Sotheby's. Treasures Aristocratic Heirlooms Londra 06 lug 2010, 05:30 PM L10307 CIRCA

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1 Sotheby's Treasures Aristocratic Heirlooms Londra 06 lug 2010, 05:30 PM L10307 LOTTO 4 AN ITALIAN ENGRAVED IVORY INLAID ROSEWOOD (GRANADILLO) CENTRE TABLE ATTRIBUTED TO MASTRO GIORGIO TEDESCO AND GIULIO LUPI, FOR THE DUKE OF URBINO FRANCESCO MARIA II DELLA ROVERE ( ) CIRCA the top of rectangular form inlaid with four oak boughs with oak leaves and acorns, each corner inlaid with the arms of the della Rovere family and the insignia of the Order of the

2 Golden Fleece within a similarly inlaid border on squared trestle supports joined by later steel spirally-twist stretchers 83cm high. 133cm wide, 83cm deep; 2ft.8in., 4ft.4in., 2ft.8in. STIMA 500,000-1,000,000 GBP Lotto venduto: 937,250 GBP PROVENIENZA(E) Commissioned by the Duke of Urbino, Francesco Maria II della Rovere ( ) and recorded in the inventory compiled after his death in 1631 at Casteldurante Thence by descent to his granddaughter Vittoria della Rovere ( ), Grand Duchess of Tuscany Recorded in 1687 in the Medici Guardaroba of Pitti Palace, Florence, in the room of the then dowager Grand Duchess Recorded in April 1694 in the Medici Guardaroba of Pitti Palace, Florence as being given to Cardinal Francesco Maria de'medici ( ), the second son of Vittoria della Rovere and Ferdinand II, Grand Duke of Tuscany. Sold by the descendants of Charles Butler ( ). Christie's, London, 23rd November 1989, lot 161 NOTA DEL CATALOGO EBANO E AVORIO: UN TAVOLO PER IL DUCA DI URBINO TEXT BY ALVAR GONZÁLEZ-PALACIOS Per trattare di ebano e avorio occorrerebbe innanzitutto parlare di altri materiali: di osso e di legni comuni. Il contrasto fra le essenze scure vegetali e il chiarore delle materie animali è adoperato fin dall'antichità con fini estetici ma per avvicinarci all'argomento di cui ci occuperemo si dovrebbe risalire almeno al medioevo nei paesi dell'islam. Attraverso gli arabi del sud della Spagna quei moduli ornamentali si addentrarono in Europa e l'appellativo certosino, ad essi dato da più di un secolo, fa pensare al successo avuto in Italia. E' comunque ormai accettata dalla maggior parte degli studiosi la discendenza orientale di queste tarsie, perlopiù a motivi floreali stilizzati abbinati a forme geometriche 1. Stabilire la loro esatta origine resta comunque arduo. L'ebano proviene dall'africa e dall'asia meridionale, da climi caldi dunque; ma in Europa venne utilizzato soprattutto nelle varietà importate dall'america, specialmente dal Brasile e dalle Antille ovviamente passato il secolo della scoperta e della conquista di quelle terre. E' materiale estremamente costoso, durissimo e dunque di difficile lavorazione, che viene perlopiù impiallacciato in lastre sottili e quasi mai impiegato a massello. E' spesso di colore nero ma puo' presentare venature che puntano al violetto, al verdastro e al giallo. Eccezion fatta di qualche fugace presenza di ebano e avorio in rare scacchiere o in altri oggetti di piccole dimensioni è bene attendere fino al tardo Cinquecento per parlare con certezza di mobili costruiti con questi due materiali -almeno stando a quanto sappiamo oggi. Ebanisti nordici a Napoli Fu a Napoli, allora una delle due capitali artistiche del mondo ispanico e sede vicereale, che si fecero fra i primi mobili di lusso in cui l'ebano è usato per la parte strutturale mentre l'avorio è destinato agli abbellimenti (regoli, filettature, cornici e placche graffite con carte geografiche, soggetti biblici, allegorici, mitologici o storici). Proprio alla fine del Cinquecento, al 1597 per l'esattezza, risale una di quelle opere che fanno di per sé storia: si tratta di una pietra miliare della mobilia europea, uno stipo impiallacciato di ebano e di avorio graffito con una impostazione decisamente architettonica oggi custodito nel Museo di Amburgo. Questo

3 capolavoro risulta firmato da due artigiani napoletani, Gennaro Picicato e Giovanni Battista De Curtis 2. Del primo non si hanno notizie. De Curtis è invece noto attraverso altre opere sicure 3 e alcuni documenti d'archivio. Una di queste carte 4, del luglio 1596, asserisce che De Curtis, definito intagliatore e napoletano, si impegnava con uno scritturista, Iacobo Fiamengo, a incidere due scrittoi (o studioli) con favole d'ovidio. In un'altra carta, qualche mese prima, De Curtis (detto questa volta intagliatore d'avorio) e Iacobo Fiamengo scritturista stipulavano un contratto per uno stipo con storie del Vecchio Testamento. Su Iacobo Fiamengo si sa, inoltre, che nel 1594 e nel 1595 aveva stipulato accordi per eseguire altri due stipi e che nel 1596 e nel 1602 aveva preso due apprendisti in bottega 5. Risulta quindi chiaro che colui che faceva lo scritturista, vale a dire lo stipettaio o ebanista (come oggi usa dire per ovvia derivazione) non è lo stesso artigiano che incide gli avori con una tecnica che ricorda la grafica. Purtroppo il cognome di Iacobo Fiamengo non è un vero cognome ma piuttosto un appellativo di provenienza: e di fiamminghi e di tedeschi ce ne furono molti in Italia fra Cinque e Seicento. Le carte spesso non fanno che aumentare la confusione: in una di quelle menzionate, risalente al 1594, ad esempio, si scriveva Iacobo Fiamengo alemano mentre nel 1595 si nomina Iacobo Fiamengo de Neapoli. Vediamo ancora un altro fatto che si presta a qualche dubbio: chi è un Giacomo fiammingo intagliatore d'avorio che risulta attivo a Roma con bottega a Montecavallo nel 1595? 6. A mio modo di vedere non è la stessa persona di cui abbiamo finora parlato: il nostro Iacobo era uno scritturista di Napoli mentre il Giacomo di Roma era un intagliatore d'avorio. Non credo infine che si possa qui parlare di omonimia ma soltanto di una simile origine nazionale. Ricordiamo l'osservazione di uno dei più acuti conoscitori della vita artistica del primo Seicento: non dice Giulio Mancini, uno dei primi biografi di Caravaggio, in quell'epoca, anni più anni meno, di "molti franzesi e fiamminghi che vanno e vengono, non li si può dar regola"? Il mobile di Amburgo non è la sola opera importante fatta a Napoli nella tecnica di cui parliamo che utilizza, lo si ripete, placche di avorio intagliato con scene di vario genere disposte su un fondo d'ebano in una bicromia di bianco e di nero che rispetta le forme dell'architettura classica. Non staremo qui a riassumere il vasto corpus di questi arredi via via arricchitosi negli ultimi anni. Le opere più significative si conservano nel Victoria and Albert Museum di Londra, a Napoli nel Museo di San Martino, a Milano nel Museo Poldi Pezzoli, nel Philadelphia Museum of Art e presso alcuni privati spagnoli 7 (fig. 2.). Nelle corti europee Il Re di Spagna Filippo II (che era anche Re di Napoli) ebbe, a quanto apprendiamo dagli inventari redatti dopo la sua morte caduta nel 1598, diversi mobili del genere. Nelle sue stanze si elencavano tre scrittoi in ebano e avorio. Il primo, diviso da pilastri con capitelli ionici, aveva in mezzo uno sportello, era ricoperto con soggetti venatori e presentava rifiniture e maniglie in argento; il secondo si ornava di una scena mitologica con un vascello e l'ultimo, più semplice, aveva sei tiretti con placchette di avorio 8. Più di un secolo dopo nella Testamentaría dell'ultimo degli Asburgo di Spagna, Carlo II, compaiono altri mobili in ebano e avorio che si direbbero più antichi, del tipo napoletano menzionato. Non si tratta però di stipi bensì di bufetes, ossia tavolini. La decorazione del primo di essi includeva ovali con teste di imperatori e vedute di città; un altro aveva scene non specificate e ornati floreali; infine se ne elencano altri quattro non bene descritti 9. Chi conosca il repertorio dei mobili eseguiti a Napoli di cui si è detto sopra troverà una pacifica concordanza tra le opere ancora oggi esistenti e quanto riportano, seppur sommariamente, gli inventari spagnoli testé citati. Andrà però ricordato che altri regnanti e alcuni dei grandi signori europei possedevano mobili di questo genere. Anzi, siamo più precisi, quei personaggi avevano mobili in ebano e avorio ma perlopiù descritti nelle carte in modo così approssimativo da impedire una precisa identificazione. Faccio qualche esempio. Nell'inventario della Regina di Francia Caterina de' Medici, in quelli di Carlo I d'inghilterra, in quello dell'onnipossente Duca di Lerma ai tempi di Filippo III, si menzionano mobili che potrebbero essere stati eseguiti in altri paesi come la Germania dove si approntarono arredi in ebano e avorio ma con un carattere meno marcato 10. Non accade così nell'elenco dei beni del Cardinal Mazarino, compilato alla sua morte nel 1661 con estrema precisione: in esso compare una coppia di stipi con tredici scene delle Metamorfosi su

4 avorio, poggianti ciascuno su un tavolo d'ebano, che sembrano appartenere alla tipologia che via via è stata identificata come napoletana 11. Il carattere che contraddistingue tutti questi mobili è essenzialmente architettonico mentre l'intaglio delle placche d'avorio sembra ubbidire, come si accennava, ad un'impostazione più grafica che pittorica. Ambedue queste qualità si mantengono a Napoli lungo il primo quarto del XVII secolo. Un'edicola che potei studiare a Parigi è un buon esempio di queste caratteristiche ed inoltre aiuta a stabilire la cronologia di quel particolare aspetto delle arti decorative europee: l'avorio è infatti firmato nel 1607 da quel Giovan Battista De Curtis che abbiamo già incontrato 12 (fig. 1.). Le stesse regole, lo si vedrà in seguito, non vengono seguite dal tavolo che è il principale soggetto di questo scritto. Prima però ci pare opportuno esaminare altri aspetti della mobilia della stessa epoca che presentano qualche attinenza e non poche divergenze con il nostro argomento. Un'ipotesi veneziana Negli anni ho messo insieme un gruppo di mobili, costituito da tre tavoli e da uno stipo, assai peculiari che fanno corpo a sé e sono stati eseguiti sul fare del Seicento. I primi due tavoli, una coppia, sono datati 1604, il terzo 1603 (fig. 3.). Lo stipo non ha data alcuna ma ha un punzone a fuoco con le lettere CCC, presente anche sui tre tavoli. Tutti questi mobili hanno uno stemma formato da un'aquila a scacchi coronata che, nello stipo soltanto, è sormontato da un cappello cardinalizio. Questi dati mi hanno permesso di ritenere possibile che le tre C corrispondano al titolo e al nome del Cardinale Carlo Conti ( ), membro di una illustre famiglia romana (il cui stemma è appunto un'aquila a scacchi coronata) che dopo una brillante carriera ottenne la porpora nel 1604 (forse non è del tutto casuale che sia quella la data apposta su due dei tavoli). A questi mobili (accomunati, lo si ripete, dal marchio con le lettere CCC e dallo stemma dei Conti con l'aquila scaccata) si possono aggiungere, su basi stilistiche, due stipi (uno con un timpano coronato da tre obelischi), un terzo stipo con un supporto a zampe fisse, un tavolo con sostegni a cavalletto e un ulteriore piano di tavolo senza piede 13. Tutti questi arredi presentano una struttura architettonica piuttosto semplice su cui è disposta una complessa decorazione a girali, piccole figure, medaglioni con profili, composta da intarsi di minuti elementi in avorio e madreperla. Alcuni degli stipi hanno risalti laccati di scuro e l'interno dei vani dipinti ad imitazione di stoffe 14. Ho anche notato che gli elementi ornamentali di palese derivazione orientale trovano riscontro in diversi aspetti dell'arte veneziana del pieno Rinascimento: tessuti, metalli, lacche 15. La pletora decorativa, la presenza di molti stilemi che puntano all'islam e persino all'india (in alcuni casi si potrebbe addirittura pensare al Gujarat) 16, la somiglianza con alcuni manufatti metallici in un gusto saraceno molto diffusi (e persino eseguiti) nel Veneto, lasciano dunque supporre che tutti i mobili sopra citati siano di esecuzione veneziana. Non nascondo però che il rapporto fra il Cardinal Conti e Venezia non è scontato: il Cardinale fu Arcivescovo di Ancona, città non aliena da contatti con la Repubblica nella quale, a quanto si scrive, egli si recò più di una volta. Del resto un personaggio come il Cardinale (fra l'altro imparentato col Duca di Urbino e con i Farnese) doveva avere connessioni con vari stati italiani e tedeschi se fu Nunzio, come scrivono alcuni suoi biografi, in Austria. I mobili in ebano e avorio napoletani e quelli appena discussi che io ritengo veneziani o legati in qualche modo a Venezia- non potrebbero essere più antitetici. Pur adoperando materiali simili (ebano o palissandro scuro i primi, legni esotici più chiari i secondi, e ambedue l'avorio) la loro concezione è molto diversa. Nel primo insieme, a Napoli, si rispetta un prontuario architettonico classico; nella seconda categoria troviamo un'impostazione senza richiami al mondo antico se non per qualche profilo d'imperatore o alcune piccole figure, sommersi in un intreccio senza pausa al quale il lucore della madreperla aggiunge un carattere orientale. Come ora si dirà i due soli mobili noti eseguiti sul finire del Cinquecento per il Duca di Urbino esprimono un gusto pittorico, totalmente diverso da quello napoletano. Essi appaiono forse più in sintonia col gruppo veneziano dal quale però si discostano per i soggetti rappresentati e per un senso cromatico più sobrio.

5 Mobili per il Duca di Urbino 1. Una decina di anni fa venne pubblicato in due occasioni diverse uno stipo passato dalla Galleria Altomani di Pesaro alla Galleria Nazionale delle Marche a Urbino, (figs. 4. & 5.). Si tratta di un mobile 17 di ridotte misure ma di grande importanza e lo si può documentare con una certa precisione stabilendo il nome del suo famoso proprietario e probabilmente quello dei suoi autori. E' impiallacciato di ebano e intarsiato di avorio graffito con un ingegnoso intreccio di rami di quercia, o rovere; la sua struttura è semplice e segue modelli ben noti di cui si conoscono alcuni esemplari in diversi paesi europei. Quel che appare eccezionale è la decorazione composta di tralci di quercia in avorio abilmente inciso, sul fondo scuro dell'essenza. Il risultato è di estrema grazia e non ha molto da spartire con le opere degli stipettai napoletani viste sopra che restano dei capolavori di un altro genere, concepite come edifici in miniatura sulle quali sembrano essere appese stampe in avorio. L'originalità ornamentale di questo stipo (e del tavolo di cui poi si dirà) si basa su un effetto decisamente pittorico. Il motivo raffigurato è una chiara allusione al committente, il Duca di Urbino Francesco Maria II della Rovere ( ) come dimostra lo stemma incorniciato dal Toson d'oro 18 : principale figura araldica della famiglia era, appunto, la quercia. Sono già noti alcuni documenti concernenti quasi certamente questo studiolo e che forse meritano un esame approfondito. Li pubblichiamo qui in Appendice (si trovano tutti nel Fondo Urbinate dell'archivio di Stato di Firenze e si riferiscono ad alcune spese del Duca che vanno dal 1596 al 1598). Nel 1596 il documento I, riguardante uno studiolo d'ebano "alla spagniola", specifica che esso era in ebano e avorio. Si menzionano anche sei serrature fatte da Raffaello Guicciardi, i manici, gli anelli e le rosette in argento (di cui non si specifica l'autore), e si riportano i nomi di Maestro Berto Magniano (vale a dire un ferraro) per delle viti e "bertuelle", e di Maestro Antonio Mazzaria per il taffettà dei cassettini. Poi si parla di una sopracassa con serrature e piastre e di Maestro Alessio Lochatelli per il panno servito per foderarla. In questa notula non si specifica chi abbia costruito il mobile 19. Il documento II concerne uno "studiolo fatto da Maestro Giorgio". Questo conto non è datato ma va letto, a mio modo di vedere, insieme al documento III, nel quale invece si specifica la data, "1597 correnti", e poi quella del 17 ottobre E' mia opinione che qui si parli dello stesso arredo perché ambedue le carte si riferiscono ad un'opera di Maestro Giorgio (che nel documento III è detto "todesco") e ambedue ricordano che l'artigiano aveva ricevuto "per sua fattura duchati " e che il costo del tutto ammontava a /2. Il documento II fornisce altre informazioni: il mobile aveva manici, anelli, calamaio e "polverino" d'argento. Si menziona anche un altro artigiano, Giulio Lupi, che viene pagato per l'intaglio. Il mobile non risulta ben descritto ma il documento III asserisce che si tratta di uno studiolo d'ebano fatto a fogliami. Non si parla di avorio ma ciò non impedisce di ipotizzare che questi fogliami fossero d'avorio e che ad averli intagliati e graffiti fosse Giulio Lupi. Maestro Giorgio sarebbe dunque l'ebanista ossia lo stipettaio (lo stesso ruolo svolto a Napoli da Iacobo Fiamengo che si serviva sempre di intagliatori d'avorio). Verrebbe da pensare che i documenti II e III non siano altro che una specificazione del documento I, per quanto in quella prima carta si parli di uno studiolo d'ebano alla spagnola mentre nelle due successive sia questione di uno studiolo d'ebano fatto a fogliami. Due osservazioni: la terminologia dei mobili di quell'epoca non è ben chiara; il primo documento datava, lo si ripete, al dicembre 1596, mentre gli altri due sono del tardo Il documento IV risale al 24 settembre Riguarda uno studiolo di ebano con la credenza il quale era costato /5 senza l'avorio e la fattura. In questa carta non si menziona il nome di Maestro Giorgio ma compaiono altri artigiani: Maestro Gio Alberto magnano, lo spadaro Guidobaldo, tale Rossi che si occupava delle "vacchette" per le sopracasse, un Locatello (che sarà lo stesso Lochatelli del documento I), Maestro Properzio orologiaio che fa serrature e chiavi, e un Mannaia (così leggiamo ma non sarà il Mazzaria del documento I?) per le stoffe, e infine Pico e Bottaino di cui nulla sappiamo. Quel che ha più importanza per

6 noi è la menzione di Giulio Lupi per intagli di cornici e altri non meglio specificati. Anche in questo caso possiamo presumere che egli fosse l'intagliatore dell'avorio. Il Maggiero che qui sovrintendeva al lavoro di Lupi è probabilmente il pittore Cesare Maggieri, morto ad Urbino nel 1629 e allievo del Barocci. Il documento IV è controfirmato da Muzio Oddi ( ) ben noto architetto urbinate che risulta menzionato nel Diario del Duca il 14 giugno 1596: "presi per mio architetto Mutio Oddi da Urbino" 21. Le sole menzioni che abbiamo fino ad oggi sull'intagliatore Giulio Lupi sono quelle fornite dai documenti appena letti. Lo stesso si deve dire di Maestro Giorgio a meno che una lettera di Virgilio Gonzaga del 12 marzo 1611 indirizzata al Cardinale Gonzaga si riferisca proprio al nostro artigiano: "Ho addimandato a M.ro Giorgio Todesco il quadro di V.S.Ill. e R. ma non è ancora incornigiato et dolendomi seco di non haverlo accontio m'ha detto che l'ornamento che ha adesso è tanto serrato con la pietra del paragone che dubita in mettervi il scalpello di giettarlo tutto in pezzi. E però lo darebbe più tosto quando V.S. Ill. R.a restasse così servita che si dasse a quel legno dell'ornamento che lo giudica bellissimo, bello come d'hebbano. Egli non ha vero hebano. Attende la decisione" 22. Antonio Bertolotti rintracciò più di cent'anni fa questa lettera negli archivi di Mantova ma non specificò la sua ubicazione: la trascrisse come qui la riportiamo lasciando adito a qualche dubbio. Il Cardinale Gonzaga a cui la lettera era indirizzata (apparentemente da Mantova stessa) era Ferdinando Gonzaga ( ) che ebbe il cappello cardinalizio nel 1607 e divenne Duca di Mantova alla morte del fratello sul finire del Il Maestro Giorgio Tedesco di cui si parla doveva accomodare o rifare la cornice di un quadro dipinto su pietra di paragone (o forse si trattava di un mosaico in pietre dure su paragone?) ma giudicava il lavoro di difficilissima esecuzione. Il Cardinale Gonzaga era imparentato col nostro Duca di Urbino e più volte passò da Pesaro in quegli anni, fra il 1610 e il Ci consente tutto ciò di pensare che questo Maestro Giorgio, in relazione con i Gonzaga nel 1611, sia lo stesso uomo che lavorava per il Duca di Urbino nel 1597? E' possibile ma non possiamo esserne certi: abbiamo già visto un caso di omonimia quando si parlava di quegli artigiani d'oltralpe "che vanno e vengono, non li si può dar regola". 2. Esiste un tavolo impiallacciato di ebano e intarsiato d'avorio la cui decorazione non solo utilizza gli stessi materiali dello stipo esaminato ma li impiega con un disegno talmente analogo da implicare la stessa provenienza: l'ornato è composto da un intreccio di rami di quercia disegnato in una maniera, se ne converrà, simile a quello dello stipo. Inoltre lo stemma dello stesso Duca Ferdinando Maria II, circondato dal Toson d'oro, che nello stipo era posto sulla sommità, qui compare ai quattro angoli del piano. E' dunque plausibile che ambedue i mobili siano stati disegnati da uno stesso artista così come ad eseguirli siano stati i medesimi artigiani. Stipo e tavolo si avvalgono, ad esempio, di doppie filettature per isolare le composizioni, sia quella centrale sia quelle dei bordi. Dal punto di vista tecnico il tratteggio dell'avorio consegue, in ambedue i mobili, effetti chiaroscurali lievemente tridimensionali. Sul piano del tavolo si espande un viluppo di quattro rami di quercia che pur seguendo un ordine prestabilito che sembra trattenerli a forza si espande con una violenza non esente di una straordinaria eleganza: si direbbe di vedere steso un drappo in cui si omaggia la natura diventata simbolo della famiglia. Si sono discussi nei paragrafi anteriori i pochi documenti d'archivio che consentono di attribuire a due artigiani ignoti, Maestro Giorgio Tedesco e Giulio Lupi, l'esecuzione dello studiolo oggi nella Galleria Nazionale delle Marche. Quelle carte, incomplete e assai criptiche, potrebbero riferirsi a più di uno stipo ciò che sembra possibile da un esame di inventari e di altre carte d'archivio. Purtroppo i documenti sullo stipo (o sugli stipi) non menzionano tavolo alcuno benché negli inventari e in altre carte concernenti i beni provenienti dal Ducato di Urbino si ritrovino inconfutabili riferimenti al nostro tavolo. C'è ancora una possibilità: fra i documenti citati in Appendice: l'ultimo si riferisce ad "uno studiolo d'ebano con la credenza". In italiano credenza indica un mobile dove si ripongono o espongono stoviglie ma nell'epoca che qui ci riguarda poteva significare una stanza più piccola di una dispensa e anche una tavola apparecchiata. Nel tedesco dell'epoca Kredenz era sinonimo di Tisch, tavola.

7 Storia e destino Per intendere la sorte toccata a questi capolavori dell'ebanisteria europea è necessario spendere qualche parola sulle circostanze in cui le ricchezze artistiche di Urbino vennero a trovarsi agli inizi del XVII secolo. A capo di quel minuscolo stato era allora il Duca Francesco Maria II della Rovere (fig. 6.), discendente dei Montefeltro e della famiglia di Sisto IV e di Giulio II. Il Duca era figlio di una Farnese (Vittoria , figlia a sua volta del Duca di Parma Pier Luigi Farnese e dunque nipote di Paolo III). Il padre del nostro protagonista, Guidobaldo, intrinseco dei maggiori casati italiani (sua madre era Eleonora Gonzaga figlia del Duca di Mantova; i fratelli della moglie erano il Duca di Parma Ottavio e il gran Cardinale Farnese, Alessandro) aveva stretti legami, quasi di sudditanza, con Filippo II dal quale ebbe il Toson d'oro nel Queste relazioni diplomatiche fecero sì che il giovane Francesco Maria passasse alcuni anni, fra il 1565 e il 1568, alla corte di Madrid dove divenne familiare del bizzarro Infante Don Carlos. Francesco Maria condusse in Spagna una vita brillante, fin troppo dispendiosa, non indifferente ai piaceri ma anche alla lettura e allo studio. Fu anche uomo di valore e si condusse con distinzione nella battaglia di Lepanto. A quest'epoca risale una lettera di Ottavio Gonzaga di Guastalla al Duca Guidobaldo di Urbino, lettera scritta da Messina il 10 settembre 1571, meno di un mese prima del famoso scontro navale che frenò l'immenso potere dei turchi. Francesco Maria, allora ventiduenne, apparve al Gonzaga grande e ben fatto e assai apprezzato da Don Giovanni d'austria "che gli fa tutte le carece possibili...è benissimo visto et servito e certo lui fa tante gracie a ognuno" 24. Il ritratto di Federico Barocci col giovane trionfante, oggi agli Uffizi, è proprio di questo momento. Nel 1570, dopo il rientro da Madrid il padre lo aveva costretto a sposare Lucrezia d'este, principessa di gran lignaggio, figlia di Renata di Francia e del Duca di Ferrara, più anziana di lui di tre lustri, con la quale non ebbe figli. Ciò venne a creare un vero problema di stato fino alla morte di Lucrezia avvenuta nel Poco dopo, nell'aprile 1599, Francesco Maria sposò la quattordicenne cugina Livia della Rovere e così si è pensato che per quella occasione si sia fabbricato lo stipo di Urbino ovviamente la figura araldica comune ai due sposi era la quercia (ma, come si è visto, solo un documento risale al 1599; fig. 7., la dispensa di Clemente VIII e' del 6 Aprile 1599 ). Questo matrimonio non produsse eredi fino al 1605, quando nacque Federico Ubaldo. Il giovane principe era di natura saturnina, violenta, e i dissapori col padre erano frequenti. Comunque venne fatto sposare presto con una figlia di Ferdinando I di Toscana, Claudia de'medici, e da questa unione nacque nel febbraio 1622 Vittoria della Rovere. Federico Ubaldo morì in circostanze misteriose nel 1623 lasciando Vittoria erede di uno dei più prestigiosi patrimoni artistici della storia mentre l'ormai anziano Duca di Urbino continuò a vivere fino al 1631 nel suo buen retiro di Casteldurante. (figs. 8. & 9. la mappa e la Villa di Monteberticchio dove visse). Il Duca si occupava dei mobili e degli oggetti ornamentali come rammenta nel suo Diario. Alla fine del 1586 annota come il Duca di Baviera gli avesse inviato un quadretto con Adamo ed Eva "intagliati in legno di rilievo" e un "calamaro intarsiato d'avolio con molte figure". Nel 1603 riceve dalle Fiandre "un scrittorio con calamaro e ferri dentro da disegnare". E' conosciuto il suo interesse per gli orologi che aveva ereditato dai suoi antenati: nel Diario, ad esempio, registra la morte di Mastro Pietro Griffi il 23 agosto 1590, orologiaio assai famoso all'epoca sua che, come è già stato notato, creò oggetti così perfetti da suscitare la brama di moltissimi principi 25. Altre antiche carte, ricordano, per così dire dal vivo, la sua partecipazione alla creazione di mobili veri e propri. Un ebanista di cui ignoriamo il nome gli scrive ricordandogli come egli gli avesse comandato "di ritrovare una invenzione di ornare un studiolo...con statuette che havessero qualche significato"; in un'altra occasione un gioielliere, Domenico dalle doi Regine, gli scriveva da Venezia il 4 gennaio 1596 proponendogli una cassetta finita da pochi giorni con "bellissimi adornamenti et fornimenti" insieme ad una croce e due candelieri "il tutto di bellissimo diaspro oriental sanguinetto guarnido il tutto di argento dorado con bellissima fatura" 26.

8 * Nell'inventario di Casteldurante, redatto dopo la morte del Duca, compare "tavolino uno d'ebano intarsiato d'avorio, con fogliami, ghiande e tronconi di cerqua et con l'arme di sua Altezza alli cantoni e ferri lavorati e traforati", descrizione che bene si adegua al tavolo qui esaminato 27. Non altrettanto univoco è il rapporto fra lo stipo della Galleria Nazionale delle Marche e la descrizione di alcuni studioli in ebano e avorio dello stesso documento 28. Negli inventari noti, infatti, compaiono diversi studioli in ebano e avorio e le loro descrizioni non consentono del tutto una identificazione dello stipo oggi ad Urbino; al contrario, la descrizione appena letta è indubbiamente da riferirsi al tavolo qui studiato. Nell'elenco del 1631, è vero, risultano altri tavoli di ebano e avorio che però sembrerebbero corrispondere alla tipologia napoletana poiché erano decorati con storie, figure e teste d'imperatori 29. E' già noto che alcuni dei mobili in ebano e avorio del Duca di Urbino partirono per Firenze 30 nel Con la fine della linea maschile dei Della Rovere il ducato rientrò, non senza angoscia degli urbinati stessi abituati ad essere una capitale seppur piccola, nei possessi della Chiesa. A Firenze già risiedeva l'erede e nipote dell'ultimo Duca, Vittoria della Rovere ( , fig. 12.), che vi era stata portata sin da infante dalla madre Claudia de'medici 31. Era già promessa sposa del Granduca Ferdinando II e il matrimonio venne celebrato nel Non solo mobili di ebano e avorio partirono, ma decine e decine di casse colme di tesori che comprendevano alcuni dei quadri più belli d'europa, come la Venere di Urbino di Tiziano e i ritratti dei Montefeltro di Piero della Francesca, due milioni d'oro in contanti e alcuni gioielli superbi. Una lettera non datata del vecchio Duca indirizzata alla piccola Vittoria non manca di commuovere nella sua malinconia: "io mando a Vostra altezza tutte le gioie che, dopo tante disgrazie sono rimaste in questa casa; e le mando finché son vivo, perché, dopo la mia morte, Dio sa quello che seguirebbe, Vostra altezza le riceva volentieri come dimostrazione dell'affetto mio sviscerato verso di lei, ed a suo tempo se ne adorni il capo; ricordandosi prima di ornarsi l'animo di quelle virtù che debbono essere proprie delle donne sue pari, e possano renderla sempre più cara al suo Serenissimo sposo. E le bacio le mani" 32. Riprendiamo le fila della storia del nostro tavolo. Esso compare almeno in due documenti della Guardaroba Medicea a me noti. Il primo è un Inventario di tutti li mobili esistenti nel Palazzo de Pitti di S.A.S. consegnati a Giuseppe del Nobolo aiuto del Diacinto Maria Marmi...fatto da me Antonio Citerni ministro della Guardaroba generale questo anno 1687: ci si trova nella "seconda camera che segue con finestra sul cortile grande dove dorme il giorno la Serenissima Granduchessa Madre". Qui risulta descritto, il 5 marzo 1687, " un tavolino di granatiglio intarsiato d'avorio a rami di quercia con iande con arme, sulle cantonate, d'urbino; con piedi fermi intarsiati simili con traverse di ferro lavorate, lungo b. 2 1/3, b. 1 0/2" 33. Il secondo documento della Guardaroba Medicea (con la scritta "Questo quaderno coperto di cartapecora intitolato Quaderno de Mobili della Guardaroba del Gran Palazzo de Pitti di Sua Altezza Serenissima, ad uso di Giuseppe del Nobolo") riporta a carta 58 sinistra: "Adì 16 detto [aprile 1694] Al Serenissimo e Reverendissimo Signor Cardinale Francesco Maria, datogli di Comandamento del signor Marchese Riccardi, per essere comp.o di due stipi Un tavolino di Granatiglio intarsiato d'avorio, a rami di quercia con jande con arme su le cantonate d'urbino, con piedi fermi intarsiati simili con traverse di ferro lavorati lungo b 2 1/3 lar b. 1 0/2 Inv. a 96" 34. Nell'anno del primo inventario, 1687, Vittoria della Rovere era in vita e in una delle sue stanze a Palazzo Pitti si conservava quello che è inoppugnabilmente il tavolo esaminato. Sette anni più tardi, il 5 marzo 1694, la Granduchessa Madre morì a Pisa e appena un mese dopo, come risulta dal documento dell'aprile 1694, un grande funzionario della corte, il Marchese Riccardi, fece consegnare al secondo figlio della Granduchessa, il Cardinale Francesco Maria de' Medici ( fig. 13.), il tavolo in questione -di cui viene fornita identica descrizione- per essere compagno (credo che così possa sciogliersi l'abbreviazione comp.o del manoscritto sopra) di due stipi, quasi certamente di Urbino. A questo punto diventa necessario, a rischio di essere tedioso, giustificare questa consegna. Il Cardinale Francesco Maria, assai più giovane di suo fratello, il Granduca Cosimo III, era nato nel 1660 ed ebbe,

9 evidentemente per volere della madre, il nome del vecchio Duca di Urbino. Francesco Maria divenne Governatore di Siena nel 1682 ed ebbe la porpora cardinalizia nel Dovette essere uomo di una certa abilità politica se riuscì a distinguersi nei due conclavi del 1689 e del Ma fu soprattutto noto per la vita debosciata che condusse in una sua villa, Lappeggi, dove si svolgevano continui festini. Un'altra carta della Guardaroba Medicea 35 del 21 aprile 1694, vale a dire poche settimane dopo la morte di Vittoria della Rovere, testimonia come la Granduchessa avesse lasciato tutti i suoi mobili a Cosimo III benché avesse disposto nel suo ultimo testamento "che alcuni quadri i quali si trovavano esistere nella di lei camera detta della Cappella; questi dovessero essere fidecomissi della Serenissima Casa, ma che per adesso si consegnassero al Serenissimo e Reverend.o signor Cardinale Francesco Maria come è seguìto, acciò durante la di lui vita se ne serva". Non sappiamo come siano andate le cose ma abbiamo visto che cinque giorni prima, il 16 aprile per l'esattezza, il Marchese Riccardi aveva consegnato al Cardinale il tavolo qui esaminato che doveva accompagnare due stipi. Non siamo in grado di dire quale sia stato il destino immediatamente successivo di questi oggetti: a quanto so non risultano elencati negli inventari settecenteschi della villa di Lappeggi 36 né sappiamo se rimasero in mano al Cardinale Francesco Maria. Il quale però non morì da cardinale: nel 1709 rinunciò alla porpora ed ebbe facoltà di contrarre un disastroso matrimonio con Eleonora Gonzaga di Guastalla, disastroso perché la giovane non volle queste nozze con un uomo obeso, vecchio e malato (morì nel 1710). L'unione era stata voluta da Cosimo III conscio dell'inevitabile fine della dinastia medicea data la sterilità delle nozze sia del Gran Principe Ferdinando (che si spengerà nel 1713) sia del secondogenito Gian Gastone (che diverrà Granduca nel 1723 e morirà nel 1737 ponendo fine alla sua Casa). Fatti recenti La prima notizia a me nota riguardante il nostro tavolo, dopo quelle inventariali dei tempi del Cardinal Francesco Maria de'medici, è di ieri l'altro. Non proprio di ieri l'altro: ormai sono passati vent'anni da quando comparvero presso Christie's a Londra 37 tre oggetti appartenuti a Charles Butler, Esq., messi all'asta dai suoi discendenti. Il numero 161 riproduce, con una buona fotografia, il mobile di cui ci occupiamo. Quanto se ne scrive era adeguato all'epoca: si stabiliva un paragone con due tavoli in ebano e avorio già da me illustrati di Palazzo Doria Pamphilj e della Galleria Nazionale di Arte Antica di Roma (che ritenevo, e ritengo però, napoletani) e si identificava appropriatamente lo stemma agli angoli del piano del tavolo come quello di Francesco, quinto duca di Urbino, insignito del Toson d'oro nel Unica diversità con l'aspetto odierno è la foggia delle zampe (oggi è stato ricostituito l'aspetto originario con i sostegni incernierati e fissati da ferri). Poco dopo ebbi occasione di studiare questo tavolo di cui avevo molti anni prima, per puro caso, ritrovato il documento del 1687 quando era nelle stanze di Vittoria della Rovere a Palazzo Pitti, documento trascritto sopra. In seguito lo rividi illustrato in un articolo del 2002 su una rivista inglese 38. Non mi era stato difficile, quando lo stipo della Galleria Nazionale delle Marche che non conoscevo prima- venne pubblicato nel 2000, capire che il tavolo fosse della stessa mano e fosse appartenuto alla stessa persona. * Sono poche le notizie che ho su Charles Butler ( ). Non è però un nome ignoto: si tratta di un uomo benestante (abitava a Connaught Place, Hyde Park, Londra), amico di grandi personaggi dell'epoca. Aveva una seconda casa in Inghilterra, Warren Wood, Hertfordshire, dimora dalla quale provenne pochissimo tempo fa un dipinto che gli era appartenuto di Sir Peter Lely andato all'asta a New York il 29 gennaio Butler doveva avere un appetito onnivoro e un gusto vario. Sappiamo ad esempio che ebbe il Tarquinio e Lucrezia di Tiziano, già appartenuto a Carlo I (Fitzwilliam Museum), Lot e la famiglia che fuggono da Sodoma di Rubens (Ringling Museum), una Sacra conversazione di Bonifacio de Pitati (fino a poco tempo fa nel Los Angeles County Museum), un San Gerolamo di Giovanni Bellini (National Gallery of Washington), un Bicci di Lorenzo con San Nicola che resuscita tre giovani e un Bartolomeo Vivarini con la Morte della Vergine (ambedue al

10 Metropolitan Museum di New York) e altri dipinti passati recentemente sul mercato fra cui un importante quadro del Rinascimento toscano, una volta creduto del Maestro del tondo Lathrop che qualche anno fa venne identificato come Pietro Mencherini di Lucca. La sua raccolta unitaria più importante, a quanto pare, ebbe per soggetto la numismatica: è noto il catalogo di una vendita grandiosa che ebbe luogo a Londra, presso Sotheby's, alla sua morte comprendente monete greche in oro e argento, importanti aurei romani e un notevole florilegio inglese di numerari in nobili metalli nonché una scelta di medaglie e placchette italiane del Rinascimento. Forse il personaggio più influente nella vita di Butler fu Charles Fairfaix Murray ( ) uno dei migliori conoscitori e negozianti di opere d'arte della sua epoca, intrinseco di grandi collezionisti come Pierpont Morgan e di storici e direttori di musei come Bode. Murray passò molti anni in Italia e conobbe come pochi le raccolte pubbliche e private della penisola; fu lui, a quanto pare, a consigliare alcuni acquisti di primitivi italiani a Charles Butler. Questi nel 1883, quando era direttore della Royal Insurance Company, seguendo le indicazioni di Murray acquistò sette dipinti della famosa collezione Toscanelli. Il catalogo di questa vendita è un'ottima spia della storia del gusto del tardo Ottocento: curato in francese da J. Sambon è redatto da Gaetano Milanesi, il grande studioso e commentatore di Vasari. La vendita si tenne nel 1883 a Firenze ma i cataloghi erano venduti in molte città italiane, nelle maggiori capitali europee e a New York. Giuseppe Toscanelli, il proprietario, deputato al Parlamento era un collezionista e membro di un'antica famiglia toscana della quale si vendevano non pochi mobili provenienti dal Palazzo Toscanelli di Pisa. L'inclinazione dell'epoca non disdegnava gli antichi arredi. La presenza in quella vendita (cat.299) di un tavolo in ebano incrostato d'avorio con piedi a lira (non fu illustrato ma forse non doveva avere un aspetto troppo diverso da quello di Urbino) può aiutare ad intendere perché Charles Butler potesse mescolare dei quadri di primitivi italiani a mobili che si direbbe di tutt'altro genere. Si è già notato che le sue scelte artistiche, come quelle di molti vittoriani, erano piuttosto varie e non seguivano a quanto pare schemi pedagogici 39. La sua importanza come collezionista non è stata ancora oggetto di studi specifici, basti qui aggiungere che nelle ultime liste di Bernard Berenson il suo nome compare ancora a mezzo secolo dalla sua morte: fra i proprietari di dipinti veneziani (Catena, Crivelli, Palma il Vecchio), fiorentini e dell'italia centrale. Evidentemente era un uomo ricco se poté permettersi di donare al Marchese di Salisbury un mobile importante da lui acquistato all'asta presso Christie's nel 1897, il cosiddetto Millais Cabinet, ancora conservato a Hatfield House 40. Il suo nome continua ancora oggi ad essere menzionato nei cataloghi d'asta attraverso i suoi discendenti: in un'importante vendita di vetri antichi tenutasi presso Christie's a Londra l'11 maggio 1964 numerosi oggetti appartenevano ad un suo erede, C.H.A. Butler, Esq. che abitava a Shortgrove, Newport, Essex 41. Modello e decorazione Il modello del nostro tavolo si riallaccia a fogge molto antiche con piani poggianti su cavalletti in modo da facilitare il trasporto. Perlopiù questi mobili non erano costruiti con legname prezioso bensì con materiali semplici su cui venivano stesi tessuti più o meno ricchi, bordati con passamaneria pesante. A metà del Cinquecento non sono pochi i ritratti aulici in cui si vedono tavoli, con zampe di diversi modelli, così ricoperti; per fare un solo esempio si pensi al dipinto di Tiziano raffigurante il futuro Filippo II del Prado: in questo caso le zampe sono dritte e con piedi ferini. La posizione assunta dal principe in quel ritratto si dice fosse quella in cui poi, regnante, riceveva le ambascerie. Ma torniamo ai tavoli senza rivestimento di tessuto. Quelli veneziani di cui si è detto, così come quelli eseguiti a Napoli in ebano e avorio, presentano sostegni come quelli del tavolo che stiamo qui esaminando: a suo tempo ho pubblicato la coppia che si conserva a Palazzo Doria Pamphilj e gli altri due di Palazzo Barberini a Roma 42. Un altro tavolo del genere, certamente napoletano e della stessa epoca, si trova a El Escorial ed è già stato reso noto 43 : il piano sfoggia una semplice decorazione geometrica divisa da incorniciature d'avorio mentre le zampe sono a cavalletto assicurate da appositi ferri. Anche questo modello su cavalletti e privo di coperture compare in alcuni quadri. Penso ad esempio ad un dipinto su rame raffigurante il Cardinale Gian Carlo de' Medici poco dopo il 1645, anno in cui ricevette la porpora 44. Il Cardinale adotta la posa che abbiamo

11 visto nel ritratto di Filippo II: con la mano regge un libro accanto al quale compare la corona medicea; appoggiata al tavolo è una croce processionale mentre sotto di esso sono deposte le armi essendosi il principe ritirato dalla vita militare. Non uno ma tre tavoli di questo tipo si vedono nel curioso dipinto firmato da Michele Regolia ( ) che illustrai nel catalogo della mostra del Seicento a Napoli 45. Si tratta di una rara veduta di un interno napoletano dove compaiono alcuni tavoli; i piani sono di sagoma rettangolare e poggiano su sostegni a cavalletto con tiranti in ferro. Due reggono altrettanti stipi, uno è posto sotto uno specchio. Anche i documenti scritti confermano l'esistenza di tavoli di questo tipo. Faccio qualche esempio: nel 1654, nella Villa del Poggio Imperiale a Firenze erano alcuni tavolini di ebano profilati di avorio, uno "con pie da ripiegare e ferri" e un altro "con pie tinti di nero e ferri" 46. A Palazzo Farnese, a Roma, esistevano tavoli del genere nel 1644: "tre buffetti d'ebano intarsiati d'avorio con historiette di avorio intagliate, a due de' quali è l'arme del S.r cardinale, con quattro ferri dorati per buffetti et suoi piedi simili...un buffetto d'ebano intarsiato di granatiglia et avorio con ferri e piedi" 47. Per tornare al tavolo di Urbino qui esaminato andrà ora ricordato come nell'inventario redatto a Casteldurante dopo la morte del Duca Francesco Maria della Rovere nel 1631 si dice soltanto che il mobile aveva "ferri lavorati e traforati" e non si descrivono i piedi mentre nell'inventario, assai più preciso, fatto a Palazzo Pitti nel 1687 si scrive esattamente che il tavolo poggiava su "piedi fermi intarsiati simili con traverse di ferro lavorate": sembra di capire che le zampe fossero fisse e non ripiegabili. Resta da chiedersi se ciò fosse frutto di una trasformazione eseguita a Firenze negli ultimi cinquant'anni o se i piedi fossero stati sin dall'inizio fermi. * E' già stato notato come i Della Rovere volessero vivere circondati dalla loro figura araldica, la quercia 48. Il richiamo al proprio casato è costante nella storia delle grandi famiglie europee: i gigli francesi e quelli Farnese si ripetono centinaia di volte su arredi, quadri e ogni genere di opere d'arte appartenute ai membri di quelle famiglie, così come in altri casi celebri. L'idea invece di comporre una decorazione con un intreccio vegetale ha origini illustri in Leonardo, specificamente nella Sala delle Asse del Castello Sforzesco di Milano ( fig. 14.). Esiste anche una serie di disegni, trascritti o piuttosto trasformati con geniali variazioni da Dürer, che recano l'iscrizione Academia Leonardi Vinci: essi consistono in un intreccio di nodi bianchi su fondo nero il cui aspetto labirintico può richiamare non solo la bicromia ma anche il carattere intricato della decorazione del nostro tavolo (fig. 15.). D'altra parte dobbiamo segnalare che anche nel mondo della maiolica, per cui il Ducato di Urbino andava famoso, ci fu deferenza per questo tipo di ornato (fig. 16.). Ciò viene ricordato da Cipriano Piccolpasso (Li tre libri dell'arte del vasajo,1548) e addirittura in alcune opere eseguite nelle botteghe del luogo: cito due esempi, il bacile sfornato a Casteldurante verso il del Museo di Cluny a Parigi la cui tesa è allietata da rami di quercia intrecciati, una decorazione che allora veniva chiamata "a cerquate", 49 e l'esemplare forse di fattura urbinate del British Museum (fig. 17.). Questo tipo di ornamento arrivava ad assumere, a quanto scrive Piccolpasso, un carattere patriottico : "queste sono molto in uso a noi per la venerazione et obligo che tenemo alla rovere, all'ombra della quale vivremo lietamente; a tal che si può dir che gli è pittura a l'urbinata". Non potremo qui fare un elenco completo dei precedenti del disegno del tavolo di Urbino. Si veda, per finire, una delle incisioni con le iniziali di Enea Vico databile alla metà del Cinquecento dove sono raffigurati dei tralci tagliati 50 o gli arazzi del cardinale di Mantova, di Giulio Romano, con giochi di putti sotto pergolati per i quali esistono diversi disegni 51. Dovremo notare che in questo tavolo si mescolano le varie tendenze decorative che qui abbiamo cercato di definire, sia quelle di tipo naturalistico che vanno a congiungersi con le querce dei Della Rovere sia la bicromia e il gusto geometrico che, a dire il vero, nel nostro tavolo non fa da protagonista pur mantenendosi una separazione netta fra la parte centrale e il bordo del piano. Andrà anche notato che queste decorazioni di tipo pittorico sono affatto dinamiche e non sono da confondere coi girali di epoca augustea copiati infinite volte e rievocati in molteplici dipinti e stampe del Rinascimento.

12 Per il momento non è stato possibile scoprire a chi spetti il disegno incomparabile dello stipo e soprattutto del tavolo in ebano e avorio qui esaminato dove, avendo a disposizione una superficie più ampia, il disegnatore (probabilmente lo stesso) riesce a sviluppare i rami di quercia più convincentemente. L'intreccio di quattro anziché di due rami è più capriccioso ma nello stesso tempo più solido. Anche l'incorniciatura diventa veramente tale come la bordura di un tappeto mentre nello stipo, obbligata dallo spazio, essa riveste una proporzione forse eccessiva. L'autore deve essere stato un artista di prim'ordine a cui non difetta senso dell'osservazione ed eleganza nel rendere i motivi essenziali della natura. Queste caratteristiche forse consentono di escludere la possibilità che esso fosse il Maestro Giorgio tedesco che risulta essere il costruttore dello stipo: Maestro Giorgio è un artigiano abilissimo ma non necessariamente un disegnatore, sono rarissimi infatti gli ebanisti che come André-Charles Boulle furono autori della concezione ornamentale dei loro mobili. Un mobile d'arte nasce con l'intervento di diversi artigiani e artisti, ognuno dei quali attende, secondo i casi, al proprio lavoro specifico e abbiamo già visto che se Maestro Giorgio doveva essere un provetto ebanista non spettava a lui approntare le rifiniture in avorio che rivestivano i suoi mobili. Nel nostro caso esse si dovevano a Giulio Lupi: a Napoli, lo si è detto, gli intagliatori d'avorio erano Giovanni Battista De Curtis e altri artigiani di cui ci restano poche tracce. Ma infine, per i mobili di Urbino, come attestano i documenti, occorsero altri individui per fornire le rifiniture in argento, le fodere di stoffa, le serrature. Non è questa un'eccezione, la costruzione di un mobile, ci ripetiamo, è un lungo processo guidato quasi sempre da un architetto perlopiù responsabile del disegno dell'insieme. I Duchi di Urbino ebbero mobili importanti fin dai giorni di Federico da Montefeltro e ai tempi di Francesco Maria II non si lesinava attenzione a questo tipo di lavori, come il principe ricorda nel suo Diario più volte citato. All'epoca della madre del nostro Duca, Vittoria Farnese, si affidò ad un singolare personaggio, Alberto Alberti, (architetto, ingegnere militare, pittore, scultore, intagliatore in legno e capostipite di una famiglia di artisti ben noti) l'esecuzione nel 1556 di "una letiera di noce intagliata a rilievo con giande con collonne dorate, con sei tavole per il fonde, con le staggie di ferre e palle dorate" 52. Affinità stilistiche Ci siamo soffermati sinora su mobili napoletani e veneziani che hanno pochi rapporti con l'ornato degli arredi in ebano e avorio di Urbino i quali, lo si è detto, si presentano come un unicum della storia della mobilia europea. E' forse bene segnalare alcuni rari esempi di oggetti eseguiti in altri paesi nei quali si utilizza lo stesso contrasto di colori e di materie. Il primo di questi pezzi, uno scrittoio intarsiato di avorio su un'essenza scura, probabilmente ebano, è stato pubblicato dal grande storico della mobilia tedesca, Heinrich Kreisel. Da lui viene attribuito, con qualche dubbio, alla scuola di Norimberga e datato al terzo quarto del XVI secolo. Le ragioni per questa attribuzione non sono del tutto pacifiche: la fattura viene riferita alla città tedesca anche per il fatto che una delle placche di avorio è tratta da un'incisione di Dürer. Sta di fatto che questo curioso oggetto, dove si alternano alcune placche di avorio graffite in modo piuttosto semplice a incorniciature in cui l'avorio viene intarsiato direttamente sul legno scuro a motivi zoomorfi e vegetali, non può in modo alcuno considerarsi né napoletano né urbinate. I fregi decorativi invece possono richiamare gli esemplari veneti di cui abbiamo parlato: ma è un richiamo, non una certezza. Un motivo decorativo simile si ritrova in una scacchiera ornata con l'emblema di Enrico IV utilizzato dal sovrano dopo essere salito al trono nel 1594 (e ovviamente prima della sua morte violenta nel 1610). Qui l'intricato bordo a motivi floreali e con qualche figura classica delle tarsie d'avorio su legno scuro presenta alcune concordanze con lo scrittoio tedesco e ancora altre con i lavori veneziani di cui abbiamo parlato. L'unica cosa certa su questa scacchiera è il riferimento cronologico a Enrico IV, datazione che peraltro bene si adegua a tutte le opere fin qui esaminate fine del Cinquecento, primi del Seicento 53. Il conto del dare e dell'avere fra tutte questi lavori resta da fare. Non meno intricata è la storia della mobilia spagnola del tardo Rinascimento: conosciamo alcuni oggetti che possono essere paragonati ai nostri in modo indiretto. Mi riferisco ad esempio ad uno stipo o studiolo

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