Fisiologia delle passioni da Descartes ai moralisti francesi.

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1 1 Istituzioni di storia della filosofia moderna Anno Accademico: Prof. Giuliano Campioni Materiali didattici per il corso Fisiologia delle passioni da Descartes ai moralisti francesi.

2 2 PROGRAMMA A) René Descartes, "Le Passioni dell'anima" In "Opere ", a cura di Giulia Belgioioso, Testo francese e latino a fronte, Bompiani Milano 2009 B) A SCELTA David Hume, "Dissertazione sulle passioni", traduzione di E. Mistretta, in In "Opere filosofiche" vol. II. a cura di E. Lecaldano, trad. intr. e note di M. Dal Pra, trad. di E. Mistretta, Laterza, Roma, Napoli Francois de La Rochefoucauld, "Massime" Milano, Editore: Rizzoli Seguendo particolari interessi di studio, potranno essere individuati e concordati all'interno dei temi affrontati nel corso testi sostitutivi, in lingua originale o in traduzione (sez. B) In particolare: Blaise Pascal, Frammenti, Rizzoli [con particolare riferimento al tema delle passioni] Michel de Montaigne, Saggi: libro I: 1, 2, 4, 12, 18, 20, 23, 28, 30, 31 libro II: 1, 5, 6, 11, 16, 27, 29 libro III: 2, 9, 10, 13. Spinoza, Etica parti III, IV, V. Avvertenza: La conoscenza manualistica del periodo e degli autori è un presupposto. Se si possiede una buona preparazione liceale non occorre studiare un manuale di storia della filosofia moderna altrimenti si tratta di procurarsi le conoscenze di base per poter affrontare i temi del corso..avvertenza per i non frequentanti: i non frequentanti possono utilmente consultare: Introduzione a Descartes di Giovanni Crapulli (Laterza) in particolare il cap. VII ; La morale. Le passioni dell anima. Il pensiero politico pp Introduzione a Hume di Antonio Santucci (Laterza) in particolare le pagine dedicate alle passioni cap. IV pp Remo Bodei, Geometria delle passioni, Feltrinelli Sez. IIa della parte seconda: «Cartesio o del buon uso delle passioni»

3 3 MATERIALI [per B si intende l edizione Bompiani a cura di G. Belgioioso di Tutte le lettere , delle Opere ; Opere postume ]. Il corso intende prendere in esame la nuova prospettiva nella quale il confronto tra passioni e ragione viene posto in età moderna a partire da Descartes. "Le Passioni dell Anima", che vedono la luce nel 1649, Quando, nel 1637, pubblica anonimamente Discorso e Saggi a Leida, Descartes ha quarantuno anni e dalla fine del 1628, o al più dall inizio del 1629, dimora ormai stabilmente nelle Provincie Unite. Nel 1649, ancora una volta nelle Provincie Unite, ad Amsterdam, vengono stampate le Passioni dell Anima con due frontespizi, due editori (Lodewijk Elzevier e Henry Le Gras) e due luoghi diversi (Amsterdam e Parigi). Ma nel 1649 Descartes si è trasferito in Svezia. Nei dodici anni che vanno dal 1637 al 1649, il filosofo dà alle stampe sette opere; di queste, con il filosofo ancora in vita, le due scritte in francese (Discorso sul metodo e Passioni) saranno tradotte in latino; tutte le altre, scritte in latino, saranno tradotte in francese. La stampa dei manoscritti inediti non tarderà: avrà inizio pochi mesi dopo la morte del filosofo, nel 1650, con il Compendio di Musica. Nel 1701, ossia poco più che cinquant anni dopo, la maggior parte di questi inediti, comprese le lettere, è già pubblicata. Paul Valery Frammenti di un Descartes (1930) (da Adrien Baillet, Vita di Monsieur Descartes, a cura di Lelia Pezzullo, Adelphi edizioni 1996) Quindici anni or sono esisteva ancora, in una strada vicino alla place Royale, una caserma della gendarmeria dove i riservisti si recavano a far aggiornare e timbrare i loro documenti militari. L'interessato entrava e si guardava intorno per orientarsi in un cortile nobile e familiare insieme. Gli uffici che cercava si aprivano alla sua sinistra sotto un breve porticato di archi ad ansa, residuo di un chiostro abbastanza antico. Tali resti non privi di decaduta maestà ben si addicevano all'esistenza sommessa, parte ufficiale parte intima, che era venuta a insediarvisi con il Primo Impero. Vi era un piantone, la mente perduta nel vuoto; qualche gabbia di canarini appesa alle colonne; chepì e vasi di fiori alle finestre; qua e là, stesi ad asciugare su funicelle, dei pantaloni bianchi. Dal più al meno, erano all'incirca centomila all' anno i passibili di mobilitazione che dovevano necessariamente attraversare quello spazio. Dubito che qualcuno di loro si sia mai reso conto di essere chiamato, in realtà, a compiere un pellegrinaggio. Le stesse autorità che lo prescrivevano, ancorché elevate in grado, erano del tutto all'oscuro di quale ne fosse effettivamente l'oggetto. Pensavano di muovere le matricole solo ai propri fini, mentre,

4 4 senza saperlo, ci costringevano a visitare uno dei monumenti più ragguardevoli della storia del pensiero. La caserma aveva preso il posto di un convento, e i gendarmi si erano sostituiti ai frati minimi. Qui aveva vissuto ed era morto padre Mersenne, uomo di grande utilità e rilievo presso la società colta del primo Seicento: religioso aperto e pieno di curiosità, che proponeva problemi, e talvolta enigmi, a un'europa intellettuale molto diversa da quella di oggi; motore di fermenti scientifici e di relazioni fra dotti di religione diversa; amico d'infanzia, amico pertinace e debordante di Descartes, propagatore delle sue dottrine, nonché una delle più amabili tra quelle figure di secondo piano il cui ruolo è forse essenziale nell'evoluzione dei grandi uomini e nel prodursi delle grandi cose. Nuovo e a mio avviso non inutile sarebbe uno studio volto alla ricerca sistematica, attraverso la storia, di questi personaggi ausiliari e ufficiosi che sempre si incontrano, confidenti o intermediari, accanto al genio e tra le cause minute e vive dei grandi eventi. Quando Descartes veniva a Parigi, gli si rendeva visita di mattina presso i minimi della place Royale, nella residenza di questo frate tanto prezioso. Qui, l 11 luglio 1644, il filosofo riceve Monsieur Mélian. Nel giugno del 47, arrivando dall'aia, alloggia a casa dell'abate Picot, in rue Geoffroy-Lasnier, e vi stende la prefazione dei Principi. Parte poi per la Bretagna, dove lo chiamano certi affari, e al suo ritorno a Parigi, dopo un giro attraverso il Poitou e la Turenna, è accolto da una buona nuova: il re, su proposta del cardinale ministro, gli ha accordato una pensione di tremila lire di rendita. Notizie del genere sono diventate una rarità. È in questo periodo che «Monsieur Pascal, trovandosi a Parigi, fu colto dal desiderio di conoscerlo, ed ebbe la soddisfazione di potersi intrattenere con lui presso i minimi, dove gli era stato detto che avrebbe avuto modo di incontrarlo. Descartes si compiacque nel sentirlo descrivere gli esperimenti sul vuoto che aveva compiuto a Rouen e su cui stava dando alle stampe una relazione, della quale poi, tornato il filosofo in Olanda, gli fece avere copia. Descartes fu entusiasta della conversazione con Monsieur Pascal». La gloria di quest'ultimo mi è troppo cara perché io trascriva il seguito. Un giorno, passando da quelle parti, sono rimasto urtato nel vedere, al posto dell'antica dimora dei minimi, un fabbricato cubico dall'intonaco nuovissimo e intatto, sormontato da fregi tondeggianti con pennacchi a fiamma in pietra tenera. Dentro ci sono di nuovo i gendarmi. Li preferivo nel vecchio convento, perché la gendarmeria è una specie di ordine religioso, anche se si mostra tutt'altro che ostile al matrimonio dei suoi membri. Non sono molte le nazioni in Europa in cui un edificio consacrato da una così illustre presenza, e testimone di un tale incontro, sarebbe potuto svanire nel nulla in modo altrettanto discreto. Il convento dei minimi non recava alcuna targa che facesse parlare quelle mura di ciò che avevano visto. Nessuno, a quanto pare, era al corrente delle cose che ho riferito avendole trovate in Baillet, dal momento che non si è registrata la minima protesta, né una sola voce si è levata contro l'abbattimento di quelle pietre. Tutto è scomparso tra le nubi di polvere sollevate dalle imprese di demolizione. Da noi Descartes non ha fortuna. Di quest'uomo mirabile non esiste a Parigi una sola statua - e consento che non si rimedi alla lacuna. Gli è stata dedicata unicamente una strada piuttosto brutta, benché animata dalla rumorosa presenza del Politecnico e resa alquanto sinistra dall'ombra di Verlaine che vi è morto. Per finire, abbiamo perso di vista le sue ossa dalle parti di Saint-Germain- des-prés, e non mi risulta che le si stia cercando per trasferirle nelle cripte del Pantheon. Da uomo prudente qual era, però, e artista incomparabile nel trattare le materie più dure, egli si è costruito con le proprie mani una tomba, e una tomba da fare invidia. Su di essa ha posto la statua del suo intelletto, e così nitida, così vera, che a vederla lo si direbbe vivo, si giurerebbe che egli ci parla, che a separarci da lui, da un dialogo possibile, non vi sono trecento anni, ma

5 5 solo lo spazio tra l'una e l'altra mente, per non dire tra una mente e se stessa. Il suo monumento è quel Discorso che si può definire pressoché inattaccabile dal tempo, come lo è ogni cosa scritta con estremo rigore. Un linguaggio alto e familiare insieme, in cui non mancano né l'orgoglio né la modestia, ci consente di cogliere e apprezzare a tal punto gli intenti fondamentali e gli atteggiamenti comuni a tutti gli uomini di pensiero da rendere l'opera non tanto un capolavoro di somiglianza o verosimiglianza quanto una presenza reale, che inoltre si alimenta della nostra. Nessuna difficoltà, nessun simbolo, nessuna parvenza scolastica: nel Discorso non vi è nulla che non sia espresso nel modo più intrinsecamente semplice e umano, appena un po' più preciso del naturale. Si direbbe che l'autore, del quale ci par di udire gli accenti, si sia limitato ad affinare, a precisare, talvolta ad articolare per maggior chiarezza la voce che gli veniva, senza mediazioni, dai suoi ricordi e dalle sue speranze. E tale voce, che egli ha fatta sua, ci insegna innanzitutto i nostri stessi pensieri, silenziosamente deviando dalle aspettative che ci eravamo prefigurate. Una parola tanto intima, scevra di effetti e di espedienti, tanto intimamente e incontestabilmente nostra, non può, benché ci appartenga in modo così esclusivo, non essere universale. Intento di Descartes era farci capire se stesso, cioè ispirarci il suo ineluttabile monologo e indurci a pronunciare i suoi medesimi voti. Dovevamo trovare in noi quel che egli trovava in sé. Qui è l'originalità del proposito. In campo spirituale, ogni fondatore deve aver cura di rendersi irresistibile. Alcuni ci seducono con il loro fascino; altri ci soggiogano con il rigore; Descartes ci comunica la sua vita, affinché il susseguirsi delle sensazioni e degli atti che la compongono ci introduca al suo pensiero attraverso il medesimo, naturale percorso di eventi e fantasie da lui intrapreso in gioventù, e non dissimile da tanti, non fosse che ci conduce a ben diverse prospettive. Il racconto dei suoi inizi, dunque, gli serve a farci sentire simili a lui e ben disposti a seguirne l'itinerario: saremo così facilmente indotti a condividere le ribellioni della sua adolescenza, poiché è della nostra che egli ci parla, con le sue renitenze e i suoi giudizi superbi. Dopo aver concluso gli studi, che disprezza e stima pressoché vani (e tali in effetti possono dirsi per chi non sa far uso di quanto non abbia scoperto personalmente), si sposta qua e là per l'europa sgombrando la mente con i viaggi, al seguito di una delle tante guerre dell'epoca cui si direbbe prenda parte a suo capriccio. Si tiene abbastanza alla larga dai libri, che negli eserciti sono d'impaccio, e si applica alla matematica, esercizio questo che richiede solo una penna e si può svolgere ovunque, a qualsiasi ora e per tutto il tempo che il cervello consente. Che sontuosa libertà, che modo elegante e voluttuoso di essere se stessi, potersi così dissipare nei fatti senza per questo smettere di avvalorare le proprie idee!... Ciò che avviene per caso, gli eventi superficiali nel loro repentino mutare, stimolano, illuminano quanto di più profondo e persistente vi è in un individuo realmente votato ad alti destini spirituali. Se l'anima è indipendente il piacere di esistere consiste nel vederci chiaro. Una coscienza ben strutturata trae vantaggio da ogni cosa. Da tutto si distacca, a tutto si riaccosta; non si nega nulla. Più assorbe o subisce connessioni, più si organizza in se stessa, e più si libera e svincola. Giunto a tale estremo, uno spirito perfettamente connesso sarebbe altresì uno spirito infinitamente libero, poiché la libertà, in ultima analisi, altro non è che l'uso del possibile, e l'essenza dello spirito è il desiderio di coincidere con il proprio tutto. Descartes si isola con il tutto della sua attenzione; e del possibile che è in lui usa al punto da mettere in discussione la propria stessa esistenza nel bel mezzo del racconto della sua vita!... Il giramondo, il guerriero dilettante tutt'a un tratto rientra nella cornice della propria presenza e della propria carne, rendendo relativo l'intero sistema dei suoi riferimenti e delle nostre certezze comuni; egli si fa altro, come accade al dormiente quando un movimento brusco causato da ciò che sta sognando altera, trascende il sogno stesso, trasformandolo appunto in sogno riconosciuto come tale. Egli contrappone l'essere all'uomo.

6 6 Ma cogliere l'essere nell'uomo e distinguere tra i due tanto nettamente, ricercare una certezza di grado superiore attraverso una sorta di procedura straordinaria, sono i primi segni di una filosofia... Forse arrivato a questa parola dovrei fermarmi, sul ciglio del non saper più di che cosa sto parlando. Per il momento è bene non mi esponga a difficoltà che esulano dal novero delle mie scelte, e nel cui ambito le più insidiose sono quelle che non riesco a vedere. Non mi sento a mio agio con la filosofia - fermo restando che è impossibile evitarla, e che non è dato di aprir bocca senza pagarle un qualche tributo. Come eluderla, quando essa stessa non è in grado di dirci con certezza che cos'è? Quasi non ha senso affermare, come si ripete spesso, che tutti facciamo della filosofia senza saperlo, dal momento che chi vi si dedica scientemente non è dal canto suo in grado di spiegare con precisione quello che fa. Da parte mia, sul terreno filosofico mi sento come un barbaro che si aggiri per un'atene dove sa di essere circondato da oggetti preziosissimi ed è consapevole del pregio di tutto ciò che vede, ma al tempo stesso è turbato, prova un senso di fastidio, un certo disagio e una vaga venerazione, unita a un timore superstizioso e trafitta di tanto in tanto dall'impulso brutale di sfasciare tutto o di dar fuoco a quella moltitudine di meraviglie misteriose di cui egli avverte di non possedere nell'animo il modello. Come si può tollerare la loro esistenza, e la fama che le onora, se di esse non si è mai neppur concepita l'idea? In tal senso paragono me stesso a quegli infelici che hanno orecchie sane e percepiscono tutti i suoni, ma non sono in grado di coglierne le concatenazioni, le mescolanze, le figure, le invenzioni, e i delicati nessi, e gli infiniti - in una parola, la musica. La musica dei filosofi mi è pressoché insensibile. Se dunque mi azzardo a parlare di Descartes, ciò si deve probabilmente al fatto che da questi io lo distinguo... Da RENÉ DESCARTES Tutte le lettere (a cura di Giulia Belgioioso, Bompiani, Milano 2005) dall introduzione di Giulia Belgioioso: 2.2. Un pensiero che si costruisce per risposte Le lettere di Descartes sono il collante di un pensiero che a lungo è stato considerato diviso in compartimenti stagni: sviluppato in diversi rivoli e percorsi tra loro irriducibili, quali la matematica, la fisica, la metafisica. Le lettere costituiscono lo sfondo dal quale emergono tanto le opere a stampa, nelle loro specificità e particolarità, quanto i diversi volti del filosofo. Costituiscono, di fatto, delle risposte a delle domande di corrispondenti che possono essere stati sollecitati dalla lettura di testi che non sempre hanno compreso appieno, o che non riescono a ricondurre a parametri di sapere tradizionale o che criticano per la loro irriducibilità ai modelli del sapere scolastico (quello coltivato nelle scuole dei Gesuiti, o nelle Università Riformate); sono risposte alle critiche dei geometri rivali che denigrano le sue scoperte; sono risposte a richieste di chiarimenti e di consigli da parte di amici e discepoli quali Huygens, Regius, Elisabetta, ecc.; sono risposte alle infinite questioni, spesso ritenute inutili o pretestuose, che Mersenne gli sottopone da parte dei dotti con cui è in contatto. Il Minimo svolge infatti, più di ogni altro, il ruolo di mediatore e di filtro: sollecita e trasmette le obiezioni, ma gli evita anche di corrispondere con obiettori che Descartes espressamente rifiuta perché, secondo lui, interessati

7 7 non alla verità ma alla polemica. Qualche tempo dopo la morte del Minimo, Carcavi esprimerà delle riserve avanzando persino il dubbio che proprio Mersenne sia stato l artefice della ostilità tra Roberval e Descartes: la pace tra i due, scrive, è stata «forse innocentemente turbata dal buon Padre Mersenne, il quale, a volte, prendeva le cose troppo crudamente e le scriveva spesso più secondo il suo estro che come in effetti erano». In quanto rispondono a delle domande, le lettere consegnano un immagine del filosofo che varia: si staglia composta quando le domande gli vengono poste da teologi e filosofi; è più sciolta quando le interrogazioni provengono da interlocutori che si muovono al di fuori dell accademia. Il linguaggio usato è una spia: può essere, talvolta, quello più controllato dell esposizione delle teorie scientifiche e filosofiche, oppure, talaltra quello più immediato proprio delle espressioni dell affetto, del rispetto, o del fastidio e del disprezzo. In generale, tiene conto dell interlocutore e ad esso si adegua: nel caso della principessa Elisabetta e delle sue sorelle o della regina di Svezia Cristina, non dimentica le forme del rispetto ossequioso; nel caso di Beeckman le formule di saluto lasciano trapelare un affetto più diretto e spontaneo: «tibi perpetuo amoris vinculo conjunctus» oppure: «Tuus si suus» o ancora: «tuus aeque ac suus». Ma le lettere vivono anche di una loro vita autonoma su due fronti, quello scientifico-filosofico (sviluppano alcune fondamentali dottrine cartesiane che non troveranno posto nelle opere a stampa) e quello più privato, giacché contengono giudizi su persone e su fatti resi senza autocensure (a meno che non sia intervenuto il censore Clerselier a smussare l asprezza di certe espressioni o ad operare interventi ben più significativi, come ad esempio non pubblicare lettere che Descartes gli aveva inviato). Per tutte queste ragioni non si può prescindere dalle lettere, così come non si può prescindere dalle opere a stampa: le une e le altre vanno lette se si vuole ricomporre la figura di Descartes a tutto tondo. Le lettere enfatizzano quella elaborazione del pensiero per risposte, che si costruisce nel proficuo confronto con i suoi interlocutori, che le Meditationes hanno formalizzato nelle appendici delle obiezioni e delle risposte. Considerato in riferimento al genere letterario che gli è proprio, l epistolario di Descartes attraversa tutti gli stili: consolatorio, satirico, persuasivo, apologetico e, a seconda degli interlocutori ai quali si rivolge e del messaggio che vuole trasmettere, il tono del linguaggio adoperato è amicale o tecnico: è franco e spontaneo, o tocca le corde dell adulazione, della compiacenza e della dichiarata simulazione: sempre si adegua allo stile di chi ha scritto: «Da parte mia cerco di rispondere ad ognuno nello stesso stile in cui mi ha scritto» (A Huygens, 9 marzo 1638, lettera n. 157, p. 595). Ma il linguaggio assume anche altre tonalità: si colora di insofferenza verso chi mostra una ostilità preconcetta a comprendere, e quindi ad accettare, il punto di vista del filosofo; è offensivo quando si rivolge ai matematici che mettono in discussione le tesi da lui sostenute nelle lettere e nella Géométrie ed è sprezzante quando, con Mersenne, li definisce i vostri Geometri o i vostri Analisti : «E dopo che essi avranno trovato tutto questo [scoperte relative a problemi superiori a quelli risolti nella Géométrie], pretendo anche che me ne debbano esser grati, almeno se si sono serviti a tale scopo della mia Geometria, per il fatto che essa contiene il cammino da seguire per giungervi; se poi non se ne sono affatto serviti, non devono con ciò reclamare alcun vantaggio su di me, tanto più che non c è alcuna di queste cose, che io non <possa> trovare nella misura in cui essa è passibile d esser trovata, quando vorrò prendermi il fastidio di calcolarla. Credo, però, di poter impiegare più utilmente il mio tempo in altre cose» [ A Mersenne, gennaio 1638].

8 8 ELISABETTA di Boemia, Principessa Palatina (Heidelberg, Herford, 1680) Principessa, figlia dell elettore palatino Federico V di Wittelsbach e di Elisabetta Stuart, riformata. Dopo la sconfitta della Montagna Bianca (8 novembre 1620), in cui il padre perse la corona del regno di Boemia, andò in esilio con la famiglia nelle Province Unite (1621) ove studiò presso la Corte dell Aia e in seguito a Renen (Utrecht). Nel 1646 dopo che il fratello Filippo aveva ucciso un gentiluomo francese imputato da lui di seduzione nei confronti della sorella Louise Hollandine Elisabetta ritornò in Germania, ritirandosi presso l elettore del Brandeburgo, Federico Enrico. Nel 1667 fu nominata Badessa del convento luterano di Herdford in Westfalia, incarico che le garantì un posto nella Dieta tedesca. Fu Alphonse Pollot che nel 1642, su richiesta di Descartes, la mise in contatto con il filosofo. I due corrisposero costantemente ( ) su temi di varia natura (medicina, matematica, filosofia, politica). Descartes le dedicò i Principi della filosofia (1644). Durante una malattia della principessa (estate-autunno 1645) Descartes le inviò una serie di lettere in cui gli espose i principi della morale, cosa che lo indusse poi a scrivere nell inverno del un primo abbozzo delle Passioni, che già nell aprile del 1646 aveva dato da leggere alla principessa. Come risulta sia da Adrien Baillet [ La vie de Monsieur Des-Cartes, 2 voll., Paris, chez Daniel Horthemels, 1691 (rist. anast.: Hildesheim, Olms, 1972; New York, Garland, 1987). Baillet: erudito ( ) noto per i due grossi volumi della biografia con materiali preziosi e spesso unici. Fonte ineludibile. Nel 1692 una biografia ridotta tradotta nel 1996 da Adelphi] sia dalla corrispondenza, il tempo impiegato nella Redazione del Trattato fu relativamente breve. Da Baillet sappiamo che «un piccolo trattato sulla natura delle passioni dell anima» avrebbe tenuto occupato Descartes nell inverno del 1646, con la precisazione che il proposito del filosofo «non era di fare qualcosa di compiuto e che meritasse di essere dato alle stampe, ma solo di fare degli esercizi di morale per sua personale edificazione e di verificare se la sua fisica avrebbe potuto servirgli, come sperava, per stabilire dei fondamenti certi in morale». Una notizia, questa, che trova conferma in una lettera indirizzata da Descartes, il 15 giugno del 1646, a Hector-Pierre Chanut ( ): «Quest inverno ho abbozzato un piccolo Trattato sulla Natura delle Passioni dell Anima, senza avere tuttavia l intenzione di rivederlo».di contro, la riflessione sulle passioni dell anima è, in Descartes, di lunga data. Lo documentano non solo le numerose indicazioni presenti in Compendio e Uomo, ma, anche la corrispondenza, che attesta la persistenza della problematica (anche se spesso indotta su sollecitazione del corrispondente) sin a partire dagli anni Trenta: con Mersenne, nel 1630; con Pollot, nel 1638; con Regius, nel È tuttavia solo nella corrispondenza con la Principessa Elisabetta, che il problema delle passioni diviene centrale. Un accenno si trova già nella lettera indirizzata dal filosofo alla Principessa il 21 maggio 1643, sulle tre nozioni primitive: dalla terza di esse, quella dell unione mente-corpo (il problema al centro della discussione delle prime lettere con la Principessa), «dipende quella della forza che l anima ha di muovere il corpo, e il corpo di agire sull anima, causandone sentimenti e passioni»; accenno da cui Elisabetta trae subito spunto per la richiesta di un approfondimento in tal senso: «Voi mi spiegherete la natura di una sostanza immateriale e i modi delle sue azioni e passioni nel corpo altrettanto bene che tutte le altre cose che avete voluto insegnare». È nel 1645 che si delinea l idea di completare i Principia del 1644 con un opera che non doveva essere né di oratoria, né di filosofia morale, ma di fisica, secondo il proposito apertis verbis dichiarato dal filosofo. La discussione sulle passioni si intensifica, come mostrano più di ogni altre

9 9 le lettere del 18 e del 24 maggio e di giugno; e si intreccia a quella relativa al Sommo Bene condotta in controluce alla lettura del De vita beata di Seneca. Le sollecitazioni di Elisabetta sul problema delle passioni sono ripetute: «Vorrei ancora vedervi definire le passioni, in modo da conoscerle bene». E Descartes, nella lettera del 6 ottobre, riconosce appieno l opportunità di un indagine più precisa: «Ma bisogna che prenda in esame in modo più dettagliato queste passioni, per poterle definire; e ciò mi sarà ora più facile che se scrivessi a qualcun altro. Vostra Altezza, infatti, avendo avuto la pazienza di leggere il trattato che avevo abbozzato in precedenza, sulla natura degli animali, sa già come concepisco» e appronta una definizione di passioni. Ma Descartes lavora anche, su sollecitazione della Principessa, ad una classificazione: «Ho pensato in questi giorni al numero e all ordine di tutte le passioni, per poter esaminare la loro natura più in dettaglio; ma non ho ancora digerito abbastanza le mie opinioni su questo argomento per osare scriverne a Vostra Altezza. Non mancherò di adempiere a questo compito appena mi sarà possibile». Elisabetta a Descartes L Aia, 6/16 maggio 1643 (ediz. Belgioioso pp ) Ho appreso, con molta gioia e rimpianto, dell intenzione che avevate avuto di vedermi, qualche giorno fa, colpita in ugual misura dalla vostra carità nel voler comunicare con una persona ignorante e indocile e dalla sfortuna che mi ha privato di una conversazione così proficua. Il signor Pollot ha molto rafforzato tale sentimento, ripetendomi le soluzioni che gli avete dato riguardo alle oscurità contenute nella fisica del Signor Regius, sulle quali sarei stata meglio istruita a viva voce da voi, come anche su una questione che ho proposto al suddetto professore, quando è venuto in questa città, a proposito della quale egli mi ha rinviato a voi per ottenere la soddisfazione dovuta. La vergogna di mostrarvi uno stile così disordinato mi ha impedito fino ad ora di domandarvi questo favore per lettera. Ma oggi il signor Pollot mi ha dato una tale assicurazione della vostra bontà nei riguardi di tutti, e in particolare verso di me, che ho allontanato dalla mia mente ogni altra considerazione, eccetto quella di trarne profitto, pregandovi di dirmi in quale maniera l anima dell uomo (non essendo che una sostanza pensante) può determinare gli spiriti del corpo, ed eseguire le azioni volontarie. Infatti, sembra che ogni movimento sia determinato dalla pulsione della cosa mossa, dalla maniera in cui essa viene spinta da quella che la muove, oppure dalla qualità e dalla figura della superficie di quest ultima. Nei primi due casi è richiesto il contatto, nel terzo l estensione. Voi escludete quest ultima dalla nozione che avete dell anima, mentre <il contatto> mi sembra incompatibile con una cosa immateriale. Motivo per il quale vi domando una definizione di anima più particolareggiata che nella vostra Metafisica, ossia della sua sostanza separata dalla sua azione, ossia dal pensiero. Infatti, anche se noi le supponiamo inseparabili (cosa che tuttavia è difficile da provare nel ventre della madre e negli svenimenti prolungati), come gli attributi di Dio, possiamo, considerandole separatamente,acquistarne un idea più perfetta. Riconoscendo in voi il miglior medico della mia <anima>, vi rivelo assai liberamente le debolezze delle sue speculazioni e spero che, osservando il giuramento d Ippocrate, senza renderle pubbliche, vi apporterete i rimedi; cosa che vi prego di fare, come di sopportare queste seccature da parte della Vostra affezionataamica per servirvi, Elisabetta

10 Descartes a Elisabetta Egmond-Binnen, 15 settembre 1645 (ediz. Belgioioso pp ) Signora, Vostra Altezza ha notato, con tale esattezza, tutte le cause che hanno impedito a Seneca di esporci chiaramente la sua opinione sul Sommo Bene, e ha avuto la pazienza di leggere il suo libro con tanta cura, che avrei timore di essere importuno se continuassi ora a esaminarne ordinatamente tutti i capitoli ritardando in tal modo di rispondere al problema che ha voluto propormi, sui mezzi per rafforzare il proprio intelletto per discernere ciò che è meglio in tutte le azioni della vita. È per questo che, senza indugiare ora nel seguire Seneca, cercherò solo di spiegare la mia opinione su questo argomento. Possono essere richieste solo due cose, credo, per essere sempre pronti a ben giudicare: una è la conoscenza della verità, l altra è l abitudine grazie alla quale ci si ricorda di questa conoscenza e la si segue ogni volta che l occasione lo richiede. Ma, poiché solo Dio sa perfettamente tutte le cose, dobbiamo accontentarci di sapere solo quelle che ci servono di più. Tra queste, la prima e la principale è che c è un Dio, le cui perfezioni sono infinite, il potere immenso e i decreti infallibili, da cui dipendono tutte le cose. Questo, infatti, ci insegna a ricevere di buon animo tutte le cose che ci accadono come se ci fossero inviate espressamente da Dio. E poiché il vero oggetto dell amore è la perfezione, quando eleviamo la nostra mente a considerare Dio qual è ci scopriamo così naturalmente inclini ad amarlo, che traiamo gioia perfino dalle nostre afflizioni, pensando di fare la sua volontà accettandole. La seconda cosa che bisogna conoscere è la natura della nostra anima, in quanto sussiste senza il corpo ed è molto più nobile di questo e capace di godere di un infinità di gioie che non si trovano in questa vita: questo, infatti, ci impedisce di temere la morte e distacca talmente i nostri affetti dalle cose del mondo, che guardiamo solo con disprezzo tutto ciò che appartiene al potere della fortuna. A ciò può servire molto avere una giusta opinione delle opere di Dio e avere quella vasta idea dell estensione dell universo che ho cercato di far concepire nel terzo libro dei miei Principi. Infatti, se immaginiamo che al di là dei cieli ci siano solo spazi immaginari e che tutti questi cieli siano stati fatti per servire la Terra, e la Terra per l uomo, ne segue che siamo inclini a pensare che questa Terra sia la nostra dimora principale, e questa la nostra vita migliore. Allora, invece di conoscere le perfezioni che sono veramente in noi, attribuiamo alle altre creature, per innalzarci al di sopra di loro, imperfezioni che non hanno e con un impertinente presunzione pretendiamo di essere i consiglieri di Dio e di condividere con lui il peso di governare il mondo. Ciò causa un infinità di vane inquietudini e di turbamenti. Dopo aver riconosciuto la bontà di Dio, l immortalità delle nostre anime e la grandezza dell universo, c è ancora una verità che ci è molto utile conoscere, ossia il fatto che, sebbene ognuno di noi sia una persona separata dalle altre, i cui interessi sono, di conseguenza, in qualche modo distinti da quelli del resto del mondo, dobbiamo tuttavia pensare che non sapremmo sussistere da soli e che siamo, infatti, una delle parti dell universo, e più precisamente una delle parti di questa Terra, una delle parti di questo stato, di questa società, di questa famiglia, cui siamo uniti per dimora, patto e nascita. E bisogna sempre preferire gli interessi del tutto di cui facciamo parte a quelli della propria persona; ma con misura e discrezione, perché avremmo torto ad esporci a un gran male per procurare solo un piccolo bene ai nostri parenti o al

11 11 nostro paese; e se un uomo da solo vale più di tutto il resto della sua città, non avrebbe motivo di volersi perdere per salvarla. Ma se riferissimo tutto a noi stessi, non avremmo paura di nuocere molto agli altri se credessimo di riceverne qualche piccolo vantaggio, e non ci sarebbe nessuna vera amicizia, nessuna fedeltà e, in generale, nessuna virtù; mentre, considerandoci come una parte della collettività, proviamo piacere a fare del bene a tutti e non temiamo nemmeno di mettere a rischio la nostra vita per essere utili agli altri, quando se ne presenti l occasione; o vorremmo persino perdere la nostra anima, se potessimo, per salvare gli altri. In questo modo, questa considerazione è la fonte e l origine di tutte le azioni più eroiche compiute dagli uomini. Quanto poi a coloro che si espongono alla morte per vanità perché sperano di essere lodati, o per stupidità, perché non temono il pericolo, credo che siano più da compatire che da lodare. Ma quando qualcuno vi si espone perché crede che sia suo dovere, o sopporta qualche altro male perché ne consegua del bene agli altri, anche se forse non riflette che fa tutto ciò perché deve di più alla collettività, di cui è membro, che a se stesso come singolo, lo fa tuttavia in virtù di questa considerazione, che è nei suoi pensieri in maniera confusa. E si è naturalmente portati ad averla, quando si conosce e si ama Dio come si deve: allora, infatti, rimettendosi completamente alla sua volontà, ci si spoglia dei propri interessi e non si ha altra passione se non quella di fare ciò che si crede essergli gradito. Ne derivano soddisfazioni dell animo e appagamenti che valgono incomparabil mente di più di tutte le piccole gioie passeggere che dipendono dai sensi. Oltre a queste verità, che riguardano in genere tutte le nostre azioni, bisogna conoscerne anche molte altre, che sono in rapporto più particolare con ciascuna di esse. Le principali mi sembrano quelle che ho sottolineato nella mia ultima lettera: ossia, che tutte le nostre passioni ci rappresentano i beni che ci incitano a cercare come molto più grandi di quel che sono realmente; e che i piaceri del corpo non sono mai così duraturi come quelli dell anima, né così grandi, quando ne veniamo in possesso, come ci sembravano quando li cerchiamo. Ciò che dobbiamo osservare con cura, affinché, quando ci sentiamo mossi da qualche passione, sospendiamo il giudizio fino a quando non si sia placata; e affinché non ci lasciamo facilmente ingannare dal falso aspetto dei beni di questo mondo. A ciò non posso aggiungere altro, se non che bisogna anche esaminare in dettaglio tutti i costumi del luogo in cui viviamo per sapere fino a che punto debbano esse seguiti. E sebbene non possiamo avere dimostrazioni certe di tutto, dobbiamo nondimeno prendere posizione e abbracciare le opinioni che ci sembrano più verosimili a proposito di tutte le cose di comune utilità affinché, quando dobbiamo agire, non restiamo mai indecisi. Solo l indecisione, infatti, causa i rimpianti e i pentimenti. Quanto al resto, ho detto poco sopra che per poter sempre ben giudicare è richiesta, oltre alla conoscenza della verità, anche l abitudine. Infatti, dal momento che non possiamo essere continuamente attenti ad una stessa cosa, per quanto chiare ed evidenti ci siano sembrate le ragioni che ci hanno convinto in precedenza di una qualche verità, delle false apparenze possono, in seguito, distoglierci dal credervi, se una lunga e frequente meditazione non l abbia talmente impressa nel nostro animo, che essa sia diventata un abitudine. In questo senso hanno ragione, nella Scuola, di dire che le virtù sono abitudini; infatti quasi mai siamo manchevoli nel conoscere in teoria quel che dobbiamo fare, ma solo nel non averne la pratica, ossia nel non aver una ferma abitudine di credervi. E poiché, prendendo qui in esame queste verità, ne aumento anche in me l assuefazione, sono particolarmente grato a Vostra Altezza che mi permette di intrattenerla in tal modo, giacché non c è modo migliore di impiegare il mio tempo che nel dimostrare che sono, Signora, il molto umile e obbediente servitore di Vostra Altezza, Descartes

12 12 Sulla questione metafisica dell unione, la principessa fresca della lettura delle Meditationes si rivolge al filosofo per ottenere una risposta definitiva alla questione. Com è noto, la questione dell unione è introdotta nelle Meditationes (II e VI soprattutto). Possiamo aggiungere che essa è oggetto di discussione nelle Objectiones e Responsiones, che torna in Principia I e II (1644) e in Notae in programma quoddam (1648): «Lodo, poi, che chiami [Regius] l anima razionale col nome di mente umana: in tal modo, infatti, evita l equivoco che c è nel nome di anima; ed in questo mi imita». Ora, nelle Meditationes, Descartes aveva sostituito il termine mens a quello di anima nel titolo (De mente humana) di Meditatio II e, in Responsiones II, apertis verbis, aveva stigmatizzato l equivocità del termine anima: «Parlo qui di mente, piuttosto che di anima, perché il nome di anima è equivoco, e la si usa spesso in modo improprio (usurpari), per cosa corporea». MORALE PROVVISORIA E COSTRUZIONE SCIENTIFICA Descartes a Mersenne B. p. 965) 9 gennaio 1639 Reverendo Padre, 1. dovrei essere assai stanco di vivere se trascurassi di conservarmi <in salute>dopo aver letto le vostre ultime lettere, in cui mi scrivete che voi e qualche altra persona di altissimo merito, vi preoccupate per me temendo che sia malato se restate per più di quindici giorni senza ricevere mie lettere. Ma è da trent anni che, grazie a Dio, non ho avuto alcuna malattia che meritasse un tale nome. E poiché l età mi ha tolto quel calore di fegato che in altri tempi mi faceva amare le armi, e poiché ormai faccio professione solo di fiacchezza, e ho anche acquisito qualche conoscenza di medicina, e mi sento vivere, e mi tasto con la stessa cura di un ricco gottoso, mi sembra quasi di essere più lontano dalla morte adesso di quanto non lo fossi da giovane. E se Dio non mi dà una scienza sufficiente a evitare gli inconvenienti portati dall età, spero che mi lasci, in questa vita, almeno il tempo per sopportarli. Nondimeno, tutto dipende dalla sua provvidenza a cui, scherzi a parte, mi sottometto di buon cuore come può aver fatto padre Joseph; e uno dei punti della mia morale è di amare la vita senza temere la morte. Lettera prefazione, B Op I 2231: «Così, tutta la filosofia è come un albero, le cui radici sono la metafisica, il tronco è la fisica e i rami che escono da questo tronco sono tutte le altre scienze, che si riducono a tre principali, cioè la medicina, la meccanica e la morale, intendo la più alta e perfetta morale, la quale, presupponendo una completa conoscenza delle altre scienze, è l ultimo grado della saggezza. Ora, come non è dalle radici, né dal tronco degli alberi, che si colgono i frutti, ma soltanto dalle estremità dei loro rami, così la principale utilità della filosofia dipende da quelle sue parti che non si possono apprendere che per ultime. Ma benché io le ignori quasi tutte, lo zelo che ho sempre avuto per cercare di essere utile al pubblico è la ragione per cui ho fatto stampare, dieci o dodici anni fa, qualche saggio delle cose che mi sembrava di avere appreso. La prima parte di questi saggi era costituita da un Discorso riguardante il metodo per ben condurre la propria ragione e cercare la verità nelle scienze, nel quale ho messo in compendio le principali regole della logica e di una

13 13 morale imperfetta, che si può seguire provvisoriamente quando ancora non se ne conosce una migliore». Si tratta di una morale che, tuttavia è bastevole per tenerci al riparo da ogni errore e per indurci a sentirci appagati (contentement) Discorso, III, B Op I 49: «Infine, dato che non basta, prima di incominciare a ricostruire la propria abitazione, abbatterla e provvedere ai materiali e agli architetti, o esercitarsi nell architettura ed, inoltre, aver con cura disegnato il progetto, ma occorre anche essersi provvisti di un altro alloggio in cui si possa abitare comodamente per tutto il tempo necessario ai lavori, così, per non rimanere irrisoluto nelle mie azioni nel tempo in cui la mia ragione mi costringeva ad esserlo nei miei giudizi, e per cercare di vivere sin da allora il più felicemente possibile, mi formai una morale provvisoria, consistente solo in tre o quattro massime di cui volentieri vi faccio parte» Burman, B Op II 1305: «L autore non scrive volentieri di etica, ma è stato costretto a scrivere queste regole dalle pressioni dei pedagoghi e di persone di tal fatta: altrimenti avrebbero detto che è senza religione, senza fede, e che vuole rovesciarle con il suo metodo». [Cfr. (AT V 178). Discours, III, pp : «La prima era di obbedire alle leggi e ai costumi del mio paese, continuando ad osservare la religione in cui Dio m ha fatto grazia di essere educato sin dalla mia infanzia e seguendo, per il resto, le opinioni più moderate e più lontane dall eccesso che fossero in genere messe in pratica dalle persone più ragionevoli tra coloro in cui mi trovassi a vivere. Infatti, cominciando allora a non tenere più nessun conto delle mie opinioni, poiché volevo tutte sottoporle ad esame, ero certo di non poter fare nulla di meglio che seguire le opinioni dei più accorti. E, per quanto vi siano forse persone altrettanto assennate tra i persiani o i cinesi quanto ve ne sono tra di noi, mi sembrava che la cosa più utile fosse regolarmi seguendo coloro tra i quali mi fossi trovato a vivere e che, per sapere quali fossero veramente le loro opinioni, dovevo fare attenzione piuttosto a quello che facevano che a quello che dicevano: non solo per il fatto che nella corruzione dei nostri costumi sono in pochi a voler dire tutto quel che credono, ma anche perché molti lo ignorano essi stessi. Infatti, poiché l azione del pensiero per cui si crede una cosa è differente da quella per cui si sa di crederla, spesso c è l una ma non l altra. E, tra più opinioni tutte ugualmente accolte, sceglievo solo le più moderate, sia per il fatto che sono sempre le più comode nella pratica e, verosimilmente, le migliori, essendo ogni eccesso di solito riprovevole, sia, in caso fallissi, per allontanarmi dal vero cammino meno di quanto avrei fatto se, scelto uno degli estremi, fosse poi stato l altro quello che bisognava seguire. In particolare, ponevo tra gli eccessi tutte le promesse con cui si limita in qualcosa la propria libertà. Non che disapprovassi le leggi che, per rimediare all incostanza degli ingegni deboli, quando si ha un qualche buon proposito, o anche, per la sicurezza del commercio se non si nuoce ad alcuno, permettono di stipulare promesse o contratti che obbligano a perseverare; ma poiché non vedevo al mondo nulla che rimanesse sempre nello stesso stato, e siccome mi promettevo per ciò che mi riguardava di perfezionare sempre più i miei giudizi, e non di renderli peggiori, avrei pensato di offendere molto il buon senso se per il fatto che approvavo allora qualcosa, mi fossi costretto a prenderla per buona anche in seguito, quando forse non lo sarebbe più stata, o quando io non l avessi più stimata tale». Questi stessi concetti ripete in una lettera ad Elisabetta del 4 agosto 1645, B 514, p. 2059: «Ebbene, mi sembra che ciascuno possa raggiungere l appagamento da sé, senza aspettarsi niente dall esterno, purché osservi tre cose, cui si riferiscono le regole della morale che ho posto nel

14 14 Discorso sul Metodo. La prima è che cerchi sempre di servirsi della sua mente, al meglio delle sue possibilità, per conoscere quel che deve e non deve fare in ogni circostanza della vita. La seconda è che mantenga un fermo e costante proposito di applicare tutto ciò che la ragione gli consiglia, senza lasciarsi distrarre dalle sue passioni o dai suoi appetiti. È proprio la fermezza di questo proposito, che credo debba essere identificata con la virtù, sebbene non mi risulti che qualcuno l abbia mai definita così; essa è stata invece suddivisa in più specie, definite in vari modi, a causa dei diversi oggetti cui si estende. La terza è che, mentre si comporta così, consideri per quanto può, secondo ragione, che tutti i beni che non possiede sono completamente al di là del suo potere, e, in questo modo, si abitui a non desiderarli. Infatti, nulla quanto il desiderio e il rimpianto, o il pentimento, possono impedirci di essere contenti, ma se facciamo sempre tutto ciò che ci detta la nostra ragione, non avremo mai nessun motivo di pentirci, anche se gli avvenimenti ci facessero constatare in seguito che ci siamo sbagliati, perché non sarebbe colpa nostra. Se poi non desideriamo avere, per esempio, più braccia e più lingue di quelle che abbiamo, mentre invece desideriamo avere più salute e più ricchezze, è solo perché immaginiamo che queste ultime potrebbero essere ottenute grazie al nostro comportamento, oppure che esse sono dovute alla nostra natura, il che non avviene per le altre; opinione della quale potremo liberarci, se consideriamo che, poiché abbiamo sempre seguito i consigli della nostra ragione, non abbiamo tralasciato niente che fosse in nostro potere, e che le malattie e le sfortune non sono meno naturali per l uomo della prosperità e della salute». Obbedire alle leggi e ai costumi del mio paese Discours, II, B Op I 39-41: «È vero che non vediamo mai abbattere tutte le case di una città al solo scopo di rifarle in altro modo e di rendere le strade più belle; si vede tuttavia che parecchi fanno abbattere le proprie per riedificarle e addirittura vi sono sovente costretti quando le loro case sono in pericolo di cadere da sé e le loro fondamenta non sono solide. Allo stesso modo mi convinsi che non era verosimile che un privato si proponesse di riformare uno Stato cambiando tutto a partire dalle fondamenta e rovesciandolo per ricostituirlo. E non era neppure verosimile proporre di riformare il corpo delle scienze o l ordine stabilito nelle scuole per insegnarle. Ma, per quanto riguardava tutte le opinioni che avevo accolte sino ad allora, non potevo far di meglio che iniziare, una buona volta, ad eliminarle per ristabilirne in seguito altre migliori oppure le stesse dopo che le avessi ricondotte alla ragione. E credetti fermamente che, in questo modo, sarei riuscito a condurre la mia vita molto meglio che se avessi costruito su vecchie fondamenta e se mi fossi appoggiato ai principi che avevo accolto in gioventù senza mai esaminare se fossero veri. Infatti, per quanto notassi in ciò diverse difficoltà, esse non erano tuttavia senza rimedio e neppure erano comparabili a quelle che si incontrano nella riforma delle più piccole cose riguardanti l ordine pubblico. Questi grandi corpi sono troppo difficili da risollevare una volta abbattuti o anche da sostenere quando ne viene minata la stabilità, e le loro cadute sono sempre troppo rovinose. Poi, per quanto riguarda le loro imperfezioni (se ne hanno), posto che la sola diversità che si trova tra di essi basta per assicurare che molti ne possiedono, l uso le avrà senza dubbio alquanto addolcite e ne avrà evitate o corrette una grande quantità, alle quali con la prudenza non si potrebbe sopperire altrettanto bene. Infine, poi, tali imperfezioni sono quasi sempre più sopportabili di quanto non sarebbe il loro cambiamento: così i grandi camminamenti che si snodano attorno alle montagne divengono poco a poco tanto agevoli e comodi, a forza di essere battuti, che è molto meglio seguirli che non iniziare a procedere dritto arrampicandosi sopra le rocce e scendendo in fondo ai precipizi. Ecco perché non potrei approvare in alcun modo quei temperamenti disordinati e inquieti che senza essere chiamati, per nascita o per fortuna, ad occuparsi degli affari pubblici, non smettono di progettarvi, con le proprie idee, una qualche nuova riforma. Se pensassi poi che in questo scritto vi fosse la minima cosa per la quale potessi essere sospettato di una tale follia, sarei assai contrario ad accettare che venisse pubblicato. Mai il mio proposito è andato oltre l intenzione di riformare i miei propri pensieri e di costruire su una proprietà che non mi appartiene completamente».

15 15 Il trattato delle passioni Il trattato delle passioni può essere considerato il quinto libro dei "Principi di filosofia" in quanto estendono la trattazione scientifica della natura e di quella umana in particolare ai problemi dell agire: nella metafora dell albero della conoscenza, dal tronco (fisica) si passa ai rami: medicina, meccanica, morale. Due modelli concezione mente/corpo: A) modello platonico. Per Platone anima e corpo sono due sostanze che convergono in una unione sostanziale. Questo è il cosiddetto dualismo platonico: il corpo è prigione dell anima, l anima è incarcerata nel corpo. Nel Medioevo questa concezione sarà definita unio accidentale: anima e corpo in quanto sono due sostanze e non possono costituire un unica sostanza. Essendo, infatti, la sostanza ciò che è per sé non è possibile che due sostanze si uniscano una unione sostanziale; B) modello aristotelico. Per Aristotele: anima e corpo sono due principi che convergono in una unione sostanziale. L anima è, allora, un sinolo: l anima è atto, forma del corpo e sta al corpo come la forma sta alla materia. Anche forma e materia non sono due sostanze, ma due principi che formano una sola sostanza: la loro è una unione sostanziale. Nel Medioevo la dottrina aristotelica pose il problema della separabilità di anima e corpo. Se, infatti, l anima è forma del corpo, non può essere separata dal corpo. SE non può essere separata, non è immortale. Ad Alessandro di Afrodìsia si deve la vulgata secondo la quale l anima non è immortale: se noi pensiamo anima e corpo come due principi fondiamo l unità, ma perdiamo l immortalità. Tommaso fornì la soluzione a questa questione: anima e corpo sono i due co- principi che formano una sostanza, però l anima, a differenza del corpo, è una sostanza. Questo significa: l anima è sostanza e co- principio; quindi l anima è una sostanza, un ente dotato di sotanzialità che conferisce sostanzialità ad un altra sostanza. Descartes è l erede della teoria tomistica modificata: l anima è una sostanza e per questo è immortale, ma è una sostanza che conferisce immortalità. Descartes, cioè, accoglie la tradizione tomista, ma a differenza di Tommaso, secondo il quale solo l anima è sostanza, ritiene che mente e corpo sono entrambe sostanze. Descartes nega che l unione tra anima e corpo sia accidentale. Descartes ribadisce che distinzione reale e unione sostanziale (nelle Meditationes aveva usato l espressione unione strettissima ) sono entrambe vere e dunque respinge la soluzione platonica. Ciò risulta evidente nelle Responsiones IV (B Op I 987): «Neppure vedo in che modo questo argomento provi troppo. Per mostrare che una cosa si distingue realmente da un altra, infatti, il meno che si possa dire è che può esserne separata dalla potenza divina. E mi è sembrato sufficiente impegnarmi diligentemente a evitare che qualcuno ritenesse per questo che l uomo fosse soltanto un animo che si serve di un corpo. Infatti, nella stessa sesta meditazione, in cui ho trattato della distinzione della mente dal corpo, ho insieme provato anche che essa gli è unita sostanzialmente; ed ho utilizzato argomenti dei quali non ricordo di aver letto, da nessuna parte, di più forti per provare la medesima cosa».

16 16 Descartes non dirà mai che anima e corpo costituiscono una unica sostanza: nella VI Meditazione costituiscono un unum quid. Ad Elisabetta dirà che sono vere entrambe: distinzione reale ed unione sostanziale lettera ad Elisabetta del 4 agosto 1645, B 514, p. 2059: «Ebbene, mi sembra che ciascuno possa raggiungere l appagamento da sé, senza aspettarsi niente dall esterno, purché osservi tre cose, cui si riferiscono le regole della morale che ho posto nel Discorso sul Metodo. La prima è che cerchi sempre di servirsi della sua mente, al meglio delle sue possibilità, per conoscere quel che deve e non deve fare in ogni circostanza della vita. La seconda è che mantenga un fermo e costante proposito di applicare tutto ciò che la ragione gli consiglia, senza lasciarsi distrarre dalle sue passioni o dai suoi appetiti. È proprio la fermezza di questo proposito, che credo debba essere identificata con la virtù, sebbene non mi risulti che qualcuno l abbia mai definita così; essa è stata invece suddivisa in più specie, definite in vari modi, a causa dei diversi oggetti cui si estende. La terza è che, mentre si comporta così, consideri per quanto può, secondo ragione, che tutti i beni che non possiede sono completamente al di là del suo potere, e, in questo modo, si abitui a non desiderarli. Infatti, nulla quanto il desiderio e il rimpianto, o il pentimento, possono impedirci di essere contenti, ma se facciamo sempre tutto ciò che ci detta la nostra ragione, non avremo mai nessun motivo di pentirci, anche se gli avvenimenti ci facessero constatare in seguito che ci siamo sbagliati, perché non sarebbe colpa nostra. Se poi non desideriamo avere, per esempio, più braccia e più lingue di quelle che abbiamo, mentre invece desideriamo avere più salute e più ricchezze, è solo perché immaginiamo che queste ultime potrebbero essere ottenute grazie al nostro comportamento, oppure che esse sono dovute alla nostra natura, il che non avviene per le altre; opinione della quale potremo liberarci, se consideriamo che, poiché abbiamo sempre seguito i consigli della nostra ragione, non abbiamo tralasciato niente che fosse in nostro potere, e che le malattie e le sfortune non sono meno naturali per l uomo della prosperità e della salute». Obbedire alle leggi e ai costumi del mio paese Discours, II, B Op I 39-41: «È vero che non vediamo mai abbattere tutte le case di una città al solo scopo di rifarle in altro modo e di rendere le strade più belle; si vede tuttavia che parecchi fanno abbattere le proprie per riedificarle e addirittura vi sono sovente costretti quando le loro case sono in pericolo di cadere da sé e le loro fondamenta non sono solide. Allo stesso modo mi convinsi che non era verosimile che un privato si proponesse di riformare uno Stato cambiando tutto a partire dalle fondamenta e rovesciandolo per ricostituirlo. E non era neppure verosimile proporre di riformare il corpo delle scienze o l ordine stabilito nelle scuole per insegnarle. Ma, per quanto riguardava tutte le opinioni che avevo accolte sino ad allora, non potevo far di meglio che iniziare, una buona volta, ad eliminarle per ristabilirne in seguito altre migliori oppure le stesse dopo che le avessi ricondotte alla ragione. E credetti fermamente che, in questo modo, sarei riuscito a condurre la mia vita molto meglio che se avessi costruito su vecchie fondamenta e se mi fossi appoggiato ai principi che avevo accolto in gioventù senza mai esaminare se fossero veri. Infatti, per quanto notassi in ciò diverse difficoltà, esse non erano tuttavia senza rimedio e neppure erano comparabili a quelle che si incontrano nella riforma delle più piccole cose riguardanti l ordine pubblico. Questi grandi corpi sono troppo difficili da risollevare una volta abbattuti o anche da sostenere quando ne viene minata la stabilità, e le loro cadute sono sempre troppo rovinose. Poi, per quanto riguarda le loro imperfezioni (se ne hanno), posto che la sola diversità che si trova tra di essi basta per assicurare che molti ne possiedono, l uso le avrà senza dubbio alquanto addolcite e ne avrà evitate o corrette una grande quantità, alle quali con la prudenza non si potrebbe sopperire altrettanto bene. Infine, poi, tali imperfezioni sono quasi sempre più sopportabili di quanto non sarebbe il loro cambiamento: così i grandi camminamenti che si snodano attorno alle montagne divengono poco a

17 17 poco tanto agevoli e comodi, a forza di essere battuti, che è molto meglio seguirli che non iniziare a procedere dritto arrampicandosi sopra le rocce e scendendo in fondo ai precipizi. Ecco perché non potrei approvare in alcun modo quei temperamenti disordinati e inquieti che senza essere chiamati, per nascita o per fortuna, ad occuparsi degli affari pubblici, non smettono di progettarvi, con le proprie idee, una qualche nuova riforma. Se pensassi poi che in questo scritto vi fosse la minima cosa per la quale potessi essere sospettato di una tale follia, sarei assai contrario ad accettare che venisse pubblicato. Mai il mio proposito è andato oltre l intenzione di riformare i miei propri pensieri e di costruire su una proprietà che non mi appartiene completamente». Discours, VI, B Op I 97 «Non ho mai tenuto in gran conto le cose che provenivano dal mio ingegno e, fin quando non ho raccolto altri frutti dal metodo di cui mi servo a parte la soddisfazione nel risolvere difficoltà che appartengono alle scienze speculative o cercare di condurre i miei costumi secondo le ragioni che tale metodo mi insegnava, non ho creduto di essere tenuto a scriverne nulla. Infatti, per quanto riguarda i costumi, ciascuno pensa di essere cosi ben provvisto di buon senso, che si potrebbero trovare altrettanti riformatori che teste se fosse permesso ad altri di mutarli, oltre coloro che Dio ha posto come sovrani sui suoi popoli o a cui ha donato grazia e zelo sufficienti per essere profeti; e, anche se le mie speculazioni mi piacevano molto, ho creduto che anche altri ne avessero che piacevano loro forse anche di più». Conviene tener conto più di quel che fanno che di quel che dicono Discours, I, B Op I 35 «Mi sembrava, infatti, che avrei potuto incontrare una maggiore verità nei ragionamenti che ciascuno fa sugli affari che lo riguardano, ed il cui esito lo punirà subito se ha mal giudicato, di quanto se ne trovi in quelli fatti da un uomo di lettere nel suo studio, su speculazioni che non producono effetto alcuno, e che non hanno per lui altra conseguenza se non che, forse, ne trarrà una maggiore vanità quanto più esse saranno lontane dal senso comune, per il fatto che avrà dovuto impiegare più ingegno ed artificio per cercare di renderle verosimili. Avevo sempre un grandissimo desiderio di imparare a distinguere il vero dal falso, per vedere chiaro nelle mie azioni e procedere con sicurezza in questa vita». Perché è ragionevole mettere tra gli «eccessi tutte le promesse»: a) «perché non vedo alcuna cosa al mondo che perduri nello stesso stato» Mondo, cap. III (La durezza e la fluidità), B Op II «Considero che nel mondo c è un infinità di diversi movimenti che durano perpetuamente. E dopo aver osservato i più grandi, che danno origine ai giorni, ai mesi e agli anni, mi rendo conto che i vapori della terra non cessano di salire verso le nuvole e di discenderne, che l aria è sempre agitata dai venti, che il mare non è mai in riposo, che le fonti e i fiumi scorrono senza sosta, che gli edifici più solidi alla fine vanno in rovina, che le piante e gli animali non fanno che crescere o corrompersi: insomma, che non c è nulla, in nessun luogo, che non muti» b) in cosa le modificazioni della natura modificano il nosro corpo e in qual modo il nostro spirito sia modificato da ciò che modifica il nostro corpo Passions, artt. XXVII e XVIII, B Op I 2359 ARTICOLO XXVII (La definizione delle passioni dell anima): «Dopo aver considerato in che cosa le passioni dell anima differiscano da tutti gli altri suoi pensieri, mi sembra che si possa definirle in generale come percezioni o sensazioni o emozioni dell anima che si riferiscono a essa in particolare e che sono causate, mantenute e rafforzate da qualche movimento degli spiriti». ARTICOLO XXVIII (Spiegazione della prima parte di questa definizione): «Possiamo chiamarle

18 18 percezioni quando ci si serve di questo termine in senso generale per significare tutti i pensieri che non sono azioni dell anima o delle volontà, ma non quando lo si usa per significare delle conoscenze evidenti. Infatti, l esperienza mostra che coloro che sono più agitati dalle passioni non sono quelli che le conoscono meglio, e che esse rientrano in quel novero di percezioni che la stretta alleanza tra anima e corpo rende confuse e oscure. Possiamo anche chiamarle sensazioni, in quanto sono ricevute nell anima allo stesso modo degli oggetti dei sensi esterni, e non sono conosciute da essa in maniera diversa. Ma ancora meglio possiamo chiamarle emozioni dell anima, non soltanto perché questo nome può essere attribuito a tutti i cambiamenti che avvengono in essa, cioè a tutti i diversi pensieri che le vengono, ma in particolare perché di tutti i tipi di pensieri che può avere, non ce ne sono altri che la agitino e la scuotano con tanta forza come tali passioni». Sull incostanza degli spiriti deboli Passions, art. XL, B Op I 2369, a) ARTICOLO XL (Qual è il principale effetto delle passioni): «Bisogna, infatti, notare che il principale effetto di tutte le passioni negli uomini è che esse incitano e dispongono la loro anima a volere le cose per cui preparano il loro corpo, di modo che il sentimento della paura la incita a voler fuggire, quello dell audacia a voler combattere, e così via». b) Articolo XLIX, B Op 2379: (La forza dell anima non basta senza la conoscenza della verità): «È vero che vi sono pochissimi uomini così deboli e irresoluti da volere soltanto quello che detta loro la passione. La maggior parte ha giudizi determinati, in base ai quali regola una parte delle proprie azioni. E benché spesso tali giudizi siano falsi, o anche fondati su passioni dalle quali la volontà si è in precedenza lasciata vincere o sedurre, tuttavia, poiché essa continua a seguirli anche quando la passione che li ha causati è assente, possiamo considerarli come le sue proprie armi e pensare che le anime siano più forti o più deboli, a seconda che possano seguire più o meno tali giudizi e resistere alle passioni presenti che sono contrarie ad essi. Rimane tuttavia una grande differenza tra le risoluzioni che procedono da una falsa opinione e quelle che non si appoggiano che sulla conoscenza della verità, in quanto, se si seguono queste ultime, si è certi di non avere mai un rimpianto, né un pentimento, mentre se ne hanno sempre di aver seguito le prime, quando si scopre l errore». Procedimento nelle Meditationes a) Esistenza dell io (Meditatio: II) b) di Dio (Meditatio: III) c) Essenza dei corpi (Meditatio: IV) d) Distinzione reale; esistenza dei corpi (Meditatio V). L esistenza dei corpi nasce da un idea rispetto alla quale sono passivo («me invito»: Meditationes I: B Op I 708; Responsiones VII: B Op I 1344): il mio rapporto con i corpi è passivo. Sono propenso a credere che le idee delle cose derivano da cose fuori di me; questa propensione è vera in quanto Dio non ci inganna; io sono passivo rispetto a queste idee. Excursus sulle tre tipologie di idee: innate, fattizie, avventizie. La veracità di Dio, ens summe perfectum et infinite, mi garantisce anche rispetto alla affidabilità delle mie propensioni naturali. e) Unione sostanziale (Meditatio: VI): tale teoria presuppone l esistenza dei corpi (ordo rationum). Se non ci fosse questa premessa, la teoria sarebbe contraddittoria perché non avrebbe un termine. Meditatio VI, B Op I 787/789: «Ora, non c è nulla che questa natura mi insegni in modo più espresso del fatto che ho un corpo, che sta male quando sento dolore, che ha bisogno di mangiare o di bere, quando ho fame o sete, e altro di simile; e quindi non devo dubitare che in ciò vi sia

19 19 qualcosa di vero [unione nel mio corpo ]. La natura mi insegna anche, attraverso queste sensazioni di dolore, di fame, di sete ecc., che io non solo mi trovo nel mio corpo come un pilota si trova nella sua nave, ma sono ad esso strettissimamente congiunto e quasi commisto, così da comporre con esso un qualcosa d uno [unione strettisima]. Diversamente, infatti, io, che non sono null altro che una cosa pensante, quando il corpo è ferito non per questo sentirei dolore, ma percepirei questa ferita col puro intelletto, come un pilota percepisce con la vista se qualcosa si rompe nella nave; e quando il corpo ha bisogno di mangiare o di bere, lo intenderei in modo espresso, e non avrei confuse sensazioni di fame e sete [Descartes respinge l idea riconducibile a Platone, come Aristotele racconta, al quale si attribuisce l idea che l anima è estrinseca al corpo unione accidentale che è il luogo dell anima: corpo è carcere]. Certamente, infatti, queste sensazioni di sete, di fame, di dolore e così via, non sono altro che modi confusi del pensare originati dall unione, quasi una commistione, della mente col corpo» [Cfr. A Regius, dove si fa una differenza con gli angeli che sentono con l intelletto]. Responsiones IV (B Op I 987): «Neppure vedo in che modo questo argomento provi troppo. Per mostrare che una cosa si distingue realmente da un altra, infatti, il meno che si possa dire è che può esserne separata dalla potenza divina. E mi è sembrato sufficiente impegnarmi diligentemente a evitare che qualcuno ritenesse per questo che l uomo fosse soltanto un animo che si serve di un corpo. Infatti, nella stessa sesta meditazione, in cui ho trattato della distinzione della mente dal corpo, ho insieme provato anche che essa gli è unita sostanzialmente; ed ho utilizzato argomenti dei quali non ricordo di aver letto, da nessuna parte, di più forti per provare la medesima cosa». Descrizione del corpo umano (B Op II 511): «Non c è niente di cui ci si possa occupare con maggior profitto, che cercare di conoscere se stessi. E l utilità che si deve sperare da questa conoscenza non concerne solo la Morale, così come appare sulle prime a molti, ma particolarmente anche la Medicina nella quale, credo, si sarebbero potuti trovare molti precetti sicurissimi, sia per guarire le malattie che per prevenirle, e persino per ritardare il corso della vecchiaia, se ci si fosse sufficientemente dedicati a conoscere la natura del nostro corpo e non si fossero attribuite all anima le funzioni che dipendono solo da esso e dalla disposizione dei suoi organi. Ma poiché noi tutti abbiamo provato, sin dalla nostra infanzia, che molti dei suoi movimenti obbediscono alla volontà, la quale è una delle potenze dell anima, ciò ci ha indotti a credere che l anima è il principio di tutti. A ciò ha contribuito anche molto l ignoranza dell Anatomia e delle Meccaniche: infatti, non considerando nient altro se non l esterno del corpo umano, noi non abbiamo affatto immaginato che esso avesse in sé a sufficienza organi, o ingranaggi, per muoversi da se stesso nelle tante diverse maniere in cui vediamo che esso si muove». Uomo, B Op II 361/363: «Questi uomini saranno composti, come noi, di un anima e di un corpo. E bisogna che vi descriva, a parte, in primo luogo, il corpo, poi, dopo, l anima, anch essa a parte; ed infine che vi mostri come queste due nature debbano essere congiunte ed unite in modo da comporre uomini che ci rassomiglino. Suppongo che il corpo non sia altra cosa se non una statua o una macchina di terra, che Dio forma di proposito per renderla quanto più possibile simile a noi, di modo che non solo le dia all esterno il colore e la figura delle nostre membra, ma anche che ponga all interno tutti i pezzi che sono richiesti per far sì che cammini, mangi, respiri e, infine, imiti tutte le nostre funzioni che si immagina possano procedere dalla materia e dipendere dalla sola disposizione degli organi. Vediamo orologi, fontane artificiali, mulini e altre macchine simili che, pur essendo fatte da uomini, non per questo non hanno la forza di muoversi da se stesse in molti e diversi modi; e mi sembra che non saprei immaginare tante specie di movimenti in questa che suppongo essere fatta dalle mani di Dio, né attribuirle tanti artifici, che voi non abbiate motivo di pensare che ne possa avere ancora di più».

20 20 maggio 1643 Epistola a Voetius teologo di Utrecht distinzione tra erudito e dotto Voetius non è un erudito, ma il dotto che la scuola produce e che usa la stessa arte dialettica «mediante la quale una volta i Sofisti, privi di ogni solida scienza, dissertavano e discutevano copiosamente di qualsivoglia argomento» (B Op I 1549; AT VIII-2 50). in questa epistola uno spaccato della vita accademica nelle Provincie Unite che fissa dall interno immagini vive dell insegnamento universitario e del peculiare legame tra Accademia, Chiesa riformata, magistrature cittadine. La distinzione fra doctus ed eruditus ed i tre generi di libri Essa riprende ed amplia, a proposito dei dotti, sia l accenno presente nel Discorso («Considerando quante diverse opinioni su uno stesso argomento siano sostenute dai dotti»), sia, soprattutto, la definizione di bona mens delle Regole «Tutta l erudizione, tutto il buon senso, tutta la sapienza umana» consistono nel buon uso della ragione; che la vera sapienza non consiste in «sillogismi disgiunti, ma soltanto in un collegamento avveduto e accurato di tutto ciò che è richiesto alla conoscenza delle verità che si cercano»; che la vera erudizione non dipende dai soli libri; che erudito è colui che pratica la meditazione solitaria, dotto è definito colui che non sa far buon uso della ragione. Il doctus usa l arte della dialettica e la tecnica dei sillogismi disgiunti e, conoscendo solo indici e lessici, non solo non può diventare più sapiente, né migliore, ma, diventa anzi sempre più incapace di usare la ragione naturale e finisce con il sostituirla con una artificiale e sofistica. Di contro, l eruditus usa correttamente la ragione naturale; legge i libri ricolmi di umana sapienza; conversa con praestantes vires; contempla le virtù e ricerca la verità; perfeziona «l ingegno e i suoi costumi»; diventa, via via, sempre più capace di usare correttamente la ragione.[belgioioso] La contrapposizione doctus/eruditus serve ad introdurre una serie di precisazioni a proposito di talune affermazioni avanzate nel Discorso su pregiudizi, librie letture: l espressione deporre i pregiudizi non va intesa, come vorrebbe Voetius, con dimenticare quanto si è appreso (B Op I 1531), né come un invito a non far uso dei libri (B Op I 1533; AT VIII-2 38). Nel Discorso sul Metodo, tutt al contrario, si afferma «che noi cogliamo dalla lettura dei buoni libri il medesimo frutto che dalla conversazione con i grandi uomini che li hanno composti; e forse anche alquanto maggiore, per il fatto che essi sono soliti esprimere con gli scritti non qualunque pensiero ovvio, come in una conversazione familiare, bensì i loro pensieri migliori» (B Op I 1535). In effetti, questo giudizio sui buoni libri è all interno di un elenco di effetti positivi che non scalfiva il giudizio negativo su un «intero corso di studi alla fine del quale si è solitamente annoverati tra i dotti» (B Op I 29; AT VI 4). Da questo il filosofo aveva, anzi, fatto scaturire il proposito «di non cercare altra scienza eccetto quella che avessi potuto trovare in me stesso o nel gran libro del mondo» (B Op I 35). Quanto a Voetius egli, in quanto dotto, si è formatosui libri cattivi. Descartes li distingue in tre generi: il primo è costituito da libri malvagi e vacui ; il secondo da quelli polemici «i cui autori, per spirito di parte, considerano

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