nell igiene personale e asocialità (3) quadro tipico, secondo lui, di un «disturbo mentale». Negli anni 90, i timori e l entusiasmo che accompagnano lo sviluppo di Internet incoraggiano le ricerche sull esperienza del mondo virtuale e sulle sue proprietà potenzialmente patogene: anonimato, evasione, accessibilità e interattività. La ciberdipendenza si articola allora in tre sottocategorie: videogiochi, cibersesso e social network. Ma, prima di essere presa sul serio, la patologia fu inizialmente presentata come farsa. Per criticare la moltiplicazione dei disturbi catalogati nel Dsm da 106 nel 1952 a quattrocento nel 1994 lo psichiatra newyorchese Ivan Goldberg immagina nel 1996 un disturbo che definisce «ridicolo», quello della dipendenza da Internet (4). Egli pubblica un post in un forum di terapeuti con una parodia della diagnosi clinica. Lo stesso anno, la malattia entra nel lessico medico per una via più ortodossa: Kimberly S. Young, psicologa a Pittsburgh, applica la diagnosi di «gioco patologico» alle pratiche online e diffonde l idea su dei forum di persone autodiagnosticatesi. La psicologa non si ferma: compra degli spazi pubblicitari online e acquista anche la parola chiave «Internet addiction» su Yahoo (5). Sono in molti a rispondere e assai concrete sono le domande di consulenza. D ora in poi, il meccanismo psicologico dell «impulso» caratterizzato dal difficile, se non impossibile, controllo di comportamenti nocivi sarà considerato la causa dei problemi psicologici e sociali legati all uso di Internet: incapacità di resistere al desiderio di connessione e sensazione di privazione, con corrispondenti conseguenze sociali negative (divorzio, difficoltà professionali, scolastiche e finanziarie). * Professore associato in Sociologia, Università di Montreal, Quebec. Nel 2013 i redattori del Dsm-5 cancellano il «gioco patologico» dalla categoria dei «disturbi da discontrollo degli impulsi (6)». Secondo loro, la tendenza a non staccarsi dallo schermo potrebbe collocarsi in una nuova categoria generica, quella dei «disturbi legati a una sostanza e dipendenze (7)». L idea scatena presto la polemica: Allen Frances, redattore della precedente versione del Dsm, e Stanton Peele, teorico delle dipendenze comportamentali, denunciano la biologizzazione del concetto di dipendenza (8). In effetti, sostituire il profilo di «personalità dipendente» dal punto di vista fisico e chimico (in inglese dependent) con quello di «personalità dipendente» dal punto di vista psicologico (in inglese addict), di livello leggero, moderato o acuto, e aggiungere alla tabella il sintomo di «desiderio irresistibile», implica l esistenza di un rischio biologico comune alla dipendenza da Internet, dal gioco e dalla droga. Il sintomo del «desiderio», causato teoricamente da uno squilibrio nella produzione di dopamina, è diagnosticato con una semplice domanda posta al paziente: «Ha mai avuto così tanta voglia di drogarsi da non poter pensare a nient altro? (9)». Il problema è cruciale: secondo questo approccio, gli individui diagnosticati a torto o a ragione come ciberdipendenti potrebbero ricevere un trattamento con farmaci antidesiderio. Ma la difficoltà a disconnettersi per una settimana è il sintomo di un bisogno fisiologico o è quello tipico di una società in cui le attività sociali, scolastiche e lavorative si servono tutte dell intermediazione della Rete? Luogo dell eccesso, Internet può allo stesso tempo contribuire a fornire il rimedio: offre uno spazio di scambio fra gli utenti e i medici attraverso i forum d informazione, uno strumento per trattamenti attraverso consulenze psicologiche online, e persino applicazioni che permettono di limitare il tempo di connessione ai siti cronofagi il poggiapolso Pavlov Poke, per esempio, che rilascia una piccola scossa elettrica in caso di visita prolungata o di connessione a un sito proibito. Al di là della controversia medica, la caratterizzazione della dipendenza da Internet alimenta una critica più direttamente politica. Per future ricerche, i redattori del Dsm-5 hanno accettato la diagnosi dello psichiatra cinese Tao Ran, il quale riscontra la dipendenza a partire da «sei ore di connessione quotidiane nell arco di oltre tre mesi, escluse le attività scolastiche e professionali». Ma in nome di quali norme e di quali valori si elabora una diagnosi scientifica che classifica delle pratiche sociali in funzione della produttività economica? Quando nella dipendenza da Internet esclude il tempo di lavoro e di apprendimento, il dr. Tao rivela il non detto implicito nella nozione. In un mondo caratterizzato dall ingiunzione scolastica e lavorativa alla connessione permanente, è una frontiera morale a separare pratiche sane da pratiche professionali in funzione di un criterio implicito di utilità economica. Sarebbe normale stare otto Charis Tsevis ore al giorno in ufficio inchiodati su un foglio di calcolo, ma sei ore quotidiane davanti a un videogioco richiederebbero un trattamento medico. La proposta di diagnosi della dipendenza da Internet si presenta nel Dsm-5 come una malattia decontestualizzata dai sistemi economici e dagli strumenti informatici che traggono profitto dalla dipendenza: industrie di videogiochi e di software, social network. Il prisma neuroscientifico riduce il campo di ricerca e le soluzioni possibili. A oggi, la gestione dell uso eccessivo di Internet resta una questione sociale, culturale e politica. Essa non gode di alcun consenso internazionale. Se gli Stati uniti e la Cina accettano l ipotesi standard di malattia neurologica, differiscono per le modalità di presa in carico. I primi dispiegano un sistema di cure concorrenziale e privato governato dalle assicurazioni private; la seconda ha creato campi di rieducazione di stampo militare, che prevedono il ricovero ospedaliero e il riconoscimento della malattia da parte del paziente. La Francia e il Quebec privilegiano una prospettiva comprensiva e psicosociale, caso per caso. Dopo la traduzione del questionario diagnostico di Young nel 2006, il Giappone ha scoperto l ampiezza di tale «problema sociale» e finanzia dei centri di cura. (1) Marc Valleur e Dan Velea, «Les addictions sans drogue(s)», Toxibase, n 6, Lione, giugno (2) Si legga Gérard Pommier, «La bibbia americana della salute mentale», Le Monde diplomatique/il manifesto, dicembre (3) Joseph Weizenbaum, I poteri del computer e la ragione umana: i limiti dell intelligenza artificiale, Edizioni Gruppo Abele, Torino, (4) Cfr. David Wallis, «Just click no», The New Yorker, 13 gennaio (5) Kimberly S. Young, «Internet addiction: The emergence of new clinical disorder», CyberPsychology & Behavior, vol. 1, n 3, New Rochelle (New York), (6) Ting-Kai Li, Charles P. O Brien e Nora Volkow, «What s in a word? Addiction versus dependence in DSM-5», American Journal of Psychiatry, vol. 163, n 5, Arlington (Virginia), (7) Nancy M. Petry e Charles P. O Brien, «Internet gaming disorder an the DSM-5», Addiction, vol. 108, n 7, Hoboken (New Jersey), (8) Allen Frances, Saving Normal: An Insider s Revolt Against Out-of-Control Psychiatric Diagnosis, DSM-5, Big Pharma, and the Medicalization of Ordinary Life, HarperCollins, New York, 2013; Stanton Peele, «Politics in the diagnosis of addiction», Huffington Post, 15 maggio 2012, (9) Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 5 th ed., American Psychiatric Association, Arlington, (Traduzione di Valerio Cuccaroni) In questo numero giugno 2015 Pagina 3 La religione può favorire il progresso sociale?, di Gilbert Achcar Pagine 4 e 5 Sorveglianza di massa, semaforo verde, seguito dalla prima dell articolo di Félix Tréguer Stato e imprese all assalto (F. T.) Resistenza multiforme (F.T.) Pagina 6 Grecia, il colpo di stato silenzioso, di Stelios Kouloglou Pagina 7 Regno unito, la vittoria dei carnefici, di Owen Jones Pagine 8 e 9 Le Nazioni unite e il conservatorismo delle grandi potenze, di Bertrand Badie La via per la pace passa dalla forza o dal diritto?, di Gabriel Galice L oblio dei popoli, di Anne-Cécile Robert Pagina 10 Miraggi del libero scambio, di Lori M. Wallach Pagina 11 Insicurezza endemica in America latina, di Carlos Santiso e Nathalie Alvarado Pagina 12 e 13 È sempre colpa della scuola..., di Gilles Balbastre Pagina 14 In Burundi, le radici della collera, di Pierre Benetti Chiuso in redazione l'11 giugno Il prossimo numero sarà in edicola il 15 luglio Pagine da 15 a 21 Dossier: Avete detto «complotto»? Il sintomo di un espropriazione, di Frédéric Lordon Da Santiago a Caracas, la lunga mano di Washington, di Franck Gaudichaud «Chi crede alla versione ufficiale?», di Julien Brygo Un ossessione nel mondo arabo, di Akram Belkaïd I dieci principi della retorica complottista, di Benoît Bréville Non si salva nessuno, di Marina Maestrutti Ai confini della realtà, di Evelyne Pieiller I vostri ricordi sono il nostro futuro, di Alain Damasio Pagine 22 e 23 Diploteca. Cuba, Antonio Guerrero, l arte di resistere. Recensioni e segnalazioni Pagina 24 Crisi ucraina, una prova di verità, di Jean-Pierre Chevènement a cura di Geraldina Colotti, tel. (06) gcolotti@ilmanifesto.it redazione@ilmanifesto.it via Bargoni Roma traduzioni Alice Campetti, Marinella Correggia, Valerio Cuccaroni, Filippo Furri, Elisabetta Horvat, Francesca Rodriguez ricerca iconografica Giovanna Massini, Nora Parcu, Anna Salvati, Cristina Povoledo iscrizione al Trib. stampa n.207/94 del dir. resp. Norma Rangeri Realizzazione editoriale Cristina Povoledo pellicole e stampa Sigraf spa, via Redipuglia 77, Treviglio (Bg) pubblicità Concessionaria esclusiva Poster pubblicità srl Roma 00153, via Bargoni, 8 tel. (06) fax Milano 20135, via Anfossi, 36 tel. (02) fax (02) numeri arretrati (06) diffusione abbonamenti (06) diffusione@redscoop.it, abbonamenti@redscoop.it per gli abbonati Le Monde diplomatique fondatore Hubert Beuve-Méry direzione Serge Halimi, presidente, direttore pubblicazione. Altri membri: Vincent Caron, Bruno Lombard, direttore gestione; Pierre Rimbert; Anne-Cécile Robert, resp. relazioni ed edizioni internazionali caporedattore Philippe Descamps vice caporedattore Benoît Bréville, Martine Bulard, Renaud Lambert redazione Alain Gresh, Evelyne Pieiller, Pierre Rimbert, Anne-Cécile Robert sito internet Guillaume Barou ideazione artistica e realizzazione Alice Barzilay, Maria Jerardi documentazione Olivier Pironet redazione 1, avenue Stephen-Pichon, Paris tel fax Editore SA Le Monde diplomatique il nuovo manifesto direttore resp. Norma Rangeri CONSIGLIO D AMMINISTRAZIONE Benedetto Vecchi (presidente), Matteo Bartocci, Norma Rangeri, Silvana Silvestri

3 Le Monde diplomatique il manifesto giugno TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE, ISLAMISMO La religione può favorire il progresso sociale? Mentre molti religiosi combattono l ateismo e molti laici la religione, alcune battaglie emancipatrici hanno avvicinato quanti credevano al cielo e quanti non ci credevano affatto, soprattutto in America latina grazie alla teologia della liberazione. Ma questo tipo di alleanza sembra inconcepibile con i sostenitori ultraortodossi dell islam politico. Perché? ta anche a capire perché l integralismo islamico abbia potuto ottenere ai giorni nostri una così grande espansione all interno delle comunità musulmane, e perché abbia tanto facilmente soppiantato la sinistra nell incarnazione del rifiuto della dominazione occidentale, se pure in termini socialmente reazionari. GILBERT ACHCAR * C he la religione sopravviva ancora all alba del quinto secolo dalla rivoluzione scientifica rappresenta a priori un enigma per chiunque condivida una visione positivista del mondo. Ma se ha resistito fino alla nostra epoca come parte dell ideologia dominante, ha anche prodotto delle ideologie combattive, contrarie alle condizioni sociali o politiche in vigore. Con innegabile successo. Due di queste hanno fatto abbondantemente parlare di sé nel corso degli ultimi decenni: la teologia della liberazione cristiana e l integralismo islamico. La correlazione tra l ascesa di questi movimenti e il destino della sinistra laica nelle rispettive regioni costituisce un indizio rivelatore sulla loro natura. Mentre il destino della teologia della liberazione sposa quello della sinistra laica in America latina dove agisce sostanzialmente come una componente della sinistra e come tale è percepita, l integralismo islamico si è sviluppato in molti paesi a maggioranza musulmana proprio in contrapposizione con la sinistra. L ha sostituita nel tentativo di canalizzare la protesta contro quella che Karl Marx chiamava la «miseria reale», e contro lo Stato e la società considerati responsabili. Queste correlazioni contrarie positiva nel primo caso, negativa nel secondo testimoniano una profonda differenza tra i due movimenti storici. La teologia della liberazione offre la principale manifestazione moderna di quel che Michael Löwy chiama, prendendo in prestito un concetto coniato da Max Weber, «affinità elettiva» tra cristianesimo e socialismo (1). Più precisamente, l affinità elettiva in questione associa l eredità del cristianesimo primitivo la cui estinzione permette al cristianesimo di diventare l ideologia istituzionalizzata della dominazione sociale esistente e l utopismo «comunistico (2)». Nel , il teologo Thomas Müntzer formulò in termini cristiani un programma per la rivolta dei contadini germanici, che Friedrich Engels, nel 1850, descrisse come un «anticipazione del comunismo in immaginazione (3)». Questa stessa affinità elettiva spiega perché l ondata mondiale di radicalizzazione politica a sinistra iniziata negli anni 1960 abbia in parte assunto una dimensione cristiana in particolare nei paesi «periferici», in cui la maggioranza della popolazione era cristiana, povera e oppressa. Si è visto particolarmente in America latina dove, a partire dall inizio degli anni 1960, la rivoluzione cubana è stata l impulso per la radicalizzazione. La maggiore differenza tra questa moderna ondata di radicalizzazione e il movimento dei contadini germanici analizzato da Engels è da cercare nel fatto che, nel caso latinoamericano, la corrente cristiana dell utopismo «comunistico» più che combinarsi con una nostalgia per le forme pure della vita comunitaria del passato (che pure è una dimensione riscontrabile nei popoli indigeni) si è avvicinata alle aspirazioni socialiste moderne, come nel caso di quelle nutrite dai rivoluzionari marxisti latinoamericani. L integralismo islamico, invece, è cresciuto sul cadavere in decomposizione del movimento progressista. L inizio degli anni 1970, ha visto il declino del nazionalismo radicale sorretto dalle classi medie; un declino simboleggiato dalla morte di Gamal Abdel Nasser, * Autore di Marxisme, orientalisme, cosmopolitisme, Arles, Actes Sud, 2015, da cui è stato tratto e adattato questo testo. nel 1970, tre anni dopo la disfatta nella guerra dei sei giorni contro Israele. Parallelamente, nuove forze reazionarie, che si servivano dell islam come bandiera ideologica, si erano ricavate uno spazio in molti paesi a maggioranza musulmana, attizzando le fiamme dell integralismo per incenerire quel che restava della sinistra. Riempiendo il vuoto lasciato dal crollo di quest ultima, l integralismo islamico non ha tardato a presentarsi come principale vettore della più decisa opposizione alla dominazione occidentale dimensione che aveva fatto propria fin dall inizio ma smorzata nell era nazionalista laica. Una vigorosa opposizione alla dominazione occidentale era nuovamente prevalsa nell islam sciita in seguito alla Rivoluzione islamica del 1979 in Iran, ed era tornata alla ribalta nell islam sunnita all inizio degli anni 1990, quando una frangia armata di integralisti passò dal combattere l Unione sovietica al combattere gli Stati uniti. Quest inversione di rotta seguiva la disfatta e la disintegrazione della prima e il conseguente ritorno dei secondi in Medioriente. Così, le due maggiori forme di integralismo si trovavano a coesistere attraverso la vasta distesa geografica dei paesi a maggioranza musulmana ed erano caratterizzate in un caso dalla collaborazione con gli interessi occidentali e nell altro dall ostilità verso questi ultimi. La roccaforte della prima è il regno saudita, il più oscurantista di tutti gli Stati islamici. La roccaforte antioccidentale dello sciismo è la Repubblica islamica iraniana, mentre al Qaeda e lo Stato islamico, rappresentano la sua punta di diamante nel mondo sunnita. Un progetto di società volto al passato Tutte le correnti dell integralismo islamico si prodigano allo stesso modo per quel che potremmo definire un utopia medievale reazionaria, ossia un progetto di società immaginaria e mitica volta non al futuro ma al passato. Tutti cercano di instaurare nuovamente la società e lo stato mitizzati dell islam dei primi tempi. In questo, condividono una premessa formale con la teologia della liberazione cristiana, che fa riferimento al cristianesimo primitivo. Tuttavia, il programma degli integralisti islamici non consiste in un insieme di principi idealisti indirizzati verso un «comunismo di amore» e sorti in una comunità oppressa di poveri ai margini della loro società, comunità il cui fondatore sarebbe poi stato atrocemente messo a morte dal potere. Né questo programma fa riferimento alcuno a una antica forma di proprietà comunale, come in parte accadde per la rivolta dei contadini germanici nel XVI secolo. Piuttosto, gli integralisti islamici hanno in comune la determinazione di instaurare un modello medievale di dominazione di classe, un tempo «realmente esistente» seppure mitizzata; un modello nato poco meno di quattordici secoli fa e il cui fondatore un commerciante diventato profeta, signore della guerra e fondatore di stati e di imperi morì all apice del suo potere politico. Come ogni tentativo di restaurare una struttura sociale e politica vecchia di alcuni secoli, il progetto dell integralismo islamico equivale necessariamente a un utopia reazionaria. Questo progetto è in affinità elettiva con l islam ultraortodosso che, grazie all appoggio del regno saudita, è diventato la corrente dominante della religione musulmana (4). Questo islam, promuove un approccio letteralista della religione attraverso uno studio rigoroso del Corano, considerato la parola divina definitiva. Quel che, ai giorni nostri, nella maggior parte delle religioni, è appannaggio dell integralismo in quanto corrente minoritaria ossia, fondamentalmente, una dottrina che promuove la realizzazione dell interpretazione letterale delle scritture religiose ha un ruolo primario nell islam istituzionale dominante. Dato il tenore storico specifico delle scritture cui cerca di essere fedele, l islam ultraortodosso incoraggia in particolare delle dottrine per le quali l applicazione della religione conforme alla fede suppone un governo fondato sull islam, essendosi il profeta battuto aspramente per instaurare un tale stato. Per la stessa ragione, sostiene la lotta armata contro ogni forma di dominazione non islamica, facendosi forte della storia e della guerra che l islam ha combattuto contro il diverso credo all epoca della sua espansione. Ammettere quest affinità elettiva tra islam ultraortodosso e utopismo medievale reazionario, dopo aver sottolineato quella che unisce il cristianesimo primitivo all utopismo «comunistico», non rientra nel campo del giudizio di valore quanto in quello di una sociologia storica comparata di due religioni. Del resto, riconoscere le loro affinità elettive non significa assolutamente che in ognuna delle due non esistano tendenze contrarie. Il cristianesimo, fin dalla sua fondazione, ha avuto al suo interno tendenze foriere di dottrine reazionarie e integraliste. Così come le scritture islamiche comprendono anche vestigia egualitarie del tempo in cui i primi musulmani erano una comunità oppressa, che sono alla base delle versioni «socialiste» dell islam. GERHARD RICHTER Inoltre, il fatto che esistano diverse affinità elettive nel cristianesimo e nell islam non significa che l evoluzione storica reale di ogni religione abbia seguito la direzione naturalmente indicata dalla sua specifica affinità elettiva. Quest evoluzione si è adattata alla reale configurazione della società in classi con cui ognuna si è intrecciata configurazione estremamente diversa dalla condizione sociale originaria nel caso del cristianesimo, meno nel caso dell islam. Nel corso di lunghi secoli, il cristianesimo storico «realmente esistente» è stato meno progressista rispetto all islam storico «realmente esistente». All interno della stessa Chiesa cattolica, ai giorni nostri è in corso un aspra battaglia tra la versione dominante reazionaria rappresentata da Joseph Ratzinger (l ex papa Benedetto XVI), e i suoi simili, e i sostenitori della teologia della liberazione, stimolati dalla radicalizzazione della sinistra in America latina. Riconoscere un affinità elettiva tra cristianesimo e socialismo non può dar credito all ipotesi che il cristianesimo storico fosse fondamentalmente socialista. Un simile proposito essenzialista è quanto meno assurdo. Così come, riconoscere l affinità elettiva tra il corpus islamico e l utopismo medievale reazionario della nostra epoca, sotto forma di integralismo islamico, non può portare a pensare che l islam storico fosse essenzialmente integralista non lo era certamente! o che i musulmani siano condannati a cadere in balia dell integralismo, a prescindere dalle condizioni storiche. Ma nel caso del cristianesimo (originale) come in quello dell islam (letteralista), questa conoscenza è una delle chiavi per la comprensione dei diversi usi storici di ogni religione in quanto bandiera della protesta. Ci permette di capire perché la teologia della liberazione cristiana abbia potuto diventare una componente così importante della sinistra in America latina, quando tutti i tentativi di produrre una versione islamica di questa stessa teologia sono rimasti marginali. Ci aiu- La testimonianza di Vittorio Arrigoni da Gaza Un film di Fulvio Renzi diretto da Luca Incorvaia scritto da Vittorio Arrigoni DVD in vendita sullo store del sito a 9,5 euro comprese le spese di spedizione L idea orientalista superficiale, molto diffusa oggi, secondo cui l integralismo islamico sarebbe la propensione «naturale» e antistorica dei popoli musulmani, è totalmente aberrante. Perché omette dei fatti elementari. Qualche decennio fa, per esempio, uno dei più importanti partiti comunisti del mondo, partito che si basa ufficialmente su una dottrina atea, esercitava la sua attività nel paese dal più alto numero di musulmani: l Indonesia. A partire dal 1965, questo partito è stato soffocato nel sangue dai militari indonesiani sostenuti dagli Stati uniti. Un altro esempio: alla fine degli anni 1950 e all inizio degli anni 1960, la principale organizzazione politica in Iraq, soprattutto tra gli sciiti del sud del paese, non era un movimento guidato da un religioso ma, anche in questo caso, era il Partito comunista. Peraltro, Nasser, a capo della svolta «socialista» dell Egitto nel 1961, era un sincero credente e un musulmano praticante, nonostante dovesse diventare il peggiore nemico degli integralisti. L influenza raggiunta all apogeo del suo prestigio nei paesi arabi, e anche oltre, resta senza pari. Come per qualsiasi altra religione, conviene collocare l uso che viene fatto dell islam nelle sue condizioni sociali e politiche concrete e operare una distinzione chiara tra l islam come strumento ideologico della dominazione di classe e genere e l islam come segno di identità di una minoranza oppressa, è il caso dei paesi occidentali. Per questo, la battaglia ideologica contro l integralismo islamico contro le sue idee sociali, morali e politiche, non contro i principi spirituali dell islam in quanto religione dovrebbe restare una delle priorità dei progressisti all interno delle comunità musulmane. In compenso, c è poco da obiettare alle idee sociali, morali e politiche proprie della teologia della liberazione se escludiamo la sua adesione al tabù cristiano dell interruzione volontaria di gravidanza, anche per gli atei incalliti della sinistra radicale. (1) Michaël Löwy, La Guerre des dieux. Religion et politique en Amérique latine, Editions du Félin, Parigi, (2) L aggettivo «comunistico» è utilizzato qui per distinguere quest utopismo dalle dottrine comuniste formulate dopo l avvento del capitalismo industriale. (3) Friedrich Engels, La guerra dei contadini in Germania, Milano, Pgreco, 2014 (1 ed. 1850). (4) Si legga Nabil Mouline, «Escalation tradizionalista in terra islamica», Le Monde diplomatique/il manifesto, marzo (Traduzione di Alice Campetti) Restiamo umani The Reading Movie Il ricavato del libro sarà interamente devoluto all asilo Vittorio Arrigoni a Gaza

4 4 giugno 2015 Le Monde diplomatique il manifesto Legge sull intelligence Semaforo verde continua dalla prima pagina Insomma, come riassumeva l ex direttore tecnico della Dgse, Bernard Barbier, oggi passato al privato, la Francia gioca «in serie A» nel campo dell intelligence tecnica (1). Nell autunno del 2013, alcuni documenti trafugati da Snowden hanno d altronde rivelato la cooperazione della Dgse con la Nsa e il suo omologo britannico, il Government communications headquarters (Gchq Quartier generale delle comunicazioni del governo). Ma mentre negli Stati uniti, nel Regno unito o perfino in Germania il caso Snowden ha dato luogo a processi o a commissioni d inchiesta parlamentari, a Parigi il potere ha fatto fronte comune opponendo silenzi o smentite rispetto alle informazioni che chiamavano in causa le agenzie francesi per i servizi d intelligence. Questa negazione, particolarmente frequente in Francia, risponde a una necessità: in mancanza di un quadro giuridico che disciplini queste pratiche, la minima conferma ufficiale fa correre il rischio di una condanna della Corte europea dei diritti umani (Cedu), che impone che qualsiasi ingerenza delle autorità nella vita privata sia «prevista dalla legge». Johan Persson Per evitarla, i responsabili politici dell intelligence francese sanno che occorrerà passare per una legge. Tuttavia, lo scoppio del caso Snowden e la pressione dell opinione pubblica rendevano l apertura di un dibattito parlamentare estremamente rischiosa. I governi hanno temporeggiato... finché l emergenza dell Organizzazione dello stato islamico (Osi), a partire dall estate 2014, e, soprattutto, gli assassini di gennaio 2015 a Parigi, hanno modificato la situazione. Il primo ministro Manuel Valls presenta allora la legge sull intelligence come una delle principali risposte a questi eventi tragici, affermando di voler «rafforzare le capacità giuridiche di agire dei servizi di intelligence (2)». Senza neanche aprire un dibattito sulle falle del dispositivo antiterrorista francese gli autori degli attentati, come prima di loro Mohammed Merah o Mehdi Nemmouche, erano già seguiti dai servizi, il governo parte alla carica. Il deputato socialista Jean-Jacques Urvoas, esperto in questioni di sicurezza e futuro relatore del testo all Assemblea nazionale, ha già pronto un progetto; ma l Eliseo e Matignon riprendono in mano la redazione, in stretto contatto con il mondo dell intelligence. Il 19 marzo, il disegno di legge è adottato in Consiglio dei ministri. Valls dispiega una strategia di comunicazione perfettamente oliata per gestire il seguente paradosso: da una parte, il testo non deve cambiare nulla delle pratiche che pongono la Francia «in serie A»; dall altra, si continua a sostenere pubblicamente che lo Stato si limita a una «sorveglianza mirata». A coloro che stabiliscono un legame tra le attività autorizzate dal disegno di legge e quelle messe in luce da Snowden, il primo ministro risponde che «non ci sarà alcuna sorveglianza di massa dei cittadini» e sostiene anche che il «disegno di legge lo vieta» (3). Eppure, i parallelismi abbondano tra questa legge che il governo ammette mirare a legalizzare le tecniche Scena tratta da Privacy di James Graham, regia di Josie Rourke esistenti e le pratiche in vigore negli Stati uniti e nel Regno unito. Varie disposizioni chiave del testo appaiono contrarie all articolo 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali sul «diritto al rispetto della vita privata e familiare». Esse espongono la Francia a dei ricorsi davanti alla Cedu, sempre ammesso che il testo attuale non sia invalidato dal Consiglio costituzionale. È il caso per esempio delle «scatole nere», che rappresentano la misura più contestata del testo. La legge autorizza l installazione, sulle reti e sui server, di dispositivi per scannerizzare i traffici telefonici e via internet al fine di individuare, con l ausilio di algoritmi tenuti segreti, le comunicazioni sospette in rapporto con una minaccia terroristica. Rispondendo alle richieste di chiarificazione in occasione dei dibattiti parlamentari, il ministro della difesa Jean-Yves Le Drian ha spiegato che si trattava di rintracciare «delle connessioni a determinate ore, da certi luoghi, su certi siti». Il direttore della Dgse, Bernard Bajolet, dal canto suo, ha indicato che i suoi servizi vi avrebbero ricorso per smascherare degli «atteggiamenti clandestini» (4), come l utilizzo di protocolli di crittografia delle comunicazioni una tecnica che il Consiglio d Europa raccomanda per proteggersi (si legga a pag. 5). Sebbene il governo lo neghi, le scatole nere si basano necessariamente sulle controverse tecnologie di «ispezione a fondo dei pacchetti di informazioni». Questi strumenti occupano un posto centrale nei vari programmi di raccolta massiccia di dati. Dal 2006, e dalle rivelazioni del lanciatore di allarme Mark Klein, un ex tecnico dell operatore americano At&T, sappiamo che la Nsa dispone di tali apparecchi negli Stati uniti. Fin dal 2000, nel Regno unito, il governo di Anthony Blair proponeva al Parlamento di autorizzarne l uso per le attività dell MI5, l agenzia di intelligence interna. Di fronte alla polemica, si era optato per una disposizione molto più generale relativa alle attrezzature d intercettazione, nel quadro del Regulation of Investigatory Powers Act. Ma, se l utilizzo di queste spie che ascoltano l insieme del traffico non è purtroppo una novità, il disegno di legge permette alla Francia di far parte, insieme alla Russia, del ristrettissimo club dei paesi dove la legge lo autorizza espressamente. Al di là di quanto affermato dal governo, si tratta di una forma di sorveglianza massiccia, anche se, in definitiva, solo una bassa percentuale di dati è oggetto di analisi più approfondite. Stato e imprese all'assalto Il 15 aprile di quest anno, il ministro dell interno francese, Bernard Cazeneuve, se la prendeva con i pochi deputati che, in un emiciclo semi vuoto, si opponevano al disegno di legge sull intelligence, «Gli operatori internet detengono i nostri dati personali, argomentava, e sono convinto che molti di loro utilizzano delle tecniche straordinariamente invasive rispetto alle nostre vite private». Ora, «ciò non pone alcun problema quando si tratta di grandi trust internazionali (...). Ma quando uno Stato si propone di prevenire il terrorismo su internet, lo si sospetta di perseguire obiettivi indegni!». In linea di principio, il ragionamento sembra filare: perché, a meno di dar prova di incoerenza, voler vietare alla potenza pubblica di mobilitare delle tecniche correntemente utilizzate dal settore privato? Gli avversari della legge sull intelligence criticherebbero le mire orwelliane dello Stato ma resterebbero in silenzio quando le grandi piattaforme digitali alle quali si abbandonano anima e corpo, ricorrono a pratiche simili per bombardare i loro utenti di pubblicità mirate. Non è tuttavia serio affermare che le razzie di dati effettuate da imprese private non suscitino «alcuna indignazione» (si legga il riquadro a pag. 5): la collaborazione di Facebook, Google e altri pesi massimi della Silicon valley con la National security agency (Nsa) americana è stata al centro del caso Snowden. Inoltre, come ha ricordato in parlamento la deputata Isabelle Attard, del partito Nouvelle Donne, rispondendo al ministro: «Se non voglio mettere i miei dati su Facebook, non li metto». In teoria basta cancellare il proprio account e cancellare i cookies messi sul proprio navigatore per scappare alla profilazione commerciale. Ritirare l iscrizione da uno Stato per sfuggire alla sua sorveglianza rischia di rivelarsi decisamente più complicato invece. Pur tuttavia, l analogia non è priva di fondamenti tecnici. Benché abbiano ognuna delle finalità proprie, sorveglianza commerciale e sorveglianza statale si basano sugli stessi dispositivi. Che si tratti di prevenire la criminalità o il comportamento dei consumatori, gli strumenti di raccolta e analisi dei dati sono identici. Ma da questa somiglianza si può trarre una conclusione completamente opposta a quella del ministro dell interno: piuttosto che avvalersi delle turpitudini private per legittimare quelle dello Stato, il legislatore potrebbe impegnarsi a regolamentare più severamente queste due forme di attacco alla vita privata. La sorveglianza statale poggia in effetti direttamente sui dati raccolti dalle multinazionali di internet, europee o americane che siano, fornitrici di servizi in linea o operatori di telecomunicazioni (1). Tenuto conto della struttura oligopolistica dell economia digitale, queste informazioni sono concentrate nelle mani di un numero ristretto di centri di dati, abbassando così i costi delle transazioni associati alla sorveglianza. Attraverso una manciata di imprese, gli Stati possono accedere a una gigantesca quantità di informazioni su gran parte della popolazione e, a giudicare dall aumento vertiginoso del numero di richieste indirizzate a queste società dalla giustizia e dalle forze di polizia, approfittano di questa manna. Tra il 2013 e il 2014, il numero di richieste inviate dalle autorità francesi a Google e Facebook è cresciuto di quasi il 65% (2). Negli Stati uniti, il programma Prism, rivelato da Edward Snowden, permette alla Nsa di raccogliere direttamente i dati degli utenti conservati da Microsoft, Google o Facebook, e questo, nella segretezza più totale. Nel 2011, oltre il 90% dei 250 milioni di comunicazioni intercettate in virtù del Foreign Intelligence Surveillance Act che autorizza raccolte dati massicce senza alcun mandato specifico passavano attraverso questo programma (3). Questa dipendenza del pubblico dal settore privato può contribuire a spiegare l inerzia dei governi quando si tratta di regolamentare le attività dei giganti del web. Quanto alle grandi imprese, hanno evidentemente molto da guadagnare da una collaborazione con i governi. Certo, negli Stati uniti si sono impegnate dall inizio delle rivelazioni Snowden a ripristinare la loro immagine presso i loro utenti. Campagna per una migliore regolamentazione del Patriot Act, adozione di tecniche che dovrebbero proteggere meglio il carattere confidenziale delle comunicazioni: tutto va bene per tentare di ristabilire la fiducia. Ma, anche supponendo che siano sincere, queste iniziative si inseriscono in un rapporto di forze squilibrato. Gli araldi dell imprenditoria californiana sono quelli che ottengono i maggiori benefici dalla loro prossimità con l apparato securitario, che sia in termini di commesse pubbliche, di sostegno diplomatico, o di accesso alle informazioni relative ai loro concorrenti stranieri o alla sicurezza dei loro prodotti. Dal canto europeo, gli attentati di Parigi sembrano catalizzare questo processo di ibridazione pubblico-privato nel settore della sorveglianza. Da gennaio 2015, i paesi europei, Regno unito e Francia in testa, hanno intensificato la pressione su queste imprese statunitensi al fine di ottenere la loro collaborazione in materia di lotta alla propaganda terroristica e di sorveglianza delle telecomunicazioni. Dopo un viaggio nella Silicon Valley, lo scorso febbraio, Cazeneuve ha annunciato, il 20 aprile, di aver concluso un accordo con i rappresentanti di Microsoft, Google, Facebook, Apple, Twitter e i principali fornitori di accesso a internet francesi. Tra le misure evocate, la creazione di un label che permette il ritiro rapido dei contenuti propagandistici segnalati dal ministero dell interno (senza decisione giudiziaria), e soprattutto la creazione di un «gruppo di contatto permanente tra ministero e operatori (4)». A Londra, Bruxelles o Parigi, le autorità cercano anche di costringere questi attori a tornare sui propri passi per quanto riguarda le loro iniziative nel campo della crittografia, obbligandoli a consegnare alle autorità dati non cifrati. È sotto attacco specialmente WhatsApp, ormai di proprietà di Facebook, che ha dispiegato qualche mese fa un sistema di crittografia detto «end to end» che rende più difficile la sorveglianza dei messaggi scambiati. Anche in questo caso, le sfide normative affrontate dai giganti della Rete, sia dal punto di vista delle regole della concorrenza che da quello relativo all evasione fiscale, contribuiscono alla loro docilità di fronte al potere. Per le imprese europee, le rivelazioni di Snowden hanno rappresentato un colpo di fortuna. In Francia, l argomento della «sovranità digitale» di fronte allo spionaggio della Nsa ha permesso di legittimare un investimento dello Stato, deciso nel 2009, di 285 milioni di euro in due progetti di centri «sovrani» di stoccaggio di dati. Il progetto guidato da Orange, come quello di Sfr si sono rivelati finora dei fiaschi commerciali, e questo mentre varie imprese francesi, come Ovh o Gandi, propongono già offerte simili. Per questi grandi attori delle telecomunicazioni si tratta in effetti di rafforzare la loro posizione sui mercati europei di fronte alla concorrenza americana o asiatica, in cambio di una collaborazione con gli Stati nelle loro attività di sorveglianza. Mentre Stéphane Richard, amministratore delegato di Orange, fustiga Google e i suoi «dati criptati» che «vengono trasferiti su dei data center di cui si ignora tutto» (Le Point, 11 dicembre 2014), Michel Combes, dirigente di Alcatel, stima che «non sarebbe illogico permettere ai poteri pubblici di sapere quello che succede sulle reti, in un quadro giuridico appropriato» (Les Echos, 1 marzo 2015). Quanto a giudicare se la legge sull intelligence costituisce o meno un «quadro giuridico appropriato», i due patron francesi, come i loro concorrenti americani, si sono finora mostrati silenziosi. F.T. (1) Si legga Dan Schiller, «Geopolitica dello spionaggio», Le Monde diplomatique/il manifesto, novembre (2) Cfr. Google, «Transparence des informations», www. google.com, e Facebook, «Rapports des demandes gouvernamentales», (3) Cfr. «What is known about NSA s PRISM program», Electrospaces.blogspot.fr, 23 aprile (4) Sandrine Cassini, «Terrorisme: accord entre la France et les géants du net», Les Echos, Parigi, 23 aprile (Traduzione di Francesca Rodriguez)

5 Le Monde diplomatique il manifesto giugno in Francia per la sorveglianza di massa Nel 2000, nel caso «Amann contro la Svizzera», la Cedu aveva giudicato che la semplice memorizzazione da parte di un autorità pubblica di dati personali relativi a un individuo recava un danno alla sua vita privata, precisando che «l utilizzo ulteriore delle informazioni memorizzate importa poco (5)». La fuga in avanti pilotata da Valls è assimilabile a un ingerenza nella vita privata di interi gruppi di popolazione, anche quando non sussiste alcun sospetto di legame con una qualsivoglia infrazione. Il tutto per dei risultati più che dubbi: questi dispositivi di raccolta massiccia di dati comportano dei tassi di errore significativi, che rischiano di mettere gli agenti su delle false piste e di mettere sotto sorveglianza delle persone innocenti. Oltre alle scatole nere, le disposizioni previste dal disegno di legge relative alla «sorveglianza internazionale» riguardano attività che stanno alla base delle rivelazioni di Snowden: le intercettazioni effettuate all estero resteranno fuori da qualsiasi quadro giuridico. Come ha implicitamente riconosciuto Bajolet in occasione delle audizioni parlamentari, la sorveglianza esercitata dalla Francia sul traffico internazionale sarà disciplinata dalla legge solo all interno del territorio francese, per le comunicazioni «emesse o ricevute» all estero. Gli scambi che passano su un cavo al largo delle coste africane, per esempio, potranno essere intercettati senza alcun limite. La legge non offre alcuna protezione alle persone che si trovano fuori dal territorio nazionale, a disprezzo dell universalità dei diritti proclamati all articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti umani. La sorveglianza delle comunicazioni francesi emesse o ricevute all estero sarà quanto a lei inquadrata giuridicamente, ma in modo meno rigido rispetto alle comunicazioni strettamente franco francesi. All apparenza insignificante, questo regime speciale si rivela invece decisivo: la maggior parte delle comunicazioni internet dei residenti francesi sono transfrontaliere, poiché transitano specialmente per gli Stati uniti o altri paesi europei che ospitano i server delle principali piattaforme dell industria digitale. Astuzia della ragione tecnico giuridica: il regime di eccezione diventa la norma. Ricorrendo a questo stratagemma, i servizi di intelligence potranno aggirare una delle magre garanzie offerte dal testo in materia di sorveglianza «nazionale», ossia il parere preliminare della Commissione nazionale di controllo delle tecniche di intelligence (Cnctr), un autorità amministrativa indipendente composta da parlamentari e magistrati, che si sostituirà all attuale Commissione di controllo delle intercettazioni telefoniche. Grazie a un emendamento parlamentare, le persone che si trovano in Francia beneficeranno comunque dei limiti previsti per la durata di conservazione (sei mesi al massimo per il contenuto delle comunicazioni). Quale che sia il regime giuridico in gioco (o la sua assenza), le agenzie di intelligence francesi, sulla scia dei loro omologhi anglosassoni, potranno quindi intercettare massicciamente i flussi internazionali dappertutto nel mondo, Francia compresa, per poi immagazzinare, elaborare e analizzare questi dati sul territorio nazionale, specialmente nei locali dell Île de France della Dgse. Queste procedure fanno eco a quelle autorizzate dal Foreign Intelligence Surveillance Act statunitense, sul quale si fondano i più importanti programmi di sorveglianza della Nsa. Esse richiamano anche il diritto applicabile nel Regno unito o in Germania. Un testo analogo a quello votato in Francia permette d altronde a Berlino di spiare i propri vicini per conto della Nsa, fatto questo che ha scatenato uno scandalo politico lo scorso aprile. Al di là di queste misure emblematiche, il disegno di legge autorizza numerose tecniche di sorveglianza mirata: intercettazioni ambientali, telefoniche e delle comunicazioni internet, intrusione informatica per copiare il contenuto dei computer, geo-localizzazione. La durata di conservazione dei dati di connessione è portata da tre a cinque anni. Questi famosi metadati (6) descrivono le caratteristiche piuttosto che il contenuto delle comunicazioni e permettono di rintracciare con precisione le relazioni sociali e le attività di un individuo. Infine, il ventaglio delle missioni di intelligence che autorizzano l uso di queste tecniche di sorveglianza si allarga sensibilmente: oltre alla prevenzione del terrorismo e della criminalità organizzata, include in particolare lo spionaggio per conto dei grandi gruppi industriali francesi, la condotta di operazioni in materia di sicurezza informatica, come anche la prevenzione degli «attacchi alla forma repubblicana delle istituzioni» o ancora delle «violenze collettive tali da mettere in pericolo la sicurezza nazionale». Conosciamo tutti l immaginazione di cui danno prova alcuni poliziotti e procuratori nell interpretazione della nozione di «terrorismo» testimoniata per esempio dal rinvio davanti al tribunale correzionale di tre militanti del gruppo detto «di Tarnac» deciso all inizio Resistenza multiforme Dall estate 2013 e le rivelazioni di Edward Snowden sui metodi della National Security Agency (Nsa), la resistenza contro la sorveglianza di massa si è organizzata. Passa, da una parte, dalla tecnica. In tutto il mondo, gruppi di hackers e di militanti del software libero tentano di rafforzare l autonomia degli utenti internet aiutandoli a proteggere meglio la loro vita privata. Uno dei cantieri fondamentali è quello della crittografia. Il Consiglio d Europa, creato nel 1949 per promuovere i diritti umani stima in un rapporto recente, che «finché gli Stati non accetteranno di fissare dei limiti ai programmi di sorveglianza massiccia portati avanti dalle loro agenzie di intelligence, la crittografia generalizzata mirante a proteggere la vita privata costituirà la soluzione di ripiego più efficace per permettere alle persone di proteggere i loro dati (1)». In questo campo numerosi progetti hanno suscitato un rinnovato interesse, che si tratti per esempio del sistema di sfruttamento Tails, della rete di anonimizzazione Tor o di progetti di messaggistica come CaliOpen, lanciato nel settembre 2013 da Laurent Chemia, pioniere dell internet militante in Francia. Anche negli organi più istituzionali, come l Internet Engineering Task Force (Ietf), incaricata della standardizzazione dei protocolli internet a livello mondiale, il caso Snowden ha aumentato la consapevolezza dell importanza della cifratura. Altro compito: la lotta contro i monopoli, che facilitano la sorveglianza di internet. Alla fine del 2014, per esempio, l associazione francese Framasoft ha lanciato una campagna battezzata «Degooglizziamo internet», il cui scopo è di proporre soluzioni alternative alle grandi piattaforme americane in versione «libera, etica, decentrata e solidale». Queste iniziative cominciano a trovare un pubblico. In uno studio del novembre 2014 su un panel internazionale, il 39% delle persone intervistate e che avevano sentito parlare del caso Snowden, affermava di aver preso delle misure per premunirsi contro la sorveglianza da parte di enti pubblici o privati (2). In Germania, quasi venti milioni di persone avrebbero modificato le proprie azioni, in particolare rivolgendosi a dei servizi e delle applicazioni rispettose della vita privata. Parallelamente, la lotta continua sul terreno giudiziario. Il giovane militante austriaco Max Schrems, per esempio, ha intentato vari procedimenti giudiziari di maggio dalla procura antiterrorismo di Parigi. Queste nuove categorie lasciano quindi temere una banalizzazione della sorveglianza poliziesca dei movimenti sociali, con nuovi passi indietro delle libertà di espressione e di associazione. FLORIAN MEHNERT, Tracce di uomo, 2014 contro Facebook, tra cui un azione collettiva insieme a venticinque mila cittadini europei, il cui scopo è di denunciare la violazione, da parte della società americana, della legislazione europea sui dati personali, ma anche, più in generale, criticare l attendismo delle autorità. Nel campo della sorveglianza dello Stato, la Corte di giustizia dell Unione europea ha emesso, nell aprile 2014, una decisione storica. Adita dall associazione irlandese Digital Rights Ireland, ha invalidato la direttiva del 2006 sulla conservazione dei dati. Adottato dopo gli attentati di Madrid e di Londra, questo testo imponeva agli operatori di conservare l insieme dei dati di connessione dei loro abbonati per un periodo dai sei mesi ai due anni e di mantenerli a disposizione delle autorità amministrative e giudiziarie. Questa sentenza condanna il principio di una raccolta indifferenziata dei dati relativi a persone per le quali non esiste, afferma la Corte, «alcun indizio di natura a far credere che il loro comportamento possa avere un legame, anche indiretto o lontano, con delle infrazioni gravi». Questa sentenza ha prodotto un effetto domino in Europa: le corti costituzionali austriaca, slovena e rumena, come anche un tribunale olandese, hanno da allora messo da parte le legislazioni nazionali in materia, mentre in Francia e in Ungheria sono stati presentati ricorsi davanti alle giurisdizioni nazionali. Infine, grazie alla trasparenza resa possibile dalle rivelazioni di Snowdem, la Cedu dovrà presto pronunciarsi sulle attività dell agenzia britannica di sorveglianza delle comunicazioni. Come testimonia la decisione resa il 7 maggio 2015 da una corte d appello federale americana, che ha condannato l interpretazione in chiave di segretezza del Patriot Act fatta dall amministrazione per accedere massicciamente ai tabulati telefonici dei propri cittadini, questi ricorsi potrebbero portare a una giurisprudenza dagli effetti molto politici. I giudici appaiono ormai come l ultimo baluardo istituzionale contro la sorveglianza generalizzata. F.T. (1) Pieter Omtzgt, «Les oprérations de surveillance massives», Assemblea parlamentare del Consiglio d Europa, Strasburgo, 21 aprile (2) «Global survey on Internet security and trust», Centre for international governance innovation Ipsos, Ontario, novembre (Traduzione di Francesca Rodriguez) Di fronte a questo ampliamento dei poteri devoluti ai servizi di intelligence, i controlli sono irrisori. Il primo ministro, che controllerà l azione dei servizi, potrà autorizzare delle operazioni di sorveglianza anche senza tener conto del parere preliminare della Cnctr. Il testo prevede certo una procedura di contenzioso davanti al Consiglio di Stato, che potrà essere adito dalla Cnctr e da coloro che si considerano vittime di misure di sorveglianza, ma la procedura sarà circondata da opacità. Il testo permette ai servizi di presentare ai giudici amministrativi dei documenti classificati come segreti e ottenere delle udienze a porte chiuse. Il querelante e il suo avvocato saranno pertanto messi fuori gioco. Anche in questo caso, il disegno di legge francese si inserisce nell ambito delle tendenze in atto nel diritto anglosassone, specialmente con le «closed material procedures» britanniche. Un recente studio del parlamento europeo critica severamente queste «procedure per i documenti classificati»; esso denuncia la loro incompatibilità con il diritto a un processo equo (7). Una giustizia segreta tanto più inquietante nel contesto francese dove viene continuamente additata la mancanza d indipendenza del Consiglio di stato rispetto al potere esecutivo. E anche quando i giudici affermassero l illegalità di un azione di sorveglianza, nessuna forma di trasparenza sarà possibile, salvo ottenere l avallo della Commissione consultiva del segreto della difesa nazionale, a cui il primo ministro potrà comunque opporsi. Il testo ha unito contro di lui un fronte abbastanza vasto: associazioni per la difesa dei diritti umani, sindacati di magistrati, avvocati, giornalisti, associazioni di disoccupati o di assistenti sociali, organizzazioni internazionali come il Consiglio d Europa, ma anche giudici antiterrorismo, sindacati di polizia e l attuale presidente della Commissione nazionale di controllo delle intercettazioni di sicurezza (Cncis). Il potere ha tuttavia fatto fronte comune, sostenendo di avere il sostegno dell opinione pubblica, misurato con un sondaggio. Malgrado i pochi franchi tiratori allineanti sulle argomentazioni degli oppositori, il testo è stato adottato in prima lettura all Assemblea nazionale con 438 voti contro 86 (5 maggio 2015). Alcuni emendamenti parlamentari hanno corretto varie disposizioni, specialmente rafforzando l effettività del controllo della Cnctr, ma l essenziale del disegno di legge resta intatto. Una volta promulgato il testo, la sorveglianza «alla francese» riprenderà come e più di prima, con in più la legittimazione di cui l avrà dotata questa operazione di riciclaggio legislativo. Nel febbraio 1987, preoccupato di sottrarre i servizi di intelligence al dibattito pubblico, il ministro dell interno dell epoca, Charles Pasqua, affermava senza indugi che «la democrazia si ferma là dove comincia l interesse dello Stato». La frase conserva tutta la sua attualità nell era della massificazione dei dati digitali. La novità, forse, risiede nell importanza delle fughe di notizie che sollevano il velo che copre la realtà del potere. Esse provocheranno nuova mobilitazioni di cittadini, che tenteranno una doppia riappropriazione della tecnica e del diritto per cercare di «far ragionare la ragion di stato» Félix Tréguer (1) Jean-Marc Manach, «Frenchelon: la Dgse est en premieère division», Bug Brother, 2 ottobre 2010, (2) Conferenza stampa, 21 gennaio (3) Conferenza stampa, 19 marzo (4) Rispettivamente: Assemblea nazionale, seduta del 15 aprile 2015; audizione in commissione delle leggi dell Assemblea nazionale, 24 marzo (5) Corte europea dei diritti umani, caso «Ammann contro la Svizzera», n 27798/95, 16 febbraio 2000, paragrafo 69. (6) I dati di connessione includono in particolare l indirizzo IP, data e ora di inizio e fine della connessione, gli pseudonomi utilizzati, ma anche i dati amministrativi detenuti dagli operatori come nome e cognome o la ragione sociale dell abbonato, i relativi indirizzi postali, l indirizzo di posta elettronica, i numeri di telefono e le password utilizzate. (7) Didier Bigo et al., «National security and secret evidence in legislation and before the courts: Exploring the challenges», studio per la commissione per le libertà civili, giustizia e affari interni, Parlamento europeo, (Traduzione di Francesca Rodriguez)

6 6 giugno 2015 Le Monde diplomatique il manifesto ASFISSIA FINANZIARIA PROGRAMMATA Grecia, il colpo di stato silenzioso Settimana dopo settimana, il cappio dei negoziati strangola progressivamente il governo greco. Alcuni alti dirigenti europei hanno spiegato al «Financial Times» che non è possibile alcun accordo con il primo ministro Alexis Tsipras finché non «si sbarazza dell ala sinistra del suo governo». L Europa, che predica la solidarietà, forse la riserva solo ai conservatori. STELIOS KOULOGLOU* C ome dice una canzone tradizionale greca, ad Atene «tutto cambia e tutto resta uguale». Quattro mesi dopo la vittoria elettorale di Syriza, i due partiti che hanno governato il paese dalla caduta della dittatura, il Movimento socialista panellenico (Pasok) e la Nuova democrazia (destra), sono caduti in discredito. Il primo governo di sinistra radicale nella storia del paese dopo il «governo delle montagne (1)», al tempo dell occupazione tedesca, gode di grande popolarità (2). Ma se nessuno più nomina la detestata «troika», ritenuta responsabile dell attuale disastro economico, le tre istituzioni Commissione europea, Banca centrale europea (Bce) e Fondo monetario internazionale (Fmi) continuano a portare avanti la loro politica. Minacce, ricatti, ultimatum: un altra «troika» impone al governo del nuovo primo ministro Alexis Tsipras l austerità che i suoi predecessori applicavano docilmente. Con una produzione di ricchezza amputata di un quarto dal 2010 e un tasso di disoccupazione al 27% (ma superiore al 50% per i giovani sotto i 25 anni), la Grecia affronta una crisi sociale e umanitaria senza precedenti nella sua storia. A dispetto di un risultato elettorale che nel gennaio 2015 ha riconosciuto un chiaro mandato a Tsipras per porre fine all austerità, l Unione europea continua ad attribuire al paese il ruolo di cattivo scolaro punito dai severi maestri della scuola di Bruxelles. Obiettivo? Scoraggiare gli elettori «sognatori» della Spagna o di altri stati che ancora credono nella possibilità di nominare governi contrari al dogma germanico. La situazione ricorda quella del Cile dell inizio degli anni 1970, quando il presidente americano Richard Nixon si prodigò per rovesciare Salvador Allende, nel tentativo di arginare simili derive nel suo cortile di casa. «Fate urlare l economia!» aveva allora ordinato il presidente americano. Quando l operazione fu portata a termine, scesero in campo i thank del generale Augusto Pinochet... Minacce continue e tetri presagi Il colpo di stato silenzioso che è in corso in Grecia si serve di pratiche e strumenti più moderni dalle agenzie di rating ai media passando per la Bce. Con la morsa stretta in posizione, al governo Tsipras rimangono due opzioni: farsi strangolare finanziariamente qualora persistesse a voler applicare il suo programma oppure rinnegare le promesse e lasciarsi cadere, abbandonato dai propri elettori. Proprio per evitare la trasmissione del virus Syriza causa della malattia della speranza al resto del corpo europeo, il presidente della Bce Mario Draghi ha annunciato, il 22 gennaio 2015, ossia tre giorni prima delle elezioni greche, che il programma di intervento della sua istituzione (ogni mese la Bce acquista agli stati della zona euro 60 milioni di euro di titoli del debito) verrebbe accordato alla Grecia solo sotto condizione. L anello debole della zona euro, quello che ha più bisogno di aiuto, riceverebbe sostegno solo sottomettendosi all amministrazione di Bruxelles. * Giornalista e documentarista. Deputato europeo e membro di Syriza. I greci hanno la testa dura. Hanno votato Syriza, costringendo il presidente dell Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem a richiamarli all ordine: «I greci devono capire che i problemi maggiori della loro economia non sono scomparsi per il solo fatto di essere andati alle urne» (Reuters, 27 gennaio 2015). «Non possiamo fare eccezioni per questo o quel paese», ha confermato Christine Lagarde, direttrice generale del Fmi (The New York times, 27 gennaio 2015), mentre Benoît Cœuré, membro del direttorio della Bce, rincarava la dose: «La Grecia deve pagare, sono le regole del gioco europeo» (The New York times, 31 gennaio e 1 febbraio 2015). Una settimana dopo, Draghi dimostrava che anche all interno della zona euro c era chi sapeva «far urlare l economia»: senza la minima giustificazione, chiudeva la principale fonte di finanziamento delle banche greche, sostituendola con l Emergency liquidity assistance (Ela), costoso dispositivo da rinnovare ogni settimana. Insomma, poggiava sulla testa dei dirigenti greci una pesante spada di Damocle. Nello slancio del momento, l agenzia di rating Moody s annunciava che la vittoria di Syriza «influiva negativamente sulle prospettive di crescita» dell economia (Reuters, 27 gennaio 2015). Lo scenario del Grexit (uscita della Grecia dalla zona euro) e del default tornava così all ordine del giorno. Quarantotto ore dopo le elezioni di gennaio, il presidente dell Istituto tedesco per la ricerca economica, Marcel Fratzscher, ex economista della Bce, spiegava come Tsipras stesse conducendo un «gioco molto pericoloso»: «Se le persone iniziano a credere che parli seriamente, potremmo assistere a una massiccia fuga di capitali e a una corsa agli sportelli. Siamo arrivati al punto in cui un uscita dall euro è diventata possibile» (Reuters, 28 gennaio 2015). Classico esempio di profezia auto-realizzatrice destinata ad aggravare la situazione economica di Atene. Syriza disponeva di un margine di manovra limitato. Tsipras era stato eletto per rinegoziare le condizioni legate all «aiuto» di cui il suo paese aveva beneficiato, ma sempre rimanendo nel quadro della zona euro dal momento che l idea di uscirne non trovava l accordo della maggioranza della popolazione. Quest ultima è stata convinta dai media greci e internazionali che un Grexit rappresenterebbe una catastrofe di dimensioni bibliche. Ma la partecipazione alla moneta unica tocca altre corde, ultrasensbili. Dalla sua indipendenza, nel 1822, la Grecia ha oscillato tra un suo passato nell Impero ottomano e un «europeizzazione», obiettivo che, nell immaginario delle élite e della popolazione, preludeva alla modernizzazione del paese e all emersione dal sottosviluppo. La partecipazione al «nocciolo duro» dell Europa doveva concretizzare questo ideale nazionale. Durante la campagna elettorale, i candidati di Syriza hanno dovuto confermare che l uscita dall euro rimaneva un tabù. Al centro delle trattative tra il governo Tsipras e le istituzioni, c è il nodo delle condizioni fissate dai creditori: i famosi memorandum che, dal 2010, obbligano Atene ad applicare devastanti politiche di austerità e di aumento della tassazione. Tuttavia, più del 90% dei versamenti dei creditori continua ad arrivare direttamente a volte già l indomani!, perché destinato al rimborso del debito. Come ha riassunto il ministro delle finanze Yanis Varoufakis, che sollecita un nuovo accordo con i creditori, «la Grecia ha passato gli ultimi cinque anni a vivere per il prestito successivo come il drogato in attesa della sua prossima dose» (1 febbraio 2015). Quattro mesi di tregua Ma siccome il mancato rimborso del debito equivale a un «rischio di insolvenza», ossia a una sorta di bancarotta, sbloccare la dose è un arma di ricatto molto potente nelle mani dei creditori. In teoria, dal momento che i creditori hanno bisogno di essere rimborsati, si sarebbe potuto pensare che anche Atene disponesse di un potere contrattuale importante. Ma se avesse deciso di servirsene, la Bce avrebbe interrotto il finanziamento delle banche greche, comportando il ritorno alla dracma. Non stupisce quindi se, ad appena tre settimane dalle elezioni, i diciotto ministri delle finanze della zona euro hanno indirizzato un ultimatum al diciannovesimo membro della famiglia europea: il governo greco doveva applicare il programma trasmesso dai suoi predecessori o saldare il proprio debito trovando i soldi altrove. In questo caso, concludeva il New York Times, «molti attori del mercato finanziario pensano che la Grecia non abbia altra scelta che lasciare l euro» (16 febbraio 2015). Per sottrarsi a questi ultimatum soffocanti, il governo greco ha chiesto una tregua di quattro mesi. Non ha preteso il versamento di 7,2 miliardi di euro, ma sperava che, durante il cessate il fuoco, le due parti raggiungessero un accordo che comprendesse delle misure per stimolare l economia e quindi risolvere il problema del debito. Sarebbe stato inopportuno dar cadere subito il governo greco: i creditori, quindi, hanno accettato. Atene pensava di poter contare, almeno provvisoriamente, sulle somme che dovevano rientrare nelle sue casse. Il governo sperava di disporre, nelle riserve del Fondo europeo di stabilità finanziaria, di 1,2 miliardi di euro non utilizzati nel processo di ricapitalizzazione delle banche greche, oltre a 1,9 miliardi che la Bce aveva guadagnato sulle obbligazioni greche e promesso di restituire ad Atene. Ma, a metà marzo, la Bce annunciava di non voler restituire quei guadagni, mentre i ministri dell Eurogruppo decidevano di non versare la somma, anzi, di trasferirla in Lussemburgo, come se temessero una trasformazione dei greci in scassinatori di banca! Inesperta, non aspettandosi simili manovre, la squadra di Tsipras aveva dato il suo accordo senza esigere delle garanzie. «Abbiamo commesso l errore di non chiedere un accordo scritto», ha riconosciuto il primo ministro durante un intervista per il canale televisivo Star, il 27 gennaio Il governo continuava a godere di grande popolarità, nonostante le concessioni a cui aveva dovuto prestarsi: non rimettere in discussione le privatizzazioni decise dal governo precedente, rinviare l aumento del salario minimo, aumentare ulteriormente l imposta sul valore aggiunto (Iva). Berlino ha dato il via a un operazione mirata a gettare il discredito sul governo. Alla fine di febbraio, lo Spiegel pubblicava un articolo sui «rapporti burrascosi tra Varoufakis e Schäuble» (27 febbraio 2015). Uno dei tre autori era Nikolaus Blome, recentemente trasferitosi dal Bild allo Spiegel, eroe della campagna condotta dal quotidiano nel 2010 contro «i greci pigri» (3). Il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble che, fatto raro nella storia dell Unione europea, ma anche della diplomazia internazionale, ironizzava pubblicamente sul suo omologo greco, definito «stupidamente naif» (10 marzo 2015), era presentato dalla rivista tedesca come un Sisifo benevolo, afflitto per la Grecia condannata ad abbandonare la zona euro. A meno che, insinuava l articolo, Varoufakis non si dimettesse dalle sue funzioni. Mentre si moltiplicavano le fughe di notizie, i presagi più tetri e le minacce, Dijsselbloem proponeva un nuovo scenario dichiarando, sulle pagine del New York Times, che l Eurogruppo stava prendendo in considerazione la possibilità di applicare alla Grecia il modello cipriota, ossia una limitazione nei movimenti di capitali e una riduzione dei depositi (19 marzo 2015)... Un annuncio che si fatica a interpretare diversamente da un tentativo infruttuoso di provocare il panico bancario. La Bce e Draghi hanno continuato a stringere il cappio, limitando ulteriormente le possibilità per le banche greche di finanziarsi e Bild ha pubblicato uno pseudo-reportage su una scena di panico ad Atene, accompagnato da una fotografia fuorviante di semplici pensionati in coda davanti a una banca per ritirare la pensione (31 marzo 2015). A fine aprile, l operazione di Berlino ha portato i suoi primi frutti. Varoufakis è stato sostituito nelle trattative con i creditori dal suo vice Euclide Tsakalotos. «Il governo deve far fronte a un nuovo tipo di colpo di stato, ha dichiarato Varoufakis. Gli aggressori non sono più, come nel 1967, i thank, ma le banche» (21 aprile 2015). Per ora, il colpo di stato silenzioso ha colpito solo un ministro. Ma il tempo gioca a favore dei creditori, che esigono l applicazione della soluzione neoliberale. Ognuno con la propria ossessione. Gli ideologi del Fmi chiedono la deregulation del mercato del lavoro e la legalizzazione dei licenziamenti di massa, promessi agli oligarchi greci, proprietari delle banche. La Commissione europea, per non dire Berlino, esige la continuazione delle privatizzazioni, che potrebbero interessare le aziende tedesche e a un costo esiguo. Nell interminabile lista delle vendite scandalose spicca quella, effettuata dallo stato greco nel 2013, di ventotto edifici che pure continua a utilizzare. Per i prossimi vent anni, Atene dovrà pagare un affitto ai nuovi proprietari pari a 600 milioni di euro, ossia quasi il triplo della somma ricevuta con la vendita finita dritta nelle tasche dei creditori... Un debito insostituibile Jannis Kounellis, senza titolo, 1973 In posizione di debolezza, abbandonato da quanti invece sperava al suo fianco (come la Francia), il governo greco non è in grado di risolvere il problema maggiore con il quale deve fare i conti: un debito insostenibile. La proposta di organizzare una conferenza internazionale simile a quella del 1953, che dispensò la Germania dal pagare una grossa parte delle riparazioni di guerra, aprendo la strada al miracolo economico (4), si è scontrata con un muro di minacce e ultimatum. Tsipras si sforza di ottenere un accordo migliore dei precedenti, ma che sarà comunque ben lontano dai suoi proclami e dal programma votato dai cittadini greci. Jyrki Katainen, vicepresidente della Commissione europea è stato molto chiaro a proposito, dichiarando all indomani delle legislative: «Non modifichiamo la nostra politica in funzione delle elezioni» (28 gennaio 2015). Le elezioni hanno ancora un senso, se un paese che rispetta fondamentalmente i suoi impegni non ha il diritto di modificare in nessun modo la sua politica? I neonazisti di Alba dorata hanno una risposta pronta. È possibile che tanto loro quanto i sostenitori di Schäuble a Atene traggano beneficio dal fallimento del governo Tsipras? (1) Si legga Joëlle Fontaine, «Dobbiamo tener duro e dominare Atene», Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio (2) Secondo un sondaggio del 9 maggio pubblicato dal quotidiano Efimerida ton Syntakton, il 53,2% della popolazione giudica «positiva» o «piuttosto positiva» la politica del governo. (3) Si legga Olivier Cyran, «Bild contro i ciclonudisti», Le Monde diplomatique/il manifesto, maggio (4) Si legga Renaud Lambert, «Debito pubblico, un braccio di ferro lungo un secolo», Le Monde diplomatique/il manifesto, marzo (Traduzione di Alice Campetti)

7 Le Monde diplomatique il manifesto giugno LA CRISI DELLA SOCIALDEMOCRAZIA TRASCINA CON Sé I LABURISTI Regno unito, la vittoria dei carnefici Stefan Wermuth/Reuters La crisi che colpisce l Europa non punisce i governi in carica quando si presentano alle elezioni. Nemmeno quando le politiche che hanno condotto hanno aggravato il disastro sociale. Questa la conclusione da trarre dalle elezioni generali britanniche di maggio, le quali hanno premiato un governo di conservatori milionari, in guerra contro i ceti sfavoriti. Come si spiega questo paradosso? OWEN JONES * P er i laburisti è stata una disfatta in campo aperto. Un inatteso tornado. I sondaggi erano stati monotoni come un cielo d inverno in Gran Bretagna. Davano i tories del primo ministro David Cameron, eletto nel 2010, gomito a gomito con il Labour di Edward Miliband. Nel giorno delle elezioni, gli istituti di sondaggi avevano addirittura registrato un sussulto a favore del secondo. All unisono, editorialisti ed «esperti» avevano dato il responso: al 10 Downing Street si sarebbe insediato Miliband. Non a capo di una maggioranza parlamentare, ma grazie al sostegno del Partito nazionale scozzese (Snp), favorevole all indipendenza. Tutti erano ben consci di storici errori nei sondaggi, come nel 1992, quando avevano predetto la vittoria dei laburisti. Tuttavia, nessuno aveva anticipato il risultato che gli exit poll all uscita delle urne hanno poi delineato: un avanzata decisiva dei conservatori. Presso i militanti laburisti, via via durante la serata elettorale l incredulità si trasformava in smarrimento. E i primi sondaggi erano al di sotto della realtà. I tories infatti non si sono accontentati di vincere: dopo 23 anni, hanno riottenuto la maggioranza in Parlamento. L impatto del referendum scozzese Come si spiega una simile sconfitta laburista? Sotto i conservatori e i loro alleati liberal-democratici, i britannici non hanno forse patito il peggior degrado del proprio livello di vita dall epoca vittoriana ( ), un tonfo di inusuale portata nel contesto dell Unione europea? Non hanno forse conosciuto la più grave decurtazione dei servizi pubblici e della protezione sociale da decenni? E tutto ciò nel contesto della ripresa economica più timida del secolo? Pur non potendo parlare di uno tsunami blu, i conservatori hanno riportato un risultato migliore di quello del È la prima volta dalla vittoria del conservatore Anthony Eden nel 1955 che un partito al potere realizza un simile exploit. Hanno comunque ottenuto solo il 37% dei suffragi, contro il 36,1% di cinque anni fa, avanzando di circa seicentomila voti. * Giornalista, autore di The Establishment. And How They Get Away With It, Allen Lane, Londra, La cancelliera tedesca Angela Merkel, esperta di coalizioni, avrebbe rassicurato Cameron al momento dell entrata in carica nel 2010 a fianco del leader liberal-democratico Nicholas Clegg: «Il partito più piccolo ha la peggio!» Non sbagliava. Fino all arrivo al governo, il partito di Clegg aveva pescato nell elettorato conservatore mostrandosi meno radicale della formazione definita «the nasty party» (letteralmente, «il partito cattivo»). Al tempo stesso, i liberal-democratici erano arrivati ad attirare elettori di sinistra delusi dal New Labour, che hanno vissuto l alleanza con Cameron come un tradimento. Nel 2010, avevano riportato 57 seggi e il 23% dei voti. Alle elezioni di maggio, con il 7,9% dei voti, sono quasi sul punto di scomparire: i loro otto deputati bastano appena a riempire un tassì londinese Cameron ha dunque approfittato degli smacchi del suo alleato. Ma ancor più di quelli del suo avversario, Miliband. Infatti sono stati i laburisti ad aver perso le elezioni, più di quanto i conservatori non le abbiano vinte In Europa la socialdemocrazia è messa in crisi al tempo stesso da un populismo di sinistra e da una destra xenofoba. In questo senso, il Regno unito non è un isola: i laburisti hanno perso terreno a vantaggio da un lato del progressista Snp e dei Verdi, dall altro al Partito per l indipendenza del Regno unito (Ukip) di Nigel Farage (1). La nazione scozzese ha dato al Partito laburista i suoi primi leader, e ne è stata storicamente un bastione elettorale. Nel 2010, il Labour aveva ottenuto 41 dei 59 seggi spettanti alla Scozia, contro i 6 dell Snp. Nel 2015, una rivoluzione politica ha percorso le terre che si estendono a nord del vallo di Adriano: i laburisti hanno mantenuto un solo seggio, l Snp ne ha avuti 56, con il 50% dei voti. Percentuali inaudite per un partito che si posiziona con tutta evidenza a sinistra di Miliband; ma che si spiega in gran parte con l impatto del thatcherismo sulla regione. Gli scozzesi, fra le prime vittime del neoliberismo, dagli anni 1980 hanno costantemente punito i tories alle elezioni. Il senso di tradimento seguito all arrivo al potere del New Labour di Anthony Blair, nel 1997, ha poi aperto a sinistra uno spazio politico che infine lo Snp ha occupato almeno sul piano retorico. Londra, Aprile Maschere di Ed Miliband, partito laburista, e di Niegel Farange, Ukip Ma i nazionalisti hanno anche beneficiato del referendum sull indipendenza scozzese tenutosi il 18 settembre 2014 (2). Anche se la maggioranza ha votato contro, il permanere della Scozia sotto la corona britannica si è giocato su uno scarto ben più ridotto del previsto. La campagna per il «no» si è svolta all insegna di un isterico allarme caos alimentato dai grandi media e dal settore privato. In quell occasione, la strategia del Labour, che ha scelto di unire le sue forze a quelle dei tories anziché organizzare una campagna propria, si è rivelata catastrofica. Ha alienato al partito in Scozia molti elettori tradizionali, diventando ai loro occhi il partito dei «tories rossi». In politica come in amore, una rottura brusca alimenta talvolta l avversione più accanita. Privandosi della cittadella scozzese al nord, la formazione di Miliband ha preparato anche la disfatta al sud. L unica speranza dei laburisti era quella di ottenere il sostegno dell Snp per formare un governo; e i tories l hanno usata per farne un cavallo di battaglia. Uno dei manifesti immaginati dagli esperti di comunicazione di Cameron mostrava il dirigente laburista, piccolo piccolo, nella tasca di Alexander Salmond, ex leader dell Snp: «Votate per Miliband, avrete i nazionalisti scozzesi!», hanno ripetuto i conservatori, suggerendo che i laburisti avrebbero messo gli elettori inglesi alla mercé dei separatisti del Nord. Questa minaccia sull Inghilterra, che i media conservatori detenuti dal magnate Rupert Murdoch avevano drappeggiato nel tessuto di tartan, si è rivelata senza dubbio decisiva il giorno delle elezioni. Ma Miliband affrontava ugualmente un altra difficoltà, insormontabile. La crisi finanziaria del 2008 era scoppiata con i laburisti al governo. La loro incapacità di regolamentare il settore bancario, dovuta all ubriacatura di elisir neoliberista, aggravò la portata del crollo. Nello stesso periodo, nell opposizione, i conservatori avevano raccomandato di andare ancora oltre, con la deregolamentazione: ma, sorprendentemente, i media sembrano averlo dimenticato. Quando i fatti contano così poco, non c è niente di più facile che riscrivere la storia. E i tories si sono consacrati a questo compito a partire dal 2010: no, la crisi non era stata provocata dalle malefatte dei banchieri, ma dalle spese pazze dei laburisti statalisti! «Abbiamo dovuto rimediare al caos che il Labour aveva lasciato dietro di sé», hanno sospirato durante la campagna elettorale del 2015 nel quadro del governo uscente, aggiungendo: «Perché affidare le chiavi dell automobile al pilota che ha provocato l incidente?» Paradossalmente, questa situazione ha portato alcuni critici progressisti del New Labour (fra i quali l autore di questo scritto) a difenderne l operato nel campo della spesa pubblica, aumentando certamente la confusione. Con la riuscita dell operazione dei tories, la credibilità dei laburisti nelle questioni economiche si avvicina ormai pericolosamente allo zero, benché l economia del paese soffra in primo luogo del programma di austerità imposto dai tories Londra, Aprile Proiezione degli exit polls elettorali nella sede della Bbc A quest offensiva, il discorso dei laburisti non è riuscito a contrapporre un messaggio chiaro. Miliband ricorreva volentieri a un linguaggio di stampo universitario, senza accenti popolari, adottando nuovi concetti per abbandonarli subito dopo: «il ceto medio soffocato», per indicare le pressioni eccessive su questo segmento di popolazione; «la promessa britannica», per esprimere la sua certezza che le prossime generazioni vivranno meglio; o anche lo One National Labour, un incursione nell idea di unità nazionale (One Nation) promossa dal conservatore Benjamin Disraeli ( ). «Deriva a sinistra» del Labour? ECO TOURISM IN Come palloni gonfiati con l elio, proposte lanciate nel cielo politico senza la minima coerenza d insieme hanno finito per sparire da tutti i radar: la promessa di portare, entro il 2020, il salario minimo a un livello simile a quello a cui l avrebbe portato l inflazione; il temporaneo congelamento delle bollette per il settore energetico e l impegno a promuovere la concorrenza sul mercato dell elettricità; il ritorno a un aliquota di imposta marginale (quella superiore) del 50%, ovvero il livello praticato in Giappone; una tassa sulle proprietà con un valore superiore ai due milioni di sterline (circa 2,7 milioni di euro), la mansion tax, presa in prestito dal programma dei liberal-democratrici. Se Miliband fosse arrivato al potere, il Regno unito avrebbe continuato ad avere l aliquota d imposta sulle società più bassa d Europa e, per la prima volta, i laburisti si sarebbero impegnati a ridurre la spesa pubblica ogni anno nel corso del loro mandato. Sull immigrazione, il partito si colloca ormai a destra di Blair, al quale rimprovera di aver lasciato entrare un numero troppo grande di europei dell Est. Mentre in Scozia il disincanto rispetto al Labour ha portato gli elettori a rivolgersi al nazionalismo di sinistra dell Snp, nei grandi agglomerati del nord dell Inghilterra il fenomeno ha avvantaggiato l Ukip. Quattro milioni di elettori, in effetti, hanno sostenuto questo partito, anche se, a causa del sistema elettorale britannico, uninominale maggioritario a un turno, gli è stato attribuito un solo seggio. I conservatori hanno così potuto ottenere seggi sui quali contavano i laburisti. Quale speranza rimane per il Labour? Nel partito e nei media, domina questa analisi: la sconfitta si spiega con una deriva a sinistra, esemplificata da un programma troppo poco favorevole alle imprese. I candidati alla successione di Miliband, che si è dimesso all indomani della sconfitta, annunciano già la loro intenzione di rettificare il tiro. Quanto a elaborare una strategia che permetta di ritrovare la fiducia di coloro i quali hanno disertato i ranghi del partito per votare Snp, Verdi e Ukip: niente. Sul lato di Unite, principale sostegno sindacale del Partito laburista, diverse voci si sono levate per chiedere la rottura dei legami fra le due strutture. Il Labour potrebbe sopravvivere senza questa storica prossimità? Una sinistra radicale, sostenuta dai sindacati, troverebbe uno spazio per imporsi come hanno fatto Syriza in Grecia o Podemos in Spagna? Prima di tutto, occorrerebbe che la collera riuscisse a produrre speranza. (1) Si legga «Rabbia sociale e voto a destra», Le Monde diplomatique/il manifesto, ottobre (2) Si legga Keith Dixon, «Le ambizioni del nazionalismo scozzese», Le Monde diplomatique/ il manifesto, settembre (Traduzione di Marinella Correggia) EAST & SOUTHERN AFRICA Based in Malawi since 2005 follow us

8 8 giugno 2015 Le Monde diplomatique il manifesto RIFONDARE IL MULTILATERALISMO A SESSANT ANNI Le Nazioni unite Sono molti i progetti di riforma dell Organizzazione delle Nazioni unite (Onu) presentati nel momento in cui si celebrano i 70 anni della sua Carta fondatrice, adottata a San Francisco il 26 giugno Al di là degli aspetti tecnici (diritto di veto, funzione del segretario generale, ecc.), sono in discussione il ruolo stesso dell Onu come mezzo per costruire la pace e i suoi valori umanistici. BERTRAND BADIE * E ra l incubo del presidente Franklin Delano Roosevelt: l idea che il Congresso degli Stati uniti rifiutasse di ratificare la creazione dell Organizzazione delle nazioni unite (Onu) di cui lui era stato uno dei principali ispiratori alla fine della seconda guerra mondiale. Il rischio era reale e già uno dei suoi predecessori, Woodrow Wilson, ne aveva fatto le spese un quarto di secolo prima quando aveva assunto un ruolo attivo nella nascita della Società delle nazioni (Sdn) (1). Dobbiamo ricordare che i parlamentari americani si consideravano gli intransigenti depositari della teoria classica secondo cui, urbi et orbi, nessuno può sostituirsi al popolo per definire le sue leggi: né il diritto internazionale, né una qualsiasi organizzazione multilaterale poteva emendare, o tanto meno cancellare, la sovranità delle nazioni. Così si apriva il dibattito sul posto da assegnare a quest embrione di società internazionale istituzionalizzata? I neoconservatori, sessant anni dopo, sembrano ricordarsene... Il duro shock che le vide nascere vincolò le Nazioni unite a un ambiguità fondatrice. Per non alienarsi il Congresso, il presidente Roosevelt ha assicurato ai più potenti, ossia i vincitori della guerra, un diritto di veto, accettato di buon grado da Stalin (2). Per fare bella figura riservando un posto per l Europa, senza dimenticare L Asia, il cui peso era ancora maggiore visto che la seconda guerra mondiale si stava concludendo in Estremo oriente, questo diritto fu allargato ad altri tre stati (Regno unito, Francia e Cina). Così nasceva il «club dei cinque», membri permanenti del Consiglio di sicurezza (o P5): si legalizzava la disparità di potere e ogni decisione * Professore universitario a Sciences Po Parigi. Autore di Le Temps des Humiliés. Pathologie des Relations internationales, Parigi, Odile Jacob, multilaterale importante era ormai sottoposta alla libera volontà dei più forti, che sovranamente stabilivano se approvarla e applicarla. Il multilateralismo sembrava nato morto... Il bilateralismo e le sue pratiche arbitrarie erano superati e si faceva strada l idea di sicurezza collettiva, ma il passato non era ancora completamente cancellato: con il P5, il gioco di forza, uscito dalla porta, rientrava dalla finestra... Il contesto e la sua evoluzione hanno ulteriormente aggravato i dati dell inizio. La guerra fredda ha reso l uso del veto un banale strumento nello scontro tra «grandi». Tanto che nel maggio 2014 si contavano niente di meno che duecentosettantadue utilizzi di quest arma da guerra diplomatica: ottantatre su iniziativa di Washington, prevalentemente in merito alla Palestina, e centotrenta di Mosca. Con la scomparsa dell Urss, nel 1991, una nuova spettacolare tendenza fece la sua comparsa: l 83% delle risoluzioni era redatto da una o più potenze occidentali, riducendo alla passività le altre due. Il Consiglio di sicurezza, luogo di confronto o club dell aristocrazia degli stati, nocciolo duro del multilateralismo dell Onu, ha un ruolo ben lontano dal progetto di pace perpetua... Tanto più che quanto era vero al tempo di Roosvelt non corrisponde al mondo di oggi: dai cinquantuno stati fondatori, siamo passati a centonovantatre; da un mondo euro-americano, stiamo volgendo a un universo in cui il Sud tende numericamente a dominare. Senza contare che i potenti del 1945 non sono più quelli del 2015, e che le sfide di allora non hanno niente a che vedere con quelle che creano insicurezza ai giorni nostri. L opposizione tra multilateralismo ideale e multilateralismo reale è resa ancora più facile dalla capacità di quest ultimo di riprodursi grazie al meccanismo ben oliato della forza conservatrice. Si sarebbe potuto prevedere che i vinti di ieri uscissero infine dal purgatorio, come il Giappone, secondo finanziatore dell Onu, o la Germania, quarta potenza economica mondiale; si sarebbe potuto tener conto dell India e del suo peso di secondo paese più popoloso del mondo, raggiungendo il Brasile e i due primi candidati in un club militante che inizia a stufarsi dei suoi vani sforzi. E l Africa, e il mondo arabo, l una e l altro al centro della presente conflittualità mondiale? In realtà, assistiamo a un doppio blocco, estremamente rappresentativo della nostra epoca. Da una parte, continuiamo ad affidarci alla forza, nonostante sia drammaticamente in crisi: solo un accordo fra i «grandi» permetterebbe di risolvere i problemi con i quali il nostro mondo trova a confrontarsi. Da qui derivano la scarsa considerazione degli attori direttamente coinvolti, l eccessivo ricorso alla forza e l esiguo interesse per le questioni sociali e di sviluppo. Queste ultime sono relegate ai margini nel Consiglio di sicurezza e assegnate a un Consiglio economico e sociale (Ecosoc) al quale nessuno crede, vista la tendenza a sprofondare nella sua inefficacia. In secondo luogo, questa potenza idolatrata vive al ritmo desueto della forza militare e della rappresentazione che se ne faceva prima di esser proiettati nella sequenza della mondializzazione: la guerra fredda manteneva viva l illusione di un efficacia che oggi non ha più, come dimostra lo sterile destino degli interventi. La regola è ben nota: meglio battersi per mantenere il proprio rango che arrischiarsi in un operazione di ammodernamento che prevede la possibilità di fallimento... Diritto di veto, arma da guerra diplomatica In simili condizioni, non ci stupiamo se prevale la legge del circolo vizioso: il maggior risalto dei progetti di riforma del Consiglio equivale a un indurimento del «club» che, se necessario, ricorrerà al suo diritto di veto per neutralizzarli (3) Bastava pensarci! Da qui a concepire l Onu come una macchina incapace di riformarsi, il passo è breve e i suoi fondatori avevano fatto un lavoro minuzioso per assicurarsene. I recenti successi in ambito di riforme sono stati soprattutto retorici, come quelli del «sessantesimo anniversario» dell organizzazione, tanto attesi dal segretario generale Kofi Annan ( ) per chiudere il proprio mandato. Nonostante la creazione di un Consiglio per i diritti dell uomo e di una Commissione per il consolidamento della pace, i risultati sono stati magri; è normale che accada quando i partner di un club si trovano d accordo solo nella volontà di non cambiare niente. Come capita spesso nei peggiori blocchi, il paradosso è che tutti sono a conoscenza delle tappe che porterebbero a un autentica soluzione. Il gruppo degli «Elders» (ex dirigenti politici in pensione), presieduto da Annan, ha recentemente individuato le principali disposizioni per una vera riforma (4). Nessuno crede a una pura e semplice abolizione del diritto di veto (5) ma potrebbe essere ammansito se fosse inserito in un contesto meno negativo; anche un allargamento dei membri permanenti che rischierebbero di diventare più numerosi dei non permanenti sembrerebbe destinato a fallire. In compenso, ci dicono gli «Elders», una rinuncia al diritto di veto in caso di crimini contro l umanità e l agevolazione della nascita di una categoria intermedia all interno del Consiglio, composta da stati rinnovabili più volte, potrebbero preludere a una soluzione... L idea sembra piacere, specie alle cancellerie occidentali. Ma chi deciderà quando effettivamente ci troviamo di fronte a una «situazione di crimine contro l umanità» e chi assicurerà che gli uni e gli altri non definiranno l evento in funzione dei propri interessi? E chi verrà inserito nella «lista intermedia» degli stati semi-permanenti, questa vergognosa «seconda divisione» che libera dallo statuto di «stato passivo» senza tuttavia aprire le porte del club? Frustrazioni di domani... Il progetto degli «Elders» fortunatamente va oltre, estendendosi ad altri due soggetti, generalmente meno dibattuti, ma forse più sensibili. Innanzitutto lo statuto del segretario generale, spesso temuto e sempre sorvegliato dai più potenti. C è stato un tempo in cui la diplomazia sovietica diffidava talmente di Dag Hammarskjöld ( ) da farle auspicare che a capo delle Nazioni unite ci fosse non uno, ma due segretari... Gli Stati uniti, dal canto loro, non hanno esitato a punire Boutros Boutros-Ghali ( ), rifiutandogli un secondo mandato perché giudicato troppo indipendente; fecero vedere i sorci verdi a Annan, colpevole di non essersi assunto la responsabilità dei loro giganteschi errori in Iraq nel La soluzione di questo problema va cer- La via per la pace passa GABRIEL GALICE* S pesso, la strada per l inferno della guerra è lastricata di intenzioni buone e pacifiche. La novità sta oggi in una certa banalizzazione del ricorso all uso forza e nel riconoscimento dell Organizzazione del trattato dell Atlantico del nord (Nato) come braccio armato di un ordine mondiale imposto dagli occidentali. L intervento in Kosovo nel 1999, deciso senza l autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell Organizzazione delle nazioni unite (Onu), ha spianato la strada per il rinnovamento dell immagine della Nato, per di più in veste umanitaria. Il 23 settembre 2008, in una dichiarazione comune, dapprima tenuta segreta, il segretario generale dell Onu Ban Ki-moon e il segretario generale dell Onu Jaap de Hoop Scheffer hanno formalizzato questa deriva dell architettura della sicurezza dell Onu, confermata nel 2011 dall intervento dell Alleanza atlantica in Libia. Eppure, la Carta delle Nazioni unite, firmata il 26 giugno 1945 a San Francisco e concepita in opposizione alla guerra, obbliga gli stati a risolvere pacificamente le controversie. Il suo preambolo lo annuncia chiaramente: «Noi, popoli delle Nazioni unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all umanità...». L articolo 2.3 stipula di conseguenza che «i membri devono risolvere le loro * Presidente dell Istituto internazionale di ricerca per la pace (Gipri), Ginevra. Autore con Christophe Miqueu, di Penser la République, la guerre et la paix, sur les traces de Jean- Jacques Rousseau, Slatkine, Ginevra, controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera che la pace e la sicurezza internazionale, e la giustizia, non siano messe in pericolo». Questo principio cardinale è quindi supportato da mezzi specifici: «Le parti di una controversia, la cui continuazione sia suscettibile di mettere in pericolo il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, devono, anzitutto, perseguirne una soluzione mediante negoziati, inchiesta, mediazione, conciliazione, arbitrato, regolamento giudiziale, ricorso ad organizzazioni od accordi regionali, od altri mezzi pacifici di loro scelta» (articolo 33 del capitolo VI). Questo metodo ha incontrato un certo successo, nonostante si siano diffuse idee preconcette che suppongono il contrario. «Negli anni 1990, sono i più i conflitti che si sono chiusi con dei negoziati (quarantadue) di quelli che hanno avuto come esito una vittoria militare (ventitre)», sottolinea l ambasciatore Thomas Greminger (1). Diplomatiche (negoziato, inchiesta, mediazione, conciliazione) o giudiziarie (arbitraggio, giudizio), le procedure per risolvere pacificamente le controversie citate dall articolo 33 sono correntemente utilizzate. Molte di queste riguardano i conflitti interni agli stati. Nel 2005, per esempio, due mediazioni lunghe e intense hanno portato ad accordi che definivano la separazione di territori segnati da lunghi conflitti armati: l accordo globale di pace tra il governo di Khartoum e l Esercito popolare di liberazione del Sudan ha aperto la strada all indipendenza del Sud Sudan; l accordo tra Indonesia e indipendentisti timoresi ha permesso l accesso di Timor est al rango di stato. Il 12 giugno 2006, i presidenti del Camerun e della Nigeria hanno firmato una convenzione sul trasferimento della sovranità in riferimento alla penisola di Bakassi, dopo la sentenza emessa dalla Corte internazionale di giustizia (Icj) a favore del primo. Il Consiglio di sicurezza ha dichiarato la fine del regime transitorio il 13 agosto 2013 e si è felicitato per la serena transizione. Il Nicaragua aveva ottenuto una strepitosa vittoria davanti alla Icj il 27 giugno 1986, ma la condanna degli intrighi sovversivi delle forze paramilitari sostenute dagli Stati uniti non ha avuto conseguenze politiche perché il presidente Ronald Reagan non ne ha tenuto conto. Questi successi riguardo questioni critiche dimostrano che il diritto offre una cornice per lo scambio di argomenti tra protagonisti preferibile allo scambio di colpi d arma da fuoco tra belligeranti. A questa panoplia si sommano le missioni di «buoni uffici» in cui eccellono alcuni paesi. La Svizzera, per esempio, ha reso possibili gli accordi di Evian tra la Francia e il Fronte di liberazione nazionale (Fln) algerino nel La Norvegia ha organizzato i negoziati tra Israele e Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), all origine degli accordi di Oslo, firmati nel Il segretario dell Onu Kurt Waldheim aveva portato a termine una missione simile nel 1975 a Cipro. Tuttavia, il fallimento della risoluzione pacifica dei conflitti è evidente. Le speranze sorte alla fine della guerra fredda non hanno trovato conferma. Nel 2000, la commissione presieduta da Lakhdar Brahimi stimava che le vittime dei conflitti degli ultimi dieci anni fosse superiore ai cinque milioni. Le guerre nell ex Jugoslavia e in Iraq sono state i laboratori privilegiati di uno smantellamento del diritto internazionale pubblico, a sua volta operato dalla Russia in Ucraina. Con la risoluzione 687 dell aprile 1991, il Consiglio di sicurezza si è arbitrariamente arrogato la prerogativa della Icj imponendo degli indennizzi all Iraq. Il 22 maggio 2003, con la risoluzione 1483, il Consiglio, su proposta degli Stati uniti, del Regno unito e della Spagna, ratificava indirettamente (all unanimità dei quattordici membri presenti) l occupazione e lo sfruttamento dell Iraq (2), convalidando così a posteriori un azione illegale. La Francia, la Cina e la Russia fecero allora un passo indietro per preservare un margine di trattativa per i propri interessi di fronte alla vittoria immediata almeno in apparenza degli Stati uniti. Gli scontri tra gruppi locali interposti in Ucraina, in Siria o nello Yemen sono esempi recenti di queste «guerre per procura» che, durante la guerra fredda, sono state condotte in Corea, in Vietnam, in Angola, in Nicaragua e altrove. Più grave ancora appare la «legittima difesa preventiva», abuso del diritto promosso da George W. Bush in Iraq, quando fallacemente invocava l articolo 51 della Carta. Si assiste a nuovi usi della forza basati sulla strumentalizzazione dei diritti umani (3), mentre gli occidentali si affrancano dalle regole del diritto, delocalizzando i loro «interrogatori rinforzati», rifiutando di trattare i prigionieri nel rispetto delle convenzioni di Ginevra o servendosi in maniera illegale dell esercito. «In questo caso, viene calpestato il diritto e si offrono munizioni a chi vuole affossare il nostro sistema democratico, spiega l ex procuratore svizzero

9 Le Monde diplomatique il manifesto giugno DALLA CONFERENZA DI SAN FRANCISCO e il conservatorismo delle grandi potenze cata nei principi di fondo: l Onu è una associazione di stati gestita dai più forti tra questi, o un istituzione con un autonomia abbastanza forte da presentarsi come personalità capace di dire, agire e rappresentare? Stando a quanto espresso nella Carta delle Nazioni unite, adottata nel giugno 1945, e alle intenzioni dei suoi fondatori, il segretario generale è il capo di un amministrazione, come hanno voluto ricordare i neoconservatori quando hanno fatto eleggere L oblio dei popoli il pallido e docile Ban Ki Moon nel Ma è chiaro che l Onu non potrà imporsi se il suo capo si occuperà solo di coordinare il lavoro dei lavavetri della Casa di vetro (6) Tutto sta nella capacità del titolare della carica di mantenere la propria indipendenza. Gli «Elders» propongono opportunamente di allungare la durata del mandato (sette anni) senza possibilità di rinnovo: formula ideale per lasciare le mani libere a un segretario generale che non dovrà preoccuparsi per la propria rielezione. Non è detto che alcune Trattando spesso «a caldo» delle questioni gravi legate alla pace e al diritto umanitario, il Consiglio di sicurezza e, in minor misura, il segretario generale dell Organizzazione delle nazioni unite (Onu) attirano tutta l attenzione, oscurando così gli altri attori del sistema. Tra quanti sono stati messi ai margini del clamore mediatico figurano... i popoli. Dimentichiamo spesso che la Carta di San Francisco inizia con questa formula, «Noi, popoli delle Nazioni unite...», che rende i governi dei semplici mandatari delle proprie popolazioni. Clausola stilistica? Forse. Stato d animo? Sicuramente. I fondatori dell Onu portavano il peso delle «indicibili sofferenze» causate dalla guerra che si era appena conclusa. Si presentavano anche come continuatori di un umanesimo filosofico e politico che ritroviamo per esempio nella Dichiarazione universale dei diritti dell uomo adottata nel 1948: «La volontà del popolo è il fondamento dell autorità dei poteri pubblici». Un principio che alcuni dei membri fondatori in Europa sembrano aver dimenticato... Il Consiglio di sicurezza, sorta di direttorio delle grandi potenze, non è l unico comandante a bordo dell Onu. L Assemblea generale, in cui gli stati dispongono di un voto ognuno, può interessarsi a qualsiasi questione rientri nel campo molto vasto della Carta: l articolo 1 affronta i temi della pace e della sicurezza, ma anche della cooperazione internazionale, «risolvendo i problemi internazionali di ordine economico, sociale, intellettuale o umanitario». Se l Assemblea non dispone di alcun potere vincolante, può però adottare delle risoluzioni, promuovere degli studi e dei dibattiti pubblici. Così, nel 1974, per esempio, è stato possibile dar voce alle sofferenze dei Palestinesi per voce di Yasser Arafat (1) e, nel 2012, riconoscere alla Palestina lo statuto di Stato osservatore non membro dell Onu. L Assemblea può inoltre pronunciarsi su qualsiasi situazione di minaccia alla pace, a condizione tuttavia che il Consiglio non sia lui stesso coinvolto o che si trovi nell incapacità di agire. È il caso dell intervento in Corea nel 1950 (risoluzione 377). Da allora questa possibilità è utilizzata con estrema prudenza (2). L Assemblea generale apre uno spazio a tutti gli Stati, piccoli o grandi, per esprimere, confrontare (e avvicinare) i loro punti di vista in maniera pacifica. ANNE-CÉCILE ROBERT (1) Il 13 novembre 1974, il presidente dell Organizzazione per la liberazione della Palestina ha pronunciato il suo primo discorso davanti all Assemblea generale. Dichiarando di portare «un ramoscello d ulivo e un fucile da combattente per la libertà» e distinguendo il giudaismo dal sionismo, propose uno stato comune che riunisse tutte le confessioni. (2) Si legga Monique Chemillier-Gendreau, «Il diritto come controllo della forza», Le Monde diplomatique/il manifesto, maggio potenze non fiutino la trappola! L altra idea va di pari passo: dare agli attori sociali la possibilità di far sentire la propria voce. Già Annan si era espresso a favore di un «multilateralismo sociale» e di un «multilateralismo aperto». Si tratta di una doppia sfida: limitare nuovamente l onnipotenza degli stati riconoscendo agli attori non statali un diritto di rappresentanza e, perché no, di condivisione delle decisioni, pur sollevando l eterno dilemma della rappresentatività delle organizzazioni non governative (Ong); riconoscere che la mondializzazione non limita più il gioco internazionale ai soli rapporti interstatali. Dovrebbe essere rafforzata la «formula Arria» (dal nome dell ambasciatore venezuelano alle Nazioni unite Diego Arria), che aveva aperto agli attori non statali il diritto di essere ascoltati dal Consiglio di sicurezza sulle questioni che li riguardavano. È un obiettivo decisivo ma si inserisce in una filosofia molto più ampia che dev essere esplicitata. La Carta risale a un epoca in cui le relazioni internazionali potevano essere ricondotte a un confronto tra potenze. Il mondo è cambiato da allora e la maggior parte delle tensioni internazionali deriva da eccezionali contrasti sociali che pesano su scala planetaria. Puntando tutto sul politico-militare, il Consiglio di sicurezza perde di vista le questioni fondamentali, dal disgregamento sociale all attentato alla sicurezza umana, dalle carestie al cambiamento climatico, dalla precarietà sanitaria alle disuguaglianze crescenti... Affrancandosi dal conteggio dei missili, oggi si apre il tempo dei rapporti «intersociali» ma bisogna saperli gestire. Annan aveva avuto un intuizione, come anche il suo predecessore, Boutros-Ghali, all epoca dell Agenda per la pace, in cui proponeva un nuovo modo di comprendere i conflitti, rischiando di farsi estromettere dalla segretaria di stato americana Madeleine Albright (7). Se l apertura agli attori sociali è una buona cosa, l assunzione e il rispetto delle poste in gioco in campo sociale sarebbero un ulteriore passo in avanti. E che dire dei complessi tentativi di far partecipare le più grandi aziende agli ideali dell Onu per mezzo del Patto globale (Global compact) (8)? Le imprese ne hanno guadagnato in legittimità e a volte anche in virtù ma il dispositivo non ha certo messo ordine nella giungla della concorrenza tra multinazionali. Simili obiettivi sembrano incagliarsi nel conservatorismo delle potenze perché il passaggio dall interstatale all intersociale è una sfida aperta alla struttura oligarchica del gioco internazionale. Questa constatazione alimenta il pessimismo, mettendoci di fronte a un circolo vizioso: quando si esplicita la necessità di una riforma delle Nazioni unite, il gioco di forza riconduce meccanicamente allo status quo. Scommettere sulla regola o sulla solidarietà Eppure la scuola dell istituzionalismo liberale ricorda giustamente che in questo momento la cooperazione potrebbe risultare vantaggiosa per gli stati (9). Indubbiamente la logica della forza, come quella dell unilateralismo, non ha più fortuna. Il bilancio delle incursioni neoconservatrici è grave e piuttosto umiliante per gli Stati uniti, mentre in Europa, e soprattutto in Francia, alcuni ancora nutrono per quell ideologia una nostalgia sorprendente quanto anacronistica. Possiamo immaginare le condizioni necessarie per risvegliare l Onu dal suo torpore e per renderci conto in tempo utile di non vivere in un utopia totale. Bisogna prendere in considerazione tre elementi. Innanzitutto, una rivalutazione dei costi dell atto unilaterale: la mondializzazione vi conduce irrimediabilmente e la politica estera del presidente Barack Obama, segnata dalla ricerca di soluzioni diplomatiche, per esempio con l Iran, suggerisce che l Egemone americano inizi a trarne le conseguenze. In secondo luogo, il ripristino di un minimo di fiducia tra i «grandi»: la congiuntura non si presta particolarmente e il tempo in cui questa fiducia era più forte, soprattutto durante la presidenza di William Clinton ( ), è stato guastato da politiche estere assai mediocri. Infine, un reinvestimento delle piccole e medie potenze in un multilateralismo dapprima adulato e che poi le ha deluse: la riattivazione di partnership implica l abbandono di alcune pratiche eccessivamente oligarchiche, come il G8 (tornato a essere G7) e i gruppi di contatto formati in occasione di ogni nuovo conflitto (10). Probabilmente dobbiamo tornare alle origini, rifondare un multilateralismo ostacolato fin dalla sua nascita. Questa bella invenzione che ha presto scatenato il timore, soprattutto dei più potenti, poggia su due scuole di pensiero. Per lo più è associata al liberalismo wilsoniano secondo cui solo le regole e le norme, paragonabili a quelle che predispongono la pace civile, possono costruire la pace internazionale: l esperienza dimostra che quest approccio istituzionale non è più sufficiente. La seconda fonte viene spesso dimenticata, nonostante sia da mettere all attivo del pensiero francese: il solidarismo di essenza durkheimiana, esplicitato in ambito internazionale da Léon Bourgeois, Albert Thomas o Aristide Briand, partiva, diversamente dal liberalismo, dall idea che solo una solidarietà sociale internazionale potesse promuovere la pace moderna. Bastava pensarci; ora converrebbe ripensarci. BERTRAND BADIE (1) Il Congresso rifiutò il trattato di Versailles e l adesione degli Stati uniti alla Società delle Nazioni. (2) Nonostante la sua morte il 12 aprile 1945, poco prima dell apertura della conferenza di San Francisco, il 24 aprile, Roosevelt aveva tracciato i principi di massima del funzionamento della nascitura Onu durante la conferenza di Dumbarton Oaks (agosto-ottobre 1944) e proposto il principio del veto al summit di Yalta (febbraio 1945). (3) L articolo della carta prevede che qualsiasi modifica debba essere ratificata dai due terzi degli stati membri, compresi tutti i membri permanenti del Consiglio di sicurezza. (4) (5) Alla fine del 2014, il ministro francese degli esteri Laurent Fabius ha affidato al suo predecessore Hubert Védrine ( ) un rapporto sull inquadramento del diritto di veto. (6) Il palazzo di vetro è il soprannome della sede delle Nazioni unite a New York. (7) Gli Stati uniti minacciarono di utilizzare il loro diritto di veto per impedire che ambisse a un secondo mandato. (8) Si legga Christian G. Caubet, «Legami pericolosi con il mondo degli affari», Le Monde diplomatique-il manifesto, settembre (9) L istituzionalismo liberale è una corrente della scienza americana di relazioni internazionali. Il suo rappresentante più conosciuto è Robert Keohane, la cui opera mira innanzitutto a sostenere che oggi gli Stati uniti abbiano interesse a cooperare piuttosto che a seguire unicamente il loro interesse nazionale. Cfr. Robert Keohane, After Hegemony, Princeton University Press, (10) Si legga Anne-Cécile Robert, «Chi vuole strangolare l Onu?», Le Monde diplomatique-il manifesto, febbraio (Traduzione di Alice Campetti) dalla forza o dal diritto? Dick Marty. Agendo in questo modo, noi stessi offriamo una dimostrazione di come il sistema non rispetti le regole che si era dato (4)». A seguito dei traumi prodotti dall immobilismo internazionale a Srebrenica, in Bosnia, nel 1995 e durante il genocidio dei Tutsi del Ruanda nel 1994, il concetto di «responsabilità di proteggere» è stato istituito nel 2005, al summit mondiale dell Onu. È l esito dei lunghi sforzi dei sostenitori del «diritto di ingerenza», che hanno iniziato con il liberarsi delle frontiere per portare soccorso alle popolazioni prima di avallare, in nome della causa umanitaria, gli interventi militari. Sotto molti aspetti, ci stiamo allontanando dalle ambizioni della Carta. Il ricorso alla forza, giustificato da un etica strumentalizzata, si accompagna al moltiplicarsi e all intrecciarsi delle cause di conflitto. Sul piano militare, gli articoli 46 e 47 prevedevano che il ruolo del Comitato di stato maggiore fosse incaricato di consigliare e assistere il Consiglio di sicurezza ma sono rimasti lettera morta. Con la fine della guerra fredda, la Nato ha trasformato la sua funzione di difesa regionale in garanzia collettiva planetaria auto-istituita. Allargandosi man mano a est, l organizzazione non ha smesso di sconfinare nelle prerogative dell Onu. L accordo del 23 settembre 2008 tra i segretari generali dell Onu e della Nato è abbastanza generico da lasciare spazio alla confusione tra il mantenimento della pace e il diritto alla guerra ( jus ad bellum). Prevede specialmente «una collaborazione maggiore (...), scambi regolari e dialogo, sia a livello decisionale, sia a livello esecutivo, sulle questioni politiche e operative (5)». La Francia, che il presidente Nicolas Sarkozy stava reinserendo nel comando militare integrato della Nato, gli Stati unti e il Regno unito hanno forzato la mano del segretario generale Ban. Dmitry Rogozin, all epoca ambasciatore russo alla Nato, ha denunciato il carattere illegale di un accordo che scavalca il Consiglio di sicurezza. Testimone privilegiato dei tiri mancini degli occidentali, avendo presenziato al Consiglio di sicurezza, Sergej Lavrov, futuro ministro degli esteri russo, ha imparato a tenerli da conto... Sarebbe stato meglio ricostruire l architettura di sicurezza a partire da un Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) riformata. L Osce presenta diversi vantaggi: è una struttura cooperativa politica di dialogo e di sicurezza; insieme a Canada e Stati uniti comprende gran parte dell Europa (tra cui la Russia) e dell Asia centrale; funziona in maniera semplice e pluralista, con una «troika» che include lo stato titolare della presidenza annuale, quello dell anno precedente e quello dell anno a venire. Sul piano economico, le privatizzazioni inaspriscono i saccheggi militarizzati, i conflitti sociali, le guerre locali. Affermato dall Assemblea generale dell Onu il 4 dicembre 1986, il diritto allo sviluppo è caduto in abbandono a vantaggio di una «lotta contro la povertà» tanto minimalista quanto problematica. Ma guerra e «cattivo sviluppo» sono legati. Le potenze economiche e tecnoscientifiche aggirano gli obblighi della Carta grazie all intervento del Fondo monetario internazionale (Fmi) o dell Organizzazione mondiale del commercio (Wto) tanto che il ricercatore Alain Joxe parla di «sovranità delle imprese (6)». Invece, la Conferenza delle Nazioni unite sul commercio e lo sviluppo (Cnuced), che negli anni 1960 e 1970 ha acceso le speranze dei paesi in via di sviluppo, si trova marginalizzata (7). Il diritto internazionale privato e gli accomodamenti tra mercanti (8) tendono a spodestare il diritto internazionale pubblico, come dimostra il ruolo crescente dei tribunali arbitrali commerciali, che si sostituiscono alle istituzioni giuridiche pubbliche. È il caso della soluzione delle controversie tra investitori e stati (Rdie) previsto dal grande mercato transatlantico. «La realtà dominante della vita internazionale, scrivono due specialisti di diritto internazionale, è l opposizione tra potere sui popoli e potere dei popoli (9)». Che fare? Sul piano delle idee, è necessario smontare le visioni dei conflitti in termini religiosi o di società, che nascondono interessi geopolitici o economici. Il giornalista americano Thomas Friedman spiegava così il collegamento tra l ambito economico e l ambito militare: «L integrazione planetaria delle economie deve dare i conti con la tendenza della potenza americana a usare la forza contro chi, dall Iraq alla Corea del nord, costituisca una minaccia per il sistema di mondializzazione. La mano nascosta del mercato non funzionerà mai senza il pugno nascosto McDonald s non può prosperare senza McDonnell Douglas che costruisce gli F-15. E il pugno nascosto che garantisce la sicurezza del mondo e delle tecnologie della Silicon valley si chiama esercito, aeronautica, marina e corpo dei marines degli Stati uniti (10)». Ma è forse proibito riflettere su visioni del mondo diverse, incentrate sul binomio pace-sviluppo? GABRIEL GALICE (1) Thomas Greminger, «Médiation et facilitation dans les processus de paix actuels : l importance vitale de l engagement, de la coordination et du contexte», testo presentato durante la «Retraite sur la médiation internationale de la francophonie», Ginevra, febbraio (2) Julie Duchatel e Florian Rochat (dir.), L Onu: droits pour tous ou loi du plus fort?, Ginevra, Cetim, (3) Si legga Anne-Cécile Robert, «Origini e vicende del «diritto di ingerenza»», Le Monde diplomatique/il manifesto, maggio (4) Dick Marty, «Terrorisme, antiterrorisme et justice», corso estivo 2008 del Gipri, in Yvonne Jänchen (dir.), Cahiers du Gipri, n 8, «Quel avenir pour l Irak?», Parigi, L Harmattan, (5) Karl Müller, «L accord secret entre l Onu et l Otan ne répond pas aux objectifs de la communauté internationale», 23 settembre 2008, (6) Alain Joxe, Les Guerres de l empire global. Spéculations financières, guerres robotiques, résistance démocratique, Parigi, La Découverte, (7) Rolande Borrelly, «Après-développement, après- Cnuced et quelques autres à-peu-près», in Julie Duchatel e Florian Rochat (dir.), Onu: droits pour tous ou loi du plus fort?, op. cit. (8) Cfr. le considerazioni su lex mercatoria, lex electronica e lex economica in Mireille Delmas-Marty, Le Relatif et l Universel, Parigi, Seuil, (9) Monique e Roland Weyl, «Sortir le droit international du placard», Publicetim, n 32, Ginevra, (10) Thomas Friedman, Le radici del futuro, la sfida tra la Lexus e l ulivo: che cos è la globalizzazione e quanto conta la tradizione, Milano, Mondadori, (Traduzione di Alice Campetti)

10 10 giugno 2015 Le Monde diplomatique il manifesto RITORNO ALLE PROMESSE DEL NAFTA Miraggi del libero scambio La resistenza contro il dilagare del commercio senza limiti comincia a trovare un eco presso i parlamentari statunitensi, che si sono mostrati riluttanti rispetto a una rapida ratifica del trattato di partenariato transpacifico voluta dal presidente Barack Obama. Dopo due decenni, il bilancio catastrofico dell accordo di libero scambio nord-americano (Nafta) non dovrebbe indurli a perseverare su quella strada. LORI M. WALLACH * C oncluso fra Messico, Stati uniti e Canada, l Accordo di libero scambio nord-americano (North American Free Trade Agreement, Nafta) entrò in vigore il 1 gennaio 1994, in un diluvio di promesse. I suoi promotori lo avevano ripetuto: avrebbe permesso di sviluppare gli scambi commerciali, spingere la crescita, creare impieghi, ridurre l immigrazione clandestina. Mentre il Washington Post si meravigliava davanti alla «lista di nuove possibilità e vantaggi» che offriva (14 settembre 1993), il Wall Street Journal si rallegrava all idea che i consumatori potessero ben presto beneficiare «di prezzi più bassi per un ampia gamma di prodotti» (7 agosto 1992). Quanto al Los Angeles Times, assicurava: «Il Nafta creerà molti più posti di lavoro di quanti ne distruggerà» (29 maggio 1993). Questi commentari rassicuranti si riferivano a un accordo commerciale di un genere nuovo. Il Nafta non si accontentava, come i suoi predecessori, di ridurre i diritti doganali e di aumentare le quote di importazione; implicava anche un livellamento delle norme e prevedeva misure di grande favore per gli investimenti esteri. Inoltre, avrebbe autorizzato le imprese a contestare direttamente le politiche nazionali potendo trascinare gli Stati davanti ai tribunali disposizioni che si ritrovano oggi nel progetto di grande mercato transatlantico (Ttip) (1). Farne un bilancio a venti anni di distanza consente di misurare la distanza fra proclami e realtà. E invita a diffidare degli apostoli del libero scambio. * Direttrice de Public Citizen s Global Trade Watch, Washington, Dc, diploteca plus COSMOVISIONI. OCCIDENTE E MONDO ANDINO PRATEC, Proyecto Andino de Tecnologías Campesinas Mutus Liber ediz., 2015, 19,5 euro Altri mondi esistono. Esistono e resistono all attacco omogeneizzatore della globalizzazione. Il mondo indigeno andino è uno di questi, dove decine di etnie diverse, dall altiplano alle selve amazzoniche, superata l illusione dello «sviluppo», mito venuto da Occidente con parola sconosciuta nelle loro lingue, cercano la propria speranza di vita nel rafforzamento della loro cultura. In questa regione delle Americhe, dove la componente indigena è ancora consistente, oggi riprendono forza il sumak kawsay (in quechua) o sumak qamaña (in aymara), parole tradotte insufficientemente dal castigliano buen vivir e dall italiano buon o ben vivere. Una filosofia di vita che, con grande buon senso, al vivere meglio promesso dallo «sviluppo» contrappone il buon vivere, centrato su un armonico rapporto con la Pachamama, la «madre terra», e su una forte pratica comunitaria. Una cosmovisione del tutto inconciliabile con quella capitalista predominante in occidente, incentrata invece su una concezione strumentale della natura e su una competitività sfrenata fra gli individui. «Conservazione» e «immobilità» è l attributo frettolosamente applicato alle culture «altre» dall uomo occidentale tutto proteso, grazie alla promessa di «vivere meglio», verso un futuro sempre più evanescente a tutto scapito del «ben vivere» oggi, qui e ora. Non è così in realtà. Anche le culture indigene evolvono, ma secondo una diversa dinamica, con lo sguardo volto a lasciare ai propri nipoti e pronipoti un ambiente naturale capace di sostenerli, come già avevano fatto i propri antenati. Cosmovisioni. Occidente e mondo andino, il cui titolo originale è Cultura andina agrocentrica, è un libro importante, scritto da alcuni ricercatori del Pratec, Progetto Andino di Tecnologie Campesine, associazione sorta nell ultima decade del XX secolo per iniziativa di alcuni tecnici agricoli peruviani di alto livello. Essi, dopo aver vissuto in prima persona i Nel 1993, gli economisti Gary C. Hufbauer e Jeffrey J. Schott, del Peterson Institute for International Economics, spiegavano che il Nafta avrebbe indotto una crescita degli scambi commerciali fra Messico e Canada, con la creazione di centosessantamila posti di lavoro prima della fine del 1995 (2). Meno di due anni dopo queste dichiarazioni roboanti, lo stesso Hufbauer riconosceva che l effetto sull occupazione era «vicino allo zero». Aggiungeva: «La lezione per me, è che devo guardarmi dal fare previsioni.» (3) Questa confessione non impedisce al Peterson Institute di moltiplicare adesso le previsioni ottimiste rispetto al Ttip Un deficit commerciale di proporzioni gigantesche Lungi dall aver offerto nuovi sbocchi alle imprese statunitensi spingendole così a nuove assunzioni, il Nafta ha favorito le delocalizzazioni industriali e l apertura di succursali all estero, in particolare in Messico, dove la manodopera è a buon mercato. Nel settore agricolo, molte imprese statunitensi specializzate nella trasformazione di prodotti alimentari si sono trasferite a sud. L allentamento delle norme sanitarie e ambientali determinato dall accordo ha permesso loro di approfittare dei bassi salari messicani. In effetti, prima del 1994, era vietata l importazione negli Stati uniti di diverse derrate alimentari trasformate in Messico, ritenute pericolose dal punto di vista igienico-sanitario. Per esempio, solo un impianto messicano per la lavorazione della carne bovina aveva ottenuto l autorizzazione a esportare verso l America del Nord. Venti anni dopo, le importazioni di carne bovina messicana e canadese erano aumentate del 133%, il che ha provocato il fallimento di migliaia di agricoltori (4). Il deficit commerciale degli Stati uniti con il Messico e il Canada non ha cessato di aumentare: pari a 27 miliardi di dollari nel 1993, ha superato i 177 miliardi nel 2013 (5). Secondo i calcoli dell Economic Policy Institute, il deficit commerciale con il Messico ha generato una perdita netta di 700mila posti di lavoro negli Stati uniti fra il 1994 e il 2010 (6). Nel 2013, 845mila statunitensi sono infatti stati destinatari di un programma di «aiuto all aggiustamento commerciale» (trade adjustment assistance), destinato ai lavoratori che hanno perso il lavoro a causa delle delocalizzazioni in Canada e Messico, o dell aumento delle importazioni provenienti da quei paesi (7). Il Nafta non ha solo diminuito i posti di lavoro negli Stati uniti, ne ha anche peggiorato la qualità. I lavoratori industriali licenziati sono entrati nel settore già saturo dei servizi (alberghi, locali, ristorazione, ecc.), con paghe meno elevate e condizioni di lavoro più precarie. L ingresso di nuovi lavoratori ha indotto un riduzione dei salari. Secondo il Bureau of Labor Statistics, i due terzi degli operai licenziati per ragioni economiche che avevano ritrovato lavoro nel 2012 avevano dovuto accettare un impiego meno remunerato. Per metà di loro, la riduzione era superiore al 20%. Sapendo che, in quell anno, un operaio statunitense guadagnava in media dollari all anno, questo equivale a una perdita di circa dollari. Il che spiega in parte perché il salario medio sia stagnante negli Stati uniti da venti anni, mentre la produttività dei lavoratori aumenta. fallimenti della «modernizzazione» dell agricoltura peruviana basata su modelli esogeni imposti dalle grandi istituzioni internazionali «missionarie» dello sviluppo (Banca mondiale, Banca latinoamericana di sviluppo e simili), alla fine degli anni 80 decisero di rivolgersi ai saperi elaborati in situ nel corso dei millenni dagli abitanti di questi territori geologicamente e climaticamente tormentati. Ovviamente senza un rifiuto aprioristico di nuovi contributi: «noi non rifiutiamo la vostra tecnologia, ma vogliamo il diritto di scegliere cosa ci piace e cosa non ci piace di essa» è la risposta alle accuse di conservatorismo. Ma non si trattava soltanto di recuperare e consolidare i saperi tecnici dell agricoltura tradizionale, ancora diffusi anche se gravemente aggrediti da secoli di dominio straniero. Nella visione essenzialmente olistica del pensiero andino la tecnica agricola non può andare disgiunta dalle altre dimensioni del mondo: il cosmo infatti è concepito come una totalità in cui tutto è connesso. Ne deriva una cultura fortemente agrocentrica, di armonia del vivere nella natura, una alternativa alla nostra ragione pragmatica di dominarla, come scrive Antonio Melis nella prefazione all edizione italiana. Se fino a oggi è stato l Occidente a giudicare le altre cosmovisioni, cioè le altre modalità di vivere e relazionarsi col mondo, nel libro sono alcuni rappresentanti, ben ferrati culturalmente, di una cultura «altra» a rivendicare la dignità e l alterità della propria di fronte a quella occidentale. E lo fanno non per ottenere un omologazione da parte di quest ultima. Nel preambolo gli autori infatti chiariscono subito: «Qui non si chiede per l indio l opportunità di avere accesso ai vantaggi dei "progressi" dell Occidente mediante l istruzione, e neppure si cerca di dimostrare che anche il sapere dei popoli andini è scientifico. Non abbiamo interesse a rivendicare la visione andina in termini occidentali. Ci sforziamo invece di rimarcare la differenza qualitativa fra le due culture e di mettere in luce la presenza viva della cultura andina nella vita Alcuni promotori del Nafta avevano previsto, sin dal 1993, questo fenomeno di distruzione di posti di lavoro e di tassazione dei salari. Ma allora assicuravano che l operazione sarebbe rimasta vantaggiosa per i lavoratori statunitensi, i quali avrebbero potuto acquistare prodotti importati meno cari e veder dunque crescere il proprio potere d acquisto. Ma l aumento delle importazioni non determina necessariamente una riduzione dei prezzi. Per esempio, nel settore alimentare, malgrado le importazioni triplicate in provenienza da Messico e Canada, il prezzo Allen Brewer, Verbatim, 2013 nominale delle derrate negli Stati uniti è aumentato del 67% fra il 1994 e il 2014 (8). La riduzione dei prezzi di un pugno di prodotti non è bastata a compensare le perdite subite da milioni di lavoratori privi di titoli di studio superiori, per i quali il salario reale è sceso del 12,2% (9). Ma i lavoratori statunitensi non sono stati gli unici a soffrire a causa del Nafta. L accordo ha avuto effetti disastrosi anche in Messico. Autorizzati a esportare senza ostacoli, gli Stati uniti hanno inondato il paese di mais sussidiato prodotto dall agricoltura intensiva, determinando una riduzione dei prezzi che ha destabilizzato l economia rurale messicana. Milioni di campesiños (contadini) espulsi dalle campagne sono emigrati per farsi assumere nelle maquiladoras (10), provocando una riduzione dei salari, oppure hanno cercato di superare la frontiera con gli Stati uniti. L esodo rurale ha anche esacerbato i problemi sociali nelle città messicane, con un escalation nella guerra alla droga. Secondo Carlos Salinas de Gortari, presidente del Messico al momento dell entrata in vigore dell accordo, il Nafta avrebbe dovuto permettere di ridurre il flusso dei migranti che cercavano di andare al Nord. «Il Messico preferisce esportare i propri prodotti che i propri cittadini», dichiarava nel 1993, assicurando che il vicino del Nord doveva scegliere fra «accettare i pomodori messicani o accogliere i migranti messicani, che coltiveranno questi pomodori negli Stati uniti». Nel 1993, erano arrivati negli Stati uniti messicani; nel 2000 ne arrivarono ; 4,8 milioni vi vivevano clandestinamente nel 1993; nel 2012, 11,7 milioni Queste massicce migrazioni si spiegano soprattutto con l esplosione del prezzo dei prodotti di prima necessità. L uso crescente del mais statunitense per produrre etanolo ha finito per produrre, alla metà degli anni 2000, un aumento dei prezzi, pieno di conseguenze per il Messico, diventato dipendente dalle importazioni agricole statunitensi. Il prezzo delle tortillas l alimento di base in questo paese è schizzato in alto del 279% fra il 1994 e il 2004 (11). In venti anni, il prezzo dei prodotti di prima necessità si è moltiplicato per sette; il salario minimo solo per quattro. Il Nafta doveva portare la prosperità, invece oltre il 50% dei messicani vive oggi sotto la soglia di povertà. Fra il 1994 e il 2014, il prodotto interno lordo (Pil) per abitante del Messico è aumentato solo del 24%. Fra il 1960 e il quotidiana della grande maggioranza della gente del nostro paese». Queste differenze vengono proposte dagli autori attraverso nove saggi tematici. Nella successione dei testi Eduardo Grillo, al cui ricordo gli autori hanno voluto dedicare il libro, inizia ponendo a confronto la concezione biblica di un Dio «todopoderoso», creatore e signore dell universo, con la visione religiosa immanente andina, nella quale i runa (gli esseri umani), la natura, la sallqa, e le divinità, i wakas, interagiscono in modo orizzontale, in una costante relazione di dialogo e reciprocità. V. A. Rodríguez Suy Suy, antropologo, rivendica i contenuti endogeni della cultura andina. Di nuovo Grillo si sofferma sulle caratteristiche del linguaggio, che nel mondo andino è orale, dialogico, sempre legato al contesto concreto. Grimaldo Rengifo descrive il processo di ri-creazione dei saperi del mondo andino rapportandolo all impostazione prevalente nella cultura occidentale, non per una sterile contrapposizione, ma per «aprire la via ad una convivenza fra popoli in cui ciascuno rispetti il modo di essere dell altro». François Greslou, l unico non andino di nascita, ci introduce alla conoscenza dell organizzazione contadina andina, agrocentrica, flessibile, molteplice, creatrice di biodiversità. Ricordiamo per inciso che le Ande sono state uno dei sette centri mondiali dove circa diecimila anni or sono è nata l agricoltura e al quale dobbiamo alcune componenti essenziali della nostra alimentazione. Qui si sviluppò, in un territorio climaticamente fra i più difficili, la grande cultura agricola incaica, capace di assicurare con continuità la nutrizione in un impero di forse 10 milioni di persone. Una lettura, questa di Cosmovisioni, che apre orizzonti stimolanti su uno degli altri modi possibili di «sapere» e aiuta ad avere più consapevolezza del nostro, nel quadro ricco di colori di un «mondo capace di contenere molti mondi diversi». Aldo Zanchetta Parole, parole «Il Nafta è sinonimo di occupazione. Posti di lavoro ben pagati per gli statunitensi. Se non lo credessi, non sosterrei questo accordo ( ) Credo che il Nafta creerà un milione di posti di lavoro nei primi cinque anni.» William Clinton, presidente degli Stati uniti, 14 settembre «Le imprese del XX secolo, anche le più piccole, hanno bisogno di vendere prodotti all estero. Oggi, le nostre imprese esportano più che mai e le imprese che esportano pagano meglio i lavoratori. ( ) Chiedo dunque ai parlamentari democratici e repubblicani il potere di negoziare accordi commerciali per proteggere i lavoratori statunitensi grazie a nuovi trattati con Asia ed Europa, che porteranno a un commercio non solo libero ma anche giusto.» Barack Obama, presidente degli Stati uniti, 20 gennaio «Se siamo ambiziosi e arriviamo a un accordo globale, potremo vedere la ricchezza dell Unione europea aumentare di 120 miliardi di euro, e quella degli Stati uniti di 90 miliardi di euro. Questo produrrà probabilmente milioni di posti di lavoro per i nostri lavoratori. L energia prodotta dal grande mercato transatlantico sarà rinnovabile. Infatti il libero scambio funziona in modo tale da aumentare continuamente l ammontare di ricchezza che un economia può produrre. Dunque, questi miliardi non produrranno un guadagno solo, ma un guadagno che si rinnoverà ogni anno.» Karel De Gucht, commissario europeo al commercio, 10 ottobre , era aumentato del 102% (ovvero il 3,6% all anno). Se il Messico avesse continuato a crescere a questo ritmo, il suo livello di vita sarebbe oggi vicino a quello dei paesi europei Le belle promesse sono volate via, e sarebbe utile fare un bilancio di questo fallimento per costruire un modello di integrazione più giusto. Lo stesso Barack Obama ha riconosciuto i molteplici fallimenti del Nafta, assicurando che ne terrà conto per «risolvere certi problemi» al momento di futuri trattati di libero scambio. Invece, ben lungi dal trarre lezioni da quegli errori, gli attuali negoziatori dell Accordo di partenariato transatlantico sembrano intenti a riprodurli. (1) Si legga «Il trattato transatlantico, un uragano che minaccia gli europei», Le Monde diplomatique/il manifesto, novembre (2) Gary C. Hufbauer, Jeffrey J. Schott, Nafta: An Assessment, Peterson Institute for International Economics, Washington, DC, (3) The Wall Street Journal, New York, 17 aprile (4) «Interactive tariff and trade dataweb», United States International Trade Commission, (5) Ibid. (6) Saldi fra i posti di lavoro creati e quelli persi. Robert E. Scott, «Heading South: US-Mexico trade and job displacement after Nafta», Economic Policy Institute, Briefing Paper 308, maggio (7) Public Citizen, «Trade adjustment assistance database», 2013, (8) Bureau of Labor Statistics, «Consumer price index database», ministero del lavoro degli Stati uniti. (9) «Wage statistics for 2012», Social Security Administration, febbraio (10) Situate vicino alla frontiera con gli Stati uniti, le maquiladoras sono fabbriche aperte ai capitali stranieri che assemblano beni destinati all esportazione, in un regime di esclusione dei diritti di dogana. (11) Si legga Anne Vigna, «Il giorno in cui il Messico rimase senza tortillas», Le Monde diplomatique/il manifesto, marzo (Traduzione di Marinella Correggia)

11 Le Monde diplomatique il manifesto giugno RIDURRE LA POVERTÀ NON BASTA Insicurezza endemica in America latina L America latina, la regione più disuguale del mondo, è anche la più violenta. L insicurezza riflette la brutalità dei rapporti sociali nei paesi danneggiati dal neoliberismo, ma sottolinea anche i fallimenti di governi progressisti talvolta minati dalla corruzione e dall impunità. Diverse capitali, tuttavia, stanno percorrendo piste promettenti nella lotta contro il flagello. CARLOS SANTISO e NATHALIE ALVARADO* L America latina e i Caraibi sono ufficialmente in pace, ma hanno tassi di omicidi paragonabili a quelli delle zone in conflitto. Il massacro di quarantatré studenti messicani a Iguala, nel settembre 2014 (1), ha accentuato il malessere di fronte a una violenza che sembra incontrollabile. Ogni giorno, nella regione, vengono uccise sulle trecentottanta persone. Secondo le ultime cifre dell Ufficio delle Nazioni unite contro la droga e il crimine (Onudc) (2), due terzi sono vittime di armi da fuoco. Con il 10% della popolazione mondiale, la regione concentra il 30% degli omicidi, 25 ogni 100mila abitanti (nel 2012), ovvero quattro volte la media mondiale (6,2). ganizzazione mondiale della sanità (Oms) (6), un donna su tre fra i 15 e i 49 anni è vittima di violenza domestica, in genere da parte di un partner o ex partner. Ma la maggior parte di loro non denuncia queste aggressioni e l attenzione nei loro confronti rimane insufficiente. Carceri o scuole di crimine? La maggioranza degli autori di omicidi e il 40% delle persone uccise sono uomini fra i 15 e i 29 anni. In Ame- La regione sembra intrappolata nelle disuguaglianze. Queste pesano più della povertà nell aumento della criminalità e dell insicurezza. La violenza si sviluppa più facilmente all interno delle zone impoverite delle aree urbane. Tuttavia, a ogni tipo di crimine corrisponde un gruppo particolare: gli omicidi colpiscono soprattutto gli abitanti dei paesi poveri; i furti e i rapimenti prendono di mira soprattutto la classe media; i ricchi riescono a proteggersi perché vivono in quartieri residenziali ben presidiati. La regione conta ormai più guardie di sicurezza private che poliziotti. La grande incognita rimane l evoluzione della criminalità nell attuale contesto di rallentamento della crescita economica. Mentre il crimine è sempre più organizzato, lo Stato rimane troppo poco efficace. Crimine, corruzione e impunità formano un circolo vizioso, perché le istituzioni incaricate del mantenimento dell ordine perdono ogni legittimità popolare. L efficacia delle politiche di sicurezza è inoltre messa a repentaglio dalle disfunzioni nella gestione del settore giudiziario e di po- era addirittura dell 80% (9). Secondo il Centro internazionale di studi penitenziari, su dieci milioni di detenuti nel mondo, 1,3 milioni si trovano nei paesi dell America latina e dei Caraibi: 229 detenuti ogni 100mila persone, molto più della media mondiale di 144 (10). Inoltre, negli ultimi due decenni, il tasso di detenzione è cresciuto del 120% per l intensificarsi della guerra alla droga. Troppe carceri sembrano essere diventate scuole del crimine piuttosto che luoghi di riabilitazione. L allarmante situazione dei centri di detenzione giovanile provoca un aumento del tasso di recidiva. Ma alcuni programmi cominciano a portare i loro frutti. Nel campo della prevenzione, anzitutto: sono state avviate diverse iniziative per combattere la violenza contro le donne. In Salvador, un programma chiamato Ciudad Mujer («città donna») garantisce alle vittime servizi di qualità, in modo coordinato e veloce, come accesso alla contraccezione, aiuto immediato in caso di aggressione e assistenza giuridica e psicologica. Propone anche formazioni professionali, mediazione, un aiuto alla formazione di imprese, servizi nel campo della salute e della nu- grammi sportivi, formazione tecnica e tirocini professionali. I primi risultati indicano cambiamenti nel comportamento e una riduzione del tasso di recidiva. Ma questo tipo di iniziativa rimane molto raro nella regione. Occorre infine rafforzare l amministrazione pubblica. Lo Stato di Pernambuco, nel nord-est del Brasile, ha riorganizzato la gestione delle politiche securitarie introducendo metodi moderni come la verifica degli obiettivi da parte dello stesso governatore dello Stato. Il Patto per la vita (Pacto pela vida), introdotto nel 2007, secondo il segretariato alla difesa sociale si è rivelato valido: il tasso di omicidi è sceso del 40% circa fra il 2006 e il 2013 sull insieme dello Stato, e del 60% a Recife, la sua capitale ma certo rimane piuttosto elevato, con 35 omicidi ogni 100mila abitanti (11). Di fronte a questa sfida, i risultati delle iniziative già in corso danno indicazioni utili su ciò che può ridurre la criminalità e lenire la violenza della quale soffrono i paesi dell America latina e dei Caraibi. Ma la lotta alla cri- Le attività criminali non sono ripartite equamente sul continente. L America centrale e i Caraibi sono particolarmente colpiti. L aumento dei delitti legati al traffico di droga e delle gang, che facilitano l impunità e la circolazione delle armi, nutre l infernale spirale della criminalità. L Honduras, statisticamente il paese più violento al mondo, ha un tasso impressionante di 90,4 omicidi ogni 100mila abitanti, seguito da Venezuela (53,7), Belize (44,7) e Salvador (41,2). Oltre agli omicidi, l insicurezza comprende estorsioni, rapimenti, furti, traffici e violenze sulle donne. Le statistiche ufficiali, a partire da informazioni incomplete, non ne riflettono l ampiezza. Molti crimini non sono denunciati per timore di rappresaglie o per diffidenza verso le istituzioni che dovrebbero far rispettare la legge. Per esempio, secondo l «Envipe 2014» (3), l ultimo studio sugli atti di violenza condotto dall Istituto nazionale messicano di statistica (Inegi), il 94% circa dei crimini compiuti nel 2013 non è stato segnalato alle autorità. Solo la metà dei casi sarebbero stati oggetto di un inchiesta preliminare. Un altro indicatore delle proporzioni assunte dal sentimento di insicurezza: l ultimo studio dell istituto Latinobarometro (4) evidenzia come questo argomento inquieti i cittadini più della disoccupazione in dodici dei diciotto paesi osservati. Nel 2005, la criminalità era la preoccupazione principale del 5% dei latinoamericani; nel 2013 la percentuale era arrivata al 30%. Il costo economico delle attività criminali arriverebbe al 13% circa del prodotto interno lordo (Pil) in media nella regione (5). Secondo il Global Peace Index, nel 2014, le spese legate alla prevenzione e al risarcimento delle violenze perpetrate ai danni di persone e cose hanno assorbito il 20% del Pil in Honduras, il 15,5% in Salvador, l 8,7% in Guatemala e il 7,4% a Panamá. All insicurezza nella regione contribuiscono molti fattori. Certo il traffico di droga e il crimine organizzato hanno esacerbato le dinamiche della violenza nel corso dell ultimo decennio; ma, secondo l Onudc, solo il 30% degli omicidi è legato al crimine organizzato e alle gang. La strategia della «tolleranza zero» e i codici penali repressivi hanno sovente aggravato la situazione. Spesso la violenza comincia in casa: quella contro le donne continua a crescere. In dodici paesi studiati dall Or- * Rispettivamente capo della divisione per il consolidamento delle capacità istituzionali dello Stato presso la Banca interamericana di sviluppo (Bid) a Washington, Dc; coordinatrice del gruppo incaricato della sicurezza cittadina per questa divisione. rica latina, il 60% della popolazione ha meno di 30 anni. Gli uomini che vivono in ambienti sfavoriti hanno una probabilità su cinquanta di essere assassinati prima dei trentun anni (7). Un giovane su cinque, trentadue milioni di persone l equivalente della popolazione del Perù, non ha lavoro né titolo di studio. Il sentimento di alienazione e la mancanza di prospettive economiche, così come la massiccia circolazione di droga, alcol e armi, incoraggiano i comportamenti criminali. Le attività illegali si rivelano più lucrative di un lavoro tradizionale e le gang offrono un senso di appartenenza e protezione in contesti di povertà e disagio familiare. Il problema è particolarmente acuto nelle città, dove risiede circa l 80% della popolazione. Gli omicidi si concentrano nei quartieri a basso reddito, generalmente in periferia. Secondo l Istituto Igarapé ( br), fra le dieci città più violente del mondo, sette si trovano in America centrale e nei Caraibi. Aleppo, in Siria, è al primo posto nella classifica, seguita da San Pedro Sula, in Honduras. Paradossalmente, la criminalità nella regione è aumentata malgrado la riduzione dei livelli di povertà e i progressi nel campo della protezione sociale nel corso dell ultimo decennio. Malgrado queste tendenze positive, la povertà estrema, le diseguaglianze di reddito e l economia informale rimangono molto importanti, arrivando al massimo a stabilizzarsi nei paesi a reddito medio. Nel 2014, secondo la Commissione economica delle Nazioni unite per l America latina e i Caraibi (Cepalc), 167 milioni di persone (circa il 30% della popolazione) vivevano ancora in povertà e 67 milioni in estrema povertà. lizia. La polizia fatica a voltare pagina rispetto a un passato autocratico dominato dalla dottrina della sicurezza nazionale frutto della guerra fredda, mentre, a conclusione di una trasformazione radicale, la violenza politica ha lasciato il posto alla sua interfaccia criminale. In alcuni paesi i servizi di sicurezza che ieri reprimevano la popolazione, ormai pretendono di assicurarne la protezione. La transizione non avviene senza scossoni Non avendo fiducia nella polizia, poche vittime denunciano le violenze subite. E quando lo fanno, il fatto rimane senza conseguenze o non arriva ad alcuna sentenza quantomeno, non in un tempo ragionevole. I governi, dal canto loro, privilegiano la repressione rispetto alla prevenzione. Cercano sempre di più di riformare i loro codici penali e riorganizzare i processi di indagine. Così, per alcuni, gli elevati tassi di criminalità della regione danno ragione alla teoria della criminalità sviluppata dall università di Chicago (8): i futuri delinquenti sarebbero attori razionali; calcolerebbero i benefici che possono attendersi dalle attività criminali e i rischi che queste comportano. Se le sanzioni da temere (arresto; severità, certezza e rapidità della sentenza) sembrano trascurabili, l assunzione dei rischi insiti nel passaggio all azione appare accettabile. La situazione delle carceri aggrava il bilancio degli Stati. Il gran numero di detenuti, in condizioni spesso deplorevoli, ha rafforzato il potere dei capi banda, dentro e fuori, perché molti giovani temono rappresaglie una volta incarcerati. Gli autori di infrazioni di lieve entità possono aspettare la sentenza per mesi o anni. Nel 2012, fra il 30 e il 50% dei prigionieri si trovava in stato di detenzione preventiva nell insieme della regione; in Bolivia la percentuale trizione, scuole materne. La Colombia, Trinidad y Tobago, il Messico si sono ispirati a questa esperienza. Una sfida tanto sociale che securitaria Occorre anche riformare le forze di polizia. In questo campo, l Ecuador ha adottato un nuovo approccio, con risultati positivi. Fra le riforme strutturali verso le quali il paese si è avviato, la creazione della polizia di prossimità ha permesso di rinsaldare i legami con le comunità. Ha migliorato la qualità e l aggiornamento delle informazioni relative alla criminalità, che servono poi a guidare il dispiegamento della risposta. Il bilancio consacrato alla sicurezza è raddoppiato, passando dall l al 2% del bilancio totale, e i funzionari hanno un salario più elevato rispetto ai loro colleghi della regione. Lo Stato ha investito oltre 80 milioni di dollari nella creazione di 400 commissariati di prossimità e in oltre un milione di «tasti per il panico», un applicazione per cellulari che consente di allertare il commissariato più vicino. Queste riforme hanno prodotto notevoli miglioramenti: in tre anni, il tasso di omicidi è sceso del 64% per arrivare nel 2014 a otto omicidi ogni 100mila abitanti. Con l appoggio della Banca interamericana di sviluppo (Bid), Colombia, Uruguay, Brasile e Honduras hanno attuato riforme di natura simile. Occorre poi ridurre l impunità. In un carcere molto moderno che risponde agli standard internazionali più elevati, Panamá sperimenta un modello di riabilitazione innovatore per autori di reati minori, così da prevenire la recidiva. Un terzo della popolazione carceraria giovanile beneficia di questo progetto, che dà accesso a servizi di salute, pro- Jorge González Camarena. Murales minalità deve andare di pari passo con la riduzione delle disuguaglianze e l aumento degli sbocchi lavorativi per i giovani, con una maggiore mobilità, una migliore educazione e l acceso al lavoro. La violenza è un sfida sociale, oltre che securitaria. (1) Si legga Rafael Barajas, Pedro Miguel, «In massacro di troppo in Messico», Le Monde diplomatique/il manifesto, dicembre (2) «Global study on homicides 2013», Onudc, Vienna, (3) «Encuesta nacional de victimización y percepción sobre seguridad pública (Envipe) 2014», Instituto Nacional de Estadística y Geografía (Inegi), Mexico, (4) Un inchiesta annuale realizzata in diciotto paesi latinoamericani, presso circa ventimila persone. La prima è del (5) Rodrigo Soares, Joana Naritomi, «Understanding high crime rates in Latin America: The role of social and policy factors», in Rafael Di Tella, Sebastian Edwards, Ernesto Schargrodsky (a cura di), The Economics of Crime: Lessons for and from Latin America, University of Chicago Press, (6) Organizzazione mondiale della sanità e Organizzazione panamericana della sanità, «Violence against women in Latin America and the Caribbean: A comparative analysis of population-based data from 12 countries», Washington, Dc, (7) Helen Moestue, Leif Moestue, Robert Muggah, «Youth violence prevention in Latin America and the Caribbean: A scoping review of the evidence», Norwegian Peacebuilding Resource Centre (Noref), Oslo, 15 agosto (8) Gary Becker, «Crime and punishment: An economic approach», Journal of Political Economy, vol. 76, Chicago, (9) «Citizen security and justice sector framework document», Banca interamericana di sviluppo, Washington, Dc, (10) Roy Walmsley, «World pre-trial/remand imprisonment list», International Centre for Prison Studies, Londra, (11) Caio Marini, Humberto Falcão Martins, «Todos por Pernambuco em tempos de governança: conquistas e desafios», segretariato di pianificazione e gestione del governo dello Stato di Pernambuco, Recife, (Traduzione di Marinella Correggia)

12 12 Per ogni giornata speciale dedicata ai «bambini smarriti della Repubblica», quanti reportage su quelli che non hanno da mangiare a sufficienza, che vivono in situazioni abitative inadeguate, che non dispongono di un luogo dove fare i compiti? È questa tuttavia la realtà con la quale si confronta quotidianamente la professoressa Perrot. «I media ci fanno domande sul vivere insieme. Che buffonata! Per molti giovani, qui, l urgenza è prima di tutto quella di vivere. Si chiegiugno 2015 Le Monde diplomatique il manifesto È sempre colpa della scuola... Disoccupazione, povertà, laicità «in pericolo»: a ogni difficoltà, i dirigenti politici si rivolgono volentieri alla scuola, fingendo di credere che detenga tutte le soluzioni. È successo così anche in seguito agli attentati contro «Charlie Hebdo» e il supermercato Hyper Cacher, del gennaio scorso. Ma si può salvare il mondo partendo dall aula scolastica? «Di fronte ai rischi di divisione, di lacerazione della nostra società, oggi più che mai, la scuola [sarà] al centro dell azione del mio governo.» È il 29 marzo 2015, la sera della disfatta elettorale del partito socialista alle elezioni dipartimentali, tre mesi dopo gli attentati contro Charlie Hebdo e l Hyper Cacher della porta di Vincennes. Il primo ministro Manuel Valls ha una ferma convinzione. Contro il disordine, l insicurezza, la barbarie, c è una sola difesa: la scuola. Da gennaio, il presidente della Repubblica, il primo ministro e il ministro dell educazione nazionale hanno intonato a turno questo ritornello: tra le cause principali degli attentati, il fallimento della scuola, che non difenderebbe più i valori della laicità, della Repubblica, del rispetto dell autorità. La prova? Alcuni bambini avrebbero rifiutato di osservare il minuto di silenzio decretato all indomani del dramma di Charlie Hebdo. «Si sono lasciate correre troppe cose nella scuola», ne deduce Valls il 13 gennaio. «Sì, la scuola è in prima linea. Sarà severa per punire», rincara il ministro dell educazione nazionale Najat Vallaud-Belkacem, che, una settimana dopo, annuncia la creazione di una brigata di mille educatori agguerriti e un «nuovo percorso cittadino» in una scuola che deve riabilitare i suoi «riti» e i suoi «simboli» (inno nazionale, bandiera, divisa, ecc.). «Ogni comportamento che metta in discussione i valori della Repubblica o l autorità degli insegnanti sarà d ora in poi oggetto di una segnalazione al direttore della struttura, avverte a sua volta François Hollande il 21 gennaio. Nessun incidente rimarrà senza conseguenze.» * Giornalista, regista del documentario Cas d École (2015). un inchiesta di Gilles Balbastre* I media riprendono fedelmente il ritornello del governo, contribuendo prima a legittimarlo, poi a rilanciarlo. Telegiornali, trasmissioni speciali, editoriali: il coro degli esperti si è mobilitato. «La scuola sta diventando l anello debole della Repubblica?, si chiede Thomas Sotto su Europe 1. È la domanda che offende» (13 gennaio). «Otto giorni dopo l inizio degli attacchi terroristici, la scuola è in prima linea contro l integralismo», promette Adrienne de Malleray su D8 il 15 gennaio, riprendendo praticamente parola per parola i propositi del ministro dell educazione. «La scuola è responsabile di tutti i mali della Repubblica?, si chiede Marc Voinchet il 19 gennaio su France Culture. Si tratta probabilmente di una della più importanti sfide per il futuro.» È l ora della nostalgia, come attesta l editoriale di Christophe Barbier su L Express del 14 gennaio 2015: «La Francia è consapevole dello stato della propria scuola, dove l autorità dei professori è sbeffeggiata, dove l insegnamento delle verità storiche non è sempre possibile perché la propaganda religiosa o politica ha preso il sopravvento nella testa degli allievi, dove la laicità e il civismo arretrano. Si deve lanciare un grande piano di riconquista della scuola: se non si seminano i valori repubblicani, l odio insinua la sua gramigna». Queste voci all unisono producono una melodia che stordisce: non essendo stata in grado di trasmettere i valori della laicità, la scuola della Repubblica avrebbe favorito uno «scontro di civiltà», caratterizzato da un «ripiegamento comunitario». Una strofa che si adatta agevolmente all attualità. Che si tratti degli attentati a Parigi o della lunghezza delle gonne portate da centinaia di studentesse musulmane, la diagnosi non cambia. Ma altri problemi, meno culturali, più strutturali, rimangono ampiamente occultati; a forza di preoccuparsi di quello che succede «tra le mura», i media si scordano quello che accade fuori... Un istituzione tenuta a rispondere agli ordini del governo Per i giornalisti, il minuto di silenzio «ridicolizzato» offre l occasione per una caccia all incidente. Il rifiuto dell «io sono Charlie» guadagna la prima pagina per diversi giorni. France Culture arriverà fino a consacrargli una giornata speciale intitolata «I bambini smarriti della Repubblica». Vantaggio secondario: l operazione permette di puntare i riflettori sui quartieri popolari dove si verifica la maggior parte degli «incidenti». «Siamo stati presi d assalto da orde di giornalisti a partire dal giovedì 15 gennaio», ricorda Dominique Chauvin, responsabile presso il provveditorato del sindacato nazionale degli insegnamenti di secondo grado (Snes) della Seine-Saint-Denis. Lo stesso giorno, il quotidiano Le Parisien aveva aperto le danze pubblicando un intervista nella quale un professore del liceo di Clichy-sous-Bois raccontava per filo e per segno le difficoltà incontrate in occasione del minuto di silenzio. «L insegnante in questione lo conosciamo, prosegue Chauvin. Aveva qualche problema e era seguito dalle risorse umane del provveditorato.» Ma la stampa si infila comunque nella breccia. «Non hanno smesso, sono venuti tutti. Avevano bisogno a ogni costo di un intervista con un professore dello stesso liceo. Una giornalista di TF1, che doveva realizzare un servizio per il telegiornale delle 13, ha persino proposto di registrare un intervista posticcia.» REUTERS/Jean-Paul Pelissier Incappati in un nulla di fatto a Clichy-sous- Bois, i giornalisti del telegiornale delle 13 di TF1 ripiegano su Roubaix, dove dei «giovani» del liceo Jean-Moulin offrono loro quello che erano venuti a cercare: una critica delle caricature del profeta pubblicate da Charlie Hebdo. «Esagerano, dicono cose che non bisogna dire.» Al quel punto il giornalista, visibilmente preoccupato, può concludere: «Molti insegnanti ci hanno confidato che avevano avuto parecchie difficoltà a far rispettare questo momento di raccoglimento.» Qualche settimana dopo, gli insegnanti che incontriamo a Roubaix dipingono un quadro diverso: il minuto di silenzio non avrebbe posto loro il minimo problema. «Avevo una classe di sesta, ci racconta Juliette Perrot, professoressa di inglese nella scuola media Albert-Samain, classificata Rep + (rete di educazione prioritaria), come la quasi totalità delle scuole medie della città. Ho spiegato loro le ragioni della cerimonia ed è andato tutto molto bene. C è stato solo un collega che ha avuto qualche problema con la sua classe. Ma è una classe difficile già dall inizio dell ultimo anno scolastico. È la politica dell istituto quella di creare una quarta e una terza dove inserire tutti i ragazzini in grande difficoltà. Sono dei giovani che si sentono respinti dall istituzione scolastica, perché dopo otto giorni hanno capito di essere finiti in una classe spazzatura. In seguito non c è da stupirsi se capitano degli incidenti, ma è così durante tutto l anno.» L indocilità di alcuni allievi turbolenti non rivelerebbe quindi sistematicamente una rottura rispetto ai valori della Repubblica? La domanda fa sorridere Juliette Dooghe, professoressa di storia e geografia nell istituto Maxence-Vander-Meersch, a qualche chilometro di distanza. «Il giorno del minuto di silenzio, ho interrotto la lezione un quarto d ora prima per chiedere agli allievi cosa avessero capito di quello che era successo. Non ho avuto nessun commento negativo, anche se quasi tutti gli allievi sono di origine maghrebina. Non sono a conoscenza di classi dove ci siano stati dei problemi.» Qualche minuto dopo tuttavia, il vicedirettore del liceo ha deciso di bloccare tutti gli allievi per un secondo minuto di silenzio... all ora di pranzo. «Il tempo di riunire tutti gli studenti ed erano già le 12,20. E a quel punto, effettivamente, c è stato un gran vociare», prosegue la professoressa Dooghe, che invita, anche lei, a una certa prudenza: avere fame non equivarrebbe necessariamente a fare un apologia del terrorismo... In totale, il rettorato del provveditorato di Lille ha repertoriato meno di una decina di incidenti durante il minuto di silenzio. Una cifra che basta per turbare la redazione del giornale Nord Eclair. Il 13 gennaio, la sua prima pagina avverte: «Roubaix: clima teso e incidenti a ripetizione dopo gli attentati». La situazione non è diversa a Marsiglia, dove incontriamo Stéphane Rio, professore di storia e geografia al liceo Saint-Exupéry, che accoglie allievi, di cui più dell 80% beneficia di una borsa di studio. Anche là, la testimonianza degli marsiglia. Scuola primaria insegnanti differisce dalle scene illustrate dalla stampa. «La cerimonia è stata decretata sotto l effetto dell emozione. Ma la pedagogia si fonda sulla ragione, non sull emozione, analizza Rio. Gli allievi avevano bisogno di sapere quello che era veramente successo e chi era stato colpito. Bisognava aiutarli a riflettere sull humour, al secondo grado. Perché non tutti posseggono per forza i codici della radicalità libertaria alla Charlie Hebdo.» Qual è la missione dell insegnamento in questo contesto? «Come professore di storia e geografia, ci risponde Rio, preparare ad esempio una lezione sulla storia della caricatura, sulla storia della laicità, o sulla storia della stampa dal XVIII secolo. E poi, nelle classi, dedicare un momento alla discussione, al dibattito.» Ridurre la scuola della Repubblica a un istituzione tenuta a rispondere, nel più impeccabile silenzio, alle ingiunzioni del governo costituirebbe quindi una scorciatoia problematica... «Quando faccio una lezione, la preparo in anticipo, aggiunge Hélène Dooghe, professoressa di lettere moderne all istituto Voltaire di Wattignies, nella periferia di Lille. Il minuto di silenzio è stato deciso un mercoledì sera per il giorno successivo. Come è possibile immaginare che ci saremmo potuti presentare davanti agli studenti il giovedì mattina avendo avuto il tempo di lavorare sui temi della caricatura e della libertà d espressione? Che avremmo potuto dire qualcosa di più che delle banalità o delle sciocchezze?» «Se i giornalisti hanno l abitudine di andare spediti senza preparare nulla, questo non è il caso per la maggioranza degli insegnanti», conclude, suggerendo che il minuto di silenzio rispondeva più a delle esigenze esterne che ai bisogni degli allievi. C è quindi l immagine della scuola proposta dai media. E c è tutto quello di cui non parlano. Il liceo Saint-Exupéry di Marsiglia, soprannominato «liceo nord» o «liceo ghetto» da una parte della stampa (1), fa regolarmente notizia. «Ogni volta che un giornalista mi contatta, mi chiede il numero di musulmani o di neri o dei ragazzi di origine maghrebina, riferisce Rio. Rispondo che i miei allievi sono per la maggior parte in una situazione sociale, economica e geografica di segregazione. Loro agitano il loro sonaglio religione, comunitarismo ; io rispondo realtà sociale, assenza di prospettive economiche.» Clichy sous Bois. «Tutto l'anno, i nostri diritti» Marsiglia. Protesta di docenti

13 Le Monde diplomatique il manifesto giugno Clichy sous Bois RoubaiX. Collège Albert Samain de loro di rispettare le direttive statali, ma lo stato diserta i quartieri.» Nella scuola dove insegna, dei pannelli di legno sostituiscono alcuni vetri, le mattonelle del pavimento sono sconnesse. I bagni non si ricordano nemmeno l ultima volta che sono stati lavati... «E il tutto, in mezzo a decine di ettari di un area industriale dismessa», conclude la giovane insegnante. Regolarmente invocata quando si tratta di identificare le soluzioni da apportare per risolvere i problemi reali o presunti della Francia «oscurantismo religioso», «ripiegamento comunitario», jihadismo, ma anche disoccupazione, povertà, disuguaglianze, la scuola costituisce al contrario lo sfogo ultimo delle disfunzioni del modello sociale francese. Non offre le fondamenta per l edificazione della Repubblica che i dirigenti politici pretendono di difendere; ne costituisce invece il risultato. Un punto di arrivo, non di partenza... Bombardare la scuola di ingiunzioni per salvare la società significa quindi operare controsenso. Un paradosso a cui gli insegnanti si sono progressivamente abituati, senza tuttavia rassegnarsi ad accettarlo. A Roubaix, le massicce delocalizzazioni dell industria tessile verso i paesi «a basso costo» hanno trasformato la capitale mondiale della lana degli anni 30 nella città più povera di Francia, con il 45% delle famiglie al di sotto della soglia di povertà, secondo una ricerca dello studio Compas realizzata nel 2014 (2). Nel bacino Roubaix-Tourcoing il settore tessile rappresentava il 35% dell impiego nel 1974, il 21% nel 1985, l 11,3% nel 1990; oggi ne rappresenta meno del 4%. Il lavoro dipendente industriale è stato sostituito in larga parte da impieghi di servizi, che non beneficiano delle condizioni di tutela strappate in decenni di lotte. Ai contratti a durata indeterminata (Cdi) si sono sostituiti i contratti a durata determinata (Cdd) e il lavoro interinale, che è aumentato del 97% nella regione del Nord-Pas-de-Calais tra il 1995 e il Le 40 ore, poi le 39 ore e infine le 35 ore sono state convertite in tempi parziali. Le settimane limitate sono state smantellate. Prevale ormai il tempo di lavoro annualizzato e flessibile. Si tratta di evoluzioni pensate, scelte, votate, che hanno metodicamente demolito l edificio sociale su cui riposa la scuola. La famiglia Belgacem, con il padre che è arrivato a lavorare nel settore tessile a Roubaix alla fine degli anni 50, incarna il legame tra l aula scolastica e questo degrado economico e sociale. «Sono uscito dal liceo Turgot a 18 anni, a metà degli anni 70, con un brevetto di studi professionali (Bep) di tecnico modellatore, si ricorda il primogenito, Bouzid Belgacem, che oggi ha 59 anni. Per me come per i miei amici, c era un avvenire all uscita della scuola. Ho trovato subito lavoro a La Redoute, alla catena di imballaggio. Sei mesi dopo ho cambiato ditta perché il lavoro non mi piaceva, e sono passato alla filatura Vandenberghe. Sei mesi dopo, di nuovo, mi sono fatto assumere alla cardatura di La Tossée, per un posto più qualificato, come operaio meccanico professionista.» Venti anni dopo, il contesto economico di Roubaix si è radicalmente trasformato e l ultimogenito della famiglia Belgacem, Azedine, conosce un percorso... diverso. «Mio fratello si è messo a cercare lavoro negli anni 90-95, ci racconta il signor Belgacem. All epoca c erano già più di 3 milioni di disoccupati. Ha lavorato per parecchi anni in edilizia come interinale. A 40 anni, è in contratto di avviamento al lavoro (Cae) come aiuto-educatore all istituto Albert-Samain. Un contratto precario: non sa bene quello che diventerà.» E i suoi figli? «Per loro l avvenire semplicemente non esiste. A 28 anni mio figlio più grande, Mehdi, non ha una situazione stabile. Dopo la scuola media ha iniziato gli studi per diventare professore di educazione fisica. Poiché non c è lavoro, si è orientato verso l elettronica. Oggi, è assistente educativo in una scuola di Tourcoing e gli rimane un solo anno di contratto. Poi, non sa. Il secondo, Samir, ha aperto un bar per narguilé, ma tra non molto lo chiuderà. Oggi, puoi andare a scuola ma quando esci, o non hai nulla, o hai un lavoro di m...» Anche la scuola ha perso il suo status di oasi di pace. «All interno degli istituti, i giovani si ritrovano oggi di fronte a salariati sempre più flessibili, constata la signora Perrot. I lavori precari si sono moltiplicati: assistente educativo, contratto unico di inserimento (Cui), Cae, professore precario... Nessuno di loro sa di cosa sarà fatto il domani. Devono sopravvivere, a volte con dei part-time a 600 o 700 euro al mese. L anno scorso, in alcuni giorni c erano più adulti con questo tipo di status che professori incaricati. Siamo arrivati a un sistema che crea insicurezza per i lavoratori salariati e che mette le une di fronte alle altre le vittime di questo disordine economico.» «Dov è, per me, la libertà di espressione?» A chilometri da Roubaix, Fréderic Chaumont, 39 anni, è stato assunto in Cui come assistente educativo al liceo Saint-Euxpéry. Portapizze a domicilio, stagionale nelle stazioni sciistiche, agente di sicurezza nei parcheggi, incaricato delle ordinazioni al mercato all ingrosso, magazziniere, tabaccaio, agente di manutenzione: dall età di 16 anni, è all avanguardia per osservare la «modernizzazione» del mercato del lavoro. Eccolo ora sorvegliante, con un salario di 675 euro netti al mese per 20 ore settimanali: da quando è stato soppresso lo status che li integrava, nel 2003, i sorveglianti hanno visto le loro condizioni di lavoro flessibilizzarsi e i loro salari diminuire. Il suo impiego di sorvegliante rappresenta un salvagente indispensabile, ma non sufficiente: saltuariamente, Chaumont continua a occuparsi, alcune notti al mese, dalle 20 alle 4 del mattino, dello scarico e del carico dei camion di rifornimento degli ipermercati. Casse di pesce e di carne che gli spaccano la schiena. È anche questo, il «modello educativo francese» nei quartieri popolari: ragazzini che, per pagarsi gli studi, dovranno trovare un lavoro di cameriere in un fast food, sorvegliati al liceo da adulti erranti a livello professionale. Ma sono questi i giovani dai quali si esige che conservino la fede nei valori della Repubblica. Assistente sociale al liceo Saint-Exupéry, Sandra de Marans beneficia ancora di un posto fisso. I suoi allievi provengono dai quartieri nord di Marsiglia, che assomigliano come due gocce d acqua alla Roubaix di oggi. A Marsiglia, sempre secondo lo studio Compas, il tasso di povertà raggiunge il 25%. «Negli otto anni che ho trascorso in questo liceo ho constatato un degrado significativo della situazione dei giovani. Quando sono arrivata, facevo tre o quattro segnalazioni all anno: minorenni in situazione di grave pericolo, che ad esempio si prostituivano, con delle patologie psichiatriche importanti, in vagabondaggio, ecc. Oggi ne faccio tra le 12 e le 15. Mi succede di fare delle visite a domicilio e sono sconvolta da quello che vedo. Appartamenti senza finestre, senza mobili, bambini che dormono per terra o su delle specie di materassi, condizioni di insalubrità avanzate, malattie come la scabbia...» La disoccupazione nei quartieri nord supera il 50% ma numerosi abitanti si barcamenano tra non impiego e occupazioni precarie. A differenza di quanto è successo nella città tessile del nord, qui, una Marsiglia di servizi e la sua sfilza di lavori degradati hanno cancellato di colpo la Marsiglia industriale di una volta. La trasformazione del fronte del porto ne offre la migliore illustrazione. Le industrie tradizionali come l agroalimentare (frantoi, produzione di saponi, ecc.), le riparazioni navali o la metallurgia sono scomparse per lasciare il posto a un immensa ristrutturazione commerciale e ludica destinata al milione di turisti in crociera e alle classi medie superiori (3). Categorie a cui il sindaco, Jean-Claude Gaudin, fa gli occhi dolci: i centri commerciali Les Terrasses del porto (190 boutique e ristoranti, affidati alla società britannica Hammerson) e le Voûtes de la Major (7.200 mq di superficie commerciale) sono aperti sette giorni su sette, con dei lavori notturni regolari. Basta passeggiare il sabato pomeriggio per incrociare a ogni angolo di strada le donne delle pulizie di Onet, gli agenti di Securitas, i camerieri dei bar e dei ristoranti, le commesse delle boutique, con orari più che flessibili, con contratti mal definiti, spesso a tempo parziale. Sono i genitori degli studenti del liceo «Saint-Ex». A qualche centinaio di metri dalle Terrasses del porto, la signora de Marans misura ogni giorno le conseguenze della trasformazione del lavoro dipendente per i liceali marsigliesi: «Ho visto nel corso degli anni sempre più genitori la cui unica preoccupazione è quella di salvare la pelle dei loro figli. O non hanno un lavoro o, se ce l hanno, bisogna vedere in che condizioni di salario e di impiego del tempo. Come volete che si occupino correttamente dei loro figli? Quello che mostrano i media, non è che la punta dell iceberg. Noi vediamo la parte sommersa, e non è affatto piacevole per il nostri giovani!» Il signor Bouzid Belgacem, i membri della sua famiglia a Roubaix o gli studenti del liceo Saint-Exupéry fanno parte di quelli che buona parte dei giornalisti ha relegato nelle fila dei «Io non sono Charlie», dei «bambini smarriti della Repubblica». La copertura mediatica e politica degli attentati di gennaio non ha fatto che rinforzare ancora un po di più il sentimento di collera e di tradimento che nutrono ormai da anni. «Sono stato simpatizzante socialista, perché, per me, un operaio deve essere di sinistra, tiene a ricordare il signor Belgacem. Sono stato dalla loro parte a Tourcoing e a Roubaix, ho fatto volantinaggio per loro, ma oggi sono arrabbiato con questo governo. Non mi riconosco più nei socialisti. Mi sono sempre battuto, ero iscritto al sindacato Cfdt, sono stato segretario del comitato d impresa della mia ditta. Con i miei compagni di fabbrica abbiamo ottenuto dei miglioramenti e degli aumenti di salario. Non ci siamo mai lasciati fregare, e in questo modo eravamo rispettati. Dopo i fatti di gennaio, si è parlato della libertà di espressione. Ma dov è la libertà d espressione, per mio fratello minore, per i miei figli, per me? È a senso unico. Solo per alcuni; per gli altri è Chiudi la bocca!. Il governo e i media hanno sfruttato questi fatti per prendersela ancora un po di più con i nostri figli e con noi, operai e maghrebini. La Francia che ho amato era quella dei diritti umani associata a quella dei diritti degli operai. Oggi, è sempre meno l una, e non è assolutamente più l altra.» Gilles Balbastre (1) Le Monde, 21 giugno (2) Louis Maurin e Violaine Mazery, «Le taux de pauvreté des 100 plus grandes communes de France», Campas études, n 11, Nantes, gennaio (3) Si legga François Ruffin, «Penser la ville pour que les riches y vivent heureux», Le Monde diplomatique, gennaio (Traduzione di Filippo Furri) Clichy sous Bois. Scuola primaria Lione. Scuola primaria

14 14 giugno 2015 Le Monde diplomatique il manifesto Una minaccia per l Africa dei grandi laghi In Burundi, le radici della collera In meno di un mese, il Burundi ha assistito alla rimessa in discussione degli accordi di pace, a manifestazioni popolari inedite, all esodo di oltre cento mila persone e a un tentativo di colpo di stato militare. In un paese segnato da una lunga guerra civile, la volontà del presidente Pierre Nkurunziza di restare al potere a ogni costo ha indebolito gli equilibri politici e sociali. dal nostro inviato speciale Pierre Benetti * «P er una volta che avevamo superato la questione etnica ed eravamo più o meno in pace!», si lamentano alcuni manifestanti delle periferie di Bujumbura, capitale del Burundi, dove sono iniziate le contestazioni. La candidatura del presidente Pierre Nkurunziza per un ulteriore mandato ha suscitato un profondo sentimento di rivolta tra molti giovani burundesi. Questi ultimi sono nati durante o subito dopo la guerra civile che ha devastato il paese dal 1993 al 2008, facendo trecento mila morti. Per loro, l accordo di Arusha (Tanzania), firmato il 28 agosto 2000 dal governo e dai gruppi armati hutu (1), costituisce un quadro di riferimento essenziale per la pace. Secondo questo accordo, il capo dello Stato, eletto a suffragio universale diretto, non può restare in carica per più di due mandati (2). Ma l attuale crisi va oltre le questioni elettorali. Contrariamente a quella * Giornalista. Mezzo secolo d instabilità 1 luglio Il re Mwanbutsa IV ottiene l indipendenza del Burundi, colonia belga dal Un colpo di Stato militare mette fine alla monarchia e porta al potere il capitano Michel Micombero Massacri perpetrati dall esercito contro le popolazioni hutu Colpo di Stato di Pierre Buyoya. Giugno L hutu Melchior Ndadaye è il primo presidente eletto democraticamente. 21 ottobre. Assassinio di Ndadaye da parte di soldati tutsi. Inizio della guerra civile. 6 aprile Ntaryamira muore nell attentato contro l aereo dle presidente ruandese Juvénal Habyarimana. Inizio del genocidio in Rwanda. Luglio Ritorno al potere di Buyoya con l aiuto dell esercito. 28 agosto Accordo di pace di Arusha, del vicino Ruanda, dove i riferimenti etnici sono vietati dall epoca del genocidio dei tutsi nel 1994, la Costituzione burundese impone delle quote per hutu, tutsi e twas in Parlamento (3); l accordo di Arusha, dal canto suo, stabilisce un simile sistema di quote per l esercito e le amministrazioni pubbliche (4). Il mantenimento del «consenso di Arusha» si scontra con le manovre del primo presidente del dopo guerra, Pierre Nkurunziza, di origine hutu, il cui sistema di Stato-partito cristallizza tutte le tensioni. Nato nel 1963 nella provincia di Ngozi (nord), è stato eletto una prima volta nel 2005 e rieletto nel Nessuno può dire se la sua terza candidatura miri a soddisfare la sua sete di potere o a proteggere i suoi uomini implicati nei vari scandali (corruzione, scomparsa di oppositori) che hanno segnato i suoi due mandati. che prevede la ripartizione del potere tra hutu e tutsi. 16 novembre Accordo di pace tra il governo e il Consiglio nazionale per la difesa della democrazia Forze di difesa della democrazia (Cnnd-Fdd) di Pierre Nkurunziza Elezione alla presidenza di Nkurunziza. 7 settembre Accordo globale di cessate il fuoco con il Palipehutu-Fnl Rielezione di Nkurunziza. 25 aprile Nkurunziza annuncia la sua candidatura alle elezioni presidenziali previste per il 26 giugno prossimo. 27 aprile. Inizio delle manifestazioni. 13 maggio. Tentativo di colpo di stato condotto dall ex capo del servizo d intelligence Godefroid Niyombare. 15 maggio. I golpisti annunciano la loro resa. Il presidente torna al palazzo presidenziale. REUTERS/Goran Tomasevic Il percorso dell uomo che viene soprannominato «Petero» racconta la storia politica e sociale di un paese la cui indipendenza, nel 1962, fu seguita da trent anni di dominazione tutsi, sotto la bandiera di un partito unico, l Unione per il progresso nazionale (Uprona). Nel 1992, suo padre, deputato, viene ucciso nel corso di scontri tra le diverse comunità mentre l esercito burundese, a maggioranza tutsi, reprime un tentativo di colpo di stato eliminando in modo massiccio le élite hutu. Nel 1993, perde altri due membri della famiglia nella guerra civile che scoppia dopo l assassinio del primo presidente hutu eletto democraticamente, Melchior Ndadaye. Massacri e deportazioni si aggiungono ai combattimenti «regolari» tra i movimenti armati a maggioranza hutu e le Forze armate burundesi (Fab). Nkurunziza, allora professore di educazione fisica, si unisce al Consiglio nazionale per la difesa della democrazia (Cnnd), emanazione del Fronte per la democrazia in Burundi (Frodebu) di Ndadaye. Dopo l accordo di pace di Arusha, assume la guida di un nuovo gruppo ribelle: il Cnnd-Fdd (Forze di difesa della democrazia). Questo ramo della ribellione deporrà le proprie armi solo nel 2003, grazie ai buoni uffici del Sudafrica. Il processo di pace è stato dunque imbastito senza la partecipazione di coloro che detengono oggi il potere. Ciò potrebbe spiegare la scarsa attenzione da loro accordata allo «spirito di Arusha». Bujumbura, Burundi. Gli oppositori a un terzo mandato al presidente Pierre Nkurunziza si mascherano per protestare Nei quartieri considerati «in insurrezione» dal governo, dei volantini paragonano Nkurunziza a Blaise Compaoré, il presidente burkinabè cacciato nel febbraio 2015 (5). La diffusione dei social media e la popolarità dei media privati, numerosi e dinamici nonostante le pressioni costanti che subiscono, hanno favorito l emergenza di una generazione critica. In un paese sostenuto da finanziatori stranieri e organizzazioni non governative (Ong) l arricchimento di alcuni abitanti ha alimentato l opposizione al potere giudicato nepotista e autoritario. Inoltre, il Burundi è percepito come un cattivo alunno rispetto ai successi economici del suo vicino ruandese (6). Se Bujumbura è in subbuglio, Nkurunziza sembra contare sui giovani del Cnnd-Fdd, gli Imbonerakure («quelli che vedono lontano»), come anche sulla popolazione contadina, a cui ha offerto la gratuità dell insegnamento primario e l esenzione da alcune spese sanitarie. All estero, la Francia, contrariamente al Belgio o ai Paesi bassi, non ha ancora interrotto la sua cooperazione con il Burundi, specialmente per quanto riguarda la formazione delle forze di sicurezza. Coloro che avevano presieduto la firma dell accordo di Arusha Nazioni unite, Stati uniti e Sudafrica si sono limitati a esprimere la loro «inquietudine» per le conseguenze causate dall atteggiamento del presidente Nkurunziza. La contestazione non è venuta da dove se l aspettavano i lettori «etnicisti» della situazione burundese. All indomani del congresso del Cnnd- Fcc, il 26 aprile, le manifestazioni sono iniziate a Musaga e a Nyakabiga, quartieri periferici considerati «tutsi» durante la guerra, ma dove numerosi hutu hanno sfidato il divieto di manifestare. Sulle barricate improvvisate, si vedevano soprattutto giovani, spesso provenienti dalle classi medie e popolari e, come molti altri cittadini, arrivati da poco dalle zone rurali. Le Forze nazionali di liberazione (Fnl), ultimo gruppo ribelle hutu ad aver deposto le armi, nel 2008, si sono rapidamente collocate all opposizione ma senza passare a un azione visibile. Infine, in seno al Cndd-Fdd, è un generale hutu, Godefroid Niyombare, che ha guidato il tentativo di colpo di stato del 13 maggio insieme a vari alti quadri militari del partito. Il gioco di forza quindi non è arrivato dalle strade, la cui mobilitazione non è strutturata, né dal vecchio esercito regolare, che ha dovuto riciclare degli ex ribelli in virtù degli accordi di pace, ma dalla cerchia del potere; anche lì, l autoritarismo non è più dato per scontato. Il colpo di stato mancato ha comunque mostrato che Nkurunziza manteneva il sostegno più o meno tacito di una parte importante del Cndd-Fdd e dello stato maggiore dell esercito, all interno del quale ha «fatto pulizia» nell ultimo anno. Per il momento, il processo elettorale non è stato annullato; il presidente ha addirittura ripreso la sua campagna. Ma sarà sicuramente difficile organizzare un elezione dal momento che oltre cento mila cittadini hanno scelto la via dell esilio verso il Ruanda, la Tanzania e la Repubblica democratica del Congo (Rdc) dall inizio di aprile. Mentre i media indipendenti sono stati chiusi dal governo o saccheggiati dai manifestanti, il Burundi potrebbe sperimentare nuove violenze politiche a porte chiuse. (1) Nel 2003, i due principali gruppi armati Hutu erano il Consiglio nazionale per la difesa della democrazia Forze per la difesa della democrazia (Cndd-Fdd) diretto da Nkurunziza, e il Parito per la liberazione del popolo hutu (palipehutu) Forze nazionali di liberazione (Fnl), guidate da Agathon Rwasa. Nel 2008 sono stati conlcusi altri accordi con le formazioni che non avevano ancora deposto le armi. (2) Per i suoi sostenitori, Nkurunziza, essendo stato eletto nel 2005 a suffragio indiretto, può ripresentarsi. (3) Si legga Colette Braeckman, «In Ruanda e in Burundi lo scontro non è più etnico», Le Monde diplomatique/il manifesto, dicembre (4) I tre gruppi di appartenenza non sono mai stati censiti in Burundi, e i numeri spesso utilizzati risalgono al periodo coloniale, con proporzioni che restano verosimilmente invariate (85% di hutu, 14% di tutsi e 1% di twas). (5) Si legga David Commeillas, «La ramazza dei cittadini in Burkina Faso», Le Monde diplomatique/il manifesto, aprile (6) Il Burundi è 180 su 187 nella classifica dello sviluppo umano del Programma dlle Nazioni unite per lo sviluppo; il Ruanda è 150. (Traduzione di Francesca Rodriguez)

15 dossier Le Monde diplomatique il manifesto giugno Avete detto «complotto»? Dalla nascita dell Organizzazione dello Stato islamico agli attentati di Parigi, dall 11 settembre alla crisi finanziaria del 2008, ogni fatto che abbia larga risonanza mediatica stimola ormai teorie complottiste. Queste costruzioni intellettuali affondano le radici nella cultura popolare (pagine 20 e 21) e nella storia contemporanea, disseminata di macchinazioni autentiche (pagine 16 e 17). Il complottismo prolifera ovunque, soprattutto nel mondo arabo (pagine 18 e 20). Si può essere tentati di considerare gli adepti del complottismo individui irrazionali, addirittura deliranti. Ma le loro analisi si fondano su ragionamenti relativamente normali (pagina 19). Molti di loro hanno imparato a dubitare della versione ufficiale degli avvenimenti (pagina 16), e il discredito delle istituzioni amplifica la loro narrazione (si legga qui sotto). Il sintomo di un espropriazione V ederne ovunque o non vederne da nessuna parte: in tema di complotti, raramente la discussione evita una di queste due derive simmetriche. Quando i cinque grandi gruppi di Wall Street, nel 2004, ottengono a forza di pressioni una riunione, a lungo tenuta segreta, alla Securities and Exchange Commission (Sec), l ente federale che regola i mercati di capitali statunitensi, per ottenere l eliminazione della «regola Picard» che limita a 12 il coefficiente di solvibilità globale delle banche d affari (1), occorrerebbe avere una reticenza intellettuale sconfinante nel puro e semplice ottundimento cerebrale per non vedervi l azione concertata e dissimulata di un gruppo di interessi potente e organizzato in modo speciale. Dunque, i complotti esistono quello che abbiamo richiamato, fra l altro, ha avuto successo. Certamente, da soli essi non spiegano l integralità dell analisi richiesta dalla crisi finanziaria, ed ecco forse una delle note debolezze del cospirazionismo: il suo monoideismo (2), l elemento unico che spiega tutto, l idea esclusiva che rende conto integralmente, la riunione nascosta che ha deciso tutto. Un esempio tipico del monoideismo complottista è: il Bilderberg (o la Trilaterale) (3). Il Bilderberg esiste! E anche la Trilaterale. Dunque il problema non è nella verifica di questi fatti: è nello statuto causale che si assegna loro. Il Bilderberg o la Trilaterale diventano le organizzazioni uniche e onnipotenti della globalizzazione neoliberista. Per smontare il monoideismo della visione complottista, basta invitarlo a prestarsi a un esperienza di pensiero controfattuale: immaginiamo un mondo senza Bilderberg e senza Trilaterale; questo mondo ipotetico avrebbe evitato la globalizzazione neoliberista? La risposta è ovviamente negativa. Se ne deduce, per contrapposizione, che queste occulte conclavi non sono gli agenti sine qua non del neoliberismo, e nemmeno i più importanti. Peraltro, questa non è una buona ragione per dimenticare di parlare di Bilderberg e di Trilaterale, che senza dubbio esprimono aspetti importanti del mondo nel quale viviamo. Basterebbe dunque a volte un accenno di carità intellettuale per prendere quel che ci può essere di fondato in certe tesi immediatamente bollate con l etichetta ormai infamante di «complottiste», eliminarne gli eccessi e mantenere, magari riformulandola, la realtà di azioni davvero concertate che la dottrina neoliberista si sforza di negare. È vero che fa strutturalmente parte della visione del mondo dei dominatori il fatto di negare in modo generale la realtà di dominio (ad esempio, i lavoratori dipendenti e i datori di lavoro diventano «co-contrattanti liberi ed eguali sul mercato del lavoro» ), a partire ovviamente da tutti i fatti con i quali gli interessi dominanti concorrono alla produzione, riproduzione e consolidamento del proprio dominio. È probabilmente vana la speranza di riuscire, nelle controversie mediatiche, ad avere una posizione intermedia la quale al tempo stesso argini gli elementi stravaganti (fino all assurdo) del pensiero cospirazionista, e riconosca l idea che il dominio, anche se principalmente prodotto nelle strutture e da parte delle stesse, è anche frutto in parte di azioni collettive deliberate da parte di chi domina. Forse è chiedere troppo, e si rischia di suscitare commenti pesanti da parte di chi vedrebbe in quest idea una difesa apologetica del complottismo e dei complottisti E tuttavia, sarebbe ora di fare appello, in un certo senso, a un pensiero non complottista sui complotti, e cioè al tempo stesso: 1) riconoscere che si verificano talvolta fatti concertati e dissimulati potremo chiamarli complotti, e 2) rifiutare di fare del complotto lo schema esplicativo unico di tutti i fatti sociali, aggiungendo anche che, di tutti gli schemi disponibili, questo è il meno interessante, sovente il meno pertinente, quello al quale, da un punto di vista metodologico, bisogna guardare per ultimo senza negare appunto che a volte ha il suo posto! * Economista. Autore de La Malfaçon. Monnaie européenne et souveraineté démocratique, Les Liens qui libèrent, Parigi, Questo articolo è tratto da «Conspirationnisme: la paille et la poutre», La pompe à phynance, 24 agosto 2012, blog.mondiplo.net Pagine 16 e 17 Da Santiago a Caracas, la lunga mano di Washington, di Franck Gaudichaud «Chi crede alla versione ufficiale?», di Julien Brygo Un ossessione nel mondo arabo, di Akram Belkaïd Pagine 18 e 19 I dieci principi della retorica complottista, di Benoît Bréville Non si salva nessuno, di Marina Maestrutti Pagine 20 e 21 Ai confini della realtà, di Evelyne Pieiller I vostri ricordi sono il nostro futuro, di Alain Damasio Frédéric Lordon * peter martensen Passenger, 2010 In materia di complottismo, c è di tutto: dalle rappresentazioni sarcastiche dei suoi deliri più noti (che di certo non mancano ), alle rassegne dei suoi temi feticcio, ad analisi sapienti delle sue psicopatologie. Ma non si trova alcuna analisi politica! La potenza della denigrazione, la forza con la quale si seleziona chi è legittimato a esprimersi, le caratteristiche sociali associate a questa scelta, il riservare la legittimità di espressione ad alcuni escludendone in modo assoluto gli altri, qualificando indistintamente di aberrazione mentale e poi vietando la parola a tutta una categoria, anzi a un insieme di categorie sociali, assimilandole ad alcuni soggetti smarriti, per fare del discorso politico l affare monopolistico dei «rappresentanti» assistiti dagli esperti: eppure tutti questi meccanismi, esacerbati dai media francesi, dovrebbero attirare l attenzione sulla posta in gioco propriamente politica del dibattito sul complottismo e invece, ecco solo urla falsamente inorridite perché, per quanto isolate, le uscite complottiste forniscono la miglior prova del mondo all espropriazione. Espropriazione: forse è questo il termine che rende meglio l ingresso della politica nel fatto sociale e non psichico del complottismo. Infatti, invece di vedervi un delirio privo di causa, o meglio senz altra causa che l essenza retrograda della plebe, vi si potrebbe vedere l effetto, certo aberrante ma abbastanza prevedibile, di una popolazione che continua a voler capire quello che accade, ma se ne vede costantemente rifiutata la possibilità: accesso all informazione, trasparenza delle agende politiche, dibattiti pubblici approfonditi (ben diversi dalle minestre indigeste spacciate per dibattiti dai media di massa), ecc. Decisamente, l evento politico più importante degli ultimi venti anni, il referendum sul trattato costituzionale europeo del 2005, ha mostrato che cosa può fare, pur in un clima estremamente avverso, un corpo politico al quale si dà il tempo di riflettere e dibattere: padroneggiare le materie più complesse e appropriarsene, per produrre un voto illuminato. Fuori da queste condizioni eccezionali, alla cittadinanza sono rifiutati tutti o quasi i mezzi per capire le forze storiche che la dominano e soprattutto per partecipare alle decisioni che determinano il suo destino. Ma, fa notare Spinoza, il tentativo di capire non può mai essere sospeso: «Nessuno può abdicare alla propria facoltà di giudicare» (Trattato politico), e si esercita come può, nelle condizioni date, e con l accanimento della disperazione quando, in più, ha solo le proprie sventure a cui pensare. Il complottismo non è la psicopatologia di qualche persona disturbata, è il sintomo necessario dell espropriazione politica e della confisca del dibattito pubblico. Vale anche per l ultima sciocchezza, rimproverare al popolo i suoi sbandamenti di pensiero, quando, in modo così metodicamente organizzato, è stato privato di qualunque strumento di riflessione e relegato fuori da qualunque attività di pensiero. Spinoza lo dice meglio di tutti: «Non sorprende che la plebe non abbia verità né giudizio, dal momento che gli affari dello Stato sono trattati a sua insaputa, e non sorprende che essa costruisca un proprio parere solo a partire dal poco che è impossibile nasconderle. La sospensione del giudizio è in effetti una virtù rara. Dunque poter trattare tutto all insaputa dei cittadini, e volere che a partire da questo essi non giudichino, è il colmo della stupidità. In effetti, se la plebe sapesse moderarsi, sospendere il proprio giudizio su ciò che conosce male, e giudicare correttamente a partire dai pochi elementi di cui dispone, essa sarebbe più degna di governare che di essere governata» (Trattato politico, VII, 27). Ma, ancor più che dell espropriazione, il complottismo, contesto nel quale le élite sono del tutto minoritarie, potrebbe essere il segno paradossale che il popolo, in effetti, diventa adulto perché ne ha abbastanza di ascoltare con deferenza le autorità e comincia a rappresentarsi il mondo senza di loro. Gli manca solo una cosa per diventarlo del tutto e tenersi fuori dalle trappole, come il complottismo, delle quali ogni dibattito pubblico è disseminato: l esercizio, la pratica, l abitudine tutto quello che le istituzioni della confisca (sistema rappresentativo, media, esperti) rifiutano al popolo e che quest ultimo cerca comunque di conquistarsi ai margini (con le associazioni, l educazione popolare, la stampa alternativa, le riunioni pubbliche., ecc.) in effetti, è esercitandosi che si formano le intelligenze individuali e collettive. Il dibattito sulla «legge del 1973», che vieta presumibilmente il finanziamento monetario dei deficit pubblici, dovrebbe essere visto come una delle tappe di questo apprendistato, con il suo tipico cammino fatto di tentativi e di errori. In effetti, la «legge del 1973», che in alcuni circuiti su internet è oggetto di un dibattito effervescente, ha conosciuto la sua parte di sbandate: dal video di stampo complottista di Paul Grignon, L Argent dette (Money as Debt, 2006), che rivelava una gigantesca cospirazione monetaria sono le banche private che creano la moneta-, i cui contorni potevano comunque essere letti in qualunque manuale scolastico di economia, fino alla pesante insistenza affinché si ribattezzasse la legge, dapprima «legge Pompidou», ma per poi arrivare a «legge Rothschild»; in questo alcuni vedranno solo un allusione alle connessioni fra potere politico e alta finanza (4), mentre altri si daranno a ogni sorta di sottintesi Fra tutte queste scorie, si può comunque intravvedere un principio di chiarezza politica: 1) questo piccolo miracolo di non esperti che si appropriano di una questione che è tecnica ma che a causa dei suoi elementi politici dovrebbe essere destinata al dibattito più ampio possibile: la moneta, le banche; 2) il sorgere, forse disordinato ma salutare, di domande sulla legittimità dei tassi di interesse, sul finanziamento dei deficit pubblici, sul ruolo adeguato di chi emette moneta in una società democratica; 3) un intensa attività polemica, nel senso migliore del termine, con una chilometrica produzione di testi, lancio di siti e blog, controversie documentate in ogni direzione, ecc. Tutto questo, in effetti, nel bel mezzo di ignoranze grossolane, evidenti svarioni e false piste manifeste alcuni fra i più accaniti nel denunciare la legge del 1973, cominciano ad accorgersi che sono andati a caccia di fantasmi Ma in ogni caso, è un esercizio collettivo di pensiero che conta in sé più di tutte le sue imperfezioni, e nel quale, sospendendo il sarcasmo, occorrerebbe vedere un momento di questo processo di apprendimento tipico dell ingresso nell età adulta. Non è sorprendente che dalle incertezze in questo processo di apprendimento le élites in carica traggano la scusa per rifiutare l apprendimento nel suo insieme. È comprensibile: è in ballo proprio l espropriazione degli espropriati. (1) Il coefficiente di solvibilità indica il multiplo di debito, rispetto ai fondi propri, che una banca può contrarre per finanziare le proprie posizioni sui mercati. (2) Cioè la concentrazione patologica del pensiero su un unico argomento. (3) La Commissione trilaterale, creata nel 1973 per rafforzare la cooperazione fra i paesi atlantisti dell America del Nord, dell Europa e dell Asia, riunisce personalità di diversi campi di potere (intellettuali, politici, economisti). Il Bilderberg, gruppo informale creato nel 1954 nel contesto della guerra fredda, funziona con lo stesso principio, ma si concentra sulle relazioni fra Stati uniti ed Europa. (4) Prima di diventare ministro, Georges Pompidou era stato banchiere d affari presso Rothschild. Da notare comunque che egli lasciò quest attività nel 1958 per diventare direttore di gabinetto di de Gaulle, e che la legge su richiamata è del 1973 (Traduzione di Marinella Correggia)

16 16 giugno 2015 Le Monde diplomatique il manifesto dossier Da Santiago a Caracas, Storie vere di false bandiere peter martensen Wet Place, 2010 Le «operazioni sotto falsa bandiera» (o, semplicemente, «falsa bandiera»), relativamente diffuse nel corso del XX secolo, sono condotte clandestinamente e in modo tale da addossare la responsabilità a un nemico. Il riferimento a questo tipo di operazioni eccone alcuni esempi ricorre nei discorsi complottisti. 18 settembre I giapponesi accusano i cinesi di un attentato che essi stessi hanno compiuto. L affare, conosciuto sotto il nome di «incidente di Mukden», è il pretesto per l invasione della Manciuria da parte dell impero nipponico. Notte fra il 27 e il 28 febbraio Il Parlamento tedesco, il Reichstag, viene incendiato. I nazisti, al potere, accusano un giovane militante comunista e approfittano del fatto per sospendere le libertà individuali. Furono loro i mandanti dell incendiario? Lo manipolarono? O semplicemente, lo lasciarono fare? Rimangono zone d ombra, ma sulla loro responsabilità non sembrano esserci dubbi. 11 settembre A Parigi, il gruppo di estrema destra La Cagoule compie due attentati contro locali di sindacati padronali, nella speranza di farne accusare i comunisti. Ma le indagini smascherano i veri responsabili Per mezzo della Central Intelligence Agency (Cia), Stati uniti e Regno unito finanziano e organizzano il rovesciamento del primo ministro iraniano Mohammad Mossadegh (operazione «Ajax»). In particolare, piazzano bombe per far accusare i comunisti e destabilizzare il paese. Luglio I servizi segreti israeliani compiono diversi attentati contro edifici britannici e statunitensi al Cairo e ad Alessandria, nella speranza di far accusare i nazionalisti egiziani (operazione «Susannah»). 2-4 agosto Gli Stati uniti simulano un attacco in mare e accusano i nordvietnamiti. L «incidente del golfo del Tonchino», orchestrato dal ministro della difesa Robert McNamara, serve come pretesto per scatenare la guerra del Vietnam. La storia è piena di complotti accertati i quali danno credito alle tesi complottiste. Le relazioni fra gli Stati uniti e l America latina invitano comunque a distinguere fra macchinazioni, strategia di influenza e arte dei rapporti di forza. FRANCK GAUDICHAUD * «I n ogni momento, scriveva nel 1959 il giornalista Herbert Matthews, si pone la questione: se non avessimo l America latina ai nostri confini, la nostra situazione sarebbe drammatica. Senza accesso ai prodotti e ai mercati dell America latina, gli Stati uniti sarebbero una potenza di secondo piano» (The New York Times, 26 aprile 1959). Da questa preoccupazione nasce, agli inizi del XIX secolo, l immagine della regione come «cortile di casa» da proteggere e sottomettere a ogni costo. Inizialmente il progetto veste i panni di una preoccupazione solidale: nel 1823, il presidente James Monroe condanna l imperialismo europeo e proclama «l America agli americani». Ma la sua dottrina non tarda a trasformarsi in strumento di dominio del nord sul sud del continente. A volte in modo violento, altre volte con discrezione, l espansionismo statunitense in America latina ha plasmato a tal punto la storia del continente che molti intellettuali continuano a vedere la longa manus di Washington dietro qualunque ostacolo i poteri progressisti della regione si trovino ad affrontare. Al momento di cercare dei responsabili ai loro problemi interni, i governi latinoamericani non rinunciano mai ad attingere a questo antimperialismo meccanico, talvolta flirtando con le teorie del complotto. Va detto che il sentimento anti-yankee non nasce dal nulla nel continente di José Martí (1): deriva da oltre 150 anni di ingerenze reali, colpi bassi e veri complotti, manifestazioni di una volontà di egemonia che ha conosciuto diverse evoluzioni storiche. Fra il 1846 e il 1848, il Messico si vede sottrarre la metà del territorio a vantaggio del vicino del Nord. In seguito, fra il 1898 e il 1934, i militari statunitensi intervengono 26 volte in America centrale: rovesciano presidenti, ne mettono al potere altri; è il periodo * Maître de conférences all'università Grenoble-Alpes e copresidentte dell'associazione Francia-America latina (Fal). in cui pongono sotto tutela Cuba e Porto Rico (1898) e assumono il controllo sul canale interoceanico dell ex provincia colombiana di Panamá (1903). Ha inizio una fase di imperialismo militare destinato ad accompagnare la «diplomazia del dollaro» e l accaparramento delle risorse naturali da parte di imprese come la United Fruit Company, fondata nel Ma la scatola degli attrezzi imperiale di Washington non assomiglia necessariamente a un armeria. Nel 1924, Robert Lansing, segretario di Stato del presidente Woodrow Wilson, osserva: «Dobbiamo abbandonare l idea di mettere un cittadino statunitense alla presidenza messicana, perché questo ci porterebbe subito a una nuova guerra. La soluzione ha bisogno di più tempo. Dobbiamo aprire le porte delle nostre università a giovani messicani ambiziosi e insegnare loro il nostro modo di vita, i nostri valori e il rispetto della nostra storia politica. ( ) In pochi anni, questi giovani occuperanno ruoli importanti, a partire dalla presidenza. Senza che gli Stati uniti debbano spendere un centesimo o sparare un colpo, faranno quello che vogliamo, e lo faranno meglio e con più entusiasmo di quanto non l avremmo fatto noi stessi (2).» Le università si aprono, senza per questo che i militari statunitensi diventino dei nullafacenti. Nel 1927, in Nicaragua, i marines creano la guardia nazionale, mettendone a capo il dittatore Anastasio Somoza. Con la guerra fredda, Washington sviluppa una nuova dottrina, la «sicurezza nazionale». L onda d urto della rivoluzione cubana (1959), l affermarsi delle guerriglie marxiste soprattutto in Salva- peter martensen The Crooners «Chi crede alla versione ufficiale?» L associazione ReOpen911 si batte per la riapertura dell inchiesta sugli attentati dell 11 settembre. Lo scorso 2 maggio si è svolta la sua assemblea annuale. l resoconto di una giornata all insegna dei dubbi. JULIEN BRYGO * «Q uanti di voi ritengono che le torri del World Trade Center siano crollate in seguito all incendio provocato dall impatto degli aerei e credono alla versione ufficiale?» 2 maggio 2015: solo una mano si alza nella sala del d Artagnan, un ostello della gioventù a Parigi. Una settantina di persone prende parte all assemblea generale dell associazione ReOpen911, che chiede la riapertura dell inchiesta sugli attentati del L uomo che fa la domanda, Richard Gage, si è presentato come presidente dell associazione statunitense Architects & Engineers for 9/11 Truth (Architetti e ingegneri per la verità sull 11 settembre). Appena arrivato dagli Stati uniti, insiste: «Sono venuto per dire la verità e separare i fatti dalla finzione.» Di fronte a un pubblico in gran parte maschile, Gage continua il sondaggio introduttivo: «Quanti di voi hanno dubbi quanto al fatto che le torri siano crollate in seguito all incendio provocato dall impatto degli aerei?» Si alzano dieci mani. L ultima domanda è sufficiente a giudicare il grado di adesione del pubblico alla tesi oggi presentata: «Quanti di voi sono convinti che le torri sono crollate a causa di una demolizione controllata?» «Perché non avete portato i vostri amici?» chiede Gage alle quaranta persone che hanno alzato la mano. «Certamente perché non ne avete più, da quando avete confessato loro che mettete in discussione la versione ufficiale!» Risate in sala. La lunga relazione di Gage, forte delle sue «400 conferenze in 84 città statunitensi e in 35 paesi», può iniziare. Due ore di esposizione con Power Point nel corso delle quali al pubblico, conquistato, viene proposta decine di volte la stessa immagine: quella del grattacielo che cade in modo del tutto simmetrico, perfettamente regolare. La prova, secondo il nostro esperto, di quella che egli chiama «demolizione controllata». «L ultima volta che sono stato intervistato, racconta Arnaud (1), informatico disoccupato, il giornalista mi ha chiesto se penso che Elvis Presley si trovi su un isola deserta con Marilyn Monroe.» Per * Giornalista. questo trentenne che si occupa del sito internet dell associazione, l obiettivo della giornata è far passare l idea che «i dubbi ci sono» e che i sostenitori della «versione ufficiale» non riescono a scioglierli. Sébastien, che lavora saltuariamente a una reception e che si incarica della traduzione e sottotitolazione dei film messi in rete da ReOpen911, precisa il suo punto di vista: «Non dico che lo abbiano fatto gli statunitensi, o il Mossad; dico che non credo alla versione ufficiale. Certo, nell associazione ci sono molti complottisti. Ma siamo anche in tanti ad avanzare semplicemente dei dubbi davanti alle evidenti contraddizioni del rapporto ufficiale. La maggior parte dei membri sono soprattutto colpiti dall impossibilità di qualunque dibattito pubblico in materia. Guardate cos è successo a Mathieu Kassovitz, a Marion Cotillard (2) L 11 settembre è un dogma.» Una comune passione per le demolizioni controllate di edifici Quasi subito, Sébastien cita Alain Soral, «l utile idiota al quale ci paragonano spesso e che ha rovinato tutto aggiungendo alla fine la parola ebreo» (3). Altri si indignano per le ultime affermazioni di Caroline Fourest, Pierre-André Taguieff e Gérard Bronner, considerati i loro principali detrattori in Francia, o ancora per l ultimo libro di Philippe Val, ex direttore di Charlie Hebdo e di France Inter: secondo loro, è fra i personaggi che più si oppongono alla messa in discussione del «dogma». I membri di ReOpen911 hanno ciascuno la propria spiegazione del fenomeno, ma condividono una passione: soffermarsi sulle immagini degli edifici che cadono verticalmente e che, secondo loro, non avrebbero potuto implodere così. A sostegno di questa tesi, il gran sacerdote dell 11 settembre evoca di volta in volta i pompieri e le loro reazioni a caldo, i passanti e i loro commenti in diretta, i confronti con altri edifici dinamitati e specialisti del mondo intero i quali spiegano che fra le macerie è stata trovata la termite, un potente esplosivo. Con un sistema in dieci punti dalla «distruzione improvvisa al livello di impatto degli aerei» alla «presenza di ferro fuso e microsfere di ferro» passando per le «eiezioni laterali di travi di acciaio su 180 metri a 95 chilometri orari», il conferenziere spiega, con l aiuto del puntatore laser, che «nessun aereo è capace di far cadere tonnellate di acciaio strutturale». E anche a non essere esperti della materia, lo choc delle immagini è sufficiente a imprimere al fondo di ogni animo la certezza che «la verità ci viene negata». Va detto che talvolta la storia depone a favore di chi sostiene la teoria del complotto. Arnaud, che si definisce volentieri «di sinistra», invoca lo storico progressista statunitense Howard Zinn e il suo lavoro oggi da tutti riconosciuto di decostruzione della guerra del Vietnam, a partire dall «attacco sotto falsa bandiera di una nave statunitense nel golfo del Tonchino». L attacco al destroyer statunitense USS Maddox, nel 1964, era servito come pretesto per scatenare la guerra del Vietnam. Non erano stati i caccia torpedinieri nordvietnamiti a compiere l attacco, simulato invece dagli Stati uniti. Il presidente di ReOpen911 in Francia, un giovane che si fa chiamare Lixi, cita dal canto suo «i poliziotti mandati nelle manifestazioni per provocare scontri e permettere loro di arrestare i manifestanti. Se non è un complotto questo!». Nella sala, Gage vuole tornare ai «fatti». Primi piani delle macerie, attenta analisi delle travi di acciaio e delle polveri, riesame della simmetria delle cadute. «Non c è solo questo, tiene a ridimensionare Sébastien, un po deluso dalla conferenza. Peccato che ci si sia concentrati solo sulle tre torri, mentre c è tanto altro: l insider trading degli azionisti, i rapporti fra le famiglie Bush e bin Laden, l attentato contro il Pentagono». Se le osservazioni tecnico-architettoniche sembrano appassionare i presenti, è soprattutto il seguito a confermare la convinzione di un auto-attacco statunitense: «Le guerre che ne sono seguite sono costate da a miliardi di dollari, e i media, che rifiutano di riaprire il caso, sono tutti controllati da industriali delle armi, delle banche, delle assicurazioni e del petrolio, settori che l 11 settembre ha grandemente avvantaggiato», si sente dire dal pubblico. «Il 90% dei media sono di proprietà di sei multinazionali. I media hanno un programma, un piano che non corrisponde minimamente al nostro! Dobbiamo diventare noi i media», sottolinea Gage fra gli applausi, prima di far circolare una scatola nella sala chiedendo al pubblico di «regalare un po di euro». L obiettivo è raccogliere centinaia di migliaia di dollari per finanziare una «inchiesta indipendente sul crollo della torre 7 del World Trade Center (4)». (1) Le persone incontrate vogliono mantenere l anonimato. (2) I due attori francesi, che hanno dichiarato alla televisione francese e statunitense di non credere alla versione ufficiale, sono stati bersagliati di critiche. (3) Si legga Evelyne Pieiller, «Francia, confusione rosso-bruna», Le Monde diplomatique/il manifesto, ottobre (4) La torre n. 7 del World Trade Center ha preso fuoco in seguito alla caduta delle torri gemelle. È crollata qualche ora dopo. (Traduzione di Marinella Correggia)

17 dossier Le Monde diplomatique il manifesto giugno la lunga mano di Washington dor e in Colombia e della teologia della liberazione, il tentativo di una «via cilena al socialismo» ( ) e l insurrezione sandinista in Nicaragua (1979) stimolano la crociata anticomunista degli Stati uniti. I 638 tentativi di assassinare Fidel Castro Come mostrano con crudezza le migliaia di documenti di archivio oggi declassificati, la Central Intelligence Agency (Cia) creata nel 1947 e il Pentagono hanno fatto di tutto: campagne mediatiche di destabilizzazione, finanziamenti alle opposizioni, strangolamento economico, infiltrazione nelle forze armate, sostegno a gruppi paramilitari controrivoluzionari. Gli Stati uniti hanno attivamente appoggiato i colpi di Stato che hanno insanguinato la regione (in Guatemala nel 1954, in Brasile nel 1964, in Cile nel 1973, in Argentina nel 1976, ecc.) così come i tentativi di invasione militare (a Cuba nel 1961, in Repubblica dominicana nel 1965 ). Solo contro Fidel Castro si sarebbero verificati 638 tentativi di assassinio fra il 1959 e il Veleno, sigari bomba, macchine fotografiche truccate: la fantasia dei servizi segreti non sembra conoscere limiti. Gli Stati uniti, del resto, formarono centinaia di ufficiali latinoamericani presso la Scuola delle Americhe. Impegnarono uomini e materiali (radio, manuali per gli interrogatori) nell operazione «Condor». Lanciata nel 1975, quest ultima è stata una vera multinazionale delle dittature del cono sud, destinata a individuare, torturare e uccidere oppositori in tutti gli angoli del mondo (3). In questo campo, l azione del governo di Richard Nixon ( ) contro il presidente cileno Salvador Allende è un caso di studio. Ancor prima che il politico socialista assuma le funzioni, il 3 novembre 1970, la Cia, l ambasciata degli Stati uniti e il segretario di Stato Henry Kissinger organizzano un ampia rete di operazioni clandestine per farlo cadere. Nel mese di ottobre, la Cia si mette in contatto con militari golpisti, fra i quali il generale Roberto Viaux. Parallelamente, la situazione viene fatta «maturare» con misure di boicottaggio economico internazionale e sabotaggio (fra le quali il finanziamento dello sciopero dei camionisti nell ottobre 1972). Infine, i dirigenti più conservatori della Democrazia cristiana e della destra cilena ricevono sostegni generosi, come la stampa di opposizione. Secondo un rapporto del Senato degli Stati uniti, «la Cia spese 1,5 milioni di dollari per finanziare El Mercurio, il principale giornale del paese e importante canale di propaganda contro Allende (4)». Figura fra gli ex collaboratori della Cia il suo proprietario, all epoca e oggi, Agustín Edwards. Con la fine delle guerre civili in America centrale e le transizioni democratiche nel Sud, gli Stati uniti cambiano tattica. Negli anni 1990, la promozione del «consenso di Washington» (5) e lo sviluppo delle democrazie neoliberiste nella regione permettono agli Usa di consolidare l egemonia con la difesa del mercato. Nel 1994, il presidente William Clinton propone la creazione di una Zona di libero scambio delle Americhe. «Il nostro obiettivo è garantire alle imprese degli Stati uniti il controllo di un territorio che va dal polo Nord all Antartico (6)» spiegherà alcuni anni dopo il segretario di Stato Colin Powell. Ma Washington non aveva fatto i conti con il rifiuto popolare di queste politiche, e con l arrivo di governi progressisti nella regione. Nel 2005, il progetto di Zona di libero scambio viene respinto. L integrazione dei paesi della regione accelera il passo, a scapito degli Stati uniti, tenuti fuori: creazione dell Unione delle nazioni sudamericane (Unasur) nel 2008, e della Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici (Celac) nel Barack Obama non ha voltato pagina rispetto ad alcuni principi fondamentali. I memorandum di «strategia di sicurezza nazionale» preparati nel 2010 e nel 2015, sottolineano che l America latina rimane una priorità per gli Stati uniti, soprattutto in materia di approvvigionamento energetico ecco spiegata l ossessione di Washington per il Venezuela e di controllo militare continentale. Dal 2008, sono state inaugurate nuove basi (sotto la direzione del comando sud dell esercito statunitense) e sistemi di sorveglianza elettronica, soprattutto grazie all indefettibile alleato colombiano. Gli esperti del Pentagono concepiscono sempre la regione secondo i principi stabiliti da Nicholas Spykman nel 1942 (7): da una parte, una zona di influenza diretta che comprende Messico, mar dei Caraibi e America centrale; dall altra, i grandi Stati dell America del Sud (in particolare Brasile, Cile e Argentina), di cui occorre impedire l unione. A questo scopo, la promozione di accordi di libero scambio è considerata alla fine più efficace rispetto a forme più dirette di intervento (si legga l articolo a pagina 10). Fa parte di questa prospettiva anche il recente riavvicinamento fra Washington e L Avana, che mira a spezzare il crescente isolamento degli Stati uniti nella regione e al tempo stesso aprire loro un nuovo mercato. Di fronte a un America multipolare, sempre più volta all Asia e percorsa da molti movimenti di resistenza sociale, gli Stati uniti usano la diplomazia per mantenere il controllo. Archiviati i colpi di stato militari, gli Stati uniti optano per «golpe istituzionali» Così, la lotta contro i governi latinoamericani che a nord sono considerati populisti si fonda ormai principalmente sul potere di influenza, il soft power: «lavorare» sull opinione pubblica grazie a media privati, ma anche sviluppare una rete di organizzazioni non governative e di fondazioni che ricevono diverse decine di milioni di dollari all anno per «sostenere la democrazia» ispirandosi al modello delle «rivoluzioni colorate» nell Europa dell Est. Il 12 marzo scorso, Diosdado Cabello, presidente dell Assemblea nazionale del Venezuela, denunciava il ruolo di Miriam Komblith, direttrice per l America latina della National Endowment for Democracy (Ned), nel finanziamento all opposizione, e il suo sostegno a sindacati e associazioni antichaviste. peter martensen The Game, 2010 Esagerazioni bolivariane? Non si direbbe. Il 31 marzo 1997, The New York Times riferiva che la Ned era stata ideata per «realizzare alla luce del sole quello che la Cia aveva compiuto di nascosto per decenni». E i documenti resi pubblici da Wikileaks dimostrano che gli Stati uniti hanno finanziato l opposizione venezuelana fin dall arrivo al potere di Hugo Chávez, nel 1998 (8). Nel 2013, il presidente ecuadoriano Rafael Correa ha sospeso ogni attività di cooperazione con l Agenzia degli Stati uniti per lo sviluppo internazionale (Usaid), mentre il suo omologo boliviano Evo Morales ha espulso questa organizzazione «indipendente» affermando che era in atto una «cospirazione» contro il presidente e il suo governo. Comunque il Dipartimento di Stato non ha abbandonato i buoni vecchi metodi; lo ha dimostrato in particolare il colpo di Staro contro Chávez nell aprile In Hunduras (2009), e in Paraguay (2012), «colpi di Stato istituzionali» hanno avuto il sostegno delle oligarchie locali e in seguito di Washington (9). Il metodo consiste nel destituire dirigenti democraticamente eletti, ma ritenuti troppo veementi, con l avallo di una parte dei parlamenti nazionali. Complotto o arte dei rapporti di forza? Il confine non è così netto FRANCK GAUDICHAUD (1) José Martí ( ),fondatore del Partito rivoluzionario cubano, è uno degli eroi dell indipendenza dell America latina. (2) Citato da James D. Cockcroft, Mexico s Revolution. Then and Now, Monthly Review Press, New York, (3) Cfr. John Dinges, Les Années Condor. Comment Pinochet et ses alliés ont propagé le terrorisme sur trois continents, La Découverte, Parigi, (4) «Covert Action in Chile », Rapporto Church, Senato degli Stati uniti, Washington, Dc, (5) Si legga Moisés Naim, «Il consenso di Washington colto in fallo», Le Monde diplomatique/il manifesto, marzo (6) «Les dessous de l Alca (Zona di libero scambio delle Americhe)», Alternatives Sud, vol. 10, n. 1, Centre tricontinental (Cetri), Louvain-la-Neuve (Belgio), (7) Nicholas Spykman, America s Strategy in World Politics: The United States and the Balance of Power, Harcourt, New York, (8) Jake Johnston, «What the Wikileaks cables say about Leopoldo López», Center for Economic and Policy Research, Washington, Dc, 21 febbraio (9) Cfr. Maurice Lemoine, Les Enfants cachés du général Pinochet, Don Quichotte, Parigi, (Traduzione di Marinella Correggia) Un ossessione nel mondo arabo Le teorie del complotto tornano in auge anche nel mondo arabo. E permettono alle popolazioni e ai loro governi di eludere le proprie responsabilità di fronte a determinati avvenimenti. AKRAM BELKAÏD * N ovembre Il quotidiano egiziano privato Al-Masri Al- Youm pubblica un articolo secondo il quale Tzipi Livni, ex ministra degli esteri israeliana, avrebbe ammesso sulle colonne del giornale britannico The Times di aver avuto rapporti sessuali con diverse personalità arabe nel periodo in cui era agente del Mossad. Un mercimonio carnale destinato «a coinvolgerli in scandali sessuali, farli confessare e sottrarre loro informazioni segrete e concessioni politiche a favore di Israele (1)». La rivelazione, subito rilanciata dalle reti sociali e da diversi media, soprattutto televisivi, incendia il mondo arabo. Da Rabat a Mascat passando per Il Cairo, diversi editorialisti vi vedono una nuova prova del complotto permanente dello Stato ebraico contro i suoi vicini. Quasi subito Al-Masri Al-Youm fa marcia indietro e chiede scusa ai lettori: Livni non ha mai fatto quella dichiarazione, né su The Times né altrove. «Troppo tardi. L informazione si è propagata alla velocità della luce. Le nostre smentite non sono servite a niente. Ancor oggi, molta gente è convinta che Tzipi Livni abbia avuto rapporti sessuali con dirigenti arabi, in particolare palestinesi, per indurli a confessare segreti o per ottenere successi diplomatici per Israele», osserva un ex giornalista del quotidiano. Una rapida verifica lo conferma: siti internet, forum e anche giornali continuano a riprendere quest affermazione falsa, senza indicare la smentita di Al-Masri Al-Youm. In quell occasione, il giornalista e poeta druso israeliano Salman Masalha stigmatizzò tutte le grandi firme che si erano lasciate ingannare dal famoso articolo e che non avevano riflettuto sulle cause della loro credulità (2). Il suo appello alla ragione non ebbe un grande effetto, talmente l idea del complotto è onnipresente nel mondo arabo. Certo, succede spesso che la mouamara termine che indica appunto un complotto o una cospirazione sia considerata di primo acchito un invenzione e inserita nella rubrica delle * Giornalista. informazioni insolite. Accadde nel 2010, quando Mohamed Abdel Fadil Shousha, all epoca governatore della regione meridionale del Sinai, evocò la pista degli squali assassini che sarebbero stati disseminati nel mar Rosso dal Mossad affinché attaccassero i bagnanti nella località balneare di Sharm el Sheikh, così da nuocere al turismo egiziano (3). Ma la teoria del complotto nasce anche per spiegare fatti importanti. Gli attentati dell 11 settembre continuano a essere in gran parte considerati, in tutti gli ambienti, una sordida macchinazione nella quale Israele avrebbe giocato un ruolo di primo piano. Anche le rivolte arabe del 2011, con quel che ne è seguito in termini di instabilità e moltiplicazione dei conflitti, sono considerate alla stregua di azioni invisibili delle grandi potenze occidentali. Passata l euforia dei primi tempi, in particolare dopo le dimissioni forzate dell ex presidente egiziano Hosni Mubarak, le spiegazioni complottiste si sono velocemente diffuse a tutti i livelli della società. In Algeria come in Marocco o nelle monarchie del Golfo, non è infrequente ascoltare o anche leggere che la Central Intelligence Agency (Cia), i servizi segreti francesi e il Mossad hanno spinto i popoli arabi a rivoltarsi per spargere il caos e rafforzare l influenza di Israele (4). «I servizi segreti influenzano l opinione pubblica diffondendo voci» Questa griglia di lettura si applica anche alla situazione siriana. Malgrado la violenza esercitata contro il suo popolo, Bashar al Assad e il suo regime sono presentati come vittime di un piano astutamente concepito a Washington per indebolire uno dei rivali regionali dello stato ebraico (5). L Egitto del presidente Abdel Fatah al-sisi non sfugge a questo tipo di analisi. Le autorità tendono in genere a evitare il tema, ma i loro agganci in diverse trasmissioni televisive affermano tranquillamente che le oceaniche manifestazioni del 2011 contro il presidente Mubarak facevano parte di un complotto ordito da Stati uniti e Israele una variante aggiunge il Qatar alla lista dei congiurati per portare al potere i Fratelli musulmani e minare la potenza dell Egitto. «La teoria del complotto nel mondo arabo, è innanzitutto un incoraggiamento all irrazionalità, fa notare un diplomatico giordano che lavora a Ginevra. La sua forza è che può sostenere tutto e il contrario di tutto senza che la si possa contestare, visto che gli argomenti più razionali vengono spazzati via in un baleno. Si è proiettati in un universo fantasmagorico nel quale la logica elementare non ha più alcun ruolo.» I dirigenti politici arabi, che vogliono occultare le proprie manchevolezze e squalificare il nemico, hanno una grande responsabilità nella diffusione e nella forza persistente di simili congetture. In Marocco, il vicino algerino si vede accusato di tutti i mali a causa della sua posizione nel conflitto del Sahara occidentale. Per esempio, alla fine degli anni 1990, giornali vicini al potere e servizi di sicurezza sospettarono Algeri di pressioni sulle grandi compagnie occidentali perché queste rinunciassero a cercare il petrolio nel sottosuolo del regno si spiegherebbe così il fatto che tuttora il Marocco non è un produttore di idrocarburi. In Algeria, il complotto viene sempre ricondotto alla Francia, l ex potenza coloniale che continuerebbe a tirare i fili, per esempio favorendo una fazione del potere o un altra. Molti algerini, anche quelli nati diversi decenni dopo l indipendenza, sono convinti che il secondo ufficio espressione a lungo usata per indicare i servizi segreti francesi ( ) continui a decidere le sorti del loro paese. L idea che Parigi controlli i dirigenti algerini si ritrova in tutto l arco delle forze politiche; dagli islamisti ai nazionalisti del Fronte di liberazione nazionale (Fln), tutti continuano a evocare l esistenza dello hizb frança, il «partito della Francia». Al di là delle particolarità nazionali, il successo delle teorie complottiste si spiega essenzialmente con il ruolo delle mukhabarat, o «servizi segreti», nel mondo arabo. «I servizi di sicurezza influenzano l opinione pubblica diffondendo continuamente voci», spiega un analista del Centro di studi politici e strategici del quotidino al Ahram del Cairo. «Voci che confermano un certo modo di vedere il mondo e rafforzano la convinzione che esistano ovunque complotti. È una costante del mondo arabo. In questo momento, basta far dire nei bar e per strada che i giovani militanti democratici prendono soldi dall Occidente per accreditare l idea che le loro rivendicazioni si inquadrano in un complotto contro la sovranità dell Egitto.» Come ammette uno specialista algerino dei servizi di sicurezza, i rumors sono sempre stati «esercizi» organizzati dalla Sicurezza militare per testare la credulità delle folle e consolidare l idea del persistere delle minacce anti-algerine. «Più il tempo passa e più sono stupito e rattristato dal susseguirsi delle teorie complottiste e dal successo che riscuotono nei nostri paesi», confessa dal canto suo il sociologo algerino Nacer Jabi, il quale vi legge la propensione di alcuni suoi concittadini a cercare giustificazioni più o meno razionali a quello che non è giustificabile: «Succede un attentato, e lo si relativizza, si cercano spiegazioni dilatorie, si trovano scuse a questo o quell atto di violenza.» Per questo universitario che con- continua a pagina 18

18 18 giugno 2015 Le Monde diplomatique il manifesto dossier I dieci principi Pur prendendo di mira obiettivi molto diversi, le tesi complottiste hanno elementi costanti, dovuti a una meccanica intellettuale fondata su alcuni principi di base. Benoît Bréville 1. NON PARLARE MAI DI COMPLOTTO «Nella Rivoluzione francese tutto, fino ai fatti più spaventosi, tutto è stato previsto, combinato, deciso; tutto è stato ( ) guidato da uomini che muovevano, da soli, il filo delle cospirazioni da tempo ordite nelle società segrete, e che hanno scegliere e affrettare i momenti favorevoli al complotto.» Alla fine del XVIII secolo, quando l abate Augustin de Barruel scrive queste frasi, quelli che vedono ovunque complotti si esprimono apertamente. Parlano di cospirazione, società segrete, congiure. Oggi il vocabolario è cambiato. «Credo di non aver mai utilizzato quel termine [complotto] nel mio libro. In effetti, parlo piuttosto di progetto di dominio, di rete di dominio», spiega Alain Soral il 23 marzo 2011 su Rfi. Come i suoi alleati Dieudonné e Thierry Meyssan altre due punte di lancia del cospirazionismo francese, egli afferma soprattutto di diffidare delle «versioni ufficiali» e di proporre «informazioni alternative». Il motto del sito Stop Mensonges è «La verità di renderà liberi»; per Wikistrike, «niente e nessuno è più importante della verità». Quanto al cattolicissimo Media-Presse-Info, si presenta come «un mezzo originale che si propone di divulgare l informazione con oggettività deliberata, libera e senza concessioni». Come rimproverarglielo? 2. RIVENDICARSI COME AVANGUARDIA «Diciamolo nettamente: non credo alla versione ufficiale con la quale i media ci bombardano», dice con orgoglio un collaboratore di Media-Presse-Info (1). Questo dubbio permanente suscita la gradevole impressione di far parte di un avanguardia illuminata, di essere fra quelli che non si fanno prendere in giro. «Ammettere che qualcosa non va nella tesi ufficiale, capire come questa sia stata fabbricata, è un lavoro su [se stessi] che molte persone non sono capaci di fare, che la maggioranza non è capace di fare» spiega, piuttosto compiaciuto, l attore Mathieu Kassovitz in un video messo su internet in occasione del decimo anniversario dell 11 settembre. Lo stesso senso di superiorità mostra l amministratore del sito Stop Mensonges, un «francese che vive negli Stati uniti»: «Da quando sono in grado di lavorare con l inglese, non faccio che scoprire in rete informazioni non disponibili in francese. Sono per la maggior parte incredibili, di difficile accesso per i nostri cervelli condizionati fin dalla nascita dai media ufficiali e dall educazione tradizionale.» Il piacere di far parte degli iniziati, la convinzione di disporre di informazioni riservate a un piccolo numero di persone, di non far parte del gregge, contribuisce al fascino esercitato dalle teorie complottiste. 3. FONDARSI SULLA SCIENZA E SULLA RAGIONE Il potere di seduzione di queste teorie dipende anche dal fatto che sembrano scientifiche e razionali. I testi cospirazionisti abbondano di note a piè di pagina, rimandi a ipertesti, grafici che danno loro un apparenza pseudo-universitaria. L articolo dedicato al «magico crollo della torre Wtc 7» sul sito di ReOpen911 è un modello nel genere. Piani tridimensionali, fotografie aeree, video austeri e tecnici (uno dei quali dura oltre due ore), lo studio di un «ex-ricercatore del Cnrs in geologia-geofisica e specialista delle onde acustiche» e un «documento di sintesi prodotto da architetti e ingegneri» dimostrerebbero che il crollo dell edificio fu una demolizione programmata. Dietro questa maschera sapiente si cela in realtà un circuito di informazioni chiuso, nel quale siti complottisti rimandano ad altri siti complottisti, a libri pubblicati da case editrici complottiste (come Demi Lune in Francia) e a lavori di «ricercatori» isolati e controversi negli ambienti universitari. Questo modo di funzionare è evidente sul sito del Réseau Voltaire, con Meyssan che cita continuamente se stesso. 4. CHIEDERE: A CHI GIOVA IL FATTACCIO? «Chi ha davvero compiuto l attacco?, chiede il sito di Dieudonné, Quenel Plus, riguardo agli attentati contro Charlie Hebdo. Chi l ha ordinato? A chi giova questo crimine? (2)» L ultima domanda, consentendo di individuare un responsabile per ogni evento, è all origine di tutte le teorie del complotto. La popolarità di François Hollande è molto aumentata dopo le stragi del 7, 8 e 9 gennaio a Parigi? Tanto basta a Media-Presse-Info per insinuare la responsabilità del presidente francese nella paternità dei fatti: «Ci sono i servizi segreti dietro l attentato?, chiede una collaboratrice. In effetti ci sono diversi elementi inquietanti ( ) Hollande è stato capace di approfittare [sic] con un tempismo notevole l effetto di questo attentato grazie al quale, senza aver migliorato nulla della situazione economica o sociale della Francia, è schizzato su nei sondaggi Porsi la domanda A chi giova il misfatto? è darsi la risposta (3).» Secondo Meyssan, l attentato giova soprattutto a Washington, che punta sulla crescita del razzismo anti-musulmano per attuare il suo piano di dominio in Medioriente. «I mandanti degli attentati contro Charlie Hebdo non hanno cercato di soddisfare jihadisti o talebani, ma neoconservatori o falchi liberisti», sostiene già il 7 gennaio E Quenel Plus solleva un altro sospetto: il sito ritiene «del tutto plausibile» la teoria di un ex generale russo secondo il quale «l attacco terroristico perpetrato in Francia è opera di mercenari, reclutati da Stati uniti e Israele, con l obiettivo di distruggere l immagine dell islam (4)». In realtà, la domanda «chi trae vantaggio dal misfatto?» se può essere utile per capire certi eventi, non permette però mai di individuarne i responsabili a colpo sicuro. L assassinio del presidente francese Sadi Carnot nel 1894 consentì a Jean Casimir-Perier di arrivare all Eliseo. Dunque, fu quest ultimo il mandante dell anarchico italiano Sante Geronimo Caserio? La prima guerra mondiale rese possibile la rivoluzione bolscevica; dovremmo allora dedurne che l attentato di Sarajevo fu compiuto da un comunista? peter martensen Recovery, CERCARE I «DETTAGLI INQUIETANTI» Una volta indicato il colpevole, gli adepti della teoria del complotto individuano tutti i «dettagli inquietanti» e le «anomalie» che permettano di contestare la versione ufficiale e di costruire una coerente macchina di persuasione. Se alcuni argomenti relativi al crollo delle torri gemelle a New York richiedono conoscenze molto specifiche per essere contraddetti, altri sembrano subito più balzani. «Membri o simpatizzanti del Fratelli musulmani, di al Qaeda o di Daesh non si sarebbero accontentati di uccidere dei vignettisti atei; prima di tutto avrebbero distrutto gli archivi del giornale sotto i loro occhi» afferma Meyssan per suffragare l idea che la missione dei fratelli Kouachi «non ha nessun collegamento con l ideologia islamista». Il punto fondamentale non è tanto la solidità degli argomenti quanto il loro numero. Alcuni mesi dopo le stragi di Tolosa e di Montauban, perpetrate nel marzo 2012, Hicham Hamza elencava su Oumma.com «le 72 anomalie dell affaire Mohammed Merah» (5): «Come ha fatto Mohammed Merah a procurarsi un giubbotto antiproiettile della polizia, della taglia chiamata gendarmette, adatto alla sua corporatura esile?»; «Perché Merah avrebbe dovuto uccidere un poliziotto che apprezzava?»; «Chi ha mandato la foto del cadavere di Merah alla rivista Entrevue?», ecc. Alle domande prese una per una non è difficile rispondere; tuttavia il loro insieme semina il dubbio. 6. RIFIUTARE LA CASUALITÀ Per raccogliere il maggior numero di particolari inquietanti, bisogna affermare che il caso non esiste, che ogni elemento è significativo. La concomitanza di due eventi è dunque sempre interpretata in termini di causalità. Così, il suicidio, l 8 gennaio 2015, del numero due della polizia di Limoges, appena incaricato di una missione nel quadro dell attentato a Charlie Hebdo, è diventato un «fattore inquietante». I cospirazionisti sono anche semiologi impareggiabili. Se una banconota o un pacchetto di sigarette hanno un triangolo, ecco una traccia dei massoni. Il principio è antico: alcuni anni dopo la rivoluzione francese, l abate Barruel già attribuiva ai massoni la forma triangolare della lama della ghigliottina. Succede lo stesso con la stella ebraica. Louis Farrakan, dirigente dell organizzazione religiosa statunitense Nation of Islam, spiega che le tredici stelle sul biglietto verde formano, a collegarle fra loro, i contorni della stella di David. Questo giochetto che consiste nel cercare la firma che l assassino lascerebbe sul luogo del delitto ha anche una variante numerologica. Secondo un articolo di Wikistrike, gli attacchi contro il World Trade Center sono avvenuti l 11 settembre, cioè 9.11, o 911 (6), come il numero di telefono della polizia negli Stati uniti; quelli contro Charlie il 7 gennaio, cioè 1.7, o 17, come il numero della polizia francese. Un altro «particolare inquietante» RIFARSI ALLA STORIA La storia è spesso utilizzata a sostegno delle teorie del complotto e serve a correlare eventi disparati. Le operazioni sotto falsa bandiera [false flag], numerose nella storia (si legga qui a lato), sono brandite in maniera automatica per provare la colpevolezza dei servizi segreti francesi, statunitensi o israeliani nelle attuali azioni terroristiche. «Non dimentichiamo i precedenti storici», avverte Meyssan rispetto agli attacchi contro Charlie Hebdo, prima di far notare «che nel corso degli ultimi anni abbiamo visto i servizi segreti statunitensi o della Nato: sperimentare in Francia gli effetti devastanti di certe droghe su popolazioni civili; sostenere l Osa [Organisation de l armée secrète] per cercare di assassinare il generale de Gaulle; procedere ad attentati sotto falsa bandiera contro civili in diversi Stati membri della Nato». continua da pagina 17 Un ossessione nel mondo arabo danna anche la mutevolezza d opinione nei confronti dei dittatori arabi deposti, di colpo trasformati in benefattori da rimpiangere, quest inclinazione al complottismo si spiega con «l abbandono o l inesistenza della coscienza di essere cittadini, la negazione del dibattito e del contraddittorio, il rifiuto delle proprie responsabilità. Il colpevole è sempre qualcun altro». Tanto più che nella storia del mondo arabo-musulmano i complotti veri non mancano; si pensi all operazione «Susannah», nel 1954 (si legga a pagina 16 «Storie vere di false bandiere»). In un mondo arabo che fa fatica a imporsi come attore di primo piano sulla scena internazionale, la teoria del complotto permette di attribuire la colpa a soggetti terzi, soprattutto quando sono occidentali, evitando un autocritica che i regimi non vogliono. Un fatto illustrato perfettamente con le diverse spiegazioni avanzate di fronte all avanzata dell Organizzazione dello Stato islamico o Daesh. «È molto più facile dire che Daesh è stato creato dagli imperialisti, piuttosto che riflettere sui nostri demoni interni. Così evitiamo di interrogarci sul fanatismo e sugli errori compiuti in nome della religione», ritiene Amer Murad, giovane insegnante iracheno. La permeabilità del mondo arabo rispetto alle teorie del complotto risalirebbe addirittura ai primi tempi dell islam. Come sottolinea Mohamed Ourya, dottorando all università di Sherbrooke (Canada), il mondo musulmano è pervaso dall idea che «gli ebrei [di Medina] hanno complottato contro Maometto» e lavorato per impedire la crescita dell islam (6). Lungi dall essere considerate una semplice peripezia degli inizi dell islam, le relazioni difficili, talvolta violente, fra i primi credenti e le tribù ebraiche dell Arabia sono continuamente commentate e sono oggetto di numerosi scritti ed estrapolazioni, che cancellano secoli di coabitazione, spesso più pacifica che in Occidente. Per Ourya, quest ossessione storica si traduce nella tendenza a spiegare ogni grande fatto come un complotto che è parte di una lunga serie di attacchi contro l islam. Lo studioso ricorda ad esempio che, in ogni periodo, teologi musulmani hanno insistito sul ruolo giocato nel 656 da un certo Abdallah ibn Saba, ebreo convertito all islam, in un complotto contro il potere di Othman, il terzo califfo dopo il profeta. Questa cospirazione (che gli sciiti negano) portò alla fitna o «grande discordia» le cui conseguenze politiche e teologiche condizionano tuttora il mondo musulmano. Ecco perché, in Arabia saudita come in altri paesi a predominanza sunnita, si ascoltano spesso predicatori affermare con veemenza che la nascita dello sciismo, la seconda branca dell islam, dovuta proprio alle dispute di successione dopo la morte del profeta, è un «complotto ebraico». Ce n è abbastanza per essere convinti che ogni passo per ridurre l impatto delle teorie complottiste nel mondo arabo implica una rilettura più pacata e razionale della storia del mondo musulmano e dell islam. AKRAM BELKAÏD (1) Pubblicato on line il 2 novembre 2012, e il giorno successivo nell edizione cartacea, l articolo è poi stato ritirato dal sito Internet del quotidiano. (2) Salman Masalha, «Pourquoi les Arabes préfèrent-ils le mensonge à la vérité?» (in arabo), Elaph.com, 26 novembre (3) Yolande Knell, «Shark attacks not linked to Mossad says Israel», Bbc News, Londra, 7 dicembre (4) «Le document secret qui prouve que le printemps arabe a été provoqué par les Etats-Unis», Algeriepatriotique.com, 13 giugno (5) «En Syrie, c est une guerre impérialo-sioniste qui vise l islam et la chrétienté», Tunisie-secret.com, 22 giugno (6) Mohamed Ourya, «Le complot dans l imaginaire arabo-musulman», tesi di dottorato in scienze politiche, Université du Québec à Montréal (Uqam), febbraio (Traduzione di Marinella Correggia) La faccenda degli esperimenti con droghe rimanda a fatti dell estate 1951, quando decine di abitanti di Pont-Saint-Esprit, un piccolo paese del Gard, accusarono dolori addominali, nausea, malesseri e anche allucinazioni. Mezzo secolo dopo, l enigma non era ancora svelato, ma si stava delineando una pista solida un fungo parassita della segale. Ma nel 2009, un giornalista statunitense che indagava sul suicidio di un agente della Central Intelligence Agency (Cia) nel 1953 ha affermato di aver trovato l arcano. Basandosi sulla testimonianza di due ex agenti segreti e su un documento della Cia che faceva riferimento all incidente di Pont-Sant-Esprit, egli ha attribuito i malesseri a un operazione della Cia che avrebbe disseminato Lsd su grande scala per testarne gli effetti come arma d offesa. La maggior parte degli specialisti continua a puntare sul fungo, ma non è possibile confutare del tutto l altra ipotesi; così ecco una seconda mano di teoria del complotto che si aggiunge alla prima. 8. MAI SOTTOVALUTARE IL NEMICO Gli adepti delle teorie del complotto hanno una fede assoluta nell infallibilità dei loro nemici. Secondo loro è impossibile che un gruppo di uomini rintanati in una grotta in Afghanistan abbia potuto, da solo, distruggere il World Trade Center: i servizi segreti statunitensi, così potenti, avrebbero certo potuto impedirglielo. «Sulla base delle procedure abituali in caso di aerei dirottati, non uno di quegli aerei avrebbe dovuto essere in grado di arrivare all obiettivo, figurarsi tre», scrive David Ray Griffin in Le Nouveau Pearl Harbor (Demi Lune, 2006). Ragiona allo stesso modo il sito di Soral, riguardo ai fratelli Kouachi: «Un autentica volontà di smantellare le reti islamiste avrebbe dovuto indurre le nostre forze speciali che ne hanno ampiamente i mezzi a far di tutto per prenderli vivi, così da farli parlare». In realtà, i fallimenti delle forze di polizia e militari sono stati frequenti. Benché preparata con cura, l operazione Eagle Claw destinata a liberare, nell aprile 1980, gli ostaggi rinchiusi nell ambasciata statunitense a Tehran fallì miseramente a causa di una tempesta di sabbia, di inconvenienti vari e della mancanza di elicotteri. Alcuni mesi dopo, un uomo da solo, John Hinckley Jr, riusciva ad aggirare la vigilanza dei servizi di sicurezza a protezione di Ronald Reagan e sparava sei colpi di rivoltella contro il presidente degli Stati uniti. Nell ottobre 1983, a

19 dossier Le Monde diplomatique il manifesto giugno della retorica complottista Beirut, in piena guerra del Libano, due attentati quasi simultanei uccisero circa trecento militari statunitensi e francesi. Allora, se si vuole giocare alle analogie storiche, perché non confrontare i fallimenti che hanno permesso gli attentati dell 11 settembre 2011 o del 7 gennaio 2015 con questi precedenti statunitensi e francesi? 9. MAI SOPRAVVALUTARE IL NEMICO I complottisti sono convinti che i loro nemici siano troppo potenti per essere sorpresi, ma al tempo stesso continuano ad attribuire loro errori da debuttanti. Per esempio, secondo alcune teorie nessun astronauta avrebbe mai camminato sulla Luna nel 1969; le immagini sarebbero state fabbricate negli Stati uniti per allarmare l Unione sovietica. La prova sarebbe che non ci sono stelle nel cielo sulle fotografie di Neil Armstrong. Dunque, gli statunitensi sarebbero stati capaci di ingannare l intero pianeta con un allunaggio fasullo, ma sarebbero peter martensen Manual stati così sciocchi da dimenticare di piazzare qualche stella nel loro cielo finto. Lo stesso paradosso si verifica nelle teorie del complotto più recenti. La carta d identità del maggiore dei fratelli Kouachi è stata ritrovata in un automobile abbandonata a Parigi. Una distrazione così grande da essere subito ritenuta inverosimile: la polizia avrebbe dunque piazzato là il documento per incriminare i due uomini. Ma, per evitare di sollevare sospetti, una polizia astuta non avrebbe potuto, piuttosto, ricorrere a false tracce di Dna? 10. RIFIUTARE LA CONTRADDIZIONE Una teoria del complotto, infine, deve rifuggire da ogni contraddizione. Si può riprendere l vicenda, ricca di domande, del primo allunaggio statunitense, per il quale i chiarimenti arrivarono subito: la bandiera oscillava in assenza di vento perché aveva un sostegno; l aspetto non parallelo delle ombre sul suolo era dovuto a un effetto prospettico; l assenza di stelle dipendeva dalla necessaria regolazione dell apparecchio fotografico, ecc. Eppure, a distanza di 50 anni, decine di siti e diversi libri continuano a mettere in dubbio l evento ritornando sulle stesse «prove». Per non essere mai smontati da una controtesi, basta squalificarne la fonte. La National Aeronautics and Space Administration (Nasa) sostiene che la bandiera aveva un sostegno? Mente, perché è in combutta con la Cia. Ci sono testimoni che affermano di aver visto un aereo sfondare il Pentagono? E normale, sono al servizio del governo statunitense. Dopo l 11 settembre, molti scettici sostennero che il governo statunitense nascondeva le registrazioni delle voci nell aereo precipitato in Pennsylvania. L amministrazione Bush finì per autorizzare le famiglie delle vittime ad ascoltare le registrazioni. Tuttavia, fa notare Charles Pidgen, nessun complottista ha fatto ammenda (7). In ogni caso, le «prove» raccolte sono così numerose che la demolizione di una di loro non può mettere a repentaglio l edificio nel suo insieme. Benoît Bréville (1) Louis Lorphelin, «Charlie Hebdo: posons-nous les vraies questions», Médias- Presse-Info, 10 gennaio (2) «Terrorisme semi-professionnel ou leurre?», Quenelplus.com, 8 gennaio (3) Emilie Defresne, «Je ne suis pas Charlie, manifestation monstre en Tchétchénie», Médias-Presse-Info, 19 gennaio (4) «Pour le général Ivachov, l attentat à Charlie Hebdo est l oeuvre de mercenaires», Quenelplus.com, 8 gennaio (5) Hicham Hamza, «Les 72 anomalies de l affaire Mohamed Merah», Oumma. com, 25 luglio (6) In inglese, la scrittura delle date in cifre richiede che il mese preceda il giorno. (Traduzione di Marinella Correggia) peter martensen The Secret, 2009 Complotti in sfrenata competizione Scientifiche e razionali in apparenza, le teorie del complotto lasciano un grande spazio all immaginazione. Lo stesso evento può suscitare narrazioni diverse e contrapposte. Ecco cinque fra le teorie più diffuse riguardo all 11 settembre. 1. I due aerei che hanno urtato il World Trade Center non sono stati dirottati da pirati dell aria: sono stati teleguidati a distanza dall esercito statunitense. Il saggista Don Paul è stato uno dei primi a proporre questa ipotesi, in un libro pubblicato nel 2002 («09/11»: Facing Our Fascist State). 2. Le torri gemelle non sono state colpite da nessun aereo: si trattava in effetti di ologrammi. Una teoria portata avanti in particolare dallo statunitense John Lear, presentato dal sito Stop mensonges come «uno dei piloti militari e civili più decorati del mondo». 3. Gli aerei sono stati sì dirottati da pirati dell aria, non legati però legati ad al Qaeda, bensì ai servizi segreti occidentali, i quali hanno fomentato l attentato per mobilitare la popolazione a favore della «guerra contro il terrorismo» voluta dai neoconservatori di Washington. Il giornalista tedesco Jürgen Elsässer sostiene che la maggior parte dei pirati dell aria «lavoravano o avevano lavorato per i servizi segreti: Cia, Mi6 inglese o Bnd tedesco». 4. I pirati dell aria erano al servizio di al Qaeda. Ma i servizi segreti statunitensi erano al corrente del loro progetto di attentato e li hanno lasciati fare. Questa teoria del «lasciar fare deliberato», in inglese Lihop (let it happen on purpose) è una delle più diffuse negli Stati uniti. 5. I pirati dell aria erano agenti del Mossad israeliano. Hanno agito per far accusare i paesi arabi di terrorismo e giustificare l invasione dell Iraq e dell Afghanistan. Alan Sabrosky, «ex docente dello US Army War College e della US Military Academy», vede nell 11 settembre una «operazione nello stile classico del Mossad». Non si salva nessuno Al contrario di quanto sostengono alcuni dei loro detrattori, i complottisti non sono individui irrazionali: le loro convinzioni si fondano su ragionamenti relativamente normali, spinti però un po troppo in là MARINA MAESTRUTTI* Q uanto siete d accordo con le teorie che seguono, da 1 = «Per niente» a 7 = «Completamente»? 1. L Aids è un prodotto di laboratorio, sviluppato per la precisione dal governo statunitense. 2. La missione Apollo non è mai atterrata sulla Luna e le immagini mostrate alla popolazione terrestre sono state un trucco della Central Intelligence Agency (Cia). 3. L assassinio di John F. Kennedy non è stato compiuto da un attentatore isolato, ma il risultato di una macchinazione. 4. La principessa Diana non è morta in un incidente automobilistico, è stata assassinata Come fanno Pascal Wagner-Egger e Adrian Bangerter, autori di questo test (1), da diversi anni la psicologia sociale tenta di analizzare i meccanismi di adesione alle teorie del complotto. Considera queste teorie come costruzioni collettive, una delle forme di espressione del «pensiero sociale» (2). Questa disciplina si è interessata in particolare dei bias che, nel nostro abituale modo di ragionare, favoriscono la diffusione e la persistenza del complottismo. Troviamo in primo luogo il bias di congiunzione», cioè la tendenza ampiamente condivisa a sovrastimare la probabilità che due fatti distinti siano in realtà correlati. L hanno verificato Daniel Kahneman e Amos Tversky con un esperimento nel 1983 (3). I due ricercatori hanno proposto a diversi soggetti un testo che tracciava il ritratto di Linda, 31 anni, laureata in filosofia, schierata a sinistra e con un passato di militanza in movimenti antirazzisti. Alla domanda «È più probabile che Linda sia impiegata di banca (risposta A)? o impiegata di banca e femminista (risposta B)?», quasi il 90% dei partecipanti ha risposto B. Un giudizio fondato più sulle caratteristiche del ritratto di Linda fornito in precedenza che sulla probabilità intrinseca dell ipotesi in effetti, è più comune essere solo impiegata di banca che al tempo stesso impiegata e femminista. I soggetti sono stati indotti a un errore di congiunzione da stereotipi e da considerazioni sociali impliciti a partire dal ritratto di Linda. * Professore associato di sociologia all università Paris-1 -Panthéon-Sorbonne. Autrice di Imaginaires des nanotechnologies. Mythes et fictions de l infiniment petit, Vuibert, Parigi, Questo bias opera in modo diretto nelle teorie del complotto. Olivier Klein e Nicolas Van der Linden lo hanno messo in evidenza a proposito dell 11 settembre: confrontati con due informazioni distinte la scoperta di acciaio fuso nelle macerie delle torri gemelle, l assenza di reazione da parte dell amministrazione Bush alle informazioni secondo le quali individui vicini ad al Qaeda si formavano nelle scuole di pilotaggio, la maggior parte dei partecipanti hanno ritenuto la probabilità congiunta di questi due elementi più elevata della loro probabilità separata (4). Gioca un ruolo favorevole alle teorie del complotto anche il «bias di intenzionalità», che interviene nelle modalità di attribuzione causale. Lo hanno studiato di recente John McClure, Denis J. Hilton e Robbie M. Sutton (5). Hanno presentato a chi partecipava all esperimento diversi resoconti di un incendio, variandone le cause: intenzionale (un atto delittuoso), o fortuita (sole, calore). Quando è stato chiesto ai partecipanti quale versione ritenessero la più plausibile, la maggioranza si è pronunciata per l incendio doloso. Questo bias spiega in parte perché alcuni preferiscano le spiegazioni fornite da una teoria complottista, soprattutto quando la versione ufficiale manca invece di intenzionalità (la morte di Diana Spencer, il dilagare dell Aids) o ha un intenzionalità dubbia (l 11 settembre, gli attentati a Charlie Hebdo). Il solo fatto di trovarsi di fronte a certe tesi incoraggia l adesione Ed ecco il «bias per semplice esposizione». Diversi lavori hanno mostrato che il solo fatto di trovarsi di fronte a certe tesi incoraggia inconsciamente l adesione alle stesse. I ricercatori Karen Douglas e Robbie M. Sutton si sono proposti di misurare le condizioni di adesione alle versioni dissonanti circa la morte della principessa Diana. Il gruppo di studenti al quale Douglas e Sutton hanno fornito affermazioni a sostegno dell ipotesi dell assassinio manifestavano un adesione, a questa tesi, superiore a quella del gruppo al quale invece era stata proposta l ipotesi dell incidente (6). Precisando i contorni di questo bias, Daniel T. Gilbert e la sua équipe hanno analizzato il modo in cui il nostro giudizio è influenzato dal modo di ricevere le informazioni e dal tipo di informazioni conosciute (7). Nel quadro della loro esperienza, due gruppi di partecipanti avevano ricevuto una lista di informazioni su un sospettato; dovevano determinarne la colpevolezza; veniva loro precisato che la lista conteneva diverse informazioni «false», facilmente reperibili perché indicate in rosso, e delle quali non dovevano tener conto. Per il primo gruppo, le informazioni false erano circostanze attenuanti; per il secondo, circostanze aggravanti. Inoltre, alcuni dei partecipanti dovevano leggere l elenco mentre erano impegnati in attività cognitive supplementari (per esempio associare delle cifre agli elementi della lista) mentre altri potevano concentrarsi sulla sola lettura. In seguito, tutti i partecipanti dovevano pronunciarsi sulla colpevolezza del soggetto e nell eventualità infliggergli una pena. L esperimento ha rivelato che sono state poche le persone che non hanno conto delle informazioni false; quando l attenzione era già sollecitata altrove, tutte le informazioni sono state considerate vere; il gruppo al quale era stata data la lista con circostanze aggravanti (sapendo comunque che erano false) ha mostrato un tendenza ad attribuire pene più pesanti. E infine, il «bias di conferma» porta gli individui a cercare informazioni che confermano le loro precedenti convinzioni, anziché quelle che le contraddicono. Questo contribuisce al successo delle teorie complottiste. Nel 1960, Peter C. Wason realizzò un esperimento pionieristico in questo campo. Presentò ai partecipanti un insieme di tre numeri (per esempio 2,4 e 8), composto sulla base di una regola particolare, chiedendo poi di creare diversi nuovi insiemi sullo stesso modello e di sottoporglieli per scoprire quale regola egli avesse seguito. Se l insieme di tre numeri era conforme, i partecipanti dovevano spiegare l regola che avevano ipotizzato. Quella di Watson era molto semplice le sue tre cifre seguivano «un qualunque ordine crescente», ma la maggior parte delle persone interrogate enunciò una regola più complessa: multipli di due, cifre pari, progressione geometrica Inoltre, gli insiemi presentati al ricercatore testavano quasi esclusivamente esempi che confermavano le loro supposizioni, mentre il modo migliore di verificare un ipotesi sarebbe stato proporre anche un insieme che non vi corrispondeva. Pochissimi partecipanti cercarono eventualità non conformi alla regola che credevano di aver scoperto. Questo bias di conferma spiega la tendenza delle teorie complottiste a auto-validarsi. Poiché l influenza di questi quattro bias cognitivi è in genere inconscia, è difficile considerarsi immuni dal complottismo. L adesione a questo tipo di spiegazioni non deriva da una razionalità patologica, ma piuttosto da una serie di ragionamenti normali, condotti sulla base dei dati disponibili e del contesto sociale. (1) Pascal Wagner-Egger, Adrian Bangerter, «La vérité est ailleurs: corrélats de l adhésion aux théories du complot», Revue internationale de psychologie sociale, n 4, Grenoble, aprile (2) Nel 1973, Michel-Louis Rouquette introduce il concetto di «pensiero sociale» per indicare un «pensiero della gestione quotidiana», cioè di ciò che interessa immediatamente le persone, di ciò che le preoccupa, di ciò che per loro è importante (la psicologia parla di «implicazione»). (3) Daniel Kahneman, Amos Tversky, «Probability, representativeness, and the conjunction fallacy», Psychological Review, vol. 90, no 4, Washington, Dc, (4) Olivier Klein, Nicola Van der Linden, «Lorsque la cognition sociale devient paranoïde ou les aléas du scepticisme face aux théories du complot», in Emmanuelle Danblon e Loïc Nicolas (a cura di), Les Rhétoriques de la conspiration, Cnrs Editions, Parigi, (5) John McClure, Denis J. Hilton, Robbie M. Sutton, «Judgments of voluntary and physical causes in causal chains : Probabilistic and social functionalist criteria for attributions», European Journal of Social Psychology, vol. 37, no 5, Chichester (Regno unito), (6) Karen M. Douglas, Robbie M. Sutton, «The hidden impact of conspiracy theories: Perceived and actual influence of theories surrounding the death of Princess Diana», The Journal of Social Psychology, vol. 148, no 2, Londra, (7) Daniel T. Gilbert, Romin W. Tafarodi, Patrick S. Malone, «You can t not believe everything you read», Journal of Personality and Social Psychology, vol. 65, n. 2, Washington, Dc, (Traduzione di Marinella Correggia)

20 20 giugno 2015 Le Monde diplomatique il manifesto dossier Ai confini della realtà peter martensen The Party, 2010 Un comodo anatema C è chi vede complotti ovunque. C è chi vede complottisti ovunque. L accusa dilaga nei media, e serve spesso a screditare qualunque pensiero critico. «Lavoratore, sappi che è in atto un complotto ultraliberista diretto da Bruxelles con l obiettivo di spogliarti dei tuoi più elementari diritti ( ). Ascoltavamo queste parole durante la campagna referendaria sulla Costituzione europea del Tre anni dopo le ripropongono immutate. Sempre gli stessi processi alle intenzioni, le stesse affermazioni menzognere, le stesse mezze verità ammannite per far paura ai sempliciotti.» Jean Quatremer, Libération, Parigi, 5 maggio «Verso il 1995 sono state aperte varie bottegucce come [il sito] Acrimed, piuttosto marginali e molto virulente, che si sono lanciate nella critica dei media dominanti. Perché no, dopotutto ( ). Il problema è che molto rapidamente sono diventate una fabbrica di complottismo.» Philippe Val, Causeur, Parigi, febbraio «Dopo un breve parentesi, sono tornati i grandi semplificatori. Si assiste, dopo la fine del comunismo, a una stupefacente ri-stalinizzazione dell intelligentsia e del movimento sociale ( ). Il pensiero del complotto è tornato a impadronirsi degli spiriti deboli. ( ) Non è la sinistra istituzionale a essere in discussione, ma la cosiddetta sinistra della sinistra e la sua crescente presa sullo spirito del tempo.» Alain Finkielkraut, citato ne Le Figaro, Paris, 11 settembre «Considero semplicemente la sociologia di Bourdieu come un sociologia che si interessa alle strategie legate a reti complottiste. Penso che il modello, il paradigma del pensiero di Bourdieu sia il modello complottista.» Pierre-André Taguieff, France Culture, 18 dicembre «L atteggiamento critico porta con sé in embrione una logica del sospetto. Ovviamente, Bourdieu e Foucault erano troppo intelligenti per cascarci. Ma hanno portato l idea, ripresa da altri in modo molto più grossolano, che ci sono dei dominatori riuniti in gruppi dotati di una volontà propria e negativa ( ). Questa visione può spiegare molte derive, fra le altre quella di Chomsky.» Antoine Vitkine, TOC, Parigi, marzo Da Balzac a Dan Brown, da «James Bond» a «Matrix», fra intrighi politici e domande metafisiche, nel susseguirsi degli eventi nel mondo, che cosa sarebbe la narrativa senza la ricerca di una verità nascosta? EVELYNE PIEILLER «V i sono due storie: la storia ufficiale, menzognera, che ci viene insegnata e la storia segreta, dove si trovano le vere cause degli avvenimenti.» Ne è convinto Honoré de Balzac, autore di questa massima contenuta nella trilogia Illusioni perdute ( ). Del resto, egli fonda un associazione, Le Cheval rouge, destinata a organizzare nell ombra l ascesa dei suoi amici e di se stesso a incarichi importanti nel mondo letterario. E lo rivelano anche i suoi romanzi; non solo in quelli che raccontano esplicitamente di complotti (Un tenebroso affare, Storia dei Tredici), ma anche in quelli che descrivono con precisione il funzionamento di un ambiente sociale. L ammirevole Illusioni perdute racconta il fallimento di un giovane ambizioso, con aspirazioni letterarie, pronto a tutto pur di diventare celebre e ricco. Balzac parlava di una «storia piena di verità». Il bel Lucien è salvato in extremis da un misterioso abate, che gli promette, come Mefisto, di realizzare i suoi desideri. Carlos Herrera, meglio noto con il nome di Vautrin, è un ex galeotto, ricco di così tanti segreti e agganci da riuscire a manipolare gli ingranaggi della finanza, della stampa, insomma del potere. Finirà del resto per diventare capo dei servizi di polizia. Questo percorso richiama la storia romanzesca di François Vidocq ( ), un forzato diventato primo direttore della Sûreté Nationale. Un simbolo, più che un aneddoto sorprendente. Infatti, praticamente l intero secolo è portato a mettere in discussione le origini dell arrivo al potere, e a sospettare l esistenza di giochi occulti. Tutto ha inizio con la costernazione provocata dalla Rivoluzione francese, che sconvolge l ordine mondiale e apre possibilità fino ad allora impensabili. Quel che segue è ugualmente sconvolgente: l eredità della rivoluzione viene liquidata, le speranze delle Tre Gloriose (1830) e della Repubblica del 1848 sono tradite. Durante il secolo, viene espropriata anche la volontà del popolo, o dei ceti medi che pensano più o meno di rappresentarlo. Ma allora, chi fa la storia, e la politica? L immaginario collettivo tradurrà quest inquietudine in una forma fino ad allora piuttosto poco utilizzata, il romanzo (1), soprattutto sulla sua versione popolare cioè quella destinata al largo pubblico, priva dei codici della letteratura «nobile» e spesso pubblicata come feuilleton. La spiegazione data agli eventi storici è che chi li condiziona in modo tanto sorprendente sono gli autori di complotti, i quali agiscono nell ombra. Ad esempio i massoni, ritenuti legati alla Rivoluzione. Uno dei «complottofili» più contagiosi è Alexandre Dumas. Con il ciclo Memorie di un medico, fra gli altri ( ), egli se la prende con la figura di Giuseppe Balsamo, conte di Cagliostro, capo della società degli Invisibili, dotato di poteri quasi sovrumani, il quale cerca di rovesciare la monarchia: «Come Dio, sarò paziente. Nel palmo di questa mano ho il mio destino, il vostro e quello del mondo». Manifesteranno la stessa tendenza George Sand (La contessa di Rudolstadt, 1843), Eugène Sue (L ebreo errante, ), con il suo «complotto gesuita», Faul Féval e Pierre Alexis Ponson du Terrail. Poco importa la tendenza politica degli autori: monarchici o repubblicani, la comprensione della storia recente passa attraverso il ricorso ad attori clandestini, spesso uomini eccezionali alla testa di varie sette il che del resto, nella realtà, si ritrova nel progetto sansimoniano di riorganizzazione della società sotto la direzione di una élite industriale e religiosa. In effetti, le cospirazioni e associazioni segrete esistono davvero; si pensi, negli anni 1820, al movimento dei carbonari, per la liberazione e l unificazione dell Italia, o ai loro cugini francesi, quelli della charbonnerie che, nello stesso periodo, cerca di rovesciare la Restaurazione come racconterà l inesauribile Dumas ne I mohicani di Parigi ( ). Ma nella cristallizzazione di quest immaginario collettivo gioca anche lo spettro della «repubblica», che darebbe voce alla massa, al popolo, alla folla, in nome dell eguaglianza: i detentori mascherati del potere effettivo permettono anche di immaginare una nuova aristocrazia. Fra le due guerre, il successo delle storie di spie, infiltrati, sovversivi Questo concetto ambiguo, che sovente strizza l occhio al fascino per la figura del superuomo, si riaccende nei periodi di cambiamento collettivo, in particolare quando l ordine dominante è minacciato o minaccioso. Così, nel periodo fra le due guerre, sullo sfondo della volatilizzazione dei vecchi imperi (ottomano, austroungarico), dell ascesa della Rivoluzione d ottobre seguita da quella del fascismo e del nazismo, la vitalità e il successo delle storie di spie, infiltrati, sovversivi solitari o riuniti, manipolatori o manipolati, tanto nella letteratura popolare quanto nel giovane cinema, testimoniano il forte sospetto che la democrazia abbia un altro lato, la sua verità nascosta. Una verità diversa a seconda che l autore sia reazionario o simpatizzi per la sinistra. Per parlare del Regno unito, diversi romanzi di Agatha Christie rivelano un assoluto disprezzo per il popolo. Poirot e i Quattro, ad esempio, evoca la coalizione di quattro super-intelligenze il cui obiettivo è arrivare al dominio del mondo: «La rivolta universale, i disordini operai ( ), ci sono persone ( ) che dicono che dietro tutto questo c è un forza che non vuole nient altro che la disintegrazione della civiltà.» I Quattro saranno sconfitti da un altra superintelligenza, quella di Hercule Poirot, e non dalle forze governative. Spesso adattati per il cinema, diversi romanzi di Graham Greene (Una pistola in vendita, 1936), e ancora di più quelli del fantastico agitatore Eric Ambler (La frontiera proibita, 1936; Epitaffio per una spia, 1938) (2), trattano dal canto loro di complotti messi in piede da rappresentanti dell ordine di un ordine corrotto, i quali rispondono a interessi molto diversi da quelli che affermano di rappresentare e preferiscono l estrema destra al pericolo rosso. L eroe è un uomo qualunque, il quale si trova invischiato in una manipolazione della verità e deve capire di che cosa si tratta. Il complotto appare allora come il rivelatore delle vere scelte di democrazie fondamentalmente perverse. Il mondo nuovo di Aldous Huxley (1932) ne dà una versione particolarmente deprimente Il romanzo di spionaggio attesta così la fine dell innocenza. La I vostri ricordi S ede di DigData Burj Khalida di Dubai 110 piano >Memorizzazione di Ava Shaheen Lavoriamo a tre livelli di intervento: il singolo, il gruppotarget e il territorio, con possibilità di estendere fino al livello nazionale se si può disporre di un monopolio abbastanza serio sulle reti di distribuzione La nostra distribuzione di acqua potabile è nazionalizzata Allora dovremmo poter fare le cose bene Sono già le 11,01. Ripetere per memorizzare. Anfiteatro messo in sicurezza. Aperture a specchio che si affacciano sul vuoto, davanti al deserto terraformato. Per me è la prova del fuoco. La mia prima sessione seamless di memorizzazione esaustiva. Un ufficiale israeliano dal volto virilista e gelido mi rivolge per la terza volta le stesse diciotto domande. Cambia di nuovo l ordine: l intimo, il personale, il pro, una valvola placebo per rilassarmi, e la provocazione dietro. Crede di destabilizzarmi. È solo tecnico e stupido. Può presentarsi liberamente? Mi chiamo Ava Shaheen. Ho 24 anni. Ho ottenuto il grado di maggiore all Ema, l Elite mnemotecnica dell amministrazione, in Francia, nel giugno Sono appena diventata sentinella memoriale. È molto graziosa... Poiché il protocollo alta sicurezza vieta apparecchi elettronici in sala, il mio ruolo consiste nel memorizzare nel modo più esaustivo possibile l incontro che sta per iniziare. Su espressa richiesta, accetterò i prelievi di sangue che potrebbero essere necessari per leggere la memoria delle mie cellule, tirarne fuori le molecole di acqua pertinenti e contro-verificare la mia restituzione orale. Lei è sufi, vero? Ho già risposto quattro volte alla sua domanda. Le sputo un po di saliva perché possa sequenziare la mia risposta? Se devo usare la mia saliva Sono le 11,06. Sala ovale > Gradinata ad arco su dodici file > tagliate in due da una scala di legno scuro > teck. Fissa, Ava. Delegazione > trenta-quaranta persone > ripartite su quattro file > Il primo ministro è in secondo piano < fila 6, fra Yanev e Divlin. Gli scienziati sono in prima fila, il governo in secondo, i servizi segreti dello Shabak in terza. Il mio virilista mi guarda, mentre i suoi n+1, n+2, n+3e n+4 confabulano. Focus. Cinque file gerarchiche di cinque persone, dimostrazione di forza. Sulla scena, Zelinger mostra la slide 8 > già visto>saputo>fissato. Ore 11,12. Soffio. «Una sentinella memoriale è solo una superficie su cui scrivere. Non deve interpretare nulla. Non provare nulla: solo vedere. Non ascoltare: solo udire. Non sentire: solo ricevere. Una sentimem è un disco sul quale il laser ha inciso le sue esattezze.» Mi piace la poesia bizzarra di Argus, il mio mentore. Ieri mi ha detto: «Ava, ti ho assunta perché sei la più brillante ipermnesica che abbia potuto formare. Il tuo potere di restituzione è di una precisione abnorme, con livelli di fedeltà rispetto ai discorsi superiori al 99%. Ma hai un difetto doloroso per quelli che ti iniettano i loro ricordi: non arrivi a eliminare la tua soggettività. Quando rendo una riunione segreta in relife, voglio giusto poter restituire al cliente quel che è stato detto, non rivivere due ore di riflessione ed emozioni per quanto appassionanti possano essere. Perché, Ava, tu sei appassionante. Ma da te voglio solo parole esatte. Una retina che si incide. Fatti. Per favore, evita di inquinarmi con le tue sensazioni!» Zelinger parla in piedi, sul lato destro, su un sontuoso tappeto persiano> disegno mentale. Né note né tavolo. Abito grigio perla molto elegante > cravatta color sangue. Aspetta le domande. Avanza sulla scena per suscitarle. Dietro di lui, slide 11 sullo schermo gigante. Rappresenta lo schema di codifica/decodifica dell acqua-memoria, già fisso nelle restituzioni di Argus del 2, 8, 19, 27 e 28 marzo a Damasco, Abu Dhabi, Tehran, Mosca e Kiev. Rimanere fermi. Reuven Weizman dello Shabak alza la mano: Avete evocato la possibilità di iniettare nella rete di acqua potabile frammenti di memoria traumatica, a dosi più o meno forti, che in seguito saranno ingeriti da, diciamo, il pubblico-bersaglio, e altereranno la sua percezione del passato, modificando ad esempio ricordi politici. Benissimo. Ma come evitate che questo pubblico «verifichi» l informazione alterata? Su Internet per esempio? Ad alta diluizione, la memipolazione rimane non percepibile dalla coscienza, e si deposita sulla memoria degli avvenimenti. Funziona come un ricordo intimo, «proprio» di chi lo riceve, che è incapace di avvertirne l origine allogena perché il cervello non va mai a cercare una reminiscenza: la ricrea, la riattiva con la sua rete neuronale. Lei risponde in modo laterale Io le parlo delle prove Internet. «Prove Internet»? (Sorride con franchezza.) Ascolti Il digitale è il nostro Dna. Dopo l acquisto dei server di Google e Facebook, DigData detiene il 96% dei centri dati che operano su questo pianeta. A questo livello di monopolio, abbiamo la possibilità di riscrivere sulle nostre nuvole informatiche la storia delle imprese, dei governi, dei popoli, dei partiti Produciamo verità su richiesta dei nostri clienti. È il centro del nostro mestiere, oggi. Il nostro dipartimento di conformità cognitiva «rinfresca» in permanenza i contenuti pubblici necessari interviste, testi, foto, video, ecc., per renderli coerenti. Con il tutto digitale, presto non sarà più possibile contraddire una verità ricalibrata nella nostra banca dati, perché non saranno rimaste tracce da contrapporre. E la manipolazione da parte dell acqua-memoria offre un complemento magnifico, perché di natura organica, alle potenzialità, già grandi, del digitale. Mormorii di eccitazione animano i volti secchi dello Shabak. Il primo ministro ha finito le sue conversazioni a latere ed è tornato del tutto attento. «I vostri ricordi sono il nostro futuro», come ci piace dire qui a DigData... Con un breve cenno, Zelinger chiede a Clarissa di accendere lo schermo dietro di lui. L atmosfera, in penombra, la luce centrata sulla figura di Zelinger, è propizia alle rivelazioni. Facciamo un esempio semplice. Immaginiamo che vi proponiate di consolidare l unità nazionale. Tutti i dipartimenti di PsyPop del mondo ve lo possono dire: il vettore più potente per consolidare l appartenenza comunitaria è e rimane la paura. Corteccia preistorica. Risposta riflesso. La paura di quello che non fa parte della nostra comunità. La paura del «diverso da noi». Noi di DigData siamo capaci di attivarla in due modi. C è la tecnica dello shock traumatico importante, che è one-shot e richiede un buon coordinamento fra il digitale e l acquatico. E c è la tecnica detta dei Pti, «piccoli terreni interattivi», che funziona mediante una successione di fatti diversi aggressioni, stupri, attentati, omicidi in cerchi concentrici intorno a una comunità da stigmatizzare così da superare una soglia di ansietà abbastanza massiccia da attivare il riflesso nazionale. È quasi una tecnica di avvelenamento della memoria, a dosi leggere ma regolari, che dà risultati eccellenti nel lungo periodo e si rivela spesso meno rischiosa del grande shock traumatico. Sto pensando agli aspetti pragmatici. Molti nostri concittadini bevono l acqua del rubinetto, ma non tutti. Come completare la suggestione per gli altri? È chiaro che se si vuole arrivare a un livello di scala ambizioso e approvo quest ambizione, occorre poter intervenire sul mercato delle bevande: acqua imbottigliata e bibite soprattutto, ma anche vino, birra, alcolici, ecc., a seconda delle abitudini di consumo nazionali. Mi trovavo a Washington il mese scorso; immagini che da noi non si può fare niente senza bere Coca Cola!

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