INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI

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1 RASSEGNA STAMPA mercoledì 4 marzo 2015 L ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE DIRITTI CIVILI INFORMAZIONE SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE

2 L ARCI SUI MEDIA Da Redattore Sociale del 03/03/15 "Mediterranea 17" bando per partecipare alla Biennale dei Giovani Artisti Prorogata al 31 marzo 2015 la scadenza del bando di selezione di giovani artisti per partecipare a Mediterranea 17, l edizione 2015 della Biennale dei Giovani Artisti del Mediterraneo che compie 30 anni. L'evento internazionale multidisciplinare che si svolgerà a Milano, presso la Fabbrica del Vapore dal 22 al 25 ottobre 2015, è promosso da Bjcem e Comune di Milano e prevede la partecipazione di oltre 300 artisti. Questa edizione, dal nome "No food's land", pone l'attenzione sugli effetti dei processi legati alla nutrizione e al cibo, intesi come processi di scambio culturale e creativo e di formazione degli artisti. L'Arci sul territorio italiano cura le 3 selezioni nazionali di Fumetto e Illustrazione, Teatro e Arti Visive e 13 selezioni regionali. Per info sulle selezioni Arci , cultura@arci.it. Per info generali, bandi e schede tecniche: Bjcem, Ville Ouverte. Da La Gazzetta del Mezzogiorno del 02/03/15 Lo sportello per gli immigrati Un modello di integrazione attiva Patrizia Grande Nasce a Polignano a Mare uno Sportello per gli immigrati. Già operativo in realtà da qualche settimana, sarà inaugurato e presentato al territorio domani (martedì 3 marzo), alle ore 17, in via Tenente Bellipario n.9. E uno sportello di coordinamento del progetto SPRAR Convivialità delle differenze, promosso dal Comune di Polignano a Mare, gestito da Arci Bari e finanziato con fondi comunitari erogati dal Ministero dell Interno. Gli SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) sono progetti di accoglienza integrata per rifugiati. Oggi Polignano a Mare ospita 6 rifugiati, provenienti da Somalia e Nigeria. All apertura dello sportello interverranno Domenico Vitto (sindaco di Polignano a Mare), Paolo Mazzone (assessore comunale alle Politiche sociali), Luca Basso (presidente Arci Bari) e Livia Cantore (Coordinatrice progetto SPRAR Convivialità delle differenze.) Prima ancora che come istituzione spiega l assessore Mazzone - sento mio nel cuore questo progetto che proietta il nostro sguardo oltre i confini del nostro territorio, del nostro mare, della nostra pelle, delle nostre sicurezze. "Convivialità delle differenze" è un nome da me voluto e condiviso dagli amici dell'arci che ben ci proietta nello spirito del progetto stesso. Ora mettiamo un ulteriore tassello, lo facciamo con l apertura di uno sportello, ovvero quella stretta di mano metaforica tra gli immigrati e i nostri concittadini. L'augurio che questa stretta di mano, possa rappresentare quella bella armonia che si traduce in Convivialità delle differenze. In questi tempi complessi aggiunge Luca Basso, presidente di Arci Bari l accoglienza integrata appare sempre di più come l unica risposta possibile alle difficili sfide che il contesto euro-mediterraneo pone al nostro Paese. Nessun risultato positivo è possibile senza percorsi di informazione e di educazione comuni, in grado di coinvolgere sia chi arriva sia chi accoglie, finalizzati alla reciproca conoscenza e al rispetto delle reciproche 2

3 differenze. Ringrazio di cuore il Comune di Polignano per aver condiviso questa impostazione. Gli ottimi riscontri che il progetto sta quotidianamente ottenendo sono per tutti noi uno stimolo nel proseguire in questa collaborazione. Lo sportello sarà aperto dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 13, il mercoledì e il venerdì anche nel pomeriggio (mercoledì ore 16-17; venerdì ). Da il Mattino del 03/03/15 Napoli ricorda Rosi, la figlia Carolina: «Continua a parlare con i suoi film» «Mio padre parla attraverso i suoi film che sono sempre testimonianza attiva del suo essere cittadino e regista». Con queste parole una commossa Carolina Rosi ha ricordato suo padre Francesco Rosi, scomparso lo scorso 10 gennaio, al termine della cerimonia che si è svolta oggi al Maschio Angioino di Napoli. Pellicole che hanno raccontato «la realtà» e che - ha sottolineato Carolina - «sono ancora attuali, perché se chiudi gli occhi e li riapri nulla è cambiato, hanno lasciato un traccia e questo lo renderà indimenticabile». Carolina è rimasta molto colpita, fino alla commozione, dalle immagini del docufilm realizzato da Arci Movie. «Sono - ha confessato - molto sensibile alle parole, ma sono ancora molto sensibile all'immagine e alla sua voce». Dalla figlia un sentito ringraziamento agli organizzatori della cerimonia e ai tanti registi e amici intervenuti i cui ricordi - ha concluso l'attrice - «sono stati bellissimi, molto sinceri, veri. Ricordi che hanno testimoniato un vero affetto non essendoci retorica». Al suo fianco, per tutto lo svolgimento della cerimonia, il compagno Luca De Filippo che ha voluto sottolineare quanto Rosi abbia fatto per Napoli e per le persone attraverso il suo lavoro, riuscendo a raccontare «cose che ci riguardano personalmente». Un regista Rosi che negli ultimi anni si era accostato alle commedia di Eduardo «mettendole in scena - ha evidenziato Luca De Filippo - con grandissima umiltà come solo un grande sa fare». Tornatore. Il contesto di vita come «fonte di ispirazione» per grandi film costruiti «senza rispettare le regole». È questa la «lezione di vita» che il regista premio Oscar Giuseppe Tornatore ha 'imparato' da Francesco Rosi. Il ricordo nel corso della cerimonia al Maschio Angioino, promossa dal Comune di Napoli e dall'università Federico II, per rendere omaggio al regista scomparso lo scorso 10 gennaio. Un racconto della realtà che lo circondava con cui - ha sottolineato Tornatore - «Rosi dava al pubblico la forza, l'autorità di poter immaginare la verità». Un regista, un uomo che - ha aggiunto il premio Oscar - «ha saputo coniugare la sua immaginazione con la sua passione di cittadino, realizzando film che fossero utili non solo in quel momento storico, ma per sempre». Tornatore non si è soffermato solo sul Rosi regista, ma ha tracciato anche la figura di Rosi uomo «duro, rigoroso, spietato con se stesso e con il suo lavoro» caratteristiche che hanno portato a definirlo nell'ambiente del cinema 'il professore«, ma un uomo»allo stesso tempo - ha evidenziato Tornatore - dolcissimo, unico regista che aveva l'abitudine di andare a cinema e poi telefonare al regista del film visto per congratularsi«. Un regista, Rosi, la cui»statura e grandezza - ha detto Mario Martone - sono quelle di un padre. Ognuno di noi - ha proseguito - ha appreso dal suo cinema tantissimi elementi che fanno parte della nostra formazione«. Martone ha sottolineato come Rosi riuscisse ad essere nei suoi capolavori cinematografici»semplice e forte, doti che non è facile esprimere nel nostro tempo e a cui tutti dobbiamo guardare con molto amore«. Caldoro. «Ho partecipato con viva emozione agli eventi organizzati per rendere omaggio a Francesco Rosi, uno dei più grandi ambasciatori di Napoli nel mondo che si è distinto per la qualità della sua opera di artista e di intellettuale.» Lo ha detto il vicepresidente della 3

4 Regione Campania Guido Trombetti, che ha partecipato alla cerimonia in omaggio del regista presso il Maschio Angioino. «Rosi è stato un autore d'inchiesta e molto di più, un narratore semplice e lineare ed al tempo stesso emozionante. In grado di tenere lo spettatore inchiodato allo schermo con quella capacità ipnotica che hanno soltanto i grandissimi maestri», ha concluso Trombetti. «I più sinceri complimenti all'università Federico II e al rettore Gaetano Manfredi per questo evento.» Così il presidente della Regione Campania Stefano Caldoro. «Con competenza e con un dibattito di grande qualità si è ricordato un protagonista del nostro Paese, Un artista che ha saputo raccontare storie ed eventi con un linguaggio semplice», conclude il presidente. Da FanPage del 03/03/15 Wiseman, il maestro del documentario d autore (VIDEORITRATTO) Frederick Wiseman, uno dei più importanti cineasti al mondo, Leone d'oro alla carriera alla 71esima Mostra del cinema di Venezia, ci racconta il suo metodo di lavoro in occasione della rassegna a lui dedicata organizzata a Napoli da Arci Movie, Università Federico II e Parallelo 41. Dal 25 al 27 febbraio uno dei più grandi documentaristi viventi, Fredrick Wiseman che l anno scorso ha ricevuto il Leone d oro alla carriera alla 71esima Mostra del cinema di Venezia, ha presentato a Napoli il suo ultimo film National Gallery ed ha partecipato alla tre giorni a lui dedicata organizzata da Arci Movie, Università degli Studi di Napoli Federico II e Parallelo 41, dal titolo Frederick Wiseman a Napoli, una rassegna di sette film, a cura di Antonella Di Nocera, che ripercorre per tappe l immensa opera del Maestro che conta ben 41 titoli. Noi lo abbiamo intervistato per farci spiegare il suo metodo di lavoro, pressoché unico, che come egli stesso ama ricordare è molto più simile al lavoro di uno scrittore che a quello di un regista. Chi è Frederick Wiseman? Wiseman nasce a Boston nel 1930, dove studia legge alla Yale Law School. Intorno ai trent anni decide di dedicarsi al cinema. Il suo esordio dietro la macchina da presa avviene nel 1967 con il documentario Titicut Follies che racconta le condizioni della Prigione di Stato per criminali malati di mente a Bridgewater, Massachusetts. Da subito il film gli procura non pochi problemi legali che si risolveranno solo dopo vent anni. L anno seguente, nel 1968, esce High school, ambientato in una grande scuola superiore di Philadelphia. Prigioni, scuole, università, centri di ricerca, musei, teatri: sono le istituzioni, nell accezione più ampia del termine, i luoghi scelti da Wiseman per ambientare i suoi lavori. L istituzione racconta il regista è per me come il perimetro di un campo da tennis, quelle linee delimitano lo spazio in cui posso muovermi liberamente. Secondo Manohla Dargis, critica cinematografica del New York Times, Preso nel suo complesso, questo è un lavoro che restituisce un ampio, continuativo, ritratto dell America contemporanea, delle sue istituzioni, delle relazioni sociali, dei sistemi di controllo amministrativi e burocratici e ovviamente, proprio al centro del quadro del regista, delle sue persone. Il metodo Ho imparato più cose su come si fanno i film dai libri che ho letto che dai film che ho visto. Wiseman è stato spesso accostato a scrittori come Dickens, Kafka, Balzac più che 4

5 ad altri registi. Il suo metodo di lavoro, come testimonia anche la nostra intervista, è unico. Egli, infatti, sceglie un istituzione che può essere un manicomio criminale del Massachusetts ( Titicut Follies ) o un agenzia di moda di New York; un tribunale minorile del Tennessee ( Juvenile Court ), o un centro per le vittima di violenza domestica della Florida ( Domestic Violence 2 ); una palestra texana di pugilato ( Boxing gym ) o il corpo di ballo dell Opera di Parigi ( La Danse ). Dopodiché, passa anche tre mesi all interno di questi luoghi dove raccoglie molte decine di ore di girato, spesso nell ordine di un paio di centinaia: quando filmo non ho mai un tema preciso in mente racconta Wiseman -, altrimenti mi sentirei come un cavallo con i paraocchi. Una volta raccolto tanto materiale, che non prevede mai interviste dirette, passa da 6 mesi ad un anno al montaggio: È lì che scelgo il tema del mio film e la sua struttura. Wiseman non utilizza musiche, né voci fuori campo, i suoi film sono un flusso di immagini e dialoghi rubati. In altre parole, Wiseman raccoglie una grossa quantità di documenti, ambienti, dialoghi, volti, atmosfere e in montaggio li riscrive senza suggerire nulla però allo spettatore, proprio come uno scrittore, che mette in scena dei personaggi e dei caratteri ma non rivela cosa faranno e cosa dobbiamo pensare di loro. Pertanto sta allo spettatore seguire l intera vicenda e farsi un idea di ciò che ha visto: Il mio punto di vista prosegue il regista - è indiretto ed è leggibile attraverso la struttura complessiva del film. Io cerco di non piegare mai ciò che filmo alle mie necessità ideologiche. Il 29 agosto scorso, nella Sala Grande del Palazzo del Cinema, Michel Piccoli ha consegnato a Frederick Wiseman il Leone d oro alla carriera, nell ambito della 71esima Mostra d Arte Cinematografica di Venezia. È stato un onore per me dato che sono il primo documentarista a cui viene assegnato il premio. Io credo che in generale questo sia un riconoscimento al documentario in sé. Una prova che il documentario può essere considerato allo stesso livello dei film di finzione. E in effetti è proprio ciò che sta accadendo a Venezia da quando Barbera ne è diventato direttore: il documentario ha sempre più spazio come testimonia anche il Leone d oro per il miglior film dato a Sacro Gra di Gianfranco Rosi nel

6 INTERESSE ASSOCIAZIONE Del 4/03/2015, pag L Italia ha un triste primato Una slot machine ogni 143 abitanti. Anche se i costi sociali delle dipendenze sono alti, c è un gran guadagno per i Monopoli Perciò è difficile dire basta. Ma la prossima settimana il nostro Paese dovrà scegliere da che parte stare Azzardo di Stato FEDERICO FUBINI ANDREA GRECO IERI pomeriggio alle sei sedeva in penombra in una sala di Better Slot in via Nicolò da Pistoia un gruppo di sette persone. Questo Better Slot ospita una ventina di slot machine e videolotterie fra la Circonvallazione Ostiense e il quartiere romano della Garbatella. Dopo una mezz ora, i sette non si erano ancora scambiati una parola. Una signora con una sigaretta accesa nella mano sinistra schiacciava ogni pochi istanti con la destra il pulsante di una macchina chiamata Sphynx. Si vince quando si allineano tre o quattro sfingi egizie. La macchina mandava suoni studiati per essere seducenti, e ogni tanto in sala si udiva il rumore di una breve cascata di monete. Come centinaia di migliaia di altri italiani, quei sette in via Nicolò da Pistoia stavano contribuendo in maniera decisiva a un solo obiettivo: tenere il Paese al riparo da una procedura per deficit eccessivo a Bruxelles. Nel 2013 le entrate erariali da piccole e grandi slot machine sono arrivate a 4,3 miliardi di euro, secondo l Agenzia delle Dogane e dei Monopoli di Stato. L anno scorso i ricavi di base si sono più o meno confermati allo stesso livello, ed è stato un risultato provvidenziale: il rapporto fra deficit pubblico e prodotto lordo nel 2014 si è attestato al 3,033%, per soli 274 milioni di euro l Italia ha evitato una procedura per deficit eccessivo che avrebbe costretto il governo a nuove, pesanti correzioni di bilancio. Gli avventori dell azzardo di Stato, un universo basato su un sistema di concessioni pubbliche senza paragoni al mondo, sono a loro insaputa degli eroi della crisi finanziaria: hanno salvato i conti pubblici. Dall inizio del 2014 fino al primo agosto scorso, almeno 333 di loro erano o erano stati in cura per dipendenza dal gioco d azzardo presso i servizi sanitari della Regione Lazio. Non esistono dati su base nazionale, ma l incidenza del Lazio su questo fenomeno suggerisce che gli italiani affidati alla sanità pubblica per curarsi dalla ludopatia, la dipendenza dalle scommesse, devono essere almeno cinquemila ogni anno. Forse settemila, se si tiene conto che alcune Asl non rispondono ai questionari. Ovviamente le slot machine non sono la sola fonte di ricavi dell azzardo di Stato. Fra Lotteria Italia, Gratta&vinci, Bingo, giochi in rete ed altro, le entrate erariali nel 2013 hanno superato gli otto miliardi. Le slot di vario tipo pesano per oltre metà di questi ricavi. Il governo ha poi imposto di recente sulle 13 società concessionarie una sovrattassa da euro per ogni macchina che abbia operato anche un solo giorno in una periferia italiana nel In totale fa mezzo miliardo, perché questo Paese si fregia di una particolarità che lo rende unico in Europa e in tutto l Occidente: secondo le stime di Repubblica sui dati di Euromat e su quelli dei singoli Paesi, l Italia ha in assoluto la più alta densità di slot machine di vario tipo. Da sola ne ospita ufficialmente , circa la metà di quelle presenti in tutto il territorio degli Stati Uniti. In Italia c è una di queste macchine ricche di neon colorati e suoni ipnotici ogni 143 abitanti. In Germania una ogni 261, negli Stati Uniti una ogni 372. Sulle videolottery, le macchine dove si scommette non uno ma 6

7 dieci euro per volta, il primato del Paese è ancora più netto: secondo il consulente di settore Eugenio Bernardi ve ne sarebbero 160 mila in funzione in tutto il mondo, ma di queste sono attive in Italia (in base ai dati ufficiali dei Monopoli di Stato). Dal 2009, quando l ultimo governo di Silvio Berlusconi ha lanciato le slot per far quadrare i propri conti, questo Paese è rapidamente diventato un campione mondiale del settore. Non c è ormai angolo di strada sprovvisto di un opportunità di erodere i bilanci familiari. Nel 2013 gli italiani spesso di ceto basso o medio-basso, per lo più uomini e di mezza età in totale hanno fatto scivolare in quegli ingranaggi luminosi 9,4 miliardi di euro. Una stima fornita dalla Regione Lazio indica che i costi sanitari diretti da ludopatie è di 85 milioni di euro l anno; ma i costi indiretti, dovuti al crollo della capacità lavorativa o alla perdita del posto per chi è catturato dal gioco, sarebbero di quasi cinque miliardi. La prossima settimana il governo deciderà se modificare la tassazione su questa parte del gioco d azzardo e ridurre il numero delle macchine nelle città. Sembra certo che non taglierà le videolottery, quelle che pesano di più sulle tasche di chi vi si accanisce sopra. Qualcosa dovrebbe emergere nel decreto di attuazione della legge delega fiscale annunciato dal governo per il 20 marzo. «Gli obiettivi sono la tutela della salute pubblica, la lotta all illegalità e l attenzione alle entrate ha detto di recente Pier Paolo Baretta, sottosegretario all Economia. C è un eccesso di offerta in alcune situazioni di gioco, troppa diffusione sul territorio. Dobbiamo trovare un equilibrio, partendo dalle condizioni di salute nella società». Paradossalmente però neanche i conti delle imprese concessionarie delle slot machine sono in salute. I loro bilanci fotografano l implosione in corso. Queste aziende sono di fatto esattori di un prelievo non dichiarato e su di esse il governo e il parlamento negli anni hanno avanzato pretese, imposto multe sempre più esose, richiesto versamenti una tantum. Così si è rapidamente arrivati all osso, mentre ogni periferia d Italia si riempiva di sale giochi e bar-casinò. Le concessionarie attive sono Igt (ex Gtech ed ex Lottomatica), Snai, Bplus, Cogetech, Gamenet, Sisal, Hbg, Gmatica, Codere, Cirsa, Intralot, Nts Network, Netwin Italia. Da un analisi dei loro bilanci 2013 gli ultimi disponibili, a parte le prime due che sono quotate emerge che un anno fa avevano debiti cu- mulati per 5,4 miliardi di euro. E anche se una parte minore di questi debiti va imputata ad altre attività, si tratta comunque di un livello di guardia. In teoria governo di Mario Monti aveva vietato loro di pagare per le concessioni indebitandosi, un abitudine malsana e rischiosa per questi esattori non dichiarati. Eppure tutte lo fanno lo stesso e lo Stato chiude un occhio, visto il ruolo di queste aziende. Le società più esposte sono Sisal, Snai, Intralot, Codere, che con gli attuali risultati impiegherebbero tra 4 e 8 anni per coprire il loro debito netto. Le 13 concessionarie, con la notevole eccezione di Igt, la più grande e che fa capo alla famiglia De Agostini, sono quasi tutte in mano a fondi chiusi, ossia ai private equity. Ma per loro i margini di guadagno si stanno azzerando, anche perché l alleanza in affari con un socio famelico come lo Stato costa cara. Tutti gli azionisti delle concessionarie vorrebbero vendere, nessuno vuole comprare. Nel 2013 quasi tutte hanno chiuso in rosso. In via Nicolò da Pistoia, la signora con la sigaretta nella mano sinistra continua a far girare il rullo di Sphynx con la destra. Ha già fatto scivolare nella feritoia molte monete, ma non ha ancora vinto. Inutile chiederle se sa quanto renda all erario questa sua attività. «Non sono pratica del settore», risponde. Del 4/03/2015, pag. 15 Appello all Anpi: guardi ai nuovi antifascisti Saverio Ferrari 7

8 L antifascismo è oggi stretto fra derive opposte. Tra la parte istituzionale incarnata dall Anpi e l antifascismo antagonista e giovanile. L Anpi in questi ultimi anni ha cercato di rinnovarsi. Un operazione riuscita a metà. Sono arrivate nuove iscrizioni, spesso di militanti in fuga dai partiti di sinistra, e si è assistito a una ripresa di vitalità. Ma in diverse situazioni si sono anche manifestate chiusure e indisponibilità al dialogo con le nuove generazioni. Un panorama vario e articolato, città per città. Prevalente è stato però, nel complesso, l affermarsi di un profilo marcatamente istituzionale, con un attività di tipo celebrativo quasi esclusivamente rivolta al passato. Lontano dal cogliere nella sua portata l attualità e il pericolo delle nuove spinte xenofobe e razziste, quanto dell irrompere sulla scena di nuove destre, nostalgiche e populiste. Emblematico il caso milanese, dove l Anpi ha considerato pericoloso mobilitarsi il 18 ottobre scorso contro la manifestazione nazionale della Lega e di Casa Pound, con migliaia di camicie nere e verdi in piazza Duomo. Sistematica la rinuncia, anche in seguito, a contrastare ulteriori iniziative dell estrema destra, tra l altro in piazza Della Scala, sotto il comune, come di recente accaduto. L opposto di Roma dove, invece, l Anpi è scesa in piazza, senza tentennamenti, sempre contro Lega e Casa Pound, a fianco dei centri sociali, in un vasto schieramento antifascista, mobilitando decine di migliaia di persone. Due linee. Una Repubblica antifascista? Vi sono certamente, sullo sfondo, le difficoltà del gruppo dirigente nazionale dell Anpi a comprendere appieno alcuni mutamenti in corso nelle stesse istituzioni, sempre meno rispondenti al dettame costituzionale. In tutta Italia si tengono da anni iniziative pubbliche apologetiche del ventennio, con il costituirsi di formazioni apertamente neofasciste e neonaziste, con tanto di corollario di atti violenti, senza alcun vero contrasto istituzionale (si perseguono solo i casi limite ). Ciò a prescindere dal succedersi di governi, ministri dell interno, questori e prefetti, in una sorta di assoluta continuità. Un dato di fatto. Come la sospensione dell applicazione di leggi ordinarie, in primis la legge Mancino, istituita proprio per contrastare l istigazione all odio razziale, etnico e religioso. Alla stessa Anpi, quando protesta, si replica asserendo la legittimità di tutti a esprimersi, fascisti compresi. Allo stesso modo si risponde alle interrogazioni parlamentari, a volte di deputati e senatori del Pd, paradossalmente da parte di altri esponenti del Pd al governo. Una rilegittimazione dei fascisti ormai avvenuta. Una nuova fase nella storia della Repubblica, al passaggio epocale del cambiamento della sua carta costituzionale. Affidarsi alle istituzioni democratiche per combattere i fenomeni neofascisti sta divenendo un evidente controsenso. Bisognerebbe prenderne coscienza. La crisi dell antifascismo passa anche da qui. Lo stesso futuro dell Anpi appare incerto all avvicinarsi del suo prossimo congresso nazionale. L opposizione manifestata alle riforme in campo, sia elettorali sia costituzionali, sta producendo continui tentativi di contenimento, soprattutto attraverso l azione del Pd ai livelli locali, volta a depotenziare, sfumare, se non apertamente intralciare, la linea ufficiale. Il rinnovo, in programma, del presidente nazionale dell associazione sarà probabilmente l occasione per cercare di riallineare l Anpi, confinandola a funzioni meramente celebrative. Un eventualità più che concreta. L altro movimento Lontano dall antifascismo istituzionale si muove ormai da diversi anni un area composita di giovani organizzati in centri sociali, collettivi e associazioni, presente su una parte importante del territorio nazionale. Quasi un mondo a parte con cui l Anpi il più delle volte rifiuta il dialogo. A questa realtà si deve spesso l iniziativa di contrasto, in tante città, delle iniziative razziste e neofasciste. La loro generosità ricorda da vicino i «reietti e gli stranieri» di cui parlava negli anni Sessanta Herbert Marcuse ne L uomo a una dimensione, quando 8

9 negli Stati uniti scendevano nelle strade per chiedere «i più elementari diritti civili», affrontando «cani, pietre e galera», a volte «persino la morte» negli scontri con la polizia. Rappresenta un antifascismo diverso, non istituzionale e poco propenso al perbenismo, cresciuto con propri simboli (le due bandiere dell antifa sovrapposte, mutuate dalle battaglie di strada dei comunisti tedeschi a cavallo degli anni Trenta contro le squadre d assalto naziste) e propri modelli storici, gli Arditi del Popolo, in primo luogo, espressione di un unità dal basso dei militanti di sinistra oltre le appartenenze politiche. Come nel caso recente di Cremona (gli scontri a gennaio dopo il ferimento quasi mortale di un militante di un centro sociale da parte degli squadristi di casa Pound), quest area, a volte, fa prevalere l azione diretta rispetto a ogni altro calcolo politico, restando priva di sbocchi e isolata anche dalla sinistra politica. L esigenza di un nuovo movimento antifascista è più che matura. Un movimento necessariamente plurale, aperto alle nuove generazioni, privo di steccati e istituzionalismi fuori tempo, in grado di relazionarsi con il presente e i pericoli rappresentati dagli attuali movimenti razzisti e neofascisti. La stessa capacità di trasmettere la memoria della Resistenza non può che partire da qui, per non ridursi a vuota retorica. Un rischio già presente. Questo nuovo movimento non può che nascere dal confronto e dalla capacità di dialogo fra i diversi antifascismi. Sarebbe il caso che per prima l Anpi battesse un colpo. 9

10 ESTERI del 04/03/15, pag. 1/2 Libia, anche l Onu scettica sulle possibilità del dialogo E valuta un blocco navale Il retroscena delle trattative al Palazzo di Vetro: si teme il colpo di forza Ipotesi Caschi Blu richiede sei mesi, verso una coalizione di volenterosi? Paolo Mastrolilli Ci sono anche il blocco marittimo, le sanzioni individuali e il congelamento dei ricavi del settore petrolifero, tra i provvedimenti che la comunità internazionale sta considerando per spingere le fazioni libiche a creare un governo unitario, capace di stabilizzare il Paese e favorire la lotta al terrorismo dell Isis. L alternativa pericolosa, che sta guadagnando consensi anche negli ambienti americani, è quella di consentire all escalation militare di sbloccare la situazione. Nei giorni scorsi l Onu è stata il crocevia delle iniziative sull emergenza in Libia, con il dibattito sulla risoluzione chiesta dall Egitto per autorizzare un intervento, gli incontri dell ambasciatore italiano Buccino con tutti i protagonisti, e la pubblicazione del rapporto del segretario generale Ban Ki-moon. Da tutti questi contatti, che siamo in grado di ricostruire nei dettagli, è emerso un quadro anche più preoccupante di quello noto, con proposte in certi casi radicali per affrontarlo. La mediazione dell inviato dell Onu Bernardino Leon resta la strada preferita per creare un governo di unità nazionale, che metta insieme l esecutivo laico di Tobruk con quello islamico in controllo di Tripoli e Misurata, per poi fermare l Isis con l aiuto internazionale. I tempi però sono molto stretti: un mese, infatti, è lo spazio contemplato per una proroga della missione Unsmil, che scade il 13 marzo. La situazione, poi, è complicata dalle divisioni fra i protagonisti. Egitto, Giordania e Russia sono percepiti come alleati di Tobruk, dove la nomina del generale Khalifa Haftar come capo delle forze armate è vista come un elemento capace di coagulare i terroristi sul fronte opposto. Usa, Gran Bretagna e Turchia sono percepiti come più vicini a Tripoli, mentre l Italia è nel mezzo: fino a quando aveva l ambasciata aperta era accusata di flirtare con gli islamici, ma adesso sta recuperando posizioni con Tobruk. Le posizioni occidentali Durante gli incontri all Onu l ambasciatrice americana Samantha Power ha sostenuto la mediazione di Leon e frenato le iniziative unilaterali, come quella egiziana. Nello stesso tempo, però, ha sottolineato che la mancanza di una strategia internazionale forte per contrastare l Isis subito, e le difficoltà incontrate dall inviato del segretario generale, rafforzano la posizione di chi considera inevitabile un escalation militare per sbloccare lo stallo. Detto da lei, significa che simili spinte esistono anche nell amministrazione Usa, e per il governo sta diventando difficile resistere, nonostante tutti gli analisti ben informati sulle forze in campo ritengono che né Tripoli, né Tobruk, abbiano al momento la capacità di vincere il conflitto con i rivali, stabilizzare il paese e stroncare le mire del Califfato. Gli inglesi sostengono Leon, ma pensano che il suo mandato debba avere limiti temporali, e questa posizione è probabilmente frutto delle pressioni dell Egitto. La Francia invece chiede di preparare il sostegno internazionale al governo unitario, e conviene con l Italia 10

11 che la ricerca dei leader per guidarlo è stata carente. Puntare su personalità note all estero come Ali Zidan, ma prive di seguito reale nel Paese, è stato un errore, mentre la legge sull isolamento politico impedisce di scegliere elementi autorevoli come Mohammed al Magariaf, ex presidente del Congresso. La Spagna scettica su Leon L ambasciatore russo Churkin appoggia Leon, ma rimprovera agli altri Paesi di non sostenere abbastanza Tobruk, che resta ai suoi occhi l unico governo legittimo. Quindi vorrebbe togliere l embargo alla vendita di armi, come suggerisce anche l Egitto, pur ammettendo che poi sarebbero necessari stretti controlli per evitare che questi strumenti bellici finiscano poi nelle mani sbagliate. La dimostrazione di quanto sia difficile la situazione sta nel fatto che proprio l ambasciatore spagnolo all Onu, Oyarzun Marchesi, è tra i più scettici sulla possibilità che il suo connazionale Leon riesca a far nascere il governo di unità nazionale. Nei colloqui dei giorni scorsi, il rappresentate di Madrid ha consigliato esplicitamente ai colleghi di cominciare a preparare il «piano B», che al momento non esiste. Il suo pessimismo non si basa tanto sulle capacità del mediatore, quanto sulle divisioni all interno del Consiglio di Sicurezza e del mondo arabo. Marchesi pensa che sia necessario prepararsi a soluzioni esterne al Consiglio, dove Paesi come Italia, Spagna e Francia dovrebbero svolgere il ruolo guida, anche perché gli americani sono frenati dalla politica interna. Tutti sanno che Hillary Clinton sta per candidarsi alla Casa Bianca, e visto il problema che ebbe a Bengasi, difficilmente sarà favorevole a fare la campagna presidenziale con le truppe Usa coinvolte in un qualsiasi intervento in Libia. Tra i provvedimenti suggeriti da Marchesi, c è anche il blocco degli asset della Banca centrale libica, già considerato anche dagli inglesi. In sostanza vorrebbe dire chiudere i rubinetti del denaro a tutte le parti, perché finora la banca ha distribuito le sue risorse a tutte le fazioni. Il problema è che un provvedimento di questo tipo richiederebbe una domanda del governo locale, oppure una risoluzione Onu basata sul capitolo VII della Carta. Se passasse, poi, ci sarebbe sempre il rischio che le potenze regionali intervengano a fornire loro i finanziamenti, alle varie fazioni con cui si alleano. Le divisioni fra gli arabi Le potenze regionali dovrebbero guidare la lotta al Califfato, e quindi favorire la stabilizzazione della Libia, ma sono profondamente divise. Il Paese è ancora rappresentato all Onu dall ambasciatore Dabbashi, che risponde a Tobruk e chiede di togliere l embargo alla vendita di armi e sostenere l offensiva del governo di Abdullah Al Thani. Appoggia questa posizione l Egitto, che pensa di avere il diritto di intervenire perché la crisi libica rappresenta una minaccia alla sua sicurezza nazionale, appena oltre il confine. Turchia e Qatar invece sostengono per ragioni ideologiche la coalizione islamica di Tripoli, con tutti i sospetti che il coinvolgimento del Qatar nel finanziamento dell Isis in funzione anti Assad porta con sé. Le ipotesi sul tavolo A fronte di tutti questi problemi, il segretariato dell Onu sta già considerando da tempo le alternative alla mediazione di Leon. Tanto per cominciare, se il negoziato funzionasse il governo di unità nazionale avrebbe bisogno di aiuto immediato per sopravvivere. Hervé Ladsous, il francese che guida il Dipartimento delle operazioni di pace, ritiene che l invio dei caschi blu non sarebbe praticabile, perché se anche il Consiglio di Sicurezza lo approvasse, richiederebbe almeno sei mesi di tempo per essere realizzato. L alternativa più realistica quindi sarebbe una «coalizione di volenterosi», legittimata da una risoluzione dell Onu, che potrebbe schierare in fretta i suoi uomini. L Italia dovrebbe avere un ruolo guida, se questo progetto si concretizzasse, anche se il Palazzo di Vetro in genere evita di dare posizioni preminenti agli ex Paesi coloniali, e in questo caso sarebbe fondamentale la 11

12 leadership araba e islamica per evitare che la propaganda terroristica presenti l operazione come un «occupazione crociata». Il monitoraggio dell eventuale accordo fra le parti, poi, dovrebbe essere fatto insieme dalle parti stesse, per non urtare le sensibilità locali. Se fallisce l Onu Se la mediazione di Leon fallisse, però, l unica alternativa all escalation militare sarebbero nuove iniziative per aumentare la pressione sulle fazioni e obbligarle a trovare un accordo politico. Tra le ipotesi considerate, per ora solo a livello di riflessione, c è anche quella del blocco marittimo, che si baserebbe sul regime sanzionatorio già creato dalla risoluzione 2146 per impedire per esempio il contrabbando del petrolio. Il blocco raggiungerebbe il doppio obiettivo di mettere pressione economica su tutte le parti, e consentire il controllo delle acque davanti all Italia per prevenire eventuali attacchi. Al momento è solo un ipotesi, ma il Direttore del dossier Libia al Dipartimento Affari Politici, Christopher Coleman, la tiene sul tavolo. Congelamento dei beni Un altra possibilità è il congelamento dei proventi petroliferi, che finora sono stati redistribuiti fra tutte le milizie. Il problema qui è che queste risorse, per quanto già ridotte, servono anche a far sopravvivere la popolazione civile. Eliminarle provocherebbe un forte risentimento verso la comunità internazionale, che andrebbe mitigato con qualche meccanismo compensativo, capace insieme di garantire il sostentamento dei civili, e impedire l arrivo di altri finanziamenti per le milizie dai paesi della regione. Poi c è anche la possibilità di imporre sanzioni individuali contro i responsabili dei disordini, ma bisognerebbe distribuirle in maniera equa fra Tobruk e Tripoli. L intensità del dibattito in corso, e la radicalità di alcune soluzioni proposte, dimostra quanto sia difficile la situazione. Senza un accordo in tempi brevi, però, l escalation militare potrebbe diventare l unica alternativa, aprendo ai terroristi spazi molto pericolosi. del 04/03/15, pag. 17 «No a un accordo con gli iraniani Servirà per ottenere l atomica» Ma Obama non guarda neppure in tv il discorso di Netanyahu: nulla di nuovo WASHINGTON Benjamin «Bibi» Netanyahu si è liberato dei convenevoli ringraziando Obama per quanto ha fatto in favore di Israele, poi ha caricato a testa bassa denunciando la possibile intesa sul nucleare iraniano. Lo ha definito «un cattivo accordo» che porterà i mullah alla bomba. Il premier israeliano, nel controverso discorso al Congresso Usa, non ha rivelato segreti, però ha calato mazzate tra citazioni di Mosè e scenari catastrofici. Che non sono piaciuti alla Casa Bianca: solo retorica, nessuna alternativa concreta, è stato il commento che segnala il dissidio profondo, quasi storico. Nulla di nuovo, ha aggiunto Obama davanti alla telecamere, dopo aver rimarcato (e ostentato) di non aver visto l intervento in quanto era impegnato in colloqui con gli alleati. L ingresso di Netanyahu è stato trionfale, forse neppure alla Knesset lo hanno accolto in questo modo. Tre minuti di applausi dei congressisti e di molti ospiti, compreso il Nobel Elie Wiesel seduto accanto alla moglie del premier, Sara. Entusiasti i repubblicani, meno i democratici, tanto è vero che alcune decine hanno disertato il discorso e quelli che erano in platea raramente si sono alzati per le standing ovation. Non poteva essere diverso 12

13 davanti a un apparizione considerata uno spot elettorale legato all imminente voto in Israele. Per Netanyahu un accordo è pericoloso in quanto, oltre a rappresentare una minaccia, contiene elementi inaccettabili. Primo: lascia intatto l apparato nucleare iraniano, nessun sito sarà smantellato. Secondo: le restrizioni e i controlli internazionali non sono sufficienti a fermare i mullah pronti a truccare le carte. E su questo punto il premier ha citato l esempio della Corea del Nord oggi armata di ordigni nucleari. Terzo i dieci anni di congelamento del programma chiesti dagli Usa sono un periodo troppo breve, come un «battito di ciglia». Quarto: l Iran continuerà a sviluppare missili intercontinentali, non inseriti in alcuna intesa. Quinto: ci sarà una corsa al nucleare in tutto il Medio Oriente. Il capo del governo israeliano ha poi messo in guardia sulla collaborazione con Teheran nella lotta all Isis: «Sono la stessa cosa, sono in lotta per decidere chi comanda. Uno usa i coltelli e YouTube, l altro i missili...il nemico del mio nemico è il mio nemico». Netanyahu ha negato che l alternativa al mancato accordo sia la guerra, se gli «iraniani minacciano di lasciare il tavolo, lasciateli andare perché è un bluff, ciò capita spesso nel bazar persiano». Quindi le sue condizioni: «Se Teheran vuole essere trattato da Paese normale si comporti in modo normale» finendola con minacce e supporto al terrorismo. Netanyahu ha ripetuto che è un suo dovere proteggere Israele e lo farà anche da solo, anche se è certo che l America sarà sempre al fianco dello Stato ebraico. Ma per ora le posizioni sono lontanissime, come non mai, con il riemergere del contrasto personale tra Obama e il premier. Una situazione senza precedenti con un presidente Usa che rimprovera il capo del governo israeliano in diretta tv. Irritazione ancora più forte perché l entrata a piedi uniti di Bibi è arrivata mentre è in corso il negoziato con l Iran. Per questo Obama ha invitato ad aspettare l accordo prima di giudicarlo e ha assicurato che non firmerà mai un intesa che possa essere pericolosa. Una posizione condivisa anche da figure importanti democratiche e dagli alleati. Nancy Pelosi ha definito il discorso un «insulto» all intelligenza del presidente. La responsabile della politica estera Ue, Federica Mogherini, ha sostenuto che «usare la paura» in questi momenti «non è appropriato». Il leader israeliano, dunque, torna a casa con un busto di Churchill, gli onori del Congresso e il sostegno di parte dell establishment politico Usa. Un pacchetto che potrà aiutarlo nella prossima sfida elettorale ma pagato, cinicamente, con la nuova crisi nel rapporto con il presidente americano. I fatti diranno se ne è valsa la pena. Guido Olimpio Del 4/03/2015, pag. 1-9 Senza verità si cancella Nicola Calipari 2005/2015. L'angoscia della memoria. E l Iraq è sempre nel baratro del conflitto che ora sgozza gli ostaggi in mondovisione Giuliana Sgrena Dieci anni, sembra un soffio o un eternità. Dieci anni di vita vissuta alla giornata, in attesa del temuto mese di febbraio che inesorabilmente arriva e trascorre lentamente, prigioniera come sono ancora dei ricordi di allora. L angoscia aumenta con l avvicinarsi del 4 marzo, l anniversario della morte di Nicola Calipari. L agguato, la mitragliatrice, Lozano alimentano quegli incubi, che non sono mai scemati dopo la rinuncia alla ricerca della verità. Con il mancato riconoscimento della nostra (dell Italia) giurisdizione a celebrare un processo che avrebbe potuto chiarire, anche se 13

14 forse solo parzialmente, quello che è successo quella sera a Baghdad. Non si è voluto farlo per salvaguardare i rapporti con gli Usa e per paura della verità, che avrebbe coinvolto anche i servizi segreti italiani. Dieci anni, l immagine di Nicola è sempre più sfocata e non poteva essere diversamente: l insabbiamento del caso Calipari doveva servire anche a cancellare la figura dell eroe di allora. Qualcuno celebrerà il decennale, in modo formale. Altri recupereranno dagli archivi le immagini di allora, senza porsi il problema di cosa è successo in questi dieci anni. È una storia, la mia, che sento raccontare quasi come se non mi riguardasse più. È come se mi fosse sfuggita di mano, come se non riuscissi più a trattenerla. È come se anch io fossi finita in un casellario di archivio. È una sensazione terribile. Come se mi avessero rubato quella vita che Calipari mi ha ridato salvandomi dal sequestro e proteggendomi dal fuoco americano. Una vita diversa, senza entusiasmo, ma pur sempre la mia vita. Una vita da «sopravvissuta», com è inevitabile dopo quello che è successo, alla quale mi sono abituata tanto che a volte mi dispero perché non riesco più a ricordare quella di prima. Dieci anni in cui anche l Iraq è ulteriormente precipitato nel baratro della guerra e del terrorismo. E ripercorrendo la storia dell Isil (lo Stato islamico in Iraq e nel Levante) che ha occupato quasi tutta la zona sunnita dell Iraq, oltre che parte della Siria, si riparte da Falluja. Ancora Falluja, il laboratorio dell Iraq, dove era iniziata la resistenza contro l occupazione americana, dove era iniziata la penetrazione di al Qaeda, dove i Gruppi del risveglio avevano iniziato a combattere i qaedisti perché inquinavano l immagine della resistenza. Anche il mio sequestro era legato a Falluja, anche se non sono stata rapita nella cittadina a 50 chilometri da Baghdad e non ci sono finita nemmeno durante la prigionia. Ma sono stata rapita dopo aver intervistato profughi di Falluja accampati intorno alla moschea Mustafa nel campus dell università Nahrein. E da Falluja potrebbe partire il riscatto per liberare la provincia di Anbar dal terrorismo di al Baghdadi. Per ora è solo un auspicio, ma iracheni riferiscono di gruppi che si stanno organizzano e combattono i jihadisti del califfo. Ma non abbiamo più testimonianze dirette da quelle zone, le uniche immagini che arrivano sono quelle della propaganda del Califfato che unisce l imposizione di un regime arcaico e oscurantista che distrugge anche il patrimonio artistico con l uso sofisticato delle nuove tecnologie che tra l altro documentano l orribile scempio del museo di Mosul. I video di ottima qualità prodotti nel Califfato servono a terrorizzare l occidente e nello stesso tempo a reclutare nuovi adepti. È impressionante come l orrore possa riempire il vuoto lasciato dalla perdita di valori e convincere giovani occidentali uomini e donne ad abbracciare il jihad. La mancanza di notizie verificate da intere aree in conflitto Iraq, Siria, Libia, Somalia, etc. non sembra preoccupare chi deve fare informazione, anzi il dibattito è sul trasmettere o meno i video dell Isil, che peraltro sono facilmente rintracciabili sul web. Del resto, da quando l informazione è stata militarizzata (soprattutto a partire dalla seconda guerra del Golfo), le crisi si seguono embedded con gli eserciti impegnati sul campo. E magari si tornerà anche in Libia con i nostri. Ma questa non è informazione è propaganda, opposta a quella dell Isis ma è sempre propaganda di guerra. La propaganda non è informazione e serve ad alimentare la guerra. Chi crede ancora nel nostro dovere di fare informazione non può rassegnarsi a trasmettere veline, ma purtroppo questo non avviene solo su terreni difficili da frequentare, avviene anche in casa nostra, dove basterebbe avere un po più di coraggio e voglia di conoscere la realtà. Ma questo forse non interessa agli editori che possono sfruttare la precarietà del lavoro per ricattare gli aspiranti giornalisti. Ormai Internet ha sostituito l informazione non solo per chi si serve del web ma anche per chi scrive articoli con il copia e incolla da Internet, per l appunto. Senza curarsi del fatto che nessuno controlla quello che viene pubblicato: i falsi sono all ordine del giorno, non solo per i testi ma persino per le immagini. Perché a volte si sfruttano giovani locali che rischiano la vita per pochi dollari al giorno. È quello che è suc- 14

15 cesso a Mohlem Barakat, 17 anni, ucciso il 20 dicembre 2013 ad Aleppo, mentre scattava foto per la Reuters per guadagnare 10 dollari per ogni immagine pubblicata. E se non si vuole giocare con la vita di un giovane aspirante fotografo locale è sempre meglio che fare la guerra basta cambiare la didascalia di una foto: sostituire Iraq con Siria e l attualità è coperta, salvo il fatto che anche in Iraq le vittime sono tornate ad aumentare terribilmente e non c è più differenza tra Iraq e Siria, l Isil è al di qua e al di là della frontiera che non esiste più e da nessuna parte ci sono più giornalisti da sequestrare. È venuto meno il business dei riscatti, ma all Isis non serve nemmeno il riscatto, ha trovato un modo più redditizio per sfruttare i rapimenti: mostrare in video lo sgozzamento degli ostaggi. Del 4/03/2015, pag Lo show di Bibi e il tifo da stadio così la destra vuol far naufragare il Grande disgelo con gli ayatollah FEDERICO RAMPINI DAL NOSTRO CORRISPONDENTE NEW YORK UN LEADER straniero occupa il Congresso degli Stati Uniti come palcoscenico per la campagna elettorale di casa sua, attaccando il governo del paese che lo ospita. La destra americana lo applaude con un tifo da stadio, per usarlo contro Barack Obama. Quest ultimo è costretto a richiamare la Costituzione: «Nella nostra democrazia la politica estera la fa il presidente». È stata una giornata indegna, quella di ieri sul Campidoglio di Washington. Ma più gravi potrebbero essere le sue conseguenze in Medio Oriente. Gli storici ricordano un solo precedente di un leader estero che abbia arringato per tre volte il Congresso a Camere riunite, com è accaduto a questo Benjamin Netanyahu idolatrato dalla destra: si trattò nientemeno che di Winston Churchill, il grande statista inglese, l alleato strategico nella guerra mondiale ai nazifascismi. L accostamento (statistico) con il premier israeliano indica quanto la politica sia caduta in basso, rispetto ai tempi di Franklin Delano Roosevelt. Avendo conquistato il pulpito più visibile del mondo, Bibi non ha sfigurato, anzi è stato brillante. È riuscito in un solo discorso a citare Mosé e la serie televisiva Il trono di spade, il romanziere Ernest Hemingway ( Addio alle armi ) e il poeta Robert Frost ( la strada che non fu imboccata ). Rivolto al sopravvissuto dell Olocausto e premio Nobel della pace Elie Wiesel che lo ascoltava in tribuna, ha lanciato: «Vorrei poterti promettere, Elie, che le lezioni della storia sono state apprese, e che i leader del mondo non ripeteranno gli errori del passato». Galvanizzato da una destra repubblicana che lo incitava con 26 applausi fragorosi a scena aperta, Netanyahu è venuto a dire quel che ripete da anni: l Iran è inaffidabile, l accordo sul nucleare che Obama sta negoziando è un inganno, quindi una resa. Sono temi divenuti più scottanti e urgenti visto che in queste stesse ore a Ginevra il segretario di Stato John Kerry tenta di concludere l intesa con Teheran. Il New York Times la giudica, se va in porto, «il più audace colpo diplomatico di un leader americano, dopo il disgelo di Richard Nixon con la Cina». E sarebbe il secondo lascito di Obama alla storia del dopo-guerra fredda, il primo è l avvio del disgelo con Cuba. Pur di far deragliare l accordo sul nucleare, Netanyahu ha commesso lo sgarbo senza precedenti: ha accettato un invito rivoltogli dalla sola destra al Congresso, e senza 15

16 avvisarne la Casa Bianca. Il tutto quando mancano appena due settimane al voto in Israele, dove i laburisti in rimonta stavano rosicchiando consensi a Netanyahu. Almeno fino all exploit propagandistico di Washington, che forse gli varrà qualche punto nei sondaggi. A Ginevra la delegazione di Obama lavora non da sola, bensì d intesa con gli alleati europei, la Russia e la Cina. L ipotesi di accordo limiterebbe per almeno un decennio il numero di centrifughe di cui Teheran dispone per arricchire l uranio; inoltre gli impianti nucleari sarebbero aperti alle ispezioni internazionali. Se gli iraniani accettano queste condizioni, in futuro anche in caso di violazione dei patti gli oc- correrà almeno un anno per riuscire a costruire la bomba atomica. Questo darebbe all America, ai suoi alleati occidentali e ad Israele il tempo per organizzare una reazione: compreso un attacco militare. In cambio di queste limitazioni Teheran otterrebbe il riconoscimento di principio che le aspirazioni all energia atomica per scopi civili sono legittime. E soprattutto verrebbero ridotte quelle sanzioni economiche che hanno impoverito l economia persiana. Netanyahu denuncia l accordo come un cedimento accompagnato da garanzie insufficienti. «La sopravvivenza di Israele sarà in pericolo». Obama gli ribatte, a distanza: «Qual è l alternativa? Il premier israeliano non ne offre una che sia praticabile». L intervento militare contro gli impianti nucleari iraniani non è realistico oggi, tanto più in una fase in cui Teheran appoggia l Occidente nella lotta contro lo Stato Islamico. L opzione militare solleva scetticismo anche tra i generali israeliani: con ogni probabilità un attacco dal cielo potrebbe danneggiare e ritardare i piani nucleari, ma non impedirli per sempre. «Che cosa è venuto a dirci Netanyahu, che non sapessimo già?» Così si esprime Robert Kagan, esperto di strategia filo-israeliano, conservatore, consigliere di vari presidenti repubblicani. Kagan è un autorevole intellettuale di destra, lucido abbastanza da vedere il danno. Ragiona per analogie storiche. Come avrebbero reagito i repubblicani, se nel 2003, quando era la sinistra maggioritaria al Congresso, fossero venuti a Washington ad arringare le Camere il presidente francese Jacques Chirac o il cancelliere tedesco Gerhard Schroeder, contrari alla guerra in Iraq di George Bush? O se i democratici avessero chiamato a parlare da quel pulpito i leader della sinistra latinoamericana per denunciare gli abusi di Ronald Reagan negli anni Ottanta? Fanta-politica, fino a ieri. La rielezione di Netanyahu, perché di questo si tratta, se si avvera avrà un prezzo elevato. Sarà una macchia nelle relazioni tra l America e Israele (metà dei cittadini Usa condanna l invito al Congresso), e nell immagine di un Congresso già ai minimi storici nella sua credibilità. E le conseguenze in Medio Oriente? I repubblicani faranno di tutto per sabotare l accordo con l Iran, così come stanno cercando di boicottare il disgelo con Cuba. Il disegno di Obama è ambizioso, come tale è ad alto rischio: vuole scommettere sul ritorno dell Iran nella comunità internazionale, come un paese attratto dalla normalità, che possa dare un contributo a pacificare il mondo islamico. Lo scenario alternativo, cioè lo status quo, è tutt altro che stabile, pacifico e rassicurante. del 04/03/15, pag. 18 UNO STATO PALESTINESE È GARANZIA PER ISRAELE Amos Oz L alternativa è una dittatura dei fondamentalisti ebraici o un unico Paese in mano araba che ucciderebbe il sogno sionista 16

17 Iniziamo dalla cosa più importante, una questione di vita o di morte: Se non ci saranno due Stati, ce ne sarà solo uno; Se ce ne sarà uno solo, sarà arabo; Se sarà arabo, chissà quale sarà il futuro dei nostri e dei loro figli. Uno Stato arabo, quindi, dal mare al fiume. Non uno stato binazionale, poiché gli stati bi e multinazionali (tranne l eccezione svizzera) non hanno un futuro promettente: difatti tendono a frantumarsi o a dissanguarsi fino all annientamento. E difatti, immaginare che palestinesi e israeliani, che si sono inflitti finora reciprocamente tante e tali sofferenze, siano disposti all improvviso a voltar pagina e ad accogliere una pacifica ed equa convivenza, appare a dir poco una chimera. Dopo un eventuale separazione, in un futuro lontano, potrebbero anche adottare una qualche forma di cooperazione, ma non prima che i palestinesi abbiano avuto modo di sperimentare la libertà e la dignità che come ben sappiamo scaturiscono dall indipendenza. Pertanto, esclusa la realtà di due Stati, e relegato al dominio della fantasia l ipotesi del binazionalismo, ecco che avanza minacciosa la prospettiva di un unico Stato arabo in grado di cancellare il nostro sogno sionista. Nel tentativo di arginare una visione così funesta, questa terra dal fiume Giordano al mar Mediterraneo potrebbe essere governata da una dittatura di fondamentalisti ebraici, caratterizzata dal fanatismo razziale e capace di imporre la sua volontà sia alla maggioranza araba che all opposizione ebraica. Come si è visto in gran parte delle dittature delle minoranze nell era contemporanea, anche questa non durerà. Dovrà fare i conti con il boicottaggio internazionale, assistere a bagni di sangue interni, o entrambe le cose, finchè non sarà costretta a cedere davanti all inevitabile: uno Stato arabo dal fiume Giordano al mar Mediterraneo. E la soluzione dei due Stati? Molti di noi, che appoggiano questa prospettiva, sostengono che l attuale conflitto non può trovare soluzione in altro modo. Ai loro occhi, Yasser Arafat era troppo forte e intransigente, ma il suo successore Mahmoud Abbas (Abu Mazen), uomo ponderato e ragionevole, è troppo debole. Pertanto si manterrebbe in vita l opzione dei due Stati tramite un operazione di «gestione del conflitto». Ma ahimè, solo l estate scorsa abbiamo vissuto sulla nostra pelle il significato di questa «gestione», che ci condanna alla prossima Guerra del Libano, e a un altra ancora; alla prossima Guerra di Gaza, e a tutte le successive; come pure alla terza, quarta e quinta Intifada a Gerusalemme e in Cisgiordania, combattute nelle nostre strade. Il collasso inevitabile dell Autorità palestinese vedrebbe l emergere di Hamas o di un successore ancor più estremista, mentre tutti sarebbero testimoni di un infinità di morti da una parte e dall altra. Questa è la realtà della «gestione del conflitto». Infine, l idea di una possibile risoluzione del conflitto merita uno sguardo più approfondito: da un centinaio di anni a questa parte, non c è stato un momento più favorevole alla fine delle ostilità come oggi. Non che i nostri vicini si siano convertiti al Sionismo, né abbiano di colpo accettato il nostro diritto a questa terra. Il motivo invece sta nel fatto che i principali attori politici della regione Egitto, Giordania, Arabia Saudita, gli altri Stati del Golfo e del Nord Africa si ritrovano ad affrontare una minaccia di gran lunga più imminente e catastrofica a lungo termine rispetto a Israele. Per alcuni di loro, l Iran è al vertice nella classifica delle forze del male. Per altri, questa minaccia si chiama Isis. Ma sia Teheran che l Isis sono la causa delle molte notti insonni in tutte le capitali del Medio Oriente, e su questo sfondo oggi Israele appare come parte della soluzione, se solo la collaborazione con noi fosse legittimata e rafforzata con la fine dell occupazione dei Territori palestinesi e con il riconoscimen- to delle aspirazioni dei palestinesi verso uno Stato proprio. Dodici anni fa ci è stata proposta l Iniziativa saudita 17

18 per la pace, in seguito sottoscritta (con qualche modifica) anche dalla Lega araba. Non suggerisco di adottarla a occhi chiusi, ma certamente vorrei che venissero coinvolti i sauditi ed altri partecipanti in una discussione sui nostri dubbi e le nostre riserve. Una nostra risposta condizionata, ma positiva, a questo rovesciamento storico dell antica posizione araba di rifiuto e chiusura totale sarebbe altamente auspicabile, e spalancherebbe la porta alla collaborazione sia sulla proposta dei due Stati che sulla sicurezza regionale. La verità ineluttabile per quanto controversa è che la Guerra dei sei giorni, nel 1967, ha segnato la nostra ultima vittoria decisiva. Da allora, nessun risultato ottenuto può essere considerato una vittoria, perché in guerra il vincitore non è necessariamente colui che infligge le distruzioni peggiori, ma colui che ottiene il suo scopo. Non avendo fissato alcun obiettivo politico per le guerre più recenti, non abbiamo potuto né aspettarci né dichiarare vittoria, e l assenza di obiettivi è il riflesso di una realtà in cui nessuno dei nostri obiettivi nazionali è più raggiungibile con la forza. Con questo non intendo dire che la forza militare sia ormai inutile. Anzi, essa è essenziale alla nostra stessa sopravvivenza. Fin troppo spesso ci ha protetto dall annientamento, ed è servita sia come deter- rente, ma anche per sconfiggere tutti i no- stri avversari laddove la deterrenza è fallita. La forza militare ha svolto egregiamente i suoi compiti. Ma non confondiamo la legittima autodifesa dove non possono esserci compromessi con l illusione di imporre con la forza la nostra volontà politica sugli altri. È questa la realtà dei limiti della forza militare, com è stato dimostrato a più riprese negli ultimi decenni, ed è per questo che sono giunto alla conclusione che la cosiddetta «gestione del conflitto» è la ricetta di nuove sventure. Essa è destinata a fallire e dovrebbe, anzi, cedere il passo a uno sforzo sincero e duraturo verso la soluzione del conflitto. Fin troppi israeliani si sono convinti che basta utilizzare un bastone più grosso e far mostra di maggior risolutezza per «educare» gli arabi a sottomettersi alla nostra volontà. Tuttavia, nel centesimo anniversario di questo concetto fasullo, davanti alla prova schiacciante che il nostro bastone sempre più grosso si rivela ogni volta inadeguato, è giunto il momento di riconoscere l arroganza e la futilità del voler «convincerli della nostra supremazia». Eppure, la nostra politica è ancora concepita per imporre la nostra volontà con l uso della forza. Di conseguenza, in Cisgiordania, l Autorità palestinese è sul punto di crollare da un momento all altro, sbattendo la porta su importanti operazioni di coordinamento per la sicurezza e lasciandola invece spalancata a Hamas e ad altri gruppi di estremisti pronti a occupare gli spazi lasciati liberi. I coloni e i loro sostenitori in patria e all estero ripetono che questa terra è nostra per diritto. E quale sarebbe questo diritto? Non hanno ancora capito che il mondo tra cui la maggioranza degli Stati arabi riconosce il nostro diritto allo Stato di Israele all interno della «linea verde» ma respinge senza mezzi termini la nostra occupazione dei restanti territori? Che riconosce il diritto dei palestinesi ad uno Stato accanto al nostro, ma respinge ogni pretesa di ampliamento? Questi coloni, molto simili in questo alla loro controparte estremista tra i palestinesi, sembrano aver dimenticato che i diritti per quanto divini se privi di legittimità internazionale devono restare confinati alle sacre scritture, non entrare a far parte del programma di governo. Quando vantano il diritto esclusivo alla Terra di Israele si rifanno al precetto religioso di non cedere un palmo di terra, e quando pretendono di modificare la normativa che regola la Spianata delle moschee non si curano affatto dei sentimenti di quanti ne condividono la sacralità. Ai loro occhi, offendere 200 milioni di arabi è solo una prova di forza per scatenare lo scontro con un miliardo di musulmani in rutto il mondo. 18

19 Allora io chiedo: quando reclamiamo il diritto di pregare sulla Spianata delle moschee, siamo disposti a rinunciarvi finché non verranno raggiunti gli accordi e che la questione non sia più fonte di divisioni e scontri? A coloro che intendono scatenare una guerra di religione sulle modalità di preghiera io dico: non nel mìo nome. Non nel nome dei miei figli, dei miei nipoti, non nel nome di tutti i miei cari e di tutti coloro che sono d'accordo con me. È sorprendente come persine la provocazione nei confronti degli arabi e dei musulmani non sembri soddisfare il loro appetito. Oggi assistiamo al tentativo di dettare le scelte politiche degli Stati Uniti, senza tener conto delle conseguenze per il nostro principale alleato strategico. Nel favorire un connubio tra la nostra estrema destra e la loro, nel tentativo di scalzare le fondamenta tradizionali bipartisan di tali rapporti, questi politici irresponsabili mettono a repentaglio la nostra sicurezza nazionale. Con presunzione essi vanno affermando: «Il leader del mondo libero oggi è solo nella lotta contro la minaccia iraniana, come osa Obama sbarrargli la strada?» La nostra storia è ricca di esempi in cui abbiamo sfidato il mondo e in più di un'occasione i risultati sono stati catastrofici. David Ben Gurion vedeva giusto quando ci insegnava che lo Stato di Israele non sarebbe mai esistito senza l'appoggio di un forte alleato a livello globale. Oggi, per quanto salda sia la nostra alleanza con gli Stati Uniti, la sua permanenza non è affatto scontata. Essa richiede rispetto e considerazione, e certamente non deve essere sottoposta a pressioni malevole e interessate. In questo contesto, come in altri, occorre distinguere ciò che è permanente da ciò che è transitorio. La nostra alleanza con gli Stati Uniti è transitoria, e sta a noi investire costantemente i nostri sforzi per mantenerla in vita. D'altro canto, la nostra presenza accanto alla Palestina e nel cuore del mondo arabo è una caratteristica permanente della nostra realtà ed è questa a dover dettare le nostre scelte. Allo stesso modo, la forza degli agenti ostili, dai terroristi alle potenze nucleari, è in fase di trasformazione. Pertanto, dobbiamo garantire in permanenza la superiorità delle nostre capacità difensive. E per assicurarci che la nostra potenza difensiva sia sempre adeguata per affrontare ogni eventuale minaccia, nulla è più deleterio che prendere decisioni unilaterali; coalizzare la comunità internazionale contro di noi; e indebolire la nostra alleanza con gli Stati Uniti. Al contrario, guidare uno sforzo di pace dinamico con i nostri vicini palestinesi sotto l'egida dell'iniziativa araba di pace farà molto per forgiare una coalizione di sostegno, regionale e internazionale, e disinnescare le tensioni nei tenitori, verso un rafforzamento della sicurezza nazionale. Il mio appello per la pace non è fondato su ingenue aspettative riguardo le difficoltà nel superare le differenze o le sfide che ci vengono poste dalle bocciature che riceviamo da ogni parte. La pace non è un giocattolo su una mensola, che basta allungare una mano per afferrarlo. Né era semplicemente per il rifiuto di un papa Rabin, Barak o Olmert poco importa di pagare il prezzo che ne siamo stati privati così a lungo. Come dice il proverbio arabo: per applaudire ci vogliono due mani. Bisogna essere in due per ballare il tango attorno al tavolo dei negoziati e la nostra controparte palestinese ha contribuito non poco ai passati insuccessi. La colpa è di tutti coloro che sono stati coinvolti in questa vicenda, parti terze e sostenitori inclusi. Di conseguenza, non prometto nessuna soluzione rapida verso un accordo; nessuna facile attuazione; né una panacea per il giorno dopo. Ma prevedo gravissime conseguenze se non sapremo separare il nostro Paese da quello palestinese. Non mi stancherò mai di ripeterlo: ci saranno due Stati se lo vorremo, oppure un unico Stato arabo in mancanza di alternative. Non me la sento di criticare i milioni di israeliani che riconoscono la necessità di dividere i tenitori ma non si fidano della volontà dei palestinesi di garantirci quello di cui abbiamo più bisogno: la sicurezza. Capisco e condivido questi timori legittimi. Non li prendo alla leggera. Anzi, ritengo che occorre addossare al movimento per la pace e ai suoi leader l'ulteriore responsabilità di vegliare attentamente sulle questioni di sicurezza; di cercare nuove sedi per ribadirne la 19

20 necessità e l'attuazione (come quelle offerte dall'iniziativa araba per la pace); e di convincere gli scettici della sua fattibilità. La mia premessa sionista è semplice e diretta: non siamo soli su questa terra, né siamo noi gli unici proprietari di Gerusalemme. Ai miei amici palestinesi dico lo stesso: nemmeno voi siete soli qui. Questa nostra piccola casa dovrà essere suddivisa in due appartamenti più piccoli. E che vi sia una buona recinzione tra le due proprietà, per garantire rapporti di buon vicinato. Una volta divorziati, proviamo a coesistere gli uni accanto agli altri, lasciando alle future generazioni il progetto di una possibile coabitazione confederata o di altro genere. La nostra vita non è un film di Hollywood con i buoni contro i cattivi, bensì una vera tragedia di due cause giuste in un conflitto che genera sempre maggiori ingiustizie. Potranno continuare a scontrarsi, infliggendo ancora più lutti e sofferenze. Oppure potranno cercare di riconciliarsi tramite la separazione e il compromesso. Nelle terre bibliche è difficile misurarsi con gli antichi profeti. Eppure, è lecito affermare che in Medio Oriente la durata di un «mai» o di un «sempre» va dai tre mesi ai trent'anni. Ciò che era impossibile quando prestavo servizio in divisa durante la Guerra dei sei giorni si è trasformato in un visto egiziano e giordano sul mio passaporto. Coloro che si opponevano aspramente a cedere un territorio «tre volte più grande di Israele» per sancire la pace con l'egitto non immaginavano che quella pace sarebbe durata per decenni, superando prove durissime. I loro argomenti, allora e adesso, contro la pace con i palestinesi rispecchiano lo stesso terrore dell'ignoto, la stessa riluttanza ad assumere rischi nella prospettiva di un futuro migliore, malgrado la certezza che lo status quo è un'illusione, che sarà sostituita dall'inaccettabile. E proprio come i due precedenti con l'egitto e la Giordania così pure le nostre dispute con la Palestina non saranno risolte dalla sera alla mattina. Eppure anche qui, con una leadership illuminata, si potrà cancellare la parola «impossibile». (Traduzione di Rita Baldassarre) Del 4/03/2015, pag. 7 Cuba-USa, l accelerata di Obama: ambasciate entro il 10 aprile Usa/Cuba. Secondo round di incontri Roberto Livi, L'AVANA Entro la metà di aprile, la bandiera a stelle e striscie potrebbe sventolare affacciata sul famoso malecón dell Avana. Nei piani dell Amministrazione Obama c è infatti un accelerazione nelle trattative con Cuba che porti all apertura delle rispettive ambasciate prima del Vertice delle Americhe, che dal 10 aprile riunirà a Panama i capi di stato di tutto il continente americano. Le aspettative della Casa bianca sono state espresse dalla vice segretaria del Dipartimento di Stato, Roberta Jacobson, capo negoziatrice americana, venerdì scorso a Washington alla conclusione della seconda tornata di trattative con la delegazione cubana. L accelerazione dei tempi ipotizzata dalla viceministra sarebbe frutto dell «ottimo clima» in cui, a detta della Jacobson, si sono svolte le trattative a Washington. La responsabile della delegazione cubana, Josefina Vidal, ha infatti messo in chiaro che l Avana, pur ribadendo la richiesta che gli Usa tolgano Cuba dalla loro lista dei paesi che favoriscono il terrorismo, non considera questa misura una «precondizione» per avanzare verso la ripresa delle relazioni bilaterali. «Non abbiamo stabilito una relazione diretta tra la riapertura delle ambasciate e l eliminazione (di Cuba) dalla lista dei patrocinatori del terrorismo» ha detto la direttrice generale per gli Usa del Ministero degli Esteri cubano. Vidal 20

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