Cassazione: vicino molesto non può essere condannato se rumori restano tra le mura del condominio

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1 Cassazione: vicino molesto non può essere condannato se rumori restano tra le mura del condominio E' sempre più difficile ottenere tutela contro il disturbo arrecato da vicini rumorosi. Secondo la cassazione, infatti, se il nostro dirimpettaio è particolarmente rumoroso, non sarà passibile di condanna penale ai sensi dell'art. 659 del codice penale (Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone) se rumori non si propagano anche fuori dallo stabile. La norma, prevede che "Chiunque, mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche, ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone [...] è punito con l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda fino a euro 309. Per la suprema Corte però, finché i rumori restano all'interno delle mura condominiali, non si concretizza la fattispecie prevista da tale norma. La decisione è della prima sezione penale della corte (sentenza n /2012) e riguarda il caso di tre condomini che in primo grado erano stati condannati per la loro cattiva abitudine di urlare per le scale, sbattere con violenza le porte, e fare rumore sbattendo tavoli e sedie sul pavimento. I condomini rumorosi hanno impugnato la condanna e, dinanzi alla suprema Corte, hanno obiettato che i rumori, essendo rimasti all'interno delle mura condominiali, non avevano turbato la quiete pubblica intesa come collettività indistinta. Una tesi che ha fatto breccia nei giudici della Corte che hanno così annullato la sentenza evidenziando che gli unici danneggiati dai rumori molesti sono stati cinque condomini che occupavano la palazzina e che tali rumori non si sono propagati all'esterno. A questo punto ai condomini non resta altra strada che procedere in sede civile considerato che, vale la pena ricordarlo, l'art. 844 del codice civile, offre una tutela più incisiva dato che è possibile impedire i rumori che superano la soglia della cosiddetta "normale tollerabilità" a prescindere dal fatto che essi si propaghino o no anche all'esterno. In sede penale, invece, la violazione dell'art. 659 c.p. si configura solo se il disturbo riguarda un numero indeterminato di persone. Secondo la Corte, infatti, tale norma ha la finalità "di preservare la quiete e la tranquillità pubblica ed i correlati diritti alle persone all'occupazione ed al riposo; e la giurisprudenza di legittimità è orientata nel senso di ritenere che elemento essenziale di detta contravvenzione sia l'idoneità del fatto ad arrecare disturbo ad un numero indeterminato di persone". (01/07/ N.R.) Cassazione: nozze annullabili anche se vi è stata convivenza di trent'anni In materia di famiglia, con sentenza n depositata il 4 giugno 2012, la Corte di Cassazione ha precisato che la domanda di delibazione dell'annullamento canonico del matrimonio non può essere rigettata sul mero rilievo che fra gli sposi protagonisti del matrimonio annullato per vizio del consenso dalle autorità ecclesiastiche vi stata, dopo le nozze, una convivenza trentennale che ha portato, fra l'altro, alla nascita di tre figli. È questo il contenuto della sentenza degli Ermellini che hanno accolto il ricorso di un uomo avverso la sentenza con cui i giudici

2 d'appello avevano negato la delibazione della sentenza di annullamento del matrimonio canonico. La Corte di Appello spiegava che la circostanza che dalla celebrazione del matrimonio alla sentenza di nullità fossero decorsi ben trent'anni, nel corso dei quali la coppia aveva vissuto "pubblicamente come tale", procreando tre figli, determinasse una volontà di accettazione del rapporto incompatibile con il successivo esercizio della facoltà di rimetterlo in discussione. La coppia proponeva così ricorso per cassazione e gli Ermellini, accoglievano le eccezioni sollevate dalla coppia, cambiando orientamento in materia. La convivenza fra i coniugi successiva alla celebrazione del matrimonio - hanno precisato i giudici di legittimità nella parte motiva della sentenza - non è espressiva delle norme fondamentali che disciplinano l'istituto e, pertanto, non è ostativa, sotto il profilo dell'ordine pubblico interno, alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio canonico. (27/06/ Luisa Foti) Furto cassette di sicurezza: Cassazione, illegittimo il mancato ricorso alle presunzioni Con sentenza 8945, depositata il 4 giugno 2012, la Corte di Cassazione ha stabilito che in caso di furto di cassetta di sicurezza, il mancato ricorso alle presunzioni di cui agli artt e 2729 cod. civ., al fine di ritenere raggiunta la prova del danno, è da ritenere illegittimo, ove non venga adeguatamente motivato, trattandosi di danni dei quali è estremamente difficile fornire la prova storica. Questo quanto affermato dalla prima sezione civile dei giudici di legittimità su ricorso di una donna a cui era stato negato il risarcimento del danno dopo che la sua cassetta di sicurezza era stata svaligiata durante una rapina ai danni dell'istituto di credito che custodiva la cassetta di sicurezza. Secondo quanto si apprende dalla lettura della sentenza di legittimità, la donna proponeva domanda di risarcimento dei danni nei confronti di un banca per l'importo di milioni di lire in quanto ignoti avevano rapinato l'agenzia svaligiando varie cassette, tra le quali la sua, contenente gioielli e preziosi. Il giudice di primo grado rigettava la domanda ritenendo sussistente la responsabilità della banca per inidoneità dei locali ma non provata la domanda risarcitoria sulla base delle prove documentali (la denuncia penale) e le prove testimoniali (degli stretti familiari che avevano accompagnato la parte presso la banca a ritirare o depositare nella cassetta di sicurezza) espletate. Sull'appello principale proposto dalla donna ed incidentale proposto dalla Banca, la sentenza di secondo grado, confermava la responsabilità dell'istituto derivante da difetto di custodia derivante dall'accertata inidoneità dei locali ove si trovavano le cadette di sicurezza nonché la nullità della clausola limitativa della responsabilità dell'istituto bancario ma in ordine alla prova del pregiudizio patrimoniale dedotto dalla parte appellante riteneva, analogamente al giudice del precedente grado, che non fosse stata dimostrata l'effettiva esistenza, al momento del furto, dei gioielli di cui si lamentava la mancanza. In particolare il giudice di secondo grado riteneva corretta la valutazione delle prove eseguita dal primo giudice, osservando che la denuncia costituiva un mero atto di parte e le deposizioni testimoniali, per la loro genericità, dovevano ritenersi inidonee ad assolvere l'onere della prova relativo all'esistenza e all'entità del danno patrimoniale lamentato, dal momento che i testi (marito e figlio

3 dell'appellante) si erano limitati a dichiarare genericamente che gli oggetti indicati nella denuncia erano contenuti nella cassetta di sicurezza e che erano a conoscenza della circostanza perché accompagnavano sempre la titolare presso la banca quando aveva bisogno, per prelievi o depositi, di utilizzare la cassetta medesima. Queste dichiarazioni non erano, pertanto, reputate sufficienti a far presumere l'esistenza dei gioielli indicati dall'attrice nella cassetta al momento della rapina. Neanche il verbale dell'11/2/94 della D.I.A. secondo cui il contenuto della cassetta consisteva in alcuni oggetti preziosi (bracciali, orecchini, gioielli) poteva di per sé ritenersi idoneo a dimostrare che all'atto della rapina vi fossero gli oggetti preziosi indicati nella denuncia, riferendosi tale verbale ad un diverso momento temporale. La Corte d'appello, infine, rigettava anche le altre domande risarcitorie relative alle conseguenze patrimoniali dell'omessa tempestiva comunicazione dell'intervenuta rapina nonché la dedotta lesione dell'immagine, atteso che l'istituto, con le indicazioni e il deposito censurato, aveva esercitato il proprio diritto di difesa. Avverso tale pronuncia la donna proponeva ricorso per cassazione. Accogliendo il ricorso e cassando la sentenza con rinvio, gli ermellini hanno spiegato che laddove avvenga un furto del contenuto della cassetta di sicurezza presso la banca, basta la «prova presuntiva» per dimostrarne il valore. Il contenuto di una cassetta di sicurezza costituisce una circostanza di fatto generalmente non divulgata, attesa la prioritaria esigenza di riservatezza che caratterizza la scelta di questo servizio bancario. Ne consegue la necessità di ricorrere alle deposizioni degli stretti familiari e a non sottovalutare o ignorare, se coerenti con l'insieme dei riscontri probatori, elementi di fatto quali la denuncia penale, solo perché di provenienza unilaterale, dovendosi sempre tenere conto, nell'esame e selezione del materiale probatorio, della peculiarità di fatti da dimostrare. (26/06/ Luisa Foti) Cassazione: anche se l'atto impositivo del fisco è illegittimo, il risarcimento non è automatico. Il fisco deve annullare prontamente in autotutela un accertamento e in generale un atto impositivo illegittimo ma risarcisce il contribuente solo quando questo dimostra l'effettivo pregiudizio subito dal ritardo dell'ufficio. È questo il contenuto della sentenza n. 6283/2012 con cui la terza sezione civile della Corte di Cassazione ha rigettato la richiesta di risarcimento del danno richiesta dal contribuente in riferimento all'emissione da parte dell'amministrazione finanziaria di una cartella esattoriale illegittima. Secondo il contribuente, l'amministrazione aveva richiesto il tributo illegittimo ma aveva provveduto allo sgravio in ritardo. La Corte, confermando il suo orientamento in materia, (Cass. Civ. n. 698 del , n del e n del ), ha infatti precisato che l'amministrazione finanziaria è tenuta al risarcimento del danno solo nel caso in cui sia provato che la stessa abbia agito violando i principi che limitano la sua azione verso l'esterno, imparzialità, correttezza e buona amministrazione. Il dato oggettivo dalla sola illegittimità dell'atto impositivo, ha precisato la Corte, non è da solo idoneo a determinare il risarcimento del danno: occorre che questa illegittimità sia accompagnata da "qualcos'altro" e cioè che la P.A. nel porre in essere l'atto

4 illegittimo abbia agito violando le regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione. La Cassazione ha chiarito che il giudice deve accertare che in seguito all'atto illegittimo ci sia stato un danno, che questo danno sia "ingiusto" in relazione ad un interesse giuridico protetto dall'ordinamento che sia di interesse legittimo e/o di diritto soggettivo, la condotta causale della P.A. e che, a livello soggettivo, questa condotta causale possa essere addebitata alla P.A. sotto il profilo del dolo o, al limite, della colpa. Infine, per quanto riguarda l'onere probatorio, se il contribuente invoca l'art c.c. come base per il risarcimento del danno per il ritardo della P.A. nell'emissione del provvedimento di autotutela, se il giudice nega il danno derivante dall'ingiustizia del provvedimento illegittimo, questo deve dimostrare che il danno ulteriore non si sarebbe verificato ove il provvedimento di autotutela fosse stato emesso in tempo. (30/06/ Luisa Foti) Cassazione: licenziamento disciplinare sproporzionato al danno Con la sentenza 21 giugno 2012, n , la Cassazione si pronuncia sul licenziamento del lavoratore in seguito a sanzione disciplinare. La Cassazione ritiene che il danno provocato dal lavoratore ad un mezzo di proprietà dell'azienda è inidoneo a giustificare una sanzione di tipo espulsivo, quando lo stesso risulti di entità minore a quella contestata e comunque non ricollegabile interamente all'incidente in esame. Il contratto collettivo, infatti, prevede solo la multa o la sospensione per gravi guasti provocati per negligenza al materiale dell'azienda e pertanto la condotta del ricorrente in primo grado non poteva essere sanzionata con misure espulsive del resto obiettivamente sproporzionate rispetto al fatto contestato. Per questi motivi la chiesta conversione in licenziamento per giustificato motivo soggettivo, non emergendo un notevole inadempimento da parte del lavoratore, non poteva essere accolta. Nel caso di specie, il lavoratore ha omesso di informare la direzione dell'accaduto, in quanto il titolare non era presente in azienda ma si è comunque adoperato a riferire per iscritto dell'accaduto. La sanzione del licenziamento disciplinare risulta pertanto sproporzionata in quanto il danno è di modesta entità e il lavoratore ha riferito tempestivamente. (27/06/ L.S.) Cassazione, mancata distrazione spese giudiziali in favore del procuratore. Basta l'istanza di correzione per errore materiale Con sentenza n , depositata il 21 giugno 2012, la Suprema Corte di Cassazione ha precisato che in assenza di un'espressa indicazione legislativa, in caso di omessa pronuncia sull'istanza delle spese proposta dal difensore, il rimedio esperibile è procedimento di correzioni di errori materiali. La richiesta infatti non può qualificarsi come domanda autonoma e quindi non può essere oggetto di

5 impugnazione. La pronuncia è della terza sezione civile che ha così deciso a seguito di ricorso di un avvocato che lamentava come la corte d'appello non avesse operato la distrazione delle spese. Riprendendo quanto già affermato in una precedente sentenza (la numero n /2010), la Corte ha dichiarato il ricorso dell'avvocato inammissibile, affermando quando segue: "in assenza di un'espressa indicazione legislativa, è costituito dal procedimento di correzione degli errori materiali di cui all'articolo 287 e 288 C.p.c., e non dagli ordinari mezzi di impugnazione, non potendo la richiesta qualificarsi come domanda autonoma. Inoltre la procedura consente il migliore rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata del processo. La procedura di correzione, oltre ad essere in linea con il disposto dell'art. 93, secondo comma, cod. proc. civ. - che ad essa si richiama per il caso in cui la parte dimostri di aver soddisfatto il credito del difensore per onorari e spese - consente il migliore rispetto del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, garantisce con maggiore rapidità lo scopo del difensore distrattatario di ottenere un titolo esecutivo ed è rimedio applicabile, ai sensi dell'art. 391-bis cod. proc. civ., anche nei confronti della pronunce della Corte di Cassazione". (28/06/ Luisa Foti) Responsabilità professionale: Cassazione, se nuovo avvocato non ripropone l'azione la negligenza del collega non da luogo a risarcimento In tema di responsabilità civile e in particolare di colpa professionale, con sentenza n. 6277/2012, la Corte ha sancito che se il secondo avvocato incaricato dalla parte non ripropone l'azione risarcitoria, la negligenza del primo avvocato è priva di efficacia causale nella produzione del danno. Il chiarimento arriva dalla terza sezione civile della Corte di Cassazione secondo cui viene meno il nesso di causalità tra la negligenza del primo difensore (che non ha messo in mora ex articolo 22 della legge 990/69 i responsabili del sinistro stradale) e il danno, laddove il secondo, trovandosi di fronte all'alternativa di interporre appello avverso la sentenza che dichiarava improponibile la domanda proposta dagli eredi del de cuius e riproporre l'azione risarcitoria, ancora possibile perché non prescritta, omette quest'ultima scelta, l'unica adeguata e professionalmente dovuta per ottenere la condanna di un secondo soggetto responsabile, il proprietario del mezzo, dopo l'insolvenza del conducente che si è reso irreperibile e il fallimento della compagnia assicurativa, dovendosi ritenere tale condotta in grado di interrompere, ai fini della responsabilità professionale del primo difensore, il nesso causale con la negligenza che pure egli ha dimostrato. (29/06/ Luisa Foti) -

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